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Capitano mio capitano

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Inediti

Inediti

di Filippo Polenchi

Sprofonda dietro le palpebre delle serrande. Orchestra la disposizione degli oggetti sul laminato della cucina. Al mattino, la luce cromata che viene dalle tessere degli avvolgibili illustra il pentolino per il latte, la macchinetta del caffè, il barattolo di lavapiatti sul lavello. Dalle tendine di stoffa e punto-croce vede la piattaforma rialzata del Penny Market, la guglia di Fendi. Prende servizio al supermarket: veste con la divisa tecnica dell’azienda. Usa guanti da lavoro, il marsupio, ripone merce nei sarcofaghi refrigerati del banco-frigo. La sera percorre la strada fino oltre il capannone della Jolly Caffè, attraversa il ponte sul fiume. Qui è tutta proliferazione vegetale, scarto ibrido di linfa e macchina, talea cementizia dentro la muraglia delle acacie: è tutta pianta infestante, erbaccia schiumante. Da qui si accede, salendo sudici scalini, al casello autostradale.

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Di giorno la frontiera è spoglia, spazzata dal vento della diossina, perpetuamente grigia al passaggio delle auto e dei Tir. Di notte, invece, la barriera di luci mette paura: il transito dei fari fa la radiografia al cielo. Stella ha appuntamento con Luigi: è solo, negli uffici smerigliati del Punto Blu, fa il turno di notte. Guardano insieme la Tv, si stendono sulle sdraio che lui ha messo da parte. Al centro del muro di schermi sintonizzati su porzioni d’autostrada, l’emissione terrestre manda stralci di telegiornali. Luigi le dice che lei è carne di angelo. Poi le dice che il rosario che Salvini impugna gliel’ha donato lui; lui direttamente, cioè. Adesso lo bacia, le dice. L’ho baciato anch’io, di conseguenza anche tu stai baciando il Capitano. Ride. Ti piacerebbe se chiamassero anche me, il Capitano? Lo sai che alcuni ragazzi del turno di giorno mi chiamano così, perché sanno che il rosario gliel’ho regalato? Gliel’ho fatto recapitare direttamente, tramite mani fidate. Ti piacerebbe tornare qui anche domani sera? Oltre il sonnifero della notte è l’arrivo dell’estate. Si scatena la battaglia delle irragioni, della de-potenza; il resoconto dell’apatia che si ripete senza aver appreso nulla. È l’obliterazione della linea temporale: rimane l’Evento. Abolito ogni progetto rimane la disgrazia delle folate bollenti, la concrezione vegetale. Dalle paratie del suo ufficio Luigi assiste alle torme di persone che attraversano le autostrade per rifocillarsi oltre le frontiere dei padiglioni, dietro ai vetri, nelle salette d’attesa, vivendo l’ologramma di sé stessi sul divano, stesi a prendersi la misura. Cercano refrigerio nella criogenesi ordinata dei Mall, nella quiete disperata di un cartesianesimo fai-da-te. Anche loro sono carne in purezza, che sbianca nel cielo candeggiato dell’Evento, della paura solenne delle malattie. Non c’è farmacopea del rimedio; persiste l’angelico transito da e verso i parcheggi. Tutto è sorvegliato dal deserto dei capannoni cinesi. Un chiosco ambulante s’ustiona nel parcheggio, all’ombra dell’immane parete color manganese, nella stereofonia rombante della depressione autostradale, fra i vincoli e le tradotte. Là dentro, nell’esilio, la vita essuda sulla piastra, intiepidita dall’asma del ventilatore: quel dettaglio color fagiolo, immemore, calma il sonnambulismo del commercio, la costrizione senza necessità, l’induzione.

Luigi vede tutto questo e di tanto in tanto scatta una fotografia. Vorresti vederle?, le domanda.

A Luigi piace guidare: non sente la fatica della strada, la canicola che si frange in lampi sul parabrezza. Inoltre, Luigi non paga il pedaggio autostradale. È uno dei vantaggi di lavorare per l’Azienda. Ti faccio vedere l’Italia, le dice. Scendono in direzione Roma. Dallo specchietto retrovisore penzola un rosario. Luigi non accende la radio, non fa conversazione, ma è un ottimo guidatore. Lei nota le sue mani salde al volante, le nocche sbiancate dalla pressione, il volto sempre immobile, lo sguardo concentrato sul percorso. Si fermano una volta, in un autogrill con il ponte che attraversa le carreggiate. Stella, col vassoio del self-service in mano, mentre segue Luigi, si ferma al centro del corridoio. Più tardi, quando sono seduti entrambi, sempre in silenzio, a mangiare, lei gli vede il collo: la carne sotto la linea della rasatura è irsuta: una peluria grigionera e setosa, il derma indistruttibile. Gocce di sudore, incendiarie sulla pelle arrossata, gli colano giù per il collo, dentro la Polo turchese. Dopo pranzo riprendono il cammino: stavolta lui accende la radio, su una stazione religiosa, e invita Stella a unirsi nella preghiera. Lei non conosce le parole, perciò muove le labbra con disinvoltura, articolando significanti muti. Luigi esce a Orte: Non andiamo subito a Roma, le dice. L’auto devia verso un paesaggio di grano macerato, verso la frattura rossastra del tramonto: l’aria gocciola, umida e spessa; il cielo è livido, le nuvole gonfie di pioggia non hanno forza; il temporale rimane uno sfondo, carica l’aria di elettricità repressa e di malattia. È la carne frusta del cielo, la strada a doppio senso: le cascine ai lati della statale, le aie con i cani che abbaiano nel doppler del loro transito. L’immobilità del caldo, la sua presenza apodittica fa spavento: non è semplicemente una stagione. Finalmente Luigi svolta e imbocca una delle vie laterali, approdando in un parcheggio sassoso. Nella casa tutti lo conoscono: si scambiano baci, abbracci, dicono che hanno molto pregato per lui. Presenta Stella all’assemblea. Cenano fuori, sotto il portico. Stella non scambia una parola; i gechi sfuggono rapidi alla mira dello sguardo. A tavola parlano di un certo Mario, che non è potuto venire. Dicono che Mario ormai è «cieco» e Stella non capisce se la cecità è una metafora o una menomazione. Alla fine della cena si alza la donna che sedeva a capotavola: è gigantesca, vestita con un prendisole azzurro, colmo di girasoli stampati, la carne bianca che scolma dalle bretelle. Intinge due dita nel piatto vuoto di insalata e incide un’icona sacra sulla fronte di Stella. Lei chiude gli occhi, terrorizzata: sente scivolargli sul naso una goccia di olio, che la donna le raccoglie prima che cada. A occhi chiusi sente il coro degli astanti che dice: Benvenuta sorella. Porterai tu il nuovo rosario al Capitano?

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