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Seconda sfida: il welfare culturale

di Emmanuele Curti archeologo e manager culturale

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Abbiamo bisogno di un nuovo welfare culturale, capace di agire come “legante’” come elemento immaginifico di un nuovo concetto di cittadinanza che se si piega sui modelli esterni (della rigenerazione dei grandi centri urbani) è destinato invece ad accompagnare il lento ed inesorabile spopolamento della regione —

Quando mi è chiesto di descrivere la Basilicata, spesso ricorro ad un’immagine, quella della cartina dei ceppi dialettali italiani: scorrendo le geografie nazionali, si scopre che in re - gioni densamente popolate (il nord ovest per esempio), i ceppi sommano a poche decine. Poi improvvisamente lo sguardo si concentra sulla nostra regione dove, per i ceppi lucani, il conto improvvisante sale a ben 92, su di un’area che linguisticamente va anche oltre i confini istituzionali, ma che corrisponde ad una popolazione all’incirca di 500mila abitanti. Una storia di profondo isolamento, dove evidentemente c’era difficoltà non solo nel comunicare (e muoversi) fra paese e paese, ma anche nel relazionarsi verso gli altri sud: la Basilicata è anche l’unica regione che si affaccia sul mare e che, a parte il suo sbocco tirrenico, non ha porti naturali e non ha avuto, fin dalle colonie greche, uno sbocco verso l’esterno, sempre mediato dalle regioni circostanti. Questa suo essere “riserva” ha fatto sì che proprio in queste terre si sua sviluppata l’antropologia italiana, a partire dai famosi lavori di Ernesto De Martino, così come è stata oggetto della nuova sociologia degli anni ’50, con il famoso lavoro di Edward C. Banfield nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society.

E poi i tentativi, come in altre aree italiane, di sradicare completamente questo quadro, e trasformare questa società arcaico contadino nel nuovo mito del cittadino operaio, in particolare con il nuovo progetto della Val Basento di Enrico Mattei. E in tutto questo, rimanere l’unica regione del Sud non interessata da un suo fenomeno mafioso — sebbene circondata e interessata da fenomeni di infiltrazione di ‘ndrangheta, camorra e

Sacra Corona Unita —, proprio forse per la difficoltà stessa di una realtà organizzata criminale a “conquistare” una regione così povera e frammentata. Una veloce premessa per capire lo sforzo immane che questo pezzo d’Italia ha fatto a partire dalla seconda metà del 900 per adeguarsi non solo al boom economico della nuova Italia post bellica, partendo da una situazione “altra” per rispondere anche alle nuove sfide che l’Italia repubblicana si poneva nell’affrontare la questione meridionale.

La storia stessa di Matera, dall’essere vergogna nazionale negli anni 50 a divenire con gli stessi Sassi spopolati prima sito Unesco e poi meta per eccellenza di un nuovo turismo, racconta in breve la corsa accelerata, spesso non armonica, a cui questa terra è stata costretta.

Oggi ci troviamo di fronte ad una situazione non facile, in cui dobbiamo prendere atto, nel discutere della questione sociale e di nuovo possibili modelli di welfare culturale, che siamo di fronte ad una dimensione sociale scossa, frammentata, incapace spesso di offrire visioni in particolare alle generazioni più giovani.

L’impresa di Matera-Basilicata Capitale europea della cultura per il 2019 era partita proprio da questa consapevolezza: essere una terra non particolarmente famosa per essere luogo di produzione culturale, proprio per la sua configurazione abitativa di piccoli centri, spesso nati negli alvei del latifondo, in cui forte si sentiva l’assenza di una classe borghese, enzima for- te delle trasformazioni culturali.

Il lavoro pressante che la fondazione ha fatto nel lavorare sulle comunità — non solo materana, ma distribuite sul territorio — partiva proprio dal postulare che un’azione di welfare culturale fosse necessaria per rigenerare un senso di sé in relazione con lo spazio abitato: si doveva ripartire da un nuovo vocabolario, dalla co-costruzione di nuove parole per reinventarsi, se vogliamo, non solo un senso di appartenenza, ma una vera e propria rideclinazione della dimensione sociale

L’esperienza di Matera

Capitale europea della cultura si basata su processi di produzione comunitari purtroppo ben presto purtroppo si è esaurita

Il merito di quella operazione, che nel 2013, al momento della candidatura, molte e molti pensavano impossibile, era proprio quello di affermare l’importanza del processo di lavoro culturale, prima ancora della produzione culturale; non importava portare in scena opera teatrali, musicali, ecc., ma far sì che il processo di produzione diventasse elemento di crescita della comunità stessa, trasformando improbabili spettatori in attori invece di cambiamento.

La corsa nell’anno 2019 si è poi spenta purtroppo subito dopo, per una serie di ragioni: il Covid sicuramente ha influito, ma forse poi è diventata una scusa, in particolare per una classe politica — unica “comunità” in cui il processo culturale non era riuscito a lavorare — che non aveva colto le visioni, le scosse, le possibilità che erano emerse. La vera grande scommessa era di trasformare quel processo oltre la sua dimensione limitata dell’anno (il 2019) e lavorare fin da subito, nel “silenzio” del Covid, a co-progettare il futuro in una dimensione diversa. Ripensarsi in quel prosieguo significava trovare nuovi modelli che potessero rispondere alle sollecitazione espresse, ri-immaginandosi ad esempio come fondazione di comunità, secondo modelli nuovi, dando linfa alle dinamiche accese, ai corti circuiti generati, generando nuove relazioni del mondo delle imprese sociali con quello della scena creativa. Voleva dire investire su modelli di ricerca che si interrogassero profondamente, dopo la sperimentazione messa in atto, di come perfezionare nuovi modelli rispetto proprio alla peculiarità di questa Basilicata, con nuove forme dell’abitare, del costruire insieme, del sentirsi comunità. Abbiamo bisogno oggi di un nuovo welfare culturale, capace di agire come “legante” come elemento immaginifico di un nuovo concetto di cittadinanza — che se si piega sui modelli esterni (della rigenerazione dei grandi centri urbani) è

Dobbiamo uscire da un’idea vecchia di welfare sociale che soffoca quei pochi tentativi di sviluppare coop e imprese sociali culturali destinato invece ad accompagnare il lento ed inesorabile spopolamento della regione,

Per fare questo dobbiamo agire secondo modelli di governance orizzontale, dove una fondazione di comunità a base culturale (bella sfida per la Fondazione Con il Sud) permetterebbe di essere laboratorio dinamico anche nelle relazioni fra aree diverse del Terzo settore (ancora oggi fortemente sbilanciati su di un’idea vecchia di welfare sociale che ancora soffoca i pochi tentativi di imprese/cooperative sociali che lavorano nel settore culturale), per un welfare sociale e culturale che sappia sfidare anche il tema del lavoro, ponendolo al centro di temi quali quelli dei legami comunitari, dei processi partecipativi.

La cultura, lasciando le nicchie del passato, deve saper riaffermarsi come strumento indispensabile di ridefinizione di sé, di nuova relazione con i luoghi che abitiamo, di esercizio quotidiano di ricerca di benessere; di spazio di riflessione perché non si sia più “spettatori”, ma co-autori del cambiamento.

In questo un ruolo fondamentale lo ha anche l’università della Basilicata, presenza preziosa in queste terre, in particolare perché si è sempre contraddistinta per essere la prima università italiana nel dare prime lauree in famiglia, a sottolineare il suo ruolo cruciale nel trasformare la società. Ma di fronte alla crisi generale del sistema accademico — che nei tempi dell’internet non sa forse adeguatamente rispondere ai nuovi mec- canismi di accesso al sapere — dovremmo, proprio in Basilicata, capire come riformulare una presenza che faccia della terza missione (dopo ricerca e formazione) il vero e proprio elemento trasversale di azione sociale: promuoverla a prima missione con l’esigenza di essere parimenti, oltre che luogo di eccellenza di ricerca, laboratorio al servizio di modelli sociali come quelli lucani (e non solo). Dovremmo dunque fare di questa terra un nuovo laboratorio per andare oltre un “pensiero meridiano” che si è ossidato, e che ha bisogno di nuove linfe, anche secondo le spinte immaginative e generative che Guglielmo Minervini ci ha lasciato in eredità.

Dovremmo abbandonare pensieri di “resilienza” (termine che purtroppo in bocca alla politica diventa una scusa per lasciare al privato l’onore dell’iniziativa, dimenticando la responsabilità dell’azione pubblica), per ritessere un senso di cura “arcaico”, alimentando anche forme di residenza temporanea, in luoghi che attraggono persone che fuggono dai rumori e l’anonimato delle grandi città.

L’essere piccoli diverrebbe elemento di forza rispetto ad una nuova idea di welfare sociale/culturale — dove la cultura ti allena a nuove parole, codici, relazioni — per parlare una lingua, rispettosa delle sue declinazioni in ceppi diversi, ma capace di rifondare una relazione con la terra che abitiamo.

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