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Stranieri che Viaggio nella produzione di Claudia Durastanti

di Anna Battista

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Il mio primo incontro con Claudia Durastanti è avvenuto qualche estate fa, in una mattina calda e appiccicosa molto simile a quella in cui sto scrivendo adesso. Cominciai a leggere La straniera perché me lo avevano consigliato, perché era stato candidato allo Strega e perché parlava di legami famigliari e dell’amore di cui sono dolorosamente innervati. A lettura conclusa, oltre ad averne apprezzato l’eleganza e la funzionalità formali su cui molti recensori si sarebbero poi dilungati, avrei avuto la sensazione di aver appena mosso i passi nella storia di una persona che non ero io, ma che in qualche modo parlava di me.

Lo stesso senso di estranea familiarità mi avrebbe accompagnata nella lettura di Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra, A Chloe, per le ragioni sbagliate e Cleopatra va in prigione. Prevedibile, certo: i teorici della ricezione saprebbero sviscerare molto meglio di me il meccanismo che conduce il lettore a immedesimarsi in ciò che legge, ma nel caso della produzione di Durastanti l’impressione di riconoscibilità è ben lungi dal risultare didascalica, e per diverse ragioni.

I romanzi di Durastanti sono estremamente diversi gli uni dagli altri. Viaggiano nel tempo - attraversano un pezzo di storia americana del Novecento, raccontano i primi anni Duemila o abbracciano la cronologia di un’esistenza dagli anni Ottanta alla contemporaneità – e non restano mai a lungo nello stesso posto, spostandosi da una New York luminosa e crudele alla periferia romana, da piccole realtà della Basilicata alla Londra fumosa degli anni Novanta, da Brooklyn a Roma. I personaggi che li popolano, compresi quelli più strenuamente autobiografici, sono affetti da un malessere invisibile che li spinge a spostarsi compulsivamente, o si

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