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1.3. Integrazione, minacce esterne, problemi economici

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Bibliografia

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bilità di condurre un’esistenza normale, o perlomeno tollerabile, in uno Stato “altro”.

Vi furono anche esempi positivi di soluzione mediata, come l’autonomia culturale concessa dalla Finlandia alla popolazione di madrelingua svedese delle isole Åland, o l’autonomia nazionalculturale garantita nel 1925 dall’Estonia alle proprie comunità allogene, in particolare tedeschi ed ebrei. La Prima guerra mondiale, con il suo carattere totalizzante ed estremo, ispirò tuttavia soprattutto modelli di gestione della differenza improntati all’intolleranza e all’odio per il diverso: oltre all’insorgenza di un virulento antisemitismo politico nella Russia zarista durante la guerra, occorre ricordare lo sterminio della popolazione armena che costò la vita a circa un milione di persone e venne perpetrato nel 1915-16 dalle truppe di occupazione turche 22 . Inoltre, la convenzione di Losanna, l’atto che pose fine al violento conflitto greco-turco (preceduto da un accordo simile firmato dalla Bulgaria e dalla Grecia nel novembre 1920), non si limitava a legittimare a posteriori un trasferimento forzato classificato come “scambio di popolazione” (oltre un milione di greci cacciati dall’Anatolia e, successivamente, quasi 400.000 turchi espulsi dalla Grecia). Losanna contribuì anche a portare alle estreme conseguenze il principio dello Stato nazionale (uno Stato una nazione), affermatosi nei Balcani a partire dal congresso di Berlino del 1878 23. Nel suo studio comparato sui trasferimenti forzati di popolazione europei, Antonio Ferrara richiama l’attenzione sul 1913, quando «per la prima volta nell’età contemporanea venne firmato un accordo tra due Stati (impero ottomano e Bulgaria) per uno scambio di popolazioni a carattere involontario» 24. Ciò che si produsse nel 1913 si sarebbe ripetuto nel 1945 con le deliberazioni della Conferenza di Potsdam sull’espulsione “regolamentata” dei tedeschi dalla Cecoslovacchia, dalla Polonia e dall’Ungheria, e ancora nel 1995, con gli accordi di pace di Dayton relativi alla Bosnia, legittimazione ex post della pulizia etnica mascherata da atto di chiusura di una vertenza umanitaria.

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1.3 Integrazione, minacce esterne, problemi economici

1.3.1. ILQUADROINTERNAZIONALE

La dissoluzione repentina degli imperi e la nascita di una dozzina di Stati nazionali soddisfecero le aspirazioni di sempre più vaste élite culturali e politiche aderenti al principio dell’autodeterminazione dei

popoli, ma generarono una situazione di costante debolezza geopolitica dell’Europa centro-orientale. Era impossibile conciliare il principio di autodeterminazione nazionale con i tre grandi obiettivi dei negoziatori della pace di Versailles: la riduzione della potenza tedesca, il contenimento di quella russa e il ristabilimento dell’ordine internazionale in Europa. La mappa politica dell’Europa orientale non coincideva inoltre con la reale distribuzione del potere nel continente europeo. Le principali potenze giudicavano in modo assai diverso i risultati delle conferenze di pace del 1919-20. Gli Stati Uniti reagirono con un crescente isolazionismo alla profonda delusione per quella che giudicavano un’architettura diplomatica deplorevole nella sostanza e nel metodo. Uno dei principali beneficiari del conflitto, l’Italia liberale e poi fascista, manifestava pubblicamente la propria insoddisfazione per la “vittoria mutilata” e cercava soddisfazione nei Balcani e nell’area adriatica, dove intendeva stabilire protettorati informali attraverso un aumento dell’influenza politica ed economica, accompagnato da strategie di penetrazione culturale in paesi come Ungheria, Romania, Bulgaria, Jugoslavia e soprattutto Albania. Si trattava di un disegno politico velleitario, al quale non si accompagnavano un adeguato sostegno economico e una visione culturale coerente 25. Le maggiori responsabilità per il mantenimento dell’equilibro geopolitico vennero così a ricadere sulla Francia e la Gran Bretagna, divise sin dal 1919 sulla soluzione della questione tedesca. A Londra, in particolare, non tutti condividevano l’ottimismo di Robert William Seton-Watson e degli intellettuali che attraverso anni di campagne di stampa avevano contribuito a orientare l’opinione pubblica britannica contro gli imperi multinazionali. La Francia, dal canto suo, mantenne negli anni venti e trenta un atteggiamento contraddittorio. Legò a sé i nuovi Stati di Versailles, che considerava proprie creature diplomatiche, attraverso la cosiddetta Piccola Intesa (un’alleanza militare difensiva costituita nel 1921 in funzione antiungherese con il decisivo appoggio francese – e polacco – dagli Stati confinanti con l’Ungheria: Jugoslavia, Romania e Cecoslovacchia) 26. Nessuno sforzo venne tuttavia compiuto per superare una delle conseguenze più negative della dissoluzione dei grandi imperi continentali: la frantumazione artificiosa di unità politiche ed economiche funzionanti da secoli.

La debolezza geopolitica dei nuovi Stati indipendenti dell’Europa orientale era aggravata dal fatto che Versailles non aveva intaccato in modo significativo il potenziale umano e produttivo tedesco, mentre la Germania manteneva, anche negli anni di Weimar, un richiamo al quale le numerose, colte e ricche comunità tedesche dell’Europa orientale restavano assai sensibili. Ai confini dell’Europa era nel frat-

tempo comparso, dopo la vittoria nella guerra civile, un nuovo impero multinazionale, l’Unione Sovietica, la cui politica estera fu dominata sino all’ascesa al potere dei nazionalsocialisti in Germania (1933) da tendenze isolazionistiche, alle quali si accompagnava una condanna senza appello della “pace imperialista” di Versailles 27. Non solo le sezioni nazionali del Komintern condannavano i trattati di pace (guadagnandosi in molti Stati dell’Europa orientale la fama di gruppi eterodiretti, irriducibilmente ostili ai loro interessi nazionali), ma la stessa URSS intendeva recuperare la Bessarabia (oggi Repubblica di Moldova), una regione agricola appartenuta per oltre un secolo all’impero zarista e conquistata dalla Romania nel 1918. Inoltre, attraverso il partito comunista polacco, Mosca cercava di influenzare le popolazioni delle regioni di confine, abitate soprattutto nelle zone rurali da ucraini e bielorussi. Verso gli Stati baltici, da essa formalmente riconosciuti, l’URSS mantenne invece un atteggiamento ambiguo. Nonostante la svolta dettata nel 1935 dal VII Congresso del Komintern che, nel lanciare in tutta Europa la strategia dei “fronti popolari”, proclamò anche l’intangibilità delle frontiere di Versailles, nella percezione collettiva i movimenti comunisti restavano realtà marginali.

1.3.2. ILDIBATTITOSULL’ARRETRATEZZA

L’assenza di forme di cooperazione politica non minò soltanto la sicurezza esterna, in quanto la Piccola Intesa era un’alleanza militare priva di implicazioni civili, ma anche la capacità della regione di acquisire, o riacquistare, un maggior peso in ambito europeo. Nell’immediato dopoguerra e poi, di nuovo, a seguito della grande depressione economica del 1929-32, politici e intellettuali si scontrarono con il problema dell’arretratezza, più precisamente della frustrante sensazione che l’Europa centro-orientale fosse alla continua rincorsa di forme, modelli e ideali di organizzazione sociale ed economica destinati a restare irraggiungibili. Non si trattava di un dibattito inedito. Già nella Romania preunitaria, in cui la popolazione rurale superava il 90% e si verificavano sollevazioni contadine che ricordavano all’opinione pubblica internazionale le rivolte del tardo medioevo tedesco o italiano, il letterato Titu Maiorescu, in un’opera apparsa nel 1868, aveva condannato la maniera romena di riformare la società a colpi di codice civile. Si introducevano nella vita politica e sociale “forme senza contenuto”, che riflettevano un’esigenza di conformità esteriore agli standard europei ma non contribuivano all’interiorizzazione delle norme culturali della modernità. Dopo la grande rivolta contadina del

1907 il primo marxista romeno, Constantin Dobrogeanu-Gherea, condannò la società caratterizzata dal “neoservaggio” – combinazione dello sfruttamento industriale capitalistico e di rapporti sociali patriarcali nelle campagne. Ancora nel 1925 un altro intellettuale di spicco, ¸Stefan Zeletin, rielaborò in chiave critica il ruolo storico della borghesia romena 28 .

Nell’Europa orientale interbellica il dibattito sulle origini dell’arretratezza e sui modi per superarla uscì dai confini delle aule universitarie e delle riviste. Influenzato in modo variabile dal populismo russo e dalle correnti filosofiche antimoderniste e antiliberali francesi e tedesche, tale dibattito fu dominato dall’antagonismo fra ansia di europeizzazione e aspirazioni a una Sonderweg, a una via originale verso la modernità e il progresso. La nazione divenne oggetto di un culto assoluto e ineludibile; ogni popolo doveva possedere caratteristiche nazionali uniche, e gli intellettuali raccoglievano ed esaltavano le sue specificità vere o presunte. La città era presentata in articoli, opuscoli e discorsi come un mondo corrotto, alieno, estraneo all’essenza popolare; la campagna incontaminata dal progresso restava depositaria dei valori spirituali più profondi. Grazie alla diffusione dell’educazione di massa ai vari livelli, il nazionalismo non restò tuttavia un’esclusiva del mondo contadino, ma conobbe trasformazioni e differenziazioni. Peter Sugar distingue varie forme di nazionalismo nell’Europa orientale interbellica (aristocratico e retrogrado in due “nazioni nobiliari” come Polonia e Ungheria; civico e borghese nel caso ceco; popolare e contadino, di formazione recente nei popoli balcanici); Miroslav Hroch descrive le fasi attraverso le quali un nazionalismo statale di stampo aristocratico si trasformò dopo Versailles in un’ideologia popolare, carica di legittimazione democratica e in grado di mobilitare masse sempre più ampie di persone 29. La prassi politica tendeva, tuttavia, a unificare orientamenti diversi. Gli strumenti utilizzati per rafforzare la nazione furono ovunque – sotto regimi democratici o autoritari – riforme agrarie condotte su basi sociali e al tempo stesso etniche per incoraggiare la formazione di una piccola proprietà contadina non allogena, provvedimenti in campo educativo che favorivano l’istruzione nella lingua ora maggioritaria; confische o espropri di mezzi di produzione giustificati con la necessità di creare un capitale “nazionale”; introduzione di imposte e sovrattasse destinate a colpire gli allogeni.

Al tempo stesso, le contraddizioni sociali e le tensioni nazionali dovute al peculiare “meticciato” che, secondo Stefano Bianchini, contraddistingue storicamente quest’area dell’Europa, stimolavano la ricerca di modelli economici e sociali alternativi sia al libero mercato

sia al marxismo 30. La rapida ascesa in Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Polonia e Croazia di movimenti agrari di ispirazione democratica radicale stimolò la creazione, nel 1921, a Praga, della cosiddetta “Internazionale verde” (Bureau International Agraire). Scopo dell’esperimento era coordinare politiche sociali ispirate a un’utopica “terza via” fra il capitalismo industriale e finanziario di marca anglosassone e il bolscevismo sovietico, i cui tratti anticontadini apparivano evidenti. Se nell’Internazionale verde il nazionalismo militante tendeva a stemperarsi in una visione paneuropea, in campo sociale i partiti rappresentati non furono però in grado di trovare un minimo comune denominatore. Il programma di riforme radicali economiche e sociali del primo ministro e leader contadino bulgaro Aleksandar Stambolijski, al potere dal 1919 al 1923, quando fu ucciso da un gruppo armato nazionalista, gli procurò fra gli stessi partiti contadini esteuropei più oppositori che sostenitori 31 .

Anche se i partiti agrari restarono un fattore politico rilevante soprattutto in Cecoslovacchia e Romania, dove il leader nazional-contadino Iuliu Maniu venne trionfalmente eletto primo ministro nel 1928, con la morte di Stambolijski sfumò l’opportunità di trasformare il movimento contadino internazionale in un progetto politico di largo respiro. Curiosamente, un influsso intellettuale duraturo dell’idea della “terza via” contadina si registrò in un paese, l’Ungheria, che dopo la Prima guerra mondiale non aveva conosciuto una radicale riforma dei rapporti sociali nelle campagne e in cui il movimento agrario stentava a trovare spazio parlamentare a causa di un suffragio ristretto. Il movimento populista, cui presero parte negli anni trenta alcuni dei più importanti intellettuali ungheresi (gli scrittori Gyula Illyés e László Németh, il sociologo Ferenc Erdei), criticava il feudalismo delle campagne, rigettava il capitalismo finanziario e sognava – nelle parole di Németh – di trasformare l’Ungheria in un “giardino” di piccoli e medi liberi coltivatori 32 .

1.3.3. L ’ECONOMIA

La creazione degli Stati nazionali pose le élite esteuropee di fronte a un paradosso: i nuovi confini statali, presidiati ovunque da un sistema di dazi protettivi, misero in crisi un sistema di scambi regionale consolidatosi in secoli di rapporti economici. Se all’interno della monarchia asburgica i dazi sulle importazioni oscillavano intorno al 20%, negli anni trenta in Polonia si giunse a sfiorare il 60%. Di conseguenza, il commercio tra i paesi della regione crollò a meno di un terzo

del loro totale. In tal modo, l’indipendenza politica non si traduceva in un aumento delle opportunità economiche. La quota di capitale industriale detenuta da compagnie straniere sfiorava nel 1929 il 50% in Bulgaria e Jugoslavia, il 40% in Polonia, il 30% in Ungheria e percentuali ancora superiori venivano registrate nel settore energetico, bancario e assicurativo 33. In Romania il programma di industrializzazione autarchica e neo-mercantilista promosso dal partito nazionale liberale negli anni venti, che mirava alla costruzione di un capitalismo familiare, consentì solo parzialmente al paese di mantenere il controllo delle principali risorse e in particolare della fiorente industria petrolifera. Queste economie prevalentemente agrarie (negli anni trenta oltre due terzi della popolazione vivevano in campagna), strutturalmente deboli e arretrate, subivano un deficit di competitività con le economie più avanzate del continente europeo. L’intera Europa centro-orientale contava quasi un terzo della popolazione del continente, ma contribuiva per appena il 10% alla sua produzione industriale. L’unica eccezione era costituita dalla Cecoslovacchia, che forniva da sola il 40% dell’intera produzione industriale esteuropea, grazie anche a una struttura sociale più simile, almeno in Boemia e Moravia, a quelle britannica e belga che a quelle ungherese o polacca. I dati sulla crescita della produzione industriale nell’intervallo 1913-29 mostrano anche una correlazione negativa fra perdite umane e infrastrutturali, posizione geopolitica alla fine del conflitto e capacità di ripresa. Mentre la produzione industriale europea crebbe mediamente del 27%, la Cecoslovacchia aumentò la propria capacità produttiva del 72%, la Jugoslavia e la Bulgaria del 40%, la Romania del 37%. Assai più modesta fu la prestazione economica degli ex imperi (l’Austria crebbe del 18%, Ungheria appena del 12%), mentre in Polonia si registrò addirittura un calo.

A bloccare la stabilizzazione economica seguita alla catastrofe bellica e alla successiva fase di incertezza (culminata con l’iperinflazione tedesca del 1923) intervenne la recessione mondiale. Fra il 1929 e il 1933 il volume delle esportazioni dalla Cecoslovacchia si contrasse di oltre il 70%, dalla Polonia del 65%, dalla Romania del 50% e dall’Albania del 40%. Le importazioni calarono mediamente del 6065% 34. A ciò si aggiunsero il crollo dei prezzi industriali e agricoli, l’aumento della disoccupazione e il diffondersi dell’instabilità politica. La crisi impose un nuovo approccio al problema dell’arretratezza economica. Alla fine degli anni venti un economista ungherese, Elemér Hantos, progettò la costituzione di un mercato comune dell’Europa danubiano-balcanica, ritenendo l’integrazione economica la prima tappa della piena riconciliazione politica tra gli Stati della regione.

Studioso al tempo stesso realista e visionario, antesignano dell’idea di mercato comune europeo, Hantos traduceva in termini programmatici, attraverso gli “Istituti centro-europei” da lui fondati a Vienna e –in seguito – a Budapest, Brno e Ginevra, la nostalgia della scuola economica austro-ungherese per la monarchia asburgica, considerata uno spazio economico ideale a causa della complementarità fra il Nord industrializzato e il Sud agricolo. Hantos mirava a costruire una forte Mitteleuropa nella quale la Germania non ricoprisse necessariamente il ruolo guida 35 .

Nel clima di esasperato protezionismo e dirigismo che ispirava le politiche economiche europee degli anni trenta il progetto restò sulla carta. Non videro la luce anche il progetto federalista e paneuropeo esposto nel 1929 alla Società delle nazioni dal premier francese Aristide Briand, né il più modesto piano presentato nel 1932 dal suo successore, Tardieu, inteso alla costituzione di un blocco danubiano alleato di Parigi sotto l’egida della Società delle nazioni. Tardieu proponeva il progressivo smantellamento delle barriere doganali e la costituzione di un’area economica di libero scambio comprendente Austria, Cecoslovacchia, Ungheria e, in un secondo momento, anche Jugoslavia e Romania. L’iniziativa fallì per una serie di veti incrociati posti sia dagli eclusi (Germania e Italia, timorosi di un’espansione francese nell’area), sia dai potenziali membri.

Dalla crisi economica emerse, così, un’Europa orientale impoverita e politicamente radicalizzata. Nella seconda metà degli anni trenta la questione agraria restava ancora il problema fondamentale. La maggior parte dei paesi dell’Europa orientale, con l’eccezione della Cecoslovacchia e di zone della Polonia e dell’Ungheria, non riuscì a compiere il passaggio dall’economia contadina di sussistenza all’industria, mentre impressionanti barriere socioculturali persistevano fra città e campagna. Nel riassetto della proprietà fondiaria realizzato soprattutto in Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria e regno SHS attraverso le riforme del 1919-21, gli obiettivi politici dei provvedimenti avevano messo in secondo piano i criteri di razionalità economica. Nel ventennio 1920-40 la parcellizzazione del suolo arabile determinò, contro ogni previsione e in controtendenza rispetto ai trends europei, un ulteriore aumento della forza-lavoro impiegata in agricoltura. Mentre la nazionalizzazione dello spazio si traduceva nella progressiva chiusura dei confini e nell’impossibilità di emigrare oltremare, quasi un terzo della popolazione contadina figurava in eccesso, con conseguenze sociali gravissime.

A causa dell’impraticabilità politica dei piani di integrazione regionale, la risposta esteuropea alla depressione economica fu dettata

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