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conosco.
muovono stando fermi, lasciando che i vagabondaggi del pensiero sostituiscano quelli del corpo, o esistono staticamente, pedine di un gioco crudele che li costringe in una durevole casella di partenza. Tutti infelici a modo loro, ma estranei a ciò che li circonda: e forse è questo che li accomuna e che li rende simili a noi.
L’aggettivo “straniero”, nella sua accezione comune, indica un gruppo di persone, cose, lingue appartenenti a un altro paese; secondo il vocabolario il suo secondo significato più in uso è “estraneo”, “esterno”. È un termine che utilizziamo continuamente, spesso in riferimento a ciò che sembra diverso da noi, senza interrogarci mai davvero su quanto in realtà ci descriva. Siamo endemicamente stranieri, protagonisti di una realtà che ci sembra precostituita e uguale a sé stessa finché non ci scontriamo con quella altrui; lo siamo sempre per gli altri, talvolta lo siamo per noi stessi. E i personaggi di Durastanti – fors’anche perché quello letterario è il territorio deputato al racconto del diverso – ce lo ricordano continuamente: sono stranieri che conosciamo.
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A permeare i racconti delle loro vite c’è un senso di alterità che dice molto della nostra generazione, e anche di quella della stessa Durastanti. È nascosto in A Chloe, per le ragioni sbagliate, nei tentativi disperati di Chloe e Mark di salvarsi a vicenda, convinti che l’essenza profonda dell’amore risieda nell’annullarsi nell’altro augurandosi che uno dei due ne esca vivo o viva; si accovaccia nei pensieri di Jane, che per sua stessa ammissione si è «formata nella mediocrità» e vive nel terrore di non riuscire a liberarsene neanche fuggendo in Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra; segue Caterina/ Cleopatra nelle sue passeggiate per Roma Est, nel- la sua normalità naturalistica e nell’accettazione di una realtà che percepisce estranea ma che sceglie di non ripudiare in Cleopatra va in prigione; vive, e vivendo si moltiplica, nella voce narrante di Durastanti in La straniera, nel racconto della disabilità di sua madre e nella descrizione di realtà altre da noi.
C’è un episodio, in La straniera, che racconta di un regalo di compleanno. La madre di Durastanti, sorda dalla nascita, compie gli anni e qualcuno le regala un walkman. Lei accetta il regalo di buon grado, senza lamentarsi dell’apparente controsenso, e la figlia non capisce, si interroga a lungo sulla reazione della madre, quella contentezza la confonde. Ma poi lo comprende: ascoltare la musica senza che ci sia alcun suono ha perfettamente senso nel suo universo ovattato. Sono i mondi che creiamo a nostra misura per sopravvivere all’estraneità di quello reale, quelli in cui non siamo stranieri, ma stranieri che conosciamo.