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La gamba storta

di Maria Colella

Quale dolce mela che su alto ramo rosseggia, alta sul più alto; la dimenticarono i coglitori; no, non fu dimenticata: invano tentarono raggiungerla.

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(fr. 105a Voigt)

Aveva notato il modo in cui zoppicava quasi per caso.

Lei e T. stavano passeggiando per la campagna del paese, parlando di scuola, di libri e di canzoni famose in quel momento (un folk americano che entrambe ascoltavano per ore), quando il suo sguardo era finito sulla piega delle gambe di lei. Il cinguettio degli uccelli era un canto dolce, si rifletteva negli occhi neri di T. dando a lei che la guardava una sensazione di singolare struggimento. Tutt'intorno, la campagna si apriva in campi di tabacco, facendo eco al rumore insistente delle macchine agricole.

Loro due camminavano verso la strada, in silenzio, con le mani nelle tasche.

Lei e T. si erano accordate per una passeggiata nei campi; erano giorni di vacanza, e lei aveva aspettato l’ora dell’appuntamento con insolita impazienza. Incontrarsi da sole aveva sempre avuto il sapore di un frutto troppo maturo, ma l’attesa di quei momenti era diventata col tempo dolce, graffiante: si sentiva spossata di fronte a T., con il fiato corto di una corsa infinita.

Vedendola avvicinarsi in lontananza, aveva assaporato per un po’ una sensazione di sazietà: T. aveva i capelli neri e corti, dritti sulle spalle, la sua om- bra si apriva in riverberi sotto il sole pomeridiano, come fosse uno spirito. L’aveva guardata con un sorriso timido che aveva fatto abbassare lo sguardo anche a lei; poi aveva posato gli occhi sul suo ginocchio sinistro, rosso di cicatrici, scoperto dai pantaloni tagliati.

Il cuore le si era dilatato, colandole nello stomaco.

Quella era stata la prima volta in cui si era resa conto di guardare T. con un desiderio che non riconosceva. Sentiva il richiamo a prendere con la forza una parte di lei che le apparteneva di diritto, un comando cieco che non capiva fino in fondo: le era stato rubato qualcosa a cui non sapeva dare un nome e lei ora lo voleva indietro da T.

Non glielo aveva detto, né lo aveva detto a sé stessa; si era solo lasciata andare al loro fitto chiacchierare, finché T. non aveva svoltato in uno dei frutteti, facendole segno di fermarsi. Il sole era basso, forte e obliquo, T. traspirava dalla fronte e dalle narici: le era sembrata un animale in agonia, l’aveva guardata con tenerezza e impotenza.

«Mi trasferirò in città la prossima estate», aveva finalmente detto T., con gli occhi socchiusi fissi sui piedi, la fronte aggrottata a ricordare qualcosa.

Lei non aveva capito subito il significato di quelle parole.

Spostando lo sguardo verso i canali di scolo, si era invece chiesta se anche in lei non ci fosse una parte nascosta di T. da restituirle in qualche modo, se T. riuscisse a sentire con quanta forza battesse il suo cuore, un tappeto impolverato contro una ringhiera. Si era tesa e di nuovo si era ritratta, sentiva i muscoli punti da una scossa: la notizia non l’aveva sconvolta, aveva solo un vertiginoso vuoto allo sto- maco.

«I miei genitori dicono che c’è una scuola migliore», T. parlava all’aria, sottraendosi al suo sguardo per girare in tondo fra gli alberi.

Seguendo il passo di T., si erano avvicinate ad una fila di casupole, strusciando pigramente le mani contro i tronchi e le siepi di oleandro: i campi erano freschi, c’erano vestiti stesi al sole ad asciugare e nell’aria l’odore della ruggine, delle fette di pigna zuccherata che le donne mangiavano sedute nei loro portoni.

Si sorprese a cogliere tutti i rumori di quella vita che continuava: al paese non importava nulla di T., non si sentiva offeso dal suo abbandono, né dalla sua grazia estranea alla terra.

«Come fai a sapere che è migliore?» aveva chiesto allora lei, guardandola diffidente, assottigliando gli occhi al sole.

Mentre lo diceva, pensava che quello che rivoleva indietro da T. fosse un segreto del mondo che solo lei sembrava conoscere. Lo intuiva anche lei, quel segreto, quando ascoltava gli alberi frusciare, quando si fermava in mezzo alla campagna nera di ritorno da una festa e si lasciava inghiottire dal buio del silenzio. Era un segreto che era nato con lei, ma di cui si era presto dimenticata, lasciandolo indietro in una pelle ormai vecchia.

T. invece no, non dimenticava: conservava dentro il mondo, che era per lei una roccia marina da cui cavare granchi, in una pesca paziente e ostinata.

Si era chiesta come avrebbe fatto senza di lei: la sua presenza era un richiamo continuo, la punta di un coltello che solletica la gola, qualcosa di pauroso e inevitabile. A lei bastava sentirlo per tremare, per sperare con tutta sé stessa di non ricordare mai. Eppure fare a meno di T. sembrava ora un’ipotesi disastrosa, era gettare in malora tutta la bellezza che avesse mai visto.

«Lo so e basta», aveva detto T., riprendendo a camminare dritto, cogliendo le spighe che crescevano ai lati della strada.

Se T. se ne fosse andata, sarebbe andato via anche quello strano desiderio, la sua bizzarra simpatia, le sue parole astruse e tenere, disseminate nei discorsi come gemme preziose.

Tanto meglio che se ne vada, aveva pensato.

Lei e T. erano figlie di quel luogo nascosto, figlie del paese: chiese arroccate, campi bruciati, poveri zappatori di terra. Erano nate nello stesso ospedale, dalle mani della stessa donna. Le loro nonne si erano odiate, incrociandosi nelle domeniche di festa. Ma T. era sempre stata una ragazzina per bene, dritta nel grembiule nero di scuola: per lei c’erano stati giochi nuovi, attenzioni, complimenti. Lei in- vece era già troppo cresciuta alla soglia dell'adolescenza, gli uomini la guardavano con insistenza e volgarità.

Nella gara fra lei e T., non c’era speranza. Tanto meglio.

Nel sole del pomeriggio, T. aveva continuato ad incedere nello stesso modo noncurante di quando erano bambine.

Aveva preso a raccontare della futura scuola, delle gite in bicicletta, del mare vicino che avrebbe visto ogni volta che ne avesse avuto voglia. Era un flusso senza fine; bravissima ad intrecciare parole per gli adulti, passava inosservata ai suoi coetanei. Parlava con la voce degli antichi poemi: era la giovane abbandonata su lidi lontani, l’eroe che torna sempre in vita, era la donna innamorata, il veggente senza volto, la favorita di tutti.

Solo i tratti del viso, col tempo, erano cambiati: si erano irrigiditi, la pelle olivastra le si era riempita di brufoli di cui si vergognava. Le aveva confidato di voler diventare invisibile, di non voler essere nient’altro che parole. Ma lei la vedeva. Invidiosa ed incantata, non aveva distolto lo sguardo da T. e dalla sua gamba altalenante.

Scoppiava di vita e di una voglia brutale, che nessuno, tranne lei, sentiva.

«La tua gamba sinistra è storta» aveva detto allora lei, improvvisamente, vergognandosi subito del sollievo di quella cattiveria.

Le era sembrata un’urgenza farglielo notare, tirare fuori da lei una stortura per ferirla. Sapeva anche lei i segreti del mondo, li sentiva muoversi dentro T.: erano pesci impazziti nel buio pesto dei suoi silenzi, guizzavano via dagli spazi angusti delle sue logiche parole. Voleva dimostrarglielo.

«Cosa?»

Mentre la chiesa suonava i rintocchi della messa, erano arrivate al limitare del paese, dove i campi finivano e iniziavano i rumori delle trebbiatrici. T. sembrava sconvolta, si era fermata di colpo, come per negare a sé stessa la verità del suo corpo. Ho solo detto la verità, aveva pensato lei, facendole segno che era ora di andare. E mentre T. riprendeva a camminare in silenzio, lei si era ricordata che non fosse la migliore e nemmeno l’unica: aveva una gamba storta. Quel malessere del cuore era tornato e se n’era andato con l’eco delle campane.

«Non ci hai mai fatto caso? Hai una gamba più corta dell’altra.»

T. aveva continuato ad avere gli occhi spenti per tutto il resto del pomeriggio. La sua pelle, squamata dal sole, sembrava fredda, tradiva un turbamento che conosceva solo lei. Si era impercettibilmente allontanata, offesa nell’orgoglio, raccontando della città con meno convinzione, per non farle vedere che qualcosa si era spezzato.

Erano tornate a casa poggiando le mani contro i muri bianchi, in silenzio, non osando guardarsi.

Era stata quella l’ultima volta che lei e T. si erano perse in chiacchiere innocenti, custodendo insieme il fuoco delicato che cresceva nei loro mondi: al rientro a scuola non si erano più rivolte la parola. Era stato un tacito accordo di fine.

Tornando con la mente al pomeriggio di vacanza, allo sguardo rotto di T., lei aveva pensato solo che la gamba storta era stata un sasso che infrange il vetro, che il vero motivo che spinge a ferire chi si ama è il desiderio, profondo come un abisso, di non essere mai lasciati.

Quel desiderio lo sentiva lei, quando si rigirava fra le lenzuola prima di andare a dormire, e lo sentiva anche T., ne era certa: lo sentiva nel fondo dello stomaco, le saliva alla gola, raschiando. E mentre la loro amicizia si perdeva per sempre, lei si ubriacava di quella rottura in solitudine: il sangue le si faceva denso in un miracolo, un filo le partiva dallo stomaco per terminare sotto l’ombelico di T.

Iniziò ad infliggere a T. la trama di angherie a cui non riusciva a dare un senso, guardandola trasformarsi in una martire, con gli occhi confusi di una bestia braccata. Era quello il solo modo che aveva per dirle del suo dolore, per lasciare andare la forza della sua profonda solitudine: odiava T. per il modo in cui ne aveva bisogno, detestava la sua logica brillante, la sua pacata innocenza. Ogni sua parola risuonava ora lontana, come fosse su un altro pianeta, in un’altra città.

«Hai i capelli crespi, perché non rimedi?» le diceva, quando si cambiavano dopo l’ora di corsa al ginnasio.

«Non capisco perché ti ostini a non truccarti, in città ti servirà» le ripeteva all'orecchio quando, a ricreazione, gruppetti di ragazze si univano in cerchio per scambiarsi i rossetti.

L’amore e il dolore sono la stessa cosa, si era detta per giustificarsi, nessuno si accorge della differenza. E se era cattiva a fare del male a T., non riusciva comunque ad impedirlo. In quei rari momenti in cui si parlavano, T. diventava rigida, impreparata, scappava guardandola da lontano con risentimento. Smetteva di recitare la sua parte di eroina. A lei sembrava che fosse sempre stata una persona disonesta, che ingannasse tutti tranne lei, che era riuscita a guardarle dentro, a cavarla fuori dal suo scoglio.

La verità stava in basso, nel fondo delle cose, nella loro intima bruttezza. E lì, in basso, avrebbe voluto trascinare T. con lei.

Tutti sapevano che avevano litigato: al ginnasio non si guardavano, il patto segreto era di studiarsi a vicenda solo quando erano da sole.

Era in quei momenti che scorgeva di sfuggita gli occhi angosciati di T., accesi da una luce che brillava. Non riusciva a non pensare, sempre più insistentemente, che lei e T. dovessero restare legate per sempre: mentre il mondo andava avanti, nessuna delle due avrebbe dovuto allontanarsi troppo.

Sarebbero dovute restare intrecciate, piantate nella terra secca del paese, per sempre.

Ci fu solo una volta, in quei mesi, in cui T. le si era avvicinata. Lei aveva pensato subito che T. era diversa, così sconvolta e disordinata, che era sempre stata un’ipocrita a nascondere quella forza dentro di lei.

Anche tu, come me, sei maledetta avrebbe voluto dirle. Non sei la favorita. Lei era rimasta in silenzio, stringendo le labbra viola per rimescolare il rossetto, calciando i sassi e fissando i ragazzi che facevano rombare i motori.

«Non parliamo più» le aveva detto allora T., con tono piatto, di sfida e timore insieme «è strano.»

Lei, con gli occhi fissi in un punto lontano, mentre l’ultima campanella suonava e gruppi di studenti si dirigevano disordinati verso la strada, aveva solo percepito il terrore di starle vicino, di sentirsi di nuovo schiacciata da lei. Aveva respirato a fondo il sentore delle foglie: sentiva di colpo il peso dei loro segreti, mille squame blu sgusciavano via dal suo silenzio, una nuova pelle era cresciuta e non era riuscita a liberarsene.

«Strano è il modo in cui mi guardi tu.»

Si erano guardate, solo per un secondo, due animali sotto il getto di un faro, prima di essere travolte dal flusso di persone. Gli occhi di T. avevano scagliato una lancia nel suo stomaco, colpendo a fondo.

«Mi fai del male, quando ci parliamo. Ti odio» aveva detto allora T., con le labbra serrate, con la voce spezzata di una frase detta a metà.

«Tu pensi di essere migliore di me, ma mi hai sempre mentito» aveva risposto lei, calma e fredda, stringendo forte la stoffa dei jeans.

Avrebbe potuto spingerla a terra, tirarle uno schiaffo in pieno volto.

Scuoterla, dirle che era una bugiarda, che leggere libri non l’avrebbe portata da nessuna parte, che la scuola di città non le avrebbe insegnato la verità delle cose. Che evitava la vita, la bruttezza del paese, la violenza, il sangue, la morte. Che chiudeva tutto dentro di lei, in una scatola nera, sepolta a fondo. Che sarebbe scappata, dimenticandosi di lei, della campagna secca, dello zucchero della frutta andata a male, e che per questo sarebbe stata per sempre dannata.

Eppure si era limitata ad avvicinarsi, a sfiorarle con le dita una guancia.

L’aveva osservata per un momento, distinguendo con chiarezza le macchie da sole sulla sua fronte, la screpolatura delle labbra: T. era sconcertata e impassibile. Poi, con un gran desiderio di colpirla, aveva steso un braccio in avanti, verso i libri che teneva stretti ai fianchi. Aveva sentito il calore della stoffa del suo maglione.

Si era specchiata nello sguardo sconvolto e arrossato di T.: si era vista forte, implacabile. Aveva visto il vortice dei loro desideri, delle loro storie, delle loro bugie messe insieme.

Poi era corsa dall’altro lato del cortile, sentendo i polmoni pesanti, l’urlo di T. che la chiamava in lontananza, cercando di calmare il respiro, esploso in uno sparo.

Fu quello, fra tutti, il momento a cui lei pensò quando, anni dopo, rivide T. in mezzo alla folla del paese: era stato quello l’istante in cui si erano innescate a vicenda. Si erano legate in una materia viva e lei non era più stata in grado di dimenticarsi di quel sentimento di fine, urgenza e vertigine insieme.

Erano passati anni futili.

T. si era trasferita in città senza salutarla, lasciandole solo un biglietto sotto al banco; lei non le aveva mai risposto, aveva tenuto il biglietto nascosto per anni in un cassetto dell’armadio, tirandolo fuori solo quando voleva avere la conferma che T. avesse pensato davvero quelle cose, brutte e sregolate, vere, incontrollabili. A volte aveva sentito un brivido: si era immaginata alla fine di uno strapiombo, in procinto di buttarsi giù, con T. a guardarla dall’altro lato. Altre volte non aveva sentito niente e se n’era dimenticata dopo poco.

Così era finito il tempo della scuola per lei, scivolando via nel fuoco delle sue fantasticherie: aveva preso a uscire con persone nuove, a leggere di meno e ad ascoltare musica diversa. L’intensità del sentimento per T. era scemata in indifferenza, si era piantata più a fondo nelle sue convinzioni, aveva respinto ogni tentativo di cercarla. Si era sentita spesso sola, senza ammetterlo mai, e a volte, passeggiando per la campagna riarsa, aveva pensato a quando lei e T. erano ragazzine e parlavano degli insegnanti, dei compiti, dei castighi dei genitori.

«Te la ricordi T.? Dicono che lavori per un pezzo grosso» qualcuno le aveva detto una volta, in fila alle poste.

Quell’anno avrebbe compiuto, come lei, ventotto anni.

Lei aveva annuito, ma non aveva detto niente. Ci aveva solo pensato quando, bloccata in autostrada in una mattina di lavoro, era passato un pezzo di folk americano alla radio: allora si era chiesta che cosa facesse, se avesse trovato quello che cercava in città. Si era guardata nello specchietto retrovisore e, invece del suo viso stanco, aveva visto l’espressione indecifrabile di T., nell’ultima volta che si erano parlate. Una studentessa punita, un’adolescente viva, un arco pronto a scoccare la sua freccia nel mondo.

Aveva sperato, con una sensazione di disgusto di sé, di non incontrarla mai più; poi era tornata a pensare a lei con l’intensità di una preghiera, come si fa per tenere lontano il demonio, come si spengono le luci delle candele alla fine di una funzione: con silenzio e reverenza. T. era ancora lo spettro che abitava la campagna, l’ombra tremula e minacciosa, sapeva ancora più cose di lei; ma ormai lei non sapeva che farsene dell’odio, né del desiderio. Era diventata arida, era morta senza rendersene conto.

Si era chiesta solo se anche T. fosse stata delusa, se anche lei avesse conosciuto la sconfitta, la perdita, la noia della vita. Se anche lei avesse dimenticato lo stordimento dei loro pomeriggi insieme.

Quando la rivide, non la riconobbe subito, qualcuno la strattonò per indicargliela: era una Madonna in processione, la vide alta, che troneggiava su un gruppo di persone che ridevano, stretta in un cappotto ampio e scuro. I difetti dell’infanzia erano stati mascherati con dovizia; era sempre stata logica, meticolosa, misurata.

Il tempo non era passato, si era trascinato in avanti permanendo in una cappa, un involucro freddo che le aveva avvolte senza toccarle, senza penetrare a fondo in niente. Lei non si sentiva cambiata, né trasformata. Si sentiva solo trascinata da un'illusione: il vento aveva rimescolato le carte del mazzo, tutto si era mosso tranne lei, che si era ritrovata la stessa mano sfortunata dell’inizio.

«Non ci credo, sei proprio tu» le aveva detto T., avvicinandosi, con due occhi leggeri, frivoli; sem- brava parlasse con una vecchia vicina di casa, con la donna che le aveva venduto la verdura.

Il tempo per lei era passato in modo denso, appiccicoso: chiudendo gli occhi, si era risvegliata già grande, già sfatta, sfinita. Per T. era invece stato una benedizione, la promessa mantenuta dalle storie che aveva sempre raccontato.

«Ho ancora la tua lettera. È la più bella che mi abbiano mai scritto» le aveva detto allora lei, senza riflettere, per cercare di rompere l’incanto.

Sentiva di nuovo la voglia di farle del male, di fare del male a sé stessa: le sembrò che il miracolo non fosse mai cessato, che tutto di lei lottasse per tornare ai pomeriggi in campagna. Mi guardi ancora così, come quando eravamo ragazzine, aveva pensato ciecamente, come se sapessi che in verità ne so più di te. Nascondi alla perfezione quanto ti faccio paura, quanto hai bisogno di me. Ma io vedo i tuoi segreti, sono la parte migliore di te.

T. era andata lontano e aveva pensato, nella sua testa di diamante, cose che lei non riusciva più ad immaginare. Ma sapeva, anche dopo tutti quegli anni, che T. voleva le cose esattamente come le voleva lei: T. era volitiva e cattiva, contorta, crudele. Non era fatta di parole, ma di carne, e lei la vedeva ancora.

Non si dissero nulla, lei fissò T. mentre cercava qualcosa nelle tasche del cappotto con fare impacciato: la vide scuotere la testa, abbassare gli occhi. Poi rivide entrambe, una di fronte all’altra, nel cortile della scuola: rosse in viso, disorientate. Le avrebbe dato uno schiaffo, l’avrebbe spinta a scacciarla via, ad urlare, a tirare fuori i loro segreti più neri. Avrebbe fatto in modo che non morissero dimenticate.

Tornò per un attimo alla rivelazione nello specchietto retrovisore in autostrada, poi di nuovo alle loro passeggiate in primavera.

Non l’aveva fatto: T. era rimasta imbottigliata in sé stessa, rumorosa come una sirena lontana, un’infezione latente.

Pensò, con dolore e sollievo, che non sarebbe più tornata.

«A proposito, la mia gamba sinistra è ancora storta?»

Allora lei sorrise, mentre T. faceva finta di salutare qualcun altro nel via vai della festa, continuando a guardarla, con gli occhi fissi nei suoi, come per una risposta che aveva cercato da sempre.

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