
6 minute read
Schirato:
Questo mese con Palin affronteremo il tema del viaggio. I suoi lavori sono fortemente legati a questa tematica: grazie al suo lavoro lei è sempre in movimento. Partirei, quindi, da una sua definizione personale di viaggio e perché ha scelto di svolgere la professione di fotoreporter.
Mi viene da citare una frase di Fabrizio De André che in una sua canzone dice «per la stessa ragione del viaggio, viaggiare», che credo mi rappresenti abbastanza. La meta indica dove si va, dove si arriva, è tutto quello che puoi andare a vedere, ma è il viaggio che caratterizza quello che vuoi raccontare, per lo meno per me. È il mentre succedono le cose, non la visione finale dell’arrivo da qualche parte. C’è da dire anche che non mi interessa il viaggio fine a sé stesso: mi interessa sempre per un’idea da raccontare, per cui il viaggio è un mezzo che ti fa arrivare in un luogo nel quale trovi, infine, la tua storia. Il viaggio, poi, non è proprio il motivo per cui faccio questo mestiere. Il motivo è perché ho urgenza di raccontare le vite delle persone umane, denunciare le cose che mi indignano.
Advertisement

Nelle sue fotografie traspare l’urgenza di mettere a fuoco delle problematiche drammaticamente attuali, dalle tragedie dei migranti, all’aria che respiriamo (nel suo lavoro, Terra Mala) e che uccide lentamente le persone, fino all’emergenza climatica. La fotografia può essere considerata come strumento di verità e di denuncia?
Assolutamente sì. A mio parere esistono due livelli di fotografia. Esiste una fotografia più documentativa, che definirei “superficiale”. Senza nulla togliere a chi la fa, perché anch’essa ha importanza: diventa urgente per una news, ad esempio, un fotografo di news che viene mandato da una testata giornalistica per raccontare un fatto, qualcosa che sta accadendo. Dall’altro lato c’è quella che preferisco: un tipo di fotografia più interpretativa che racconta in maniera più approfondita quanto è accaduto. Sono di quei fotografi che, a differenza dei giornali che se ne vanno dalla notizia, vogliono approfondire quanto è successo, ti fanno fare delle domande, ti fanno prendere coscienza veramente di un avvenimento. Al giorno d’oggi siamo abituati a guardare così tante cose contemporaneamente, vedere immagini anche strazianti davanti alla televisione, che non ci colpisce più nulla, siamo impermeabili. Mentre quando c’è qualcuno che riesce a penetrare profondamente in una tematica, la gente che si imbatte in un lavoro del genere, così approfondito, ha la possibilità di cambiare la propria coscienza o farsi delle domande. È quello che io in qualche modo cerco di raggiungere.

Mi rendo conto che ormai siamo assuefatti da notizie che parlano di rotte nel Medio Oriente, dal Nord africa, di scafisti e vittime, e quest’anno ce ne sono state diverse: la strage di Cutro, pochi giorni fa l’ennesimo naufragio a Pylos, che è stato definito dalla commissaria UE per gli Affari Interni, Ylva Johansson, «la tragedia più grande nel Mediterraneo». Lei soprattutto ha svolto un lavoro importante sulla rotta Balcanica. Ci parli di questo progetto.
È nato per esigenza di andare a vedere con i miei occhi quello che stava accadendo, che era un’emigrazione epocale, come lo è anche adesso in realtà. Però, nel 2015-2016 era la prima volta che si parlava dell’emigrazione di siriani, afghani e iracheni in maniera così epocale. Con la guerra in Siria ci fu questa emigrazione di massa e, infatti, la rotta balcanica è nata in quegli anni lì. Poi c’è stata l’Ungheria che aveva chiuso il muro, per cui i migranti erano stati spostati in Croazia. Quando sono partito non avevo nessun tipo di giornale che mi aveva dato un assegnato, nessuna motivazione economica. Ma dentro di me, dentro il mio cuore, sentivo una ragione molto forte, che mi ha spinto ad andare a vedere con i miei occhi cosa stesse accadendo. Anche perché devo dire, avendo tre figli, ho incominciato a pensare che questa cosa l’avrebbero studiata. La Storia passava a cinquecento chilometri da casa mia; ho preso la macchina e sono andato a vedere, per cui ho investito del denaro per andare io stesso a rendermi conto. Una volta lì, mi sono trovato in una situazione veramente straziante di 8.000-10.000 migranti buttati in una stazione per terra che aspettavano questi treni e, come spesso accade, inizi a scattare senza farti domande. Ho fatto tantissime fotografie finché, a un certo punto, due giorni dopo passano questi treni speciali per l’Austria e per la Germania. La stazione rimane vuota e io inizio a entrare in crisi, mi chiedo: aspetto che arrivino i prossimi migranti oppure vado in Grecia, alla foce? Per cui entro in una sorta di crisi esistenziale e inizio a riguardare le fotografie che avevo fatto, e non ce n’era manco una che mi aveva colpito, ne avevo scattate più di 2.000 e mi chiedo perché non ci fosse una fotografia buona, come mai non ero riuscito ad ‘entrare’. La risposta è stata a Lesbo, quando ho deciso di andare in Grecia. Ho preso l’aereo e sono andato sull’isola greca dove arrivavano queste barche e mi sono imbattuto in una situazione molto forte. Ho incontrato una bambina che scendeva dalla barca, avrà avuto forse undici, dodici anni, piangeva e tremava dal freddo. Mi colpì quella scena, ero pronto a scattare ma, quando ho messo l’occhio nell’obiettivo, ho riconosciuto mia figlia. Sono entrato in una sorta di breakdown: non sono riuscito a scattare.

Mi sono messo a piangere e non sono riuscito ad andare avanti. Questa scena mi ha fatto capire che io dovevo dare un nome a queste persone. Quella bambina, poi, l’ho fermata, le ho dato la mia giacca, ho saputo che aveva perso i genitori e per me quella bambina si chiamava Sofia. Così ho capito che dovevo dare un nome alle persone, dovevo fermarle, dovevo chiedere da dove venivano, perché se ne andavano, dove erano diretti, i loro sogni. Da quel momento in poi il mio lavoro è decollato, nel momento in cui ho compreso che questi migranti non erano ‘i migranti’ ma erano delle persone con dei nomi, delle storie. E da quel momento in poi è nato questo lavoro. Sono ritornato lì varie volte, poi la Caritas mi ha finanziato e ne ha fatto una mostra. L’allora presidente della Camera Boldrini l’ha vista e ha deciso di portarla alla Camera dei deputati. Ha avuto una grossa eco. Nel momento in cui sono riuscito a dargli un nome, a far uscire delle persone da una massa indistinta di migranti, che spesso un nome non ce l’hanno, mi sono reso conto che cercavo delle storie. Forse la mia storia, in qualche modo.

In particolar modo mi ha colpito l’ultima foto, quella dei palmi attaccati al vetro del finestrino, il particolare del viso del giovane che sorride, un sorriso di speranza. Ho visto proprio una scintilla di voglia di vivere.Il desiderio di vivere che accomuna tutti noi esseri umani. Non esistono esseri umani di serie A o di serie B.
Assolutamente
Come diceva lei prima li chiamiamo ‘migranti’ ma sono ‘persone’.

Tornando alla mostra, il titolo è One way only. Senza voltarci indietro. Secondo lei, le persone si stanno veramente interessando a non lasciare indietro nessuno? Mi ha detto che ha avuto molti riscontri a livello istituzionale. Attualmente vede che la situazione sta cambiando, oppure siamo rimasti indietro?
È una domanda complessa. Considero che la cosa sia molto peggiorata. Spesso qualcuno dovrebbe fare un’esperienza di dieci minuti, entrarvici, fare in modo di pensare che potrebbe essere lui o lei al posto loro. Certo, all’interno di queste persone che partono, che migrano, ci sono delinquenti, come ci sono delinquenti in Italia, persone che scappano per vari motivi, ci sono scafisti, ci sono anche persone deprecabili. Però ci sono persone che vanno via perché la situazione nel loro paese è terrificante; ma in realtà nessuno se ne vorrebbe andare. Quando sono morti i bambini a Cutro, leggevo sui vari social questa frase che mi ha colpito: «nessun genitore sano di mente metterebbe un figlio in una barca con il timore che non arriverebbe mai alla meta». In fondo è vero. Io sono genitore, nessuno lo farebbe mai se non ci fosse un bisogno profondo di cambiare vita e di andare da un’altra parte. Io penso che le cose stiano peggiorando, si è esacerbata la questione dell’accoglienza e stanno limitando ancora di più, anche un po’ in base al colore della pelle. Sì, l’accoglienza nei confronti di chi scappa c’è, esiste, ma non ho contezza di numeri, quindi, è un pour parler il mio.

Io adesso sto realizzando il terzo capitolo di Terra Mala in Veneto, sto “scandagliando lo scandalo”, scusa il gioco di parole, dell’inquinamento dell’acqua che è una cosa incredibile. Ormai sono sei, sette mesi che vado in Veneto per cercare di raccontare questa storia. Mentre dal punto di vista internazionale sto lavorando a un progetto sui “Virus Hunters”, cacciatori di virus, per cui dovrò andare in Africa almeno un paio di volte, ma è abbastanza in fieri, sto ancora cercando dei contatti.


Stefano Schirato nasce a Bologna nel 1974, dove si laurea in Scienze Politiche.
Lavora come fotografo freelance con un attento interesse sui temi sociali da più di 20 anni. Collabora con diverse riviste, associazioni e ONG quali Emergency, Caritas Internationalis, AVSI, ICMC, con le quali ha partecipato a progetti sui diritti umani, crisi dei rifugiati e immigrazione clandestina.
Il suo lavoro è stato pubblicato dal New York Times, CNN, Newsweek Japan, Al-Jazeera, Vanity Fair, Le Figaro, Geo International, Burnmagazine, National Geographic, L’Espresso.
Ha diversi progetti in corso in Russia, Europa dell’Est, Africa ed India.
Dal 2014 insegna fotogiornalismo per la scuola Mood Photography, di cui è socio fondatore. Insegna fotografia anche alla Leica Akademie.
