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Rivoluzioni democratiche e “Stati falliti”

nata un attore politico ed economico di primo livello, gli Stati dell’Europa orientale seguono un indirizzo fortemente pragmatico, dichiarandosi interessati a ogni nuova condotta transcontinentale, in attesa di capire quale dei due progetti in competizione avrà la meglio (Nabucco, sostenuto dall’UE, o South Stream, appoggiato dalla Russia). Un altro problema, ereditato anch’esso dal periodo socialista, riguarda il ritardo infrastrutturale, che rappresenta un freno allo sviluppo di paesi in cui alla motorizzazione di massa non è seguito alcun potenziamento della logistica dei trasporti. A tutt’oggi, la rete autostradale dei 20 paesi dell’Europa orientale non raggiunge neppure l’estensione complessiva di quella italiana (circa 7.000 km), con una densità massima in Slovenia, Croazia e Ungheria, dove notevoli investimenti sono stati effettuati soprattutto negli ultimi dieci anni, e minima in Romania, Bulgaria e Bosnia, mentre Ucraina e Belarus non possiedono collegamenti autostradali a norma europea. Il trasporto su rotaia versa in condizioni ancora peggiori: a est di Vienna, Berlino e Venezia, gli orari ferroviari rimandano al tempo della Belle Époque, quando tuttavia i convogli internazionali garantivano puntualità e servizi impeccabili.

Rivoluzioni democratiche e “Stati falliti”

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Ancora nella seconda metà degli anni novanta, numerosi Stati esteuropei erano classificati dagli organismi internazionali come democrazie imperfette o addirittura sistemi semiautoritari. Pur conservando un impianto politico pluralistico, la Croazia di Tud–man, la Serbia di Miloˇsevi´c, la Romania di Iliescu, la Slovacchia di Meˇciar, l’Ucraina di Kuˇcma, la Belarus di Lukaˇsenko, l’Albania di Berisha e Nano, o la Moldova di Lucinschi erano Stati in cui un potere eccessivo si concentrava nelle mani dell’esecutivo e l’opposizione era severamente intimidita dagli apparati di sicurezza, mentre i suoi esponenti si vedevano negato l’accesso ai media ufficiali. Il quadro è significativamente cambiato nell’ultimo decennio. Gli standard giuridici imposti dall’UE hanno contribuito alla democratizzazione, mentre sul piano interno il ricambio generazionale e soprattutto la diffusione universale delle nuove tecnologie hanno interrotto il precedente monopolio statale sull’informazione.

La trasformazione più eclatante nella qualità del proprio sistema democratico l’hanno attraversata i paesi del Baltico, in cui la questione delle minoranze russe continua a giocare un ruolo politico ma non sembra poter destabilizzare l’equilibrio democratico, e soprattutto la

Slovacchia. Esclusa negli anni novanta dalla ristretta élite centro-europea (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria), percorsa da tensioni nazionaliste e anche per questo respinta nel 1997 dall’allargamento UE e NATO, Bratislava ha compiuto un imponente progresso economico e politico 17. Oggi è membro di entrambe le alleanze e i suoi cittadini utilizzano l’euro (unico paese dell’Europa orientale, insieme alla Slovenia e all’Estonia), mentre il suo reddito pro capite si è avvicinato a quello della media europea, pur tra importanti squilibri regionali (la capitale è ormai considerata un sobborgo di Vienna, mentre la parte orientale del paese è piagata da povertà, disoccupazione e conflitti etnici). La Slovacchia mostra come una buona governance conservi il suo valore anche in un mondo globalizzato. Nonostante la difficile eredità sociale e psicologica del conflitto ex jugoslavo, i successori del presidente croato Tud–man hanno realizzato un’impresa per molti versi simile a quella slovacca: riportare un paese impoverito e screditato sui binari dell’integrazione europea.

I casi ungherese, romeno e bulgaro provano, al contrario, come esecutivi corrotti e inefficienti possano vanificare gli effetti positivi dell’integrazione europea. In Romania, la crisi di competenza e legittimità attraversa l’élite “democratica” (opposta ai postcomunisti di Iliescu) sin dalla vittoria presidenziale di Emil Constantinescu che, nel novembre 1996, segnò l’inizio della vera transizione politica. I governi succedutisi fra il 1997 e il 2000, pur guidati da sinceri democratici, si rivelarono incompetenti e litigiosi; nel novembre 2000, il disastro economico e sociale indusse la popolazione a rivolgersi nuovamente al partito postcomunista e ai nazionalisti. L’unico momento di modernizzazione e progresso economico tuttora percepito come un successo collettivo resta, a venti anni dalla caduta del regime di Ceau¸sescu, il governo socialdemocratico di Adrian N˘astase (2000-04), guidato da una concezione autoritaria e clientelare delle politiche pubbliche ma in grado, almeno, di far marciare la macchina dello Stato.

È difficile giudicare l’impatto sociale delle rivoluzioni colorate avvenute nei paesi oggetto di questo volume (Serbia, 2000; Ucraina, 2004; Moldova, 2009). Il modello sembra avere funzionato laddove i “nuclei rivoluzionari” (in Serbia, il movimento Otpor – Resistenza) giunsero a godere di un vasto consenso popolare determinato non solo dal sostegno economico e logistico dell’Occidente, riconosciuto dalle stesse parti in causa, ma anche dalla prospettiva di un’integrazione euro-atlantica e di uscita dall’isolazionismo autoritario. In Serbia, la destituzione di Miloˇsevi´c e la svolta politica non avevano alternative, dopo dieci anni di guerra e la perdita di fatto del Kosovo. In

Ucraina e Moldova, al contrario, le proteste di piazza e i movimenti intellettuali non tennero sufficientemente conto di tre fattori correlati: la parallela fragilità dello Stato e della cosiddetta società civile, il mancato sostegno europeo e la forza persistente dell’influenza che Mosca esercita, a partire dalla prima presidenza Putin, sul proprio “estero vicino” 18. La pessima prova offerta nel 2005-09 dagli esecutivi del composito fronte filo-occidentale guidato dal presidente Viktor Juˇscenko ha reso ampiamente prevedibile, nel febbraio 2010, il trionfale (e trasparente) ritorno del filorusso Viktor Yanukovych. Ancora più di quello romeno, il caso ucraino sembra rivelare che in diverse zone dell’Europa orientale manca tuttora un’alternativa politica credibile a sistemi politici caratterizzati da un deficit democratico ma percepiti, da molti elettori, come gli unici in grado di preservare un minimo grado di coesione sociale.

In Ucraina, Moldova e soprattutto Bosnia-Erzegovina, occorre interrogarsi sulle vie d’uscita dal fallimento di entità statali rivelatesi incapaci di funzionare. In Ucraina, il conflitto ucraino-russo resta per ora confinato alla sfera identitaria, senza rischi immediati di secessione da parte delle regioni industriali del Sud-Est. In Moldova, le fratture etnolinguistiche tra romeni, popolazioni slave (soprattutto russi e ucraini) e altre minoranze (gagauzi) sono state aggravate dalle velleità di unione con la Romania del presidente ad interim Mihai Ghimpu. Dal 2009 Bucarest sta tentando di disinnescare tali aspirazioni attraverso la concessione agevolata della cittadinanza romena, che interessa soprattutto i giovani cui il passaporto romeno consente di spostarsi liberamente 19. L’ostacolo più grave all’avvio di un’integrazione europea del paese più povero del continente, il cui PIL pro capite è pari a un quinto di quello romeno e a un decimo della media dei paesi dell’UE, resta tuttavia la secessione di fatto della Transnistria, un problema la cui soluzione non pare all’ordine del giorno.

In Bosnia, la situazione politica e sociale fa invece intravvedere la possibilità di una disgregazione statale e di ulteriori scontri armati. Gli accordi di Dayton hanno creato una struttura burocratica complessa e costosa, il cui funzionamento assorbe oltre la metà del bilancio statale e soffoca l’economia, senza porre i presupposti istituzionali per la trasformazione della Bosnia-Erzegovina da protettorato dell’ONU a entità statale funzionante. Le cause sono diverse: l’assenza di garanzie precise sul ritorno dei rifugiati e sulla punizione dei criminali di guerra; il fallimento di una politica di assistenza umanitaria condotta con criteri clientelari; il persistere di tensioni etnoreligiose. Infine, a quindici anni dalla fine del conflitto la situazione socioeconomica resta disastrosa, con una disoccu-

pazione ufficiale a quasi il 50% solo in parte alleviata dal lavoro nero e dalle rimesse degli emigrati. La Bosnia resta un mosaico di entità politico-territoriali non integrate, sottoposte a un duplice richiamo dall’esterno. Nella Republika Sprska molti possiedono il passaporto serbo, divenuto prezioso dopo che, dal primo gennaio 2010, l’UE ha abolito l’obbligo di visto per i cittadini provenienti dalla Serbia. Qui la presenza dello Stato bosniaco è ridotta a un simulacro.

Persino la prospettiva dell’adesione all’Unione Europea, peraltro assai remota, perde appetibilità in un paese dove il problema principale è tenere insieme due Stati separati in casa, l’esercito è diviso in tronconi su base etnica, così come le strutture governative e gli apparati di sicurezza. Secondo il sociologo Darragh Farrell, la Bosnia-Erzegovina è caduta vittima, oltre che delle proprie contraddizioni interne, del tentativo occidentale di trasformare l’interventismo umanitario in un laboratorio politico liberale e “centralista” che educasse i suoi cittadini alla tolleranza e al rifiuto del nazionalismo. L’insicurezza collettiva e l’assenza di una sfera politica alternativa credibile (la “jugonostalgia” non è una risposta politica coerente) hanno prevedibilmente dirottato la quasi totalità dei voti sulle formazioni etniche di riferimento. Il rifiuto europeo a considerare opzioni ormai ampiamente discusse sul campo, come la secessione pacifica della Republika Sprska o la revisione della Costituzione in senso decentralizzatore, potrebbe avere conseguenze simili alla sterile difesa della Jugoslavia unita nel 1990-91 20 .

La Belarus, indipendente dal 1991 e guidata a partire dal 1994 da Aleksander Lukaˇsenko, rappresenta un caso peculiare. A differenza di altri Stati, Minsk ha mantenuto profondi legami economici e politici con il mondo postsovietico. Dal 1995 il russo è divenuto la seconda lingua ufficiale del paese. Agronomo di formazione, entrato in politica dopo il crollo dell’URSS ed eletto presidente nel 1994 (45% al primo turno, 80% al secondo) sulla base di un programma antiprivatizzazione e di lotta alla corruzione, Lukaˇsenko continua a dominare la scena politica del paese: è stato rieletto nel 2001 e (previe modifiche costituzionali per consentire ulteriori mandati) nel 2006 e nel 2010. Nella prima occasione, il presidente ha ottenuto l’82,6% dei voti, un dato contestato dall’OSCE e dalle associazioni in difesa dei diritti umani 21. Alla successiva tornata elettorale (19 dicembre 2010), Lukaˇsenko è stato ufficialmente accreditato al 79,7%. La proclamazione del risultato ha tuttavia scatenato ampie e rumorose proteste di piazza, stroncate con la forza dalla polizia.

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