6 minute read

Crisi economica e prospettive di ripresa

questioni etnonazionali e a ripensare la dottrina dei diritti umani in termini di minority rights a uso collettivo 11. Negli ultimi anni, alla tradizionale ostilità di alcuni Stati membri, in primo luogo la Francia e la Grecia, si è aggiunta una crescente confusione fra il concetto di minoranza nazionale determinata da una circostanza storica (ad esempio la modifica di un confine fra due Stati) e quello di comunità migrante. Anche in questo caso, le due metà d’Europa sembrano parlare lingue diverse.

Crisi economica e prospettive di ripresa

Advertisement

La crisi economico-finanziaria scoppiata nell’autunno 2008 ha interrotto, in Europa orientale, un periodo di sviluppo prolungato e contraddistinto da tassi di crescita economica doppi o tripli rispetto alla media europea (4-6% annuo, con punte del 10% e oltre nel Baltico e in Slovacchia). Nel primo decennio degli anni duemila, i governi della regione hanno cercato di adeguare salari e pensioni all’aumento di prezzi e tariffe. Sebbene ciò sia riuscito solo in parte (un operaio della fiorente industria automobilistica slovacca continua a percepire un salario orario lordo quattro volte inferiore a quello di un collega tedesco), il potere d’acquisto è aumentato significativamente. La crescita economica ha tuttavia stimolato eccessivamente il consumo di beni non essenziali e l’indebitamento familiare rispetto al risparmio, accompagnandosi a fenomeni di speculazione finanziaria e immobiliare. Da parte loro, molti governi hanno condotto politiche economiche e fiscali incaute. All’indomani dell’esplosione della crisi finanziaria, diversi paesi (Ucraina e Ungheria nel 2008, Romania nel 2009) hanno evitato la bancarotta soltanto grazie ai prestiti straordinari concessi dal Fondo monetario internazionale e dall’Unione Europea. La crisi del 2008-09, parzialmente superata nel 2010, ha colpito economie assai più “aperte” (ovvero dipendenti dalle esportazioni, realizzate in gran parte non da piccole e medie imprese ma da multinazionali) rispetto a quelle occidentali. Sulla crisi esteuropea ha dunque pesato il temporaneo tracollo dell’economia tedesca, che ha trascinato dietro di sé sistemi economici legati alla Germania. Gli effetti della recessione, calcolati fra la seconda metà del 2008 e la prima metà del 2010, hanno assunto proporzioni disastrose nel Baltico (–20% sul PIL in Lettonia, –16% in Lituania, –14% in Estonia), dove tuttavia gli anni precedenti avevano fatto registrare una crescita altrettanto brutale; comparativamente assai più drammatico il crollo ucraino (–15% nel 2009), che affligge un sistema economico-sociale ancora convalescente

in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. In Romania, Slovenia e Ungheria il calo si è attestato intorno all’8-9%; nella Repubblica Ceca e in Slovacchia esso non ha superato il 2%.

Unica nel panorama europeo, la Polonia ha registrato nell’ultimo biennio una modesta crescita del 5% 12 . Secondo gli economisti, alla base del successo sembra esservi stata, da parte del governo liberalconservatore guidato da Donald Tusk, una miscela di conservatorismo (propensione al risparmio individuale, lasciata in eredità dall’economia di sussistenza degli anni ottanta, stretta creditizia) e liberismo, con sostanziose agevolazioni fiscali agli investitori stranieri e snellimento delle procedure burocratiche per gli imprenditori locali. La forza lavoro a basso costo e l’abilità nel copiare i modelli occidentali permettono ai polacchi di produrre, soprattutto nel campo dell’elettronica, oggetti a bassa/media tecnologia a prezzi concorrenziali. Allo sviluppo del paese ha contribuito paradossalmente la “rendita del sottosviluppo”: in Polonia non si è dovuto inventare nulla in quanto strumenti informatici e metodi di gestione del marketing erano già a disposizione 13 .

La crisi ha punito più duramente i paesi periferici e maggiormente dipendenti dalle esportazioni o quelli, come l’Ungheria, in cui i governi nazionali hanno compromesso la credibilità del paese con politiche economiche errate 14. Dal 2002 al 2009 (governi Medgyessy e Gyurcsány) l’Ungheria è entrata nella spirale del debito estero (passato dal 53% all’80% del PIL, con una dinamica di crescita simile a quella italiana degli anni sessanta e settanta) e dell’indebitamento individuale, contratto in valuta estera e senza che le autorità avvertissero la popolazione sui rischi delle oscillazioni del cambio. In questo contesto si colloca la lunga fase di instabilità politica, avviatasi con le proteste popolari dell’autunno 2006 e conclusasi nell’aprile 2010 con il tracollo elettorale del partito socialista e l’affermazione delle destre (moderata: il partito Fidesz guidato del nuovo primo ministro Viktor Orbán ha conquistato i due terzi dei seggi) e radicale (il nazionalista Jobbik si è piazzato terzo, con il 17% dei consensi) 15. In un altro “malato” europeo, la Romania, l’impatto della crisi si è manifestato con la massima intensità in ritardo ma, saldandosi con politiche pubbliche deprecabili, ha determinato nel 2010 un grave cortocircuito. Il deficit di bilancio, in sostanziale equilibrio fino al 2007 grazie a una politica di bassi salari e privatizzazioni, ha raggiunto tre anni più tardi livelli insostenibili. La responsabilità di ciò grava sull’intera classe politica, dal governo guidato dal liberale T˘ariceanu (2005-08) all’esecutivo di larghe intese del democraticoliberale Emil Boc (2008-09), nel quale il partito socialdemocratico dell’ex presidente Iliescu ha spesso premuto per aumentare la spesa pubblica a fini clientelari. In

vista delle scadenze elettorali del novembre 2008 (voto legislativo) e del novembre 2009 (voto presidenziale), entrambi gli esecutivi si sono lanciati, sollecitati anche dal presidente Traian B˘asescu, in una politica di redistribuzione del reddito, con forti aumenti salariali nel settore pubblico e il raddoppio delle misere pensioni di anzianità. La grande coalizione ha ignorato la congiuntura fino a quando la crisi valutaria e il blocco degli investimenti stranieri hanno costretto l’esecutivo a negoziare con le istituzioni internazionali un prestito ponte da 20 miliardi di euro 16 .

La recessione, dalla quale l’Europa orientale ha iniziato a riprendersi nella seconda metà del 2010, ha avuto un impatto psicologico dirompente. Da un lato essa ha ricordato alla popolazione esteuropea che la crescita non è un fatto scontato. Molti cittadini hanno vissuto come una sconfitta personale, simile a quella dei primi anni novanta, il ritorno alla disoccupazione e i tagli ai servizi sociali. Le nuove generazioni non sono abituate alle privazioni vissute dai propri genitori e le accettano con difficoltà. Dall’altro la crisi ha ridato attualità al dibattito pubblico sul ruolo regolatore e anche propulsore dello Stato. Liquidato negli anni ottanta dagli intellettuali di opposizione come una sorta di “nemico oggettivo” e privato di molti suoi attributi con l’ondata di privatizzazioni e liberalizzazioni, lo Stato postcomunista (inclusi i suoi apparati di controllo: polizia, servizi segreti, magistratura, guardia di finanza, organismi inefficienti e assai corrotti) gode presso i propri cittadini di scarso prestigio. La crisi ha dimostrato che una società di mercato funziona soltanto in presenza di meccanismi regolatori che solo uno Stato funzionante può attivare. È dunque la stessa “società incivile” descritta con acume da Kotkin ad avere bisogno di uno Stato autorevole e determinato. Gli investitori stranieri, detentori di importanti quote di sovranità nazionale nell’ambito dell’economia globalizzata, ragionano comprensibilmente secondo la logica del profitto. Non è dunque loro compito potenziare i settori meno competitivi delle economie esteuropee (sanità, istruzione, ricerca, commercio al dettaglio) o di correggere gli squilibri sociali che rendono numerosi paesi più simili, nella distribuzione del reddito e nei meccanismi di riproduzione circolare delle élite, al modello latino-americano che a quello europeo occidentale.

Anche dopo l’ingresso nell’UE di 10 suoi Stati, l’area esteuropea stenta inoltre a definire il proprio rapporto con i vicini orientali (in primo luogo la Russia), finora dominato dall’eredità negativa del blocco sovietico e dai conseguenti timori di un ritorno all’espansionismo russo. In campo energetico, memori delle “guerre del gas” russoucraine del 2006 e del 2009, e consapevoli ormai che la Russia è tor-

This article is from: