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Chi è il banchiere italiano, anzi livornese, che ebbe notevoli profitti per aver aiutato “mezza recchia”?

Mimmo bafurno

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la favoletta che mille scalcagnati vestiti di rosso partirono da Quarto, un paesino vicino Genova per andare a liberare l’Italia, con a capo “mezza recchia” Garibaldi (gli fu tagliata in Sud America, ed è la pena che spetta ai ladri di cavalli) non regge più, perfino un pinguino al Polo Sud vi riderebbe in faccia se gli raccontate questa storiellina, gli unici a crederci sono gli italioti. Oltre all’aiuto dell’Inghilterra che scortò le due navi pirate e che permisero lo sbarco a Marsala, “Mezza Recchia” fu anche aiutato da un banchiere italiano, anzi livornese che risponde al nome di Adriano lemmi. Adriano Lemmi fu un fedele mazziniano, e fu coinvolto nel fallito tentativo mazziniano a Milano del 6 febbraio 1853 e, per sottrarsi alle conseguenze, scappò in Svizzera, e successivamente a Costantinopoli, rimanendo sempre in contatto con Mazzini. Nel 1857 Lemmi finanziò la spedizione di Carlo Pisacane. Nel 1860 insieme al banchiere e cognato Pietro Augusto Adami, anch’egli di Livorno, fondò la ditta Adami e Lemmi cui Garibaldi a napoli accordò la

concessione della rete ferroviaria nel mezzogiorno

ed anche del monopolio dei tabacchi. La domanda sorge spontanea: ma se non avessero aiutato economicamente “Mezza Recchia” come potevano essere accordate a loro tali concessioni? Le quali furono,dopo molti contrasti, confermate anche dal Regno d’Italia. Poco tempo dopo il governo sabaudo neocostituito, revocata la convenzione, trasferiva l’atto concessorio alla Società Vittorio Emanuele (a capitale prevalentemente francese); ma i successivi avvenimenti videro poi l’intrecciarsi di iniziative di banchieri francesi ed infine di una società creata dal conte Bastogi (di questo personaggiuccio ne parleremo nei prossimi numeri) che aveva fondato la Società Italiana per le strade ferrate meridionali. Adami e Lemmi furono cassieri del mazziniano Partito d’Azione cui Garibaldi aveva aperto le porte del Sud. Una Commissione Parlamentare d’inchiesta, promossa nel 1892 dai deputati Imbriani e da Achille Plebano, accusò Lemmi di aver concluso illegalmente un contratto a lui intestato, a danno dell’erario statale. Francesco Crispi rigettò l’inchiesta e vietò l’esposizione dei documenti, mentre gli atti parlamentari erano ormai stati divulgati dalla stampa cattolica e non. Lo scandalo dei tabacchi e il processo di Marsiglia lesero gravemente l’immagine pubblica e la credibilità morale del corpo massonico italiano, inducendo Lemmi ad attivarsi in un programma di discorsi e comizi in tutta Italia per recuperare il terreno perduto nelle masse. Lemmi, in quanto massone fu dunque salvato dal “fratello” Francesco Crispi. Durante la sua carriera massonica Lemmi riuscì a riunificare, sotto il labaro del Grande Oriente d’Italia, tutte le obbedienze massoniche italiane che, per varie vicissitudini, erano rimaste sino ad allora autonome. Il gran maestro inoltre riassestò le finanze del G.O.I. Intuì l’importanza di avere a propria disposizione una loggia “coperta”, nella quale far confluire i massoni più influenti della finanza e dell’editoria. La linea d’azione di Lemmi, molto attento alla conquista del potere, è stata più volte accostata alla “filosofia” che un secolo più tardi ha ispirato Licio Gelli. Fortemente laicista e anticattolico, di Lemmi resta famosa la dichiarazione: “La scomparsa del potere temporale dei papi è il più memorabile avvenimento del mondo”. La permanenza di Lemmi ai vertici della massoneria coincide con la guida del governo italiano di Francesco Crispi. Lemmi e Crispi furono legati da stretta amicizia e comunanza nelle scelte politiche domestiche ed internazionali. All’interno della massoneria, dopo il 1896, anno della caduta dell’amico Crispi, gli restò unicamente la carica di sovrano gran commendatore del rito scozzese, che conservò fino alla morte, avvenuta nel 1906.

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