UN ALTRO NOVECENTO
1.2 Stati nazionali e minoranze etniche: modelli e pratiche Il nuovo assetto europeo si ispirava al principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli, cui si accompagnava l’affermazione dello Stato nazionale come organismo alla base dei rapporti internazionali: ne era dimostrazione la creazione, nell’aprile 1919, di un organismo come la Società delle nazioni. Il superamento della fase degli imperi multinazionali era considerato nel primo dopoguerra da buona parte delle élite europee un segno di progresso politico e culturale. Tuttavia, nonostante Versailles garantisse a decine di milioni di europei di vivere, per la prima volta, nel “proprio” Stato (ovvero di diventare cittadini titolari del paese in cui erano nati), la discrepanza fra confini politici ed etnolinguistici che aveva caratterizzato gli imperi multinazionali venne a riprodursi anche nelle nuove formazioni nazionali: oltre 20 milioni di persone, in maggioranza tedeschi, ungheresi, ucraini e bulgari, vennero a trovarsi dalla parte “sbagliata” del confine. I nuovi Stati dell’Europa centro-orientale erano peraltro in una condizione paradossale: si autodefinivano ed erano trattati dalla comunità internazionale come “nazionali”, mentre le loro élite erano pienamente consapevoli delle profonde divisioni etniche, religiose e sociali che ne minavano l’integrità e lo sviluppo. Il problema delle minoranze emerse sin dall’inizio come una delle principali minacce alla sicurezza europea. I problemi territoriali riguardavano tanto gli sconfitti quanto i vincitori, e ai tentativi “scientifici” di determinazione della giusta appartenenza dei territori (sulla base del quadro etnodemografico restituito dai censimenti, già di per sé per nulla oggettivo) si mescolavano spesso disegni geopolitici, considerazioni economiche e ambizioni militari (il controllo di un crinale, di un fiume o di un tratto di costa) sfacciatamente soggettivi. La Germania di Weimar, l’Ungheria e la Bulgaria costituivano per forza di cose un blocco potenzialmente ostile al mantenimento dello status quo, e intrattenevano rapporti freddi, se non ostili, con i loro vicini. La forte coscienza “imperiale”, unita al ricordo del privilegio socioeconomico goduto in secoli di egemonia, rendeva particolarmente difficile secondo un grande storico originario della Galizia austriaca, Lewis Namier, l’integrazione politica dei “popoli dominatori” (tedeschi, polacchi, ungheresi e italiani) in quella sorta di “Medio Oriente” europeo costituito dalla cintura delle piccole nazioni comprese fra la Russia e la Germania 13. Anche i vincitori erano divisi da problemi territoriali in grado di paralizzare ogni idea di cooperazione interstatale e interetnica. Nei primi anni venti la Polonia sostenne un duro 24