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totalitario
7.4 Punire, ricordare o studiare: la gestione del passato totalitario
Un problema delle transizioni democratiche è il trattamento dei mandanti politici e degli esecutori materiali dei crimini perpetrati sotto la dittatura 38. Rispetto ai precedenti storici noti alla letteratura (il nazismo e il fascismo, le dittature sudamericane e mediterranee), i regimi comunisti esteuropei si distinsero per un’eccezionale compenetrazione fra classe politica, tecnocrazia economica e apparati di sicurezza. I servizi di sicurezza del blocco orientale erano probabilmente meno efficienti di quelli occidentali e anche delle polizie politiche delle dittature di destra degli anni venti e trenta; ciò che li distingueva erano l’estrema vastità delle funzioni assolte (la polizia politica sorvegliava gli oppositori ma gestiva anche il commercio estero e disponeva dei profitti da esso derivanti) e soprattutto la loro pervasività. Dopo il 1989, gli ex dissidenti e tutti coloro che la polizia politica aveva messo attivamente nel proprio discreto visore (una percentuale della popolazione adulta stimabile nell’ordine del 3-5%) hanno chiesto di sapere chi fossero, come e perché agissero e quali obiettivi si proponessero gli ufficiali e gli agenti reclutati tra i propri colleghi e amici (nel 1989 una percentuale che, comprendendo anche i contatti non più attivi ma viventi, variava nel blocco sovietico fra l’1% circa dell’Ungheria e l’1,5-2% della popolazione raggiunto in Germania Est e in Romania, con punte assai più elevate nel mondo accademico, nelle élite economiche e fra le gerarchie ecclesiastiche dei culti ufficialmente riconosciuti).
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Nel fare i conti con il proprio passato, le nuove democrazie hanno cercato di affrontare la questione mediante procedimenti di risanamento della vita pubblica (la cosiddetta lustracija), che miravano alla sanzione del crimine e il risarcimento dei danni materiali e morali alle vittime (transitional justice) 39 . Le esperienze di lustrazione e “decomunistizzazione” sono state tuttavia accomunate dagli stessi problemi e dalle stesse (mancate, incerte, false) risposte. L’invito a «dimenticare e guardare avanti» rivolto, nel settembre 1989, alla società polacca da Tadeusz Mazowiecki e il cinico giudizio della classe politica ungherese postcomunista sul “felice” passato kádáriano si pongono in contraddizione solo apparente con il giustizialismo e le normative di lustrazione istruite in diversi paesi esteuropei 40 . Una commissione di inchiesta bulgara appurò, nel 2007, l’affiliazione agli ex organi di sicurezza di una quota consistente dei ministri dei governi postcomunisti, oltre che del presidente della re-
pubblica, lo storico Georgi Purvanov 41 . Le rivelazioni non ebbero tuttavia alcuna conseguenza sulla carriera del politico socialista. Sin dai primi anni novanta la compenetrazione fra il vecchio e il nuovo potere appare un dato oggettivo non soltanto in Bulgaria, ma in tutta l’area. In Ungheria il primo ministro Péter Medgyessy conservò il posto anche dopo aver ammesso, nel 2002, il proprio status di ufficiale sotto copertura del controspionaggio economico; qualche mese più tardi, l’Unione Europea non sollevò obiezioni sulla nomina a vicedirettore dell’Europol dell’ex capo della polizia László Salgó, già tenente colonnello della polizia politica incaricato di combattere e prevenire «le forze reazionarie interne sul fronte culturale»; mentre la NATO si limitò a corrugare la fronte davanti al curriculum dell’ex direttore dei servizi segreti civili, Sándor Laborc, proposto nel 2008 dal suo governo come responsabile del Comitato speciale per le questioni di sicurezza 42 . La virtuosa gestione tedesca dei nodi più spinosi (le procedure di lustrazione, la gestione dell’archivio della polizia politica della RDT, il risarcimento economico e morale delle vittime) si rivelò inapplicabile laddove l’implosione del regime politico non aveva comportato lo sgretolamento dello Stato. Il minimo di conflitti politici legati al passato comunista si registrò significativamente laddove il postcomunismo coincise con una “rifondazione nazionale” (Slovacchia, Croazia, Slovenia e il Baltico), portata avanti dalle stesse élite che avevano guidato il paese dalla seconda metà degli anni ottanta, mentre il massimo di tensioni caratterizzò i paesi in cui una nuova classe politica tentava di imporsi attraverso provvedimenti di lustrazione (Repubblica Ceca, 1991; Polonia, 1997 e 2005; Romania, 1999 e 2006) 43 .
Secondo molti ex dissidenti e studiosi, la vera forma di giustizia simbolica possibile resta dunque il ricordo, una terapia democratica collettiva cui le società post-totalitarie si affidano per prevenire il ripetersi del crimine 44. Secondo Marta Minow, il ricordo può sostituirsi a forme di “giustizia retroattiva” 45, in quanto «il mancato ricordo da parte di una collettività dell’ingiustizia e della crudeltà costituisce una violazione etica» 46. Nell’Europa orientale postcomunista il confronto civile con i regimi totalitari succedutisi dalla fine degli anni trenta al 1989 è stato tuttavia sostituito da una bulimia di memorie contrapposte. Musei e mausolei, statue e targhe commemorative marcano ovunque una presa di distanza collettiva da un passato da condannare. È difficile stupirsi del fatto che, a vent’anni dal cambiamento politico, il ruolo della memoria sembra entrare in una fase di
ripensamento. Paragonando l’Europa orientale postcomunista alla Germania uscita dal nazionalsocialismo o alla Spagna democratica del dopo Franco, che ricostruirono il tessuto democratico sulla rimozione e l’amnesia prima che sul ricordo, Tony Judt lancia un avvertimento sul quale riflettere:
La memoria è, per sua stessa natura, polemica e faziosa: il riconoscimento di un uomo significa l’omissione di un altro. Ed è anche una guida mediocre per orientarsi nel passato. L’Europa dell’immediato dopoguerra è stata costruita e si è fondata su una deliberata distorsione della memoria, sull’oblio come stile di vita. Dopo il 1989, è stata invece riedificata su un eccesso compensativo di memoria: una rammemorazione pubblica istituzionalizzata come pilastro fondante dell’identità collettiva. La prima non ha potuto durare a lungo, ma anche la seconda non è destinata a durare molto di più. Un certo grado di omissione e persino di oblio è presupposto essenziale per la salute civica 47 .
La nostalgia del recente passato rappresenta un visibile pendant alla nuova memoria pubblica anticomunista e rimane un fenomeno diffuso in molti Stati dell’Europa orientale, raggiungendo il suo picco in alcune repubbliche postsovietiche (Ucraina, Moldavia) e in Romania. Qui, oltre un terzo della popolazione, senza apprezzabili differenze generazionali, ritiene la propria condizione personale peggiorata dal 1989 anche rispetto alla dittatura di Ceau¸sescu 48 . Nell’ex RDT il rimpianto assume le forme elegiache di una Ostalgie diretta verso una patria forse poco amata, ma cancellata troppo brutalmente dalle mappe geografiche con tutta la sua storia e le sue consuetudini 49 . Nell’ex Jugoslavia, dove al censimento del 1981 oltre un milione di cittadini dicharò di appartenere, soprattutto in territori multietnici come Bosnia e Vojvodina, alla «nazionalità jugoslava», il rimpianto per la scomparsa del socialismo assume le forme della “jugonostalgia” antinazionalista, nutrendosi del culto di Tito e del movimento partigiano. Un passato ideale viene trasmesso in forme mitologizzanti attraverso migliaia di prodotti letterari e cinematografici destinati soprattutto ai giovani, mentre alcuni simboli del vecchio regime e del modo di vita passato divengono reliquie e oggetto di merchandising turistico 50. L’Ostalgie nasconde, tuttavia, una trappola interpretativa. Salvo sparute minoranze di nostalgici, il rimpianto del comunismo resta un sentimento intermittente e altamente selettivo. In molti il passare del tempo ha addolcito il ricordo della giovinezza perduta ed evoca il conforto di un mondo non governato dalla logi-
ca del profitto, ma nessuna persona di buon senso potrebbe mai rimpiangere le angherie quotidiane della polizia segreta, i rituali ideologici, gli anni di attesa per ottenere un passaporto, o una Trabant, le code per la carne o il latte all’alba, o le vacanze scolastiche trascorse nei campi a raccogliere patate.
Che cosa è possibile fare, dunque, per gestire il fardello di un passato complessivamente poco glorioso? La cosa migliore resta probabilmente studiarlo. Nell’ultimo ventennio in Europa orientale si è consumata una rivoluzione archivistica senza precedenti per profondità e ampiezza. Con tempi e modalità diversi, l’accesso alle fonti più riservate relative ai decenni della dittatura (fino dunque al 1989) è divenuto possibile non soltanto nella ex RDT, dove il processo è stato agevolato dalla dissoluzione della Stasi e in seguito dell’apparato statale, ma anche nel resto del blocco sovietico; oltre che in diverse ex repubbliche sovietiche come i paesi baltici e, più recentemente, l’Ucraina 51. Sebbene non sia mancato l’utilizzo strumentale di tali fonti a fini di ricatto politico ed economico, nella stragrande maggioranza dei casi i privati cittadini si sono accontentati di fruire del proprio diritto all’informazione, mentre i ricercatori hanno tentato di trasformare una massa di indiscrezioni, pettegolezzi, vere e false notizie di reato, malevolenza e miseria umana in una nuova narrativa storica del proprio paese che intrecciasse le vicende pubbliche già note agli specialisti con la montagna di nuovi dati che emergevano dagli archivi 52 .
Quello che si continua a definire in Occidente «studio dei dossier», quando non «caccia alle streghe», sta diventando nell’Europa orientale una specializzazione accademica che non si limita più all’approccio vittimologico, allo studio di singoli casi di repressione o alla compilazione di liste di informatori e ufficiali, ma tenta di rileggere la storia del blocco sovietico e dei suoi singoli elementi attraverso la lente delle carte riservate prodotte dai servizi di sicurezza interni e dallo spionaggio. Convegni e seminari internazionali affrontano le tradizionali tematiche della guerra fredda ma dalla prospettiva degli alleati minori dell’Unione Sovietica, analizzano i rapporti fra lo Stato e la società nei quarant’anni del socialismo reale, discutono il ruolo di coordinamento delle strutture informative sovietiche impiantate dopo il 1945 nei paesi occupati e le strategie adottate dal Patto di Varsavia negli anni sessanta e settanta rispetto al disarmo, al rinnovamento cattolico e all’influenza della religione, al problema della dissidenza, al terrorismo internazionale.