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2.3. Guerra di sterminio a Est
Nero e la Bucovina settentrionale entrarono invece a far parte, senza alcuna autonomia, dell’Ucraina. Quella della Bessarabia nella Romania interbellica si era rivelata un’unione difficile e poco soddisfacente per le stesse popolazioni locali e soprattutto per gli allogeni, colpiti da una politica di romenizzazione a tratti brutale ma più spesso inefficace 16. Gli eventi del 1940, con la deportazione in Siberia di decine di migliaia di romeni accusati di aver collaborato dopo il 1918 con le autorità di Bucarest, avrebbero tuttavia preparato il terreno per le successive atrocità che si susseguirono nella regione fino al 1945-46.
La mutilazione territoriale anticipò la fine della “Grande Romania”, che perse la Transilvania del Nord a favore dell’Ungheria, con il secondo arbitrato di Vienna del 30 agosto 1940, e la Dobrugia meridionale, ceduta alla Bulgaria con il trattato di Craiova del 7 settembre. La privazione della Transilvania, popolata in proporzioni simili da romeni e ungheresi, con significative comunità ebraiche (200.000 individui) e tedesche, fu particolarmente dolorosa per l’importanza simbolica attribuita da tutta l’ideologia nazionale romena a questo “focolare di identità”. Le modifiche territoriali furono accompagnate da scambi di popolazione ma non da violenze diffuse, in quanto i contendenti erano tutti alleati/satelliti del Reich. Per controllare la situazione della Transilvania spartita fra l’Ungheria e la Romania vennero anche installate commissioni militari miste italo-tedesche, incaricate di verificare eventuali abusi compiuti dalle parti.
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2.3 Guerra di sterminio a Est
2.3.1. LOSMEMBRAMENTODELLAJUGOSLAVIA EIL “ NUOVOORDINE” NEIBALCANI
La situazione geopolitica dell’Europa orientale e in particolare dei Balcani mutò radicalmente in seguito all’attacco sferrato dalle truppe dell’Asse alla Jugoslavia nell’aprile 1941. Dopo la disfatta francese il governo di Belgrado aveva compiuto sforzi notevoli per preservare dal conflitto un paese per nulla pacificato nonostante il compromesso con la Croazia, mentre gli Stati confinanti, l’Ungheria, la Romania e la Bulgaria, aderivano al patto tripartito con le forze dell’Asse. Nel frattempo la catastrofica campagna italiana contro la Grecia avviata da Mussolini nell’ottobre 1940 aveva costretto Hitler a soccorrere l’alleato. Il
dittatore tedesco premeva dunque sulla Jugoslavia perché firmasse il patto in cambio di aggiustamenti territoriali (un corridoio sul Mare Egeo comprendente il porto di Salonicco). Consapevole che il suo paese era militarmente circondato ed economicamente dipendente dall’Asse, il principe Paolo firmò il 25 marzo 1941, nel tentativo di preservare l’unità del paese. L’élite serba reagì a quello che giudicava un tradimento nazionale cacciando lo “straniero” Paolo e installando al potere il generale Duˇsan Simovi´c. Hitler ordinò l’immediata invasione della Jugoslavia, che venne scatenata il 6 aprile e alla quale parteciparono contingenti tedeschi, italiani, ungheresi e bulgari.
Il governo jugoslavo cadde vittima dell’aggressione esterna ma soprattutto della sua debolezza e della sfiducia accumulata dai suoi cittadini e non solo di quelli non serbi. L’esercito, forte di 2 milioni di effettivi e relativamente ben equipaggiato, si dissolse in pochi giorni. I croati si piegarono senza quasi combattere e anche le truppe serbe mostrarono una capacità di resistenza ben inferiore a quella esibita durante la Prima guerra mondiale. Il 10 aprile, a Zagabria, venne proclamato con l’appoggio della Germania uno “Stato indipendente croato”, comprendente la Bosnia-Erzegovina e guidato dal leader ustaˇsa Ante Paveli´c. Il 12 aprile cadde la capitale, Belgrado, e cinque giorni dopo venne proclamata la resa dell’esercito. Il governo si recò in esilio a Londra, mentre gruppi di ufficiali iniziavano a organizzare la resistenza militare all’occupazione 17
Lo smembramento della Jugoslavia consentì agli Stati aggressori notevoli incrementi territoriali e creò nei Balcani un “nuovo ordine” destinato a durare fino al 1944-45. La Serbia venne annessa al Reich che, analogamente al Protettorato di Boemia e Moravia, la governò attraverso un’amministrazione locale. Il Banato serbo nei territori a est del Danubio, conteso fra l’Ungheria e la Romania, venne affidato al comandante militare tedesco sostenuto dai locali Volksdeutsche, cittadini di etnia tedesca. L’Ungheria recuperò, invece, la regione della Baˇcka (l’attuale Voivodina), perduta nel 1920, e attuò una dura politica nei confronti dei serbi. Agli ebrei locali, così come era avvenuto nel 1940 in Transilvania settentrionale, il governo di Budapest estese la legislazione discriminatoria già in vigore nella madrepatria. La resistenza armata e gli atti di sabotaggio da parte dei resistenti serbi provocarono reazioni violente. In risposta a un’azione partigiana, nel gennaio 1942 le autorità ungheresi massacrarono a Novi Sad quasi 3.000 civili, in maggioranza serbi ed ebrei. La Slovenia venne spartita fra il Reich, che incorporò i due terzi settentrionali (province di Stiria e Carinzia), mentre all’Italia andarono la capitale Lubiana e le zone
L’Europa orientale nel 1942
limitrofe, il litorale di Trieste e parte della Dalmazia, territori che essa mantenne fino all’estate 1943.
Anche il Montenegro finì sotto l’occupazione militare italiana, la quale fallì, tuttavia, nel tentativo di creare un governo autoctono leale e incontrò in seguito grandi difficoltà a domare le frequenti rivolte che, come quella del luglio 1941, investirono ampie zone del paese. L’esercito italiano impiegò un anno a reprimere la ribellione, senza peraltro riuscire a ristabilire la propria autorità su un territorio tanto impervio. Sull’occupazione militare italiana del 1941-43 della Slovenia, della Dalmazia e del Montenegro diversi recenti studi decostruiscono il mito, accettato da molti specialisti stranieri, di un’“occupazione allegra” (per usare un’espressione introdotta dalla storiografia jugoslava e recentemente ripresa da Eric Gobetti), ovvero, di un regime di supervisione blando e sostanzialmente tollerante. Il quadro che emerge dalle nuove ricerche descrive invece un’amministrazione militare caotica, debole, inefficiente e meno sistematica di quella tedesca anche nella repressione ma, proprio per questo, spesso capace di atti di uguale ferocia 18 . Alla strategia dei patti di non belligeranza con le élite locali si accompagnò un velleitario tentativo di italianizzazione, dove l’arroganza dell’occupante e la sua convinzione di svolgere una “missione civilizzatrice” analoga a quella degli imperi romano e napoleonico si incrociavano con un diffuso senso di impotenza e frustrazione 19 . L’improvvisazione portò le autorità a infilarsi in situazioni paradossali: in Croazia, esse contrastarono la politica antiserba della locale coalizione croato-musulmana, negligendo gli atti di sabotaggio e terrorismo compiuti dalla popolazione serba 20 . Un ruolo importante venne, infine, svolto dall’Italia nelle regioni occupate della Macedonia occidentale (il resto della regione era occupato dalla Bulgaria) e soprattutto nel Kosovo centro-meridionale. Le due zone a maggioranza albanese furono annesse ai territori albanesi sotto occupazione italiana sin dall’aprile 1939. Con lo smembramento della Jugoslavia si venne a formare una “Grande Albania”, per quanto in un quadro di dominazione straniera e di anarchia politico-militare. La popolazione kosovara accolse inizialmente gli italiani come liberatori e Roma rispose con misure di promozione della lingua albanese. Alla regione non fu, tuttavia, concessa un’amministrazione autonoma locale neppure dopo l’8 settembre 1943, quando la Germania rilevò il controllo dell’Albania 21 .
Il caso più interessante e controverso, per i suoi risvolti successivi a partire dal secondo dopoguerra fino alle guerre balcaniche del 1991-95, è costituito dalla Croazia. Secondo Barbara Jelavich, il regime ustaˇsa poggiava su strutture deboli, controllate fino al 1943 dal
governo fascista italiano. La sua legittimità nazionale era inoltre minata dalla perdita del litorale. Lo Stato croato era, in realtà, una creatura multietnica: dei 6,5 milioni di abitanti, appena 3,4 milioni si dichiaravano croati, contro 2 milioni di serbi, 700.000 musulmani, 150.000 tedeschi e 18.000 ebrei 22. Ante Paveli´c, a capo dei fascisti croati da oltre un decennio, era stato designato dallo stesso Mussolini. Nel maggio 1941 la Croazia venne dichiarata una monarchia sotto il principe Aimone di Spoleto – già duca di Savoia – divenuto Tomislav II, che non visitò mai il proprio regno. Zagabria aderì al patto tripartito e al patto anti Komintern, ma venne riconosciuta solo dagli alleati dell’Asse e da Stati indipendenti non ostili alla Germania, come Finlandia e Spagna 23. I partiti politici del periodo jugoslavo, compreso quello contadino di Maˇcek, mantennero un atteggiamento riservato, sospesi fra ostilità e collaborazione limitata. Una posizione più benevola, anche se non totalmente acritica, venne assunta dall’influente Chiesa cattolica, guidata dall’arcivescovo di Zagabria Alojzije Stepinac, il quale condannò gli eccessi razzisti del regime ma appoggiò fervidamente la campagna di conversione forzata al cattolicesimo e di snazionalizzazione condotta nelle regioni a maggioranza serba (Krajine) della Bosnia 24 .
Lo Stato croato si distinse per l’estrema brutalità con la quale cercò di risolvere la questione etnica, una violenza fortemente ideologizzata, non frutto di pura imitazione del modello hitleriano, che a differenza degli altri regimi filonazisti dell’Europa orientale – con l’eccezione della Bulgaria – non si rivolse in primo luogo contro la (piccola) comunità ebraica, quanto, piuttosto, contro la popolazione serba e rom. Gli eccidi organizzati nella primavera del 1941 furono seguiti, in agosto, dall’allestimento dei campi di concentramento e sterminio intorno a Jasenovac, sulle rive del fiume Sava. Per quasi quattro anni vi transitarono centinaia di migliaia di detenuti e, secondo le stime più aggiornate, sulle quali convergono ormai ricercatori serbi, croati e occidentali, vi furono uccise circa 100.000 persone. Oltre a gran parte della comunità ebraica croata, perirono 50.000 serbi e oltre 30.000 cittadini di etnia rom 25 . Da solo, il complesso di Jasenovac fu responsabile di un decimo del milione di morti causati dal 1941 al 1945 dal conflitto mondiale in Jugoslavia. Il bilancio totale delle politiche razziali del fascismo croato raggiunge il mezzo milione di morti, tre quarti dei quali di nazionalità serba. Nessun alleato di Hitler riuscì a perpetrare, senza alcuna pressione politica o cooperazione logistica tedesca, un massacro di tali proporzioni.
2.3.2. L ’ATTACCOTEDESCOALL’URSSELOSTERMINIO DEGLIEBREIORIENTALI
L’attacco della Germania all’URSS nel giugno 1941 era stato pianificato a Berlino da oltre un anno e solo l’invasione della Jugoslavia ne ritardò l’attuazione di qualche mese. Secondo Mark Mazower, la guerra a Est, che assunse immediatamente un carattere “totale” e genocida, dette una spinta decisiva al progetto nazista di costruire una nuova Europa, dominata dal Reich e ripulita delle sue componenti “indesiderabili”, in primo luogo gli ebrei e le popolazioni slave 26. La politica antisemita codificata dalle leggi di Norimberga e adottata in tutta l’Europa orientale a eccezione della Bulgaria fu seguita dall’allestimento dei ghetti in Polonia nel 1940 e raggiunse lo stadio successivo con la formazione nell’estate 1941 di “gruppi speciali” mobili (Einsatzgruppen). Tali unità accompagnarono fino al 1943 il fronte sovietico in continuo avanzamento e perseguirono il compito di “ripulire” i territori conquistati da elementi sospetti, funzionari del partito comunista sovietico, ma, in primo luogo, dagli ebrei. In meno di tre anni, l’azione genocida condotta su un territorio vastissimo da un apparato di 300.000 unità, compresi gli ausiliari locali, provocò la morte di quasi 2 milioni di persone, in grande maggioranza ebrei del Baltico e originari dell’antica “zona di insediamento” di epoca zarista, gli shtetl 27. Intere comunità plurisecolari (Bia/ lystok in Polonia, Vilnius e Kaunas in Lituania) vennero annientate a colpi di mitragliatrice nel giro di pochi giorni. Fra gli alleati dei nazisti, le truppe di occupazione romena contribuirono con propri Einsatzgruppen agli eccidi che accompagnarono l’invasione dell’URSS in Bessarabia e Bucovina e nella città di Odessa. Secondo le stime di Radu Ioanid, nel 1941-42 il governo romeno guidato dal generale Antonescu organizzò lo sterminio di 280-300.000 ebrei e circa 10.000 rom, deportati e massacrati nella regione della Transnistria 28 .
L’invasione tedesca assunse un carattere genocida anche nel trattamento dei prigionieri di guerra sovietici, soprattutto in Ucraina, Belarus e nella regione della Volga. Nel febbraio 1942 la mortalità dei campi di detenzione e concentramento raggiungeva percentuali elevatissime e dei quasi 4 milioni di soldati catturati ne restavano in vita appena 1,1. La popolazione civile delle grandi città conquistate venne decimata dalla fame e dalle violenze degli occupanti 29. Diversi autori sottolineano che la ferocia delle politiche naziste nei territori orientali occupati nel 1941-44 contribuì ad alienare all’amministrazione tedesca anche le simpatie di coloro, come i nazionalisti ucraini dell’OUN-B, l’ala radicale del movimento politico clandestino creato nel 1929 che,
guidata da Stepan Bandera, aveva salutato le truppe tedesche come liberatrici e tentato di costruire un esercito nazionale antibolscevico: un progetto fallito proprio per l’opposizione del comando militare tedesco 30. Solo nel 1943 i tedeschi accolsero la richiesta del Comitato centrale ucraino a Cracovia di istituire un corpo armato di ucraini: la divisione SS-Galizien, forte di 22.000 uomini, che combatté sotto il comando germanico non solo in Ucraina ma anche in Slovacchia e nei Balcani, dove venne impegnata nella repressione della rivolta slovacca dell’agosto 1944 e nella lotta antipartigiana. Alla vigilia del crollo del Reich, questa unità si era trasformata nella “prima divisione dell’Armata nazionale ucraina”, che contava oltre 70.000 effettivi 31 .
Nel Baltico la collaborazione con le autorità naziste venne favorita da un approccio meno ostile alle popolazioni locali, dovuto anche all’importante presenza storica tedesca, e dallo spirito pubblico che, dopo due anni di occupazione, accomunava la quasi totalità della popolazione nel sentimento antisovietico. Nel 1941 venne creato il Commissariato del Reich per il territorio orientale, composto dai distretti generali di Estonia, Lettonia, Lituania e Russia Bianca, sottoposto a un commissariato centrale con sede a Riga. L’occupazione tedesca garantì al Baltico un’autonomia puramente formale. L’economia venne solo parzialmente riprivatizzata e fu sopratutto messa al servizio della pianificazione bellica; le terre espropriate nel periodo sovietico furono solo date in affitto ai contadini, non restituite. Nelle terre baltiche, e in particolare in Lettonia, la politica di sterminio antiebraico si manifestò immediatamente nelle sue forme più brutali: all’inizio del 1942 il comando locale delle SS di Riga comunicava l’avvenuta liquidazione di 229.000 ebrei lettoni 32. Gran parte degli eccidi vennero condotti dai battaglioni di polizia, nei quali era inquadrato personale locale, e in seguito da legioni di SS estoni e lettoni create fra il 1942 e il 1943. Il bilancio totale dello sterminio ebraico nel Baltico raggiunse a fine conflitto i 250.000 morti. In Lituania, che pure possedeva un’importante comunità ebraica, sulla collaborazione con le autorità di occupazione prevalse invece un atteggiamento di ostilità. Esso produsse una decisa resistenza con atti di sabotaggio portati a segno dal locale partito comunista clandestino, o con il boicottaggio economico-politico delle forze di occupazione attuato dall’opposizione nazionalista moderata.
Fu, tuttavia, in Polonia che la distruzione degli ebrei d’Europa assunse le dimensioni e le forme più spaventose. Il genocidio si sovrappose a una guerra brutale per l’intera popolazione polacca, indipendentemente dalla nazionalità e dalle convinzioni politiche. Hitler non intendeva sconfiggere la Polonia, ma cancellarne la stessa esistenza.
La presenza della più grande comunità ebraica europea trasformò la Polonia occupata nel terminale della deportazione degli ebrei europei e nel luogo del loro annientamento fisico. Alla conferenza di Wannsee (20 gennaio 1942), le autorità naziste concordarono tappe e metodi della deportazione che avrebbe dovuto investire 21 milioni di ebrei sparsi in tutto il continente. Si iniziò ad ampliare e potenziare i campi già esistenti (Auschwitz-Birkenau, Che/ lmno) e a costruirne di nuovi nel Governatorato generale (Sobibór, Be/l˙zec, Treblinka: fino all’ottobre del 1943 vennero qui sterminati 1,7 milioni di persone). Nel maggiore dei complessi concentrazionari, Auschwitz, dall’inizio del 1942 all’autunno 1944 venne trasportata in diverse ondate la popolazione dei ghetti delle principali città polacche (Leopoli nel marzo 1942, Varsavia nel luglio-settembre 1943, / Lód´z nell’estate 1944), cui si aggiunsero deportati ebrei dal Protettorato di Boemia e Moravia, dalla Slovacchia, dall’Olanda, dalla Grecia, dall’Austria e dall’Ungheria (questi ultimi, quasi mezzo milione, rappresentarono l’ultimo importante “trasporto”, nell’estate 1944). Oltre agli ebrei, nei campi della Polonia trovarono la morte centinaia di migliaia di polacchi e slavi, rom, omosessuali e oppositori politici. Ad Auschwitz vennero deportati 1,3 milioni di persone: 900.000 furono sterminate al loro arrivo, mentre altre 200.000 non sopravvissero agli stenti.
La Seconda guerra mondiale, più sanguinosa in Europa orientale che nella metà occidentale del continente, assunse in Polonia e in Ucraina un carattere genuinamente genocida. La pratica e la cultura della violenza entrarono a tal punto nella vita quotidiana da venire interiorizzate dagli stessi civili. Nel luglio 1941 gli abitanti non ebrei del villaggio di Jedwabne, un centro di appena 3.000 abitanti nel nord-est della Polonia – che nel 1939 aveva subìto l’occupazione sovietica e veniva ora invaso dai nazisti – catturarono e uccisero metodicamente l’altra metà della popolazione, ovvero i loro compaesani ebrei “colpevoli” di avere collaborato con gli occupanti precedenti. Dalle indagini condotte negli anni novanta emerse che del pogrom, attribuito per decenni agli Einsatzgruppen, erano invece interamente responsabili i “vicini di casa” 33. Un demografo polacco calcola che fra il 1939 e il 1945 morirono in Polonia, vittime della violenza bellica e degli stenti, 5,6 milioni di persone, il 21% della popolazione prebellica. Esse si dividevano fra 3 milioni di ebrei (appena un decimo della comunità sopravvisse alla Shoah) e non ebrei (oltre 2 milioni di polacchi, circa mezzo milione di ucraini e bielorussi) 34. Un terzo di tutte le abitazioni presenti sul territorio polacco venne distrutto, o gravemente danneggiato dal passaggio del fronte (9 su 10 a Varsavia, rasa al suolo dopo le insurrezioni scoppiate nel 1943 nel ghetto ebrai-