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ANNA MARIA CITTADINI CIPRÌ
L'8 SETTEMBRE E LA SICILIA
La notizia della cessazione delle ostilità col nemico di ieri non poteva destare particolare stupore sulla popolazione siciliana che, stremata dai bombardamenti e dalle condizioni disperate, aveva già accettato, e di buon grado, l'occupazione del proprio territorio da parte delle truppe anglo-americane e l'insediamento dell'A.M.G.O.T. (Allied Military Government of occupied territories) nella città di Palermo. In questa occasione non si ebbero, quindi, le deliranti esplosioni di allegria con le quali i siciliani avevano accolto l'arrivo degli Alleati. Non mancarono, comunque, mapifestazioni di entusiasmo, in seguito alla diffusione della notizia. A proposito delle quali il Gayre scrive nel suo diario: «To-night Italy has capitulated. The Italian waiters in the mess (being an Anglo-American and not an English mess it has no army orderlies) danced for joy and went nearly mad. Children, despite the curfew, marched the streets beating tins and drums and shouting with glee. Dr. Thompson and I were surrounded by them in the Via Libertà. This must mean the move, in the near future, of AMGOT headquarters to Italy» (1).
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In sostanza, come si rileva dal brano del Gayre, 1'8 settembre non aveva provocato altro che epidermiche ed ingenue reazioni popolari, peraltro assai modeste, con le quali, probabilmente, alcuni camerieri italiani dei club alleati e un gruppo di ragazzi avevano voluto guadagnarsi la simpatia degli Alleati.
Quando dunque, all'indomani dell'8 settembre, Sicilia Liberata, il quotidiano controllato dal P.W.B. (Psychological
Warfare Branch) (2), dispiegò sulle sue colonne, in italiano e in inglese, i proclami di Eisenhower e di Badoglio, i lettori siciliani acco lsero con indifferenza una notizia che, in realtà, non li riguardava più, dal momento che la «liberazione» (mettiamo pure le virgolette a · questa parola), in Sicilia era già un fatto compiuto (3). Trapelava, ad ogni modo, da alcuni articoli, che commentavano l'avvenimento sullo stesso giornale, la precisa intenzione dell'A.M.G.O .T. di mobilitare la popolazione siciliana, coinvolgendola nel programma di liberazione del territorio nazionale dai tedeschi. A tal fine si sottolineava l'ormai acquisita posizione egemonica degli Alleati, che non lasciava dubbi sull'esito positivo dell'impresa. Ma gli ambigui Messaggi del Re e di Badoglio (4) apparsi su Sicilia Liberata, offrirono, indubbiamente, un'occasione di rinvigorimento delle posizioni antimonarchiche, assunte con decisione, sin dall'entrata degli Americani a Palermo, dai rappresentanti dei ricostituiti partiti politici.
Non mi soffermerò, a questo punto, sulle reazioni manifestate da tutti i partiti politici siciliani (mi limito a ricordare che il periodico democristiano L'Unità di Alessi dovette sospendere, almeno ufficialmente, le pubblicazioni, per ordine delle autorità alleate, colpite dalla violenza di un articolo che attaccava il «vergognoso» armistizio), dal momento che tale operazione è stata già ampiamente compiuta da Massimo Ganci e da altri storici (5); ma porrò l'attenzione sui rapporti intercorrenti tra il Governo Militare Alleato e due formazioni antagoniste, e cioè il M.I.S. (Movimento per l'Indipendenza Siciliana) e il
(2) Sul P. W .B. e, in generale, sulla presenza degli Alleati in Sicilia, vedi Lamberto Mercuri, La Sicilia e gli Alleati, in L'Italia fra Tedeschi e Alleati, Il Mulino, Bologna, 1973.
(3) Sull'argomento, vedi, Salvo Di Matteo, Anni Roventi, Denaro, Palermo, 1967, p. 125; Sicilia Liberata, n. 34, 9 settembre 1943.
(4) Sicilia L iberata, n. 38, 13 settembre 1943. Sulle notizie relative ali' Armistizio, presentate dal giornale dell 'A. M .G .O. T., vedi, in Appendice, i docc . n. 1, 2, 3.
(5) Su questo punto, vedi S Massimo Ganci, L'Italia Antimoderata, Guanda, Parma, 1968, passim.; Salvo Di Matteo, Anni Roventi, cit., p. 163.
Partito d'Azione. Attraverso l ' analisi di tali rapporti è possibile, infatti, mettere a fuoco in modo esauriente la realtà politica siciliana di quel periodo.
Un Governo legato al solo nome di Badoglio, senza prestigio e poteri, rappresentava certamente un facile bersaglio sia per la volontà indipendentista di un Finocchiaro Aprile (leader del M.I.S.), pronto a rompere i ponti col Governo centrale, magari per costruirne di nuovi in direzione della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, sia per quella azionista di un Vincenzo Purpura, fondatore, con Antonino Ramirez, del P. d' A. in Sicilia.
I due leader siciliani, a ll eati nella lotta clandestina al fascismo sino al momento dell'arrivo degli Americani a Palermo, avevano già in quell'occasione scoperto le carte , dando inizio ad una polemica che diverrà sempre più accesa. La causa di t ale polemica va ricercata, indubbiamente, nelle di vergenze id eologich e insite nei due partiti che essi rappresentavano , ma il pr etes t o fu offerto concretamente dal fallimento d el piano insurrezionale, concordato tra Purpura e Finocchiaro Aprile (quest'ultimo fu ritenuto dal Purpura responsabile della mancata attuazione del piano), secondo il quale gli Alleati avrebbero dovuto trovare Palermo già liberata e nelle mani di un'amministrazione anti fascista (6).
Sin dal 22 luglio del '43 il volantino del Fronte Unico della Libertà, che salutava negli «Eserciti dell e Nazioni Unite ... la possente forza dell a D emocrazia Mondiale» rappresentava un blocco antifascista e antimonarchico di tutti i partiti, dal P. d' A. a l Partito Liberale, dal quale era escluso il M.1.S . Quest'ultimo, dal canto s u o, in quegli stessi giorni, chiedeva ai «Governi Alleati di consent ire la costituzione di un Governo Provvisorio Sicili ano», dal qua le sarebbe nato l'auspicato «Stato sovrano indipendente democratico a regime repubblicano» (7).
(6) Su questo punto, vedi Anna Maria Cittadini Ciprì, Il Partito d'Azione e la Questione Meridionale, EPOS, Palermo, 1982, pp . 105- 106.
(7) Ibidem, pp 109-110.
A questo proposito occorre precisare che l'indipendentismo siciliano, partito da posizioni repubblicane e democratiche, si andò gradualmente involvendo verso posizioni sempre più conservatrici. All'indipendentismo federativo del M.I.S. si venne sostituendo il separatismo, e cioè quel movimento che voleva il taglio netto con la presunta, futura realtà «bolscevica» dell ' Italia unificata. I rapporti tra M.I.S. e P. d ' A. siciliano, dall'iniziale convergenza, almeno formale , sulle posizioni repubblicane e democratiche, andarono, appunto , progressivamente deteriorandosi, man mano che il separatismo ripiegava su posizioni reazionarie . A proposito del P. d 'A. , viceversa, non va dimenticato che esso mirò sempre, con decisione, al principale obiettivo del proprio programma , costituito dall'inserimento costituzionale ed amministrativo dell ' isola nell'ambito del nuovo Stato democratico italianq, che uomini come Piero Calamandrei venivano elaborando.
In tale contesto, l'Armisti zio dell'8 settembre ha la precisa funzione di acuire i contrasti tra azionismo e separatismo, nei confronti d ei quali il Governo Militare Alleato si destreggia diplomaticamente, cercando di calmare gli ardori repubblicani di entrambi (ovviamente per mantenere la propria posizione filobadogliana), inserendo nelle cariche pubbliche un separatista come Lucio Tasca, un azionista come Antonino Ramirez, ed attutendo le proteste azioniste con concessioni prudenti ed accorte elargizioni.
In una situazione di tal genere è evidente che passava in secondo piano, e si dimostrava velleitaria, la partecipazione armata contro i tedeschi, vagheggiata, subito dopo l'Armistizio , sia dagli azionisti che dai separatisti. Va sottolineato, infatti, che, a prescindere dalla loro comune intenzione di contribuire alla cacciata del nemico con un corpo di volontari (al quale, tra l'altro gli Alleati, assai prudenti nei confronti di forze libere , non direttamente da loro gestite , non avevano dato alcuno spazio), sussisteva, in tutto il suo spessore, una netta differenza di programmi e di obiettivi politici. Nessuna attuazione pra- tica ebbe, in sostanza, di fronte alle necessità belliche, la proposta di cooperazione avanzata dagli indipendentisti a tutti i partiti «al di sopra di ogni ideologia e di ogni programma politico», a nome del popolo siciliano «interessato al trionfo della causa per cui combatte(vano) le Nazioni Unite e ... disposto a contribuire militarmente al trionfo della causa comune» (8). Tra l'altro, una simila prospettiva era, in realtà, ben poco accetta alla popolazione siciliana, assolutamente restia ad una ripresa della guerra. Come siano andate le cose su questo specifico argomento è noto. Ricorderò soltanto che, al momento della ricostituzione del regio esercito, allorchè cominciarono ad arrivare le cartoline di richiamo alle armi, una parte dell'Isola, soprattutto nella zona orientale, insorse. Addirittura si arrivò a proclamare alcune repubbliche locali, come quella di Agira.
A questo punto va rilevato che la decisione presa dal Comitato di Liberazione Nazionale, nell'ottobre del '43, di agire con fermezza «di fronte alla situazione creata dal re e da Badoglio» e di lasciare al popolo, a liberazione avvenuta, la scelta istituzionale, rispecchiava perfettamente le aspirazioni del P. d' A. siciliano, che fondava nella vittoria repubblicana le speranze di una palingenesi della Sicilia. Frattanto, la richiesta, avanzata dagli azionisti, di un immediato passaggio dell'Isola all'amministrazione italiana rifletteva la precisa intenzione di bloccare le manovre reazionarie dei separatisti, insediatisi nei principali organi dell'amministrazione pubblica siciliana, con l'appoggio degli Alleati (9).
Per concludere, desidero sottolineare che l'Armistizio dell'8 settembre innescava il confronto tra le due posizioni ideologiche e politiche che ho esaminato. E mentre l'una, e cioè il separatismo, costituiva pur sempre, come dice Massimo Ganci, nonostante la sua involuzione antidemocratica, «un pugno calato sul tavolo a sottolineare con forza un punto di vista», e cioè la contestazione radicale della vecchia struttura costituzionale derivata dalla soluzione moderata del Risorgimento; l'altra, e cioè il P. d'A., opponeva a questa posizione estremistica che, di fatto, si faceva garante dello statu quo, quella non secessionistica, ma ben più valida, con la quale il problema dell'Isola e di tutto il Mezzogiorno veniva risolto attraverso una nuova struttura costituzionale del Paese che all'accentramento sostituiva l'autonomia regionale di marca democratica.
(8) Ibidem, pp. 113-114; v. anche Salvo Di Matteo, Anni Roventi, cit., pp. 178-179 .
(9) Sull'argomento, vedi Anna Maria Cittadini Ciprì, cit., pp. 115-1 16.
In sostanza, quando Finocchiaro Aprile, sia pure in buona fede, con i suoi discorsi, attaccava il Governo unitario di Badoglio era ad uno Stato sovrano di Sicilia che mirava, ad una Repubblica indipendente, il cui programma economico era imperniato semplicemente sull'industrializzazione e sulla riforma agraria basata sulla cooperazione contadina, sovvenzionata dallo Stato; mentre di ben diversa natura erano le richieste avanzate in Sicilia da Vincenzo Purpura, come quelle relative all'autogoverno locale, alla socializzazione dei grandi complessi finanziari ed industriali, ad una rifo~ma agraria mirante alla redistribuzione della proprietà.
Da tutto ciò nasceva, proprio in Sicilia, quello che diventerà uno dei punti più caratterizzanti della nuova Costituzione, scaturito dai serrati dibattiti della Commissione dei 75, che porterà all'elaborazione giuridica del Titolo V della Costituzione.
L'autonomismo regionale stesso, nella proposta azionista, successivamente accolta, dopo un aspro travaglio, anche dai comunisti, perdeva così le scorie conservatrici del regionismo clericale e si ricollegava alle proposte del cattolicesimo sturziano agitate all'indomani del primo dopoguerra.
Si può, dunque, affermare, in conclusione, che, anche per la Sicilia, 1'8 settembre ha segnato l'inizio di un processo lungo e travagliato, positivamente conclusosi, da ultimo, con la conquista dell'istituto autonomistico.
Appendice
L'Armistizio fra gli Alleati e l'Italia (da «Sicilia Liberata», n. 34, 9 settembre 1943)
L'armistizio firmato oggi è soprattutto un armistizio militare nel senso più esteso della parola e cioè: da oggi le truppe alleate e le truppe italiane della terra, del mare e del cielo, non si combattono più.
Gli italiani non devono dimenticare però le dichiarazioni del Generale Badoglio e del Generale Eisenhower. Il Generale Badoglio, infatti ha detto che l'Italia è fermamente decisa a difendere la sua resa, cioè la libertà di ogni popolo a forgiare da sè il proprio destino; a governarsi da sè; a disporre liberamente del proprio avvenire, e che quindi ogni atto ostile di altre nazioni deve essere respinto a qualunque costo e con qualunque mezzo.
L'allusione del Generale Badoglio mentre è molto esplicita e categorica per quanto riguarda la decisione del governo è altrettanto chiara per quanto riguarda gli eventuali nemici che l'Italia potrebbe incontrare nell'affermazione della sua volontà di essere finalmente libera e indipendente.
Questi nemici altri non potrebbero essere se non i tedeschi.
Gli italiani questa vo lta non hanno nulla da te mere perchè alla decisione di Badoglio si associa la dichiarazione del Generale Eisenhower il quale h a promesso formalmente tutto il forte aiuto Alleato agli italiani che agiranno per scacciare i tedeschi dalla nostra terra. E che l'aiuto Alleato sia potente, decisivo, assolutamente tempestivo in tutte le ore ed in tutti i punti della penisola, si può dedurre facilmente dal fatto che oltre allo sbarco già effettuato in Calabria, gli Alleati, padroni assoluti del mare, possono sbarcare in qualsiasi luogo dell'Italia ed in qualsiasi ora tutte le vo lte che si verificasse la benchè minima resistenza da parte tedesca.
Gli Alleati hanno offerto il loro potente aiuto; Badoglio in nome del governo italiano ha accettato; resta a tutti gli italiani impugnare decisamente le armi per scacciare nel più breve tempo possibile i tedeschi che ci trascinarono in questa guerra.
Come è stato firmato l'armistizio (da «Sicilia Liberata», n. 34, 9 settembre 1943).
Le conversazioni che hanno portato alla conclusione del1' armistizio si sono svolte fra i d elegati anglo-americani e quelli italiani nel più assoluto riserbo.
Con l'approvazione dei Governi Alleati, il Generale Eisenhow er è stato autorizzato a trasmettere ai rappresentanti del Governo italiano le condizioni di armistizio.
Una clausola di esso stabilisce le condizioni militari, economiche e finanziarie che saranno rese note più tardi.
L'armistizio è stato firmato il 3 settembre, ma fu stabilito di accordo che la notizia sarebbe stata resa nota in un momento giudicato opportuno dagli Alleati e che sarebbe stato comunicato contemporaneamente da ambedue le parti.
Uno dei rappresentanti è rimas to in Sicilia, mentre gli altri tornarono a Roma. Oggi, nel pomeriggio alle ore 18,30, il Maresciallo Badoglio ha radiodiffusq un proclama, il cui testo è stato prima trasmesso agli Alleati, come misura precauzionale, per il caso che non fosse stato possibile trasmetterlo da Roma.
Il popolo italiano ha appreso per Radio e con manifestini volanti la notizia dell'armistizio.
Nei manifestini c'è anche scritto fra l'altro:
«Italiani, con la protezione delle Forze Alleate potrete partecipare alla lotta contro Hitler.
Ecco le condizioni che dovete osservare:
1) Appoggiate gli Alleati in tutte le loro imprese, miranti soprattutto a liberarvi dalla schiavitù tedesca.
2) Fate la guerra ai tedeschi rifiutandovi solidalmente di sottomettervi alle loro ingiunzioni e alle loro richieste quali che esse siano.
Operai! La guerra attuale è una guerra di comunicazioni. Chi domina le comunicazioni vince la guerra .
Ferrovieri! Procurate che nessun treno con armati e materiali tedeschi possa passare la frontiera.
Marinai! Procurate che nessuna nave, che porti tedeschi o materiali di ogni genere, possa lasciare i porti italiani.
Lavoratori stradali! Procurate che nessun autocarro trasportante tedeschi possa attraversare le strade d'Italia.
Italiani! Fate ancora un solo sforzo eroico e, nella prossima settimana decisiva, potet e facilita r e agli Alleati il compito di vincere la guerra.
Alzare le bandiere della libertà (da «Sicilia Liberata», n. 35 , 10 settembre 1943)
L'armis t izio chiesto dal Maresciallo Badoglio e accolto dal gen. Eisenhower, con la approvazione dei Governi Alleati è l'ultimo atto della guerra fascista che il popolo italiano non ha voluto e che ha dovuto subire con la violenza militare di un regim e. Oggi non si può fare della St oria. La Storia si farà domani. Oggi è necessario dopo aver salutato con entusiasmo la fine del fascismo, registrare con austerità il nuovo movimento.
La guerra fascista è finita, perchè l'armistizio non può avere oggi altro significato. L'Italia segna a pagine rosse di sangue la strada di questi ultimi anni, di questi ultimi mesi.
Tradita da suoi ex governanti condotta in una guerra che il popolo non sentiva e per la quale non era preparata, dissanguata da una partito che non difese mai la Patria, ma gli interessi dei propri capi, l'Italia sente oggi, nella serenità dei vinti che conoscono il peso morale e materiale della sconfitta, che cosa vuol dire essere stata costretta ad allontanarsi da quegli ideali di libertà e di democrazia, i soli che possano evitare alle Nazioni e agli istituti politici che le governano i fatali passi falsi.
Questa guerra è finita. Idealmente il popolo italiano non l'ha mai fatta: non ha mai creduto questo popolo che gli ingle- si ci affogassero a Suez e Gibilterra, non ha mai creduto che gli americani - Nazione alla quale siamo legati da vincoli di sangue - fossero nostri nemici, non ha mai creduto che la guerra venisse condotta per raggiungere supremi ideali di giustizia. Non ha mai creduto queste cose il popolo: le ha subito con la forza, con la violenza, con l'inganno, dopo essere stato frodato di tutte le sue libertà, di tutti i suoi istituti parlamentari rappresentativi. La logica conclusione è venuta oggi: la guerra fascista è finita .
All'avvenire passerà più che il fatto militare che si perde nelle epoche e nelle pieghe della storia, la criminale azione politica di un regime che senza l'avvedutezza di un uomo come Badoglio, simbolo della tragica sfortuna della Patria, avrebbe potuto mettere a repentaglio la stessa vita secolare della Nazione. Nell'ora drammatica che l'Italia attraversa, mentre le sue Forze Armate cessano le ostilità contro il mai creduto nemico, alzi il popolo il pensiero a Chi cadde per una causa che gli fu detta giusta, per una guerra che si doveva evitare e confidi nell'Onnipresente perchè l'avvenire sia meno duro e meno tristi le vicende future.
Ma alzi in compenso le bandiere della libertà perchè il giogo fascista non poteva cessare senza una sconfitta militare. Se per questa sventurata Ita lia , campo di manovra di un regime di criminali e di im provvisatori, questo momento era necessario, lo si accolga con l'animo dei forti. E giuramento sia fatto che il domani dei nostri figli non sarà più attentato violentato da regimi politici di assassini e di devastatori.
È la vita che ritorna. Seguiamo le vie maestre della nostra Storia, le nostre tradizioni di popolo democratico, rievochiamo i nostri moti e i nostri morti per la libertà.
In questa rievocazione, in questa fede è la sicurezza dell'avvenire.
ROMAIN H. RAINERO
L'ARMISTIZIO ED I PRIGIONIERI DI GUERRA ITALIANI NEL MONDO
Al momento dell'annuncio della conclusione dell'armistizio la situazione generale militare italiana annoverava tra i problemi più gravi ed irrisolti quello dei prigionieri di guerra che erano diventati legioni dopo la chiusura dei due grandi fronti africani, quello dell'Africa Orientale liquidato il 27 novembre 1941 dopo la resa dell'ultimo caposaldo italiano comandato dal gen. Guglielmo Nasi e il fronte dell'Africa settentrionale chiusosi il 13 maggio 1943 con la firma della resa delle superstiti forze italo-tedesche nella regione di Capo Bon, in Tunisia, da parte del comandante supremo generale Giovanni Messe. Questi due grandi campi di battaglia, e soprattutto il secondo che vide lo sforzo militare dell'Asse dall'inizio della guerra italiana fino a quasi tre anni dopo, produssero sia nelle fasi intermedie delle battaglie contrassegnate da due grandi avanzate nell'uno e nell'altro settore culminante rispettivamente con l'occupazione del Somaliland e nella marcia verso il Cairo, sia nella fase finale delle operazioni belliche un numero elevato di prigionieri di guerra. Detentori ne furono dapprima la Gran Bretagna e gli Stati collegati del Commonwealth, e successivamente al novembre 1942, gli Stati Uniti d'America e la stessa Francia rinata sotto le insegne della «France Libre» del gen. De Gaulle. Quanto all'altro grande fronte italiano, quello russo, la situazione si rivelava abbastanza simile anche se minore di ampiezza: infatti va ricordata quale potenza detentrice l'URSS la quale ebbe negli uomini dello CSIR prima e quindi dell' ARMIR ampia occasione di fare prigionieri di guerra italiani. Se questa era a grandi linee la situazione agli inizi di settembre 1943 non si deve credere che neppure allora mancasse- ro problemi relativi ai prigionieri: essi si posero molteplici sia da parte degli stessi ex-militari italiani sia da parte dei detentori alleati quanto al fine ultimo di queste detenzioni, all'uso politico di queste masse deluse e sconfitte ed infine alla sorte ad essi riservata nel quadro di una probabile «liberazione» dell'Italia. Sono tutti problemi che dovranno essere esaminati almeno nelle loro grandi linee ma accanto ad essi va anche ricordato un altro problema che andrà precisato, non certo risolto, e cioè quello della stessa consistenza numerica di questa massa di prigionieri dato che vi sono sostanziali divergenza tra le fonti disponibili.
Se vogliamo però abbraçciare in uno sguardo complessivo il problema che ci siamo posti e cioè quello dei prigionieri di guerra italiani attorno alla data-chiave rappresentata dall'annuncio dell'armistizio non possiamo non ricordare tra le potenze detentrici di prigionieri di guerra italiani la Germania, nuovo detentore di grande importanza nella storia del calvario doloroso di questi militari sia per il numero de i detenuti sia per il tipo di prigionia istaurato. I settori di «cattura» riguardavano solo i tre settori di contatto delle forze armate tedesche con le truppe italiane all'atto dell'armistizio e cioè la Francia meridionale, la regione balcanica e naturalmente l'Italia metropolitana nelle quali le truppe tedesche ebbero modo di compiere sostanziose razzie di militari italiani sbandati nei giorni immediatamente successivi all'8 settembre. Il panorama degli Stati detentori di militari italiani si completa con l'evocaiione di prigionieri nelle mani di Stati balcanici quali la Jugoslavia, l' Albania, la Grecia, la Romania e la Bulgaria.
Infine, ma questa una storia di tutt'altro segno e significato, vanno ricordati i militari internati in Svizzera che continueranno a crescere fino alla fine della seconda guerra mondiale.
Abbiamo accennato al problema della dimensione numerica dei prigionieri italiani in possesso alle var ie potenze detentrici che è il problema che ci poniamo in via preliminare. Vi sono al riguardo delle notevoli divergenze secondo le varie fonti dovute per lo più , sia ai vari criteri con i quali questi elenchi sono stati compilati, sia al periodo al quale si riferiscono. In linea generale si può dire che la data dell'8 settembre è una data estremamente poco significativa per il calcolo del numero dei prigionieri poichè solo sono dati certi quelli relativi ai fronti da tempo liquidati e cioè quello dell'Africa Orientale e quello nordafricano; per il resto dei settori interessati, e sono molti ed importanti, dobbiamo rifarci al 1944 che è una data di relativo consolidamento delle varie masse di prigionieri. In linea preliminare conviene ricordare i dati del Ministero della Difesa a proposito dei tre detentori maggiori e cioè le cifre relative agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna e Commonwealth ed alla «France Libre». Frutto di un ' accurata elaborazione di dati di vari e origini possiamo ritenere che questi dati siano realistici ed a ttendibili. Essi sono i
Abbiamo fatto cenno a dati divergenti; essi sono anch'essi di fonte ufficiale italiana e cioè dell'Alto Commissario per i prigionieri di Guerra gen. Pietro Gazzera che fornì nel giugno 1944 nel suo rapporto redatto per ordine del capo del governo Badoglio per informare il suo successore Bonomi della reale consistenza dei prigionieri di guerra cifre lievemente diverse. Per gli Stati Uniti 90.000 militari; per la Gran Bretagna ed il Commonwealth 360.000 ed infine per la Francia 40.000 prigionieri .
Abbiamo fatto cenno a lievi discrepanze che la relazione Gazzera riporta e che furono ulteriormente allargate dalla relazione del 24 giugno 1947 dello speciale Servizio Prigionieri di Guerra , relazione ufficiale sull'attività svolta fin dalla sua costituzione come Alto Commissariato per i Prigionieri di Guerra fino allo scioglimento del Ministero dell'Assistenza Post-bellica dal qual successivamente prese a dipendere (2); e queste discrepanze sono molto eloquenti sia per quanto riguarda il clima generale sia per la stessa gravità del problema. Rimangono da ricordare le cifre relative agli altri Stati detentori e specialmente dei due maggiori, l'URSS e la Germania. Anche qui, anzi soprattutto qui, le incertezze sono molte e vistose; sia gli uni, sia gli altri non avevano certamente quale prima preoccupazione di contare i propri prigionie r i italiani e molto spesso neppure quella di sottrarli alle dure condizioni generali di vita; proprio per questi motivi le continue fluttuazioni delle presenze non potranno certamente essere ulteriormente chiarite. In Russia si parla di oltre 70.000 prigionieri e nella Germania si parla di 630.000 detenuti nei Lager. Quanto agli Stati balcanici si ritiene che la cifra di 106.678 avanzata da fonte militare italiana sia rappresentativa.
Come si vede da una rapida analisi di queste çifre si tratta di oltre un milione e trecentomila prigionieri di guerra i quali precedentemente catturati, o catturati attorno all'8 settembre, vedono la loro storia ruotare attorno alla data chiave dell'armistizio.
Definiti così a grandi linee la situazione numerica dei prigionieri e la sua evoluzione vale la pena di soffermarci non tanto sulle condizioni di vita e sulle privazioni che questa detenzione provocò nello spirito e nel fisico dei detenuti quanto piuttosto sull'aspetto particolare dei rapporti tra la vita politica e militare generale dell'Italia nell'andamento della guerra e la situazione nei vari campi di prigionieri. Vediamo di definire con l'ausilio di citazioni di specialisti dello studio della condizione di prigionieri e delle memorie dei prigionieri stessi la condizione psicologica generale che la perdita della libertà ed il salto nell'ignoto rappresentato dalla nuova condizione di coatto provocarono nel1' animo dei prigionieri. In genere il subentrare all'attivismo del militare in guerra la quiete avvilente del prigioniero provoca quella che oramai è definita una vera malattia e cio~ la «psicosi del reticolato». Spesso il combattente prigion iero non sa affront are la nuova situazione con la sommaria liquidazione della propria individualità attiva e nell'azione a volte prestigiosa, o quanto meno ritenuta tale, del passato immed iato; e ciò lo porta alla rivolta con propositi di fuga e di rifiuto da attuarsi magari con il suicidio:
« ... Gente che va e viene, che sosta cu ri o sando, ch e ride, che lancia lazzi, insulta. Al di quà noi. I eri ancora vivi e coscienti, oggi ridotti ad automi, a numeri che non hanno più il diritto di pensare, di parlare, di muoversi secondo una propria volontà. Una specie di lento soffocamento progressivo che stringe la gola . Trattengo a stento il bisogno di piangere. Vedo altri a ggirarsi inquieti da un reticolato all'altro, quali animali ingabbiati, quasi volessero convincersi che no, non può essere vero ... » (3).
Spersonalizzati, distinti solo dal numero di matricola ed alla mercè del detentore che spesso ne ab u sa con avvilente derisione del prigioniero i prigionieri paiono molto lontani dall'interessarsi a l seguito di questa guerra ne ll a quale erano parte attiva e magari rilevante fino al giorno prima. Pertanto la prima re azione è quella dell'estrema tristezza per questa nuo va condizione e quindi di estraneità al resto del mondo: «La gente nei campi di prigionia non vive, vegeta o, per dirla con un autore russo, vive al limite della fisio logia » (4). Ed una altra testimonianza:« ... La vita che trascorrevamo era sempre la stessa, monotona ... » (5). Ed un altro ancora: « ... Costretto a vegetare, inutile a sè e agli a ltri ... in pochi metri quadrati di terreno: mille uomini chiusi ad esempio in un rettangolo di trecento metri di lunghezza per centocinquanta di larghezza. Nessuno saprà mai, e il prigioniero restituito alla vita non è in grado di spiegarlo che cosa scientifi came nte sia la «psicosi del retticolato» cioè il lento e progressivo annientarsi dell'intelligenza, scintilla divina in pura e semplice animali tà, sino al vertice infuocato della follia ... » (6).
L'apatia e la perdita crescente di iniziativa in qualsiasi situazione semb r ano le caratteristiche prevalenti dei pr igionieri nella lo ro massa; e le testimonianze di questo progressivo disinteresse nei confronti del resto degli eventi del mondo sono ab bond anti nella memorialistica dei reduci: « ... Perfino degli uomini, che nella vita civile e nelle nostre file avevano semp re dimostrato di essere elementi molto sveg li, pieni di azion e e di coraggio, org ogli osi e s pa vald i , erano caduti in un tale stato di abbattimento da ridursi, anche dal lato morale, completamente a zero ... » (7).
Dopo la grande tensione del combattimento e della guerra guerreggiata la prigionia con il suo immobilismo appare sempre intollerabile : «la tensione del combattimento non può più sostituire le lunghe elucubrazioni, le interminabili assenze del mondo ch e ci circonda; ogni prigioniero si ritrae nel proprio guscio ... » (8). Anche l'interesse p er il mondo affettivo e fami- liare pareva dissiparsi nel nulla: « ... Non pensavo più a casa, non mi interessava più il resto del mondo, era come una cosa che non mi riguardasse dalla quali fo ss i dista ccato per s empr e come quando si lascia una località dove si ha la certezza di non to rnare .. . » (9).
Persino il pensare pare inutile: «Dimenticando tutto e vivendo come un orso non si sentono bisogni morali che non si potrebbero soddisfare» (10). Pers ino i rico rdi non paiono validi riferimenti: « ... lo vedevo di rado il cielo e il filo spin ato, stavo so lo , con gli occhi fissi a r ivivere giornate che sembravano lontane come se non fossero st ate della mia vita ... » (11) .
M a anche a questo riguardo, cioè riguardo all'atteggiamento dei prigionieri nei confronti del mon do esterno e quindi anche della gu erra che continuava senza di loro, gli ex-mili tari italiani subirono in via generale delle alternanze significative a seconda del periodo della cattura e a secondo dell' an damento del conflitto d i cui alla lo ntana avevano echi s offocati. Si può dir e in generale che anche al di là delle situazioni personali certamente grav i vi fos se n el periodo che Churchill chiamò « la loro ora più bella» cioè della massima affermazione bellica dell' Asse, specie nel Nord Africa, un certo tipo di sicurezza quanto alla sorte definiti v a della guerra ed all e s ue scelte di fondo acco mp agnasse il prigioniero di guerra. I nemici erano nemici; l'Ital ia era quella che si conosceva con il Duce ed il Re; ai prigioni eri era toccata una s orte amara ma sapevano abbastanza bene chi od iar e e chi celebrare nel loro cuore. Luigi Pignatelli oss ervò a questo riguardo che «salvo sporadiche eccezioni , latotalità (dei prigionieri) era favorevole alla guerra, ne seguiva gli sviluppi con intenso int eress e e, almeno so t to questo punto di v ista, sarebbe gravem e nte inesatt o dire che non nutr isse s entimenti fascist i e non riponesse la s ua pi ena fiducia in Mu ss olini, attribuendogli v irtù taumaturg iche che gli avrebbero permesso di cog liere la vittoria a l momento stabilito e di restaurare con successo la situazione anche dopo i peggiori rovesci ... » (12). In que sta prima fase gli antifascisti erano pochi ed incerti, che qualcuno ha definiti «le anim e smarrite, incert e» (13). Fino agli ini zi del 1943 anche da parte dei detentori l'azione politica pareva aver p oche probabilità di riuscita; questa azione mira va a creare sul piano immediato la possib ilità di avviare masse di prigionieri verso forme di lavoro e su l piano più lontano a favorire la nascita di mo vimen ti di opinione antifascista avvalendosi spesso anche dell'azione di fuoriuscit i italiani di fede antifascista. Questo per esemp io fu il caso dei prigionieri itali ani nelle mani sovietiche i quali ebbero attraverso l ' azion e dei comuni sti italiani stabilitisi da tempo a Mosca una «voce» ufficiale, cioè un periodico, «L'Alba» che definitosi «organo dei prigionieri italiani in Russia», che li esortava a separare il «loro» caso da quello delle gerarchie fasciste coinvolte nell e responsab il ità della guerra. In generale però sia questa sia altre azioni di tipo politico ideologico non ebbero molto successo. Nei campi di detenzione in Africa come in India ed altrove ogni ricorrenza patriottica serviva da occasione per ritemprare «l'orgog li o na zionale». Ben lo ricorda Ferdinando Bersani: « ... Alle ore 20 commemorazione del Natale di Roma e Festa d el Lavoro. Si cantano gli inni patri. Lo stesso avviene negli altri campi. Movimento insolito di pattuglie inglesi armate che cercano indi viduare chi canta . È la massa ... » (14). Addirittura i campi sono spesso i luoghi nei quali si manifestano gli irrigidimenti ideologici più sever i tra gli stessi prigionieri spess o vittime degli irriducibili fascisti alla ricerca di «colpevoli» e «trad itori » da punire. In attesa della «immancabile vittoria» que sti gruppi di fascisti ebbero spesso la mano lib era sui mo l ti altri inerti o delusi, troppo inerti e troppo delusi per reagir e collettivamente a questi ultimi s oprusi. Nota il Pini al riguardo: «Fra i pochi antifascisti e molte, troppe anime smarrite e indecise, i littori in attività di servizio ebbero cos ì buon gioco e non esitarono a giungere alla sopraffazione est rema: quella cioè di costituire tribunali speciali per registrare accuse e sentenze da portare in patria» (15). Molte testimonianze ce lo confermano:« ... Si riunivano in congreghe notturne e giudicavano fra loro i dissen- zienti: assolvevano, cçndannavano e compilavano strani verbali che nelle loro speranze, dopo l'immancabile vittoria, avrebbero dovuto portare un certo numero dei loro compagni di pena davanti al plotone di esecuzione» (16). E questa è la testimonianza dell'ultimo prefetto di Tripoli, Denti di Pirajno confermata nella sostanza da molti altri, non ultimo, l'ex corrispondente di guerra del «Corriere della Sera» Alfio Berretta costata nelle sue Memorie: «I fascisti dominarono i campi e li tennero in ferrea soggezione. Chi deviava, chi si ribellava era punito e le punizioni consistevano in atti di violenza inumana ... » (17).
Solo se si tiene presente questo clima si possono capire i molti problemi che assillarono anche sul piano interno i campi di prigionia che vivevano queste lotte interne e che talvolta ebbero modo di registrare prese di posizione che rasentavano l'assurdo. Quale il testo di una comunicazione di un «comando italiano» di un campo ad intenzione dei prigionieri:
«La Patria è una, indivisibile: l'Italia Fascista. Parlare oggi di antifascismo equivale accordarsi alla propaganda del nemico. Il nemico tende alla sc issione degli italiani proclamando di far guerra al Regime e non al popolo italiano.
Ormai è bolsa la propaganda nemica.
Per ignoranza si può abboccare.
Per malafede la si può accetttare.
In un campo di prigionieri di guerra non è ammissibile far questioni di Regime.
Il soldato ha combattuto per l'Italia una e fascista.
Un'arma il soldato prigioniero pos siede e deve adoperare: la fede.
Fede schietta che ha un nome: Patria - Italia Fascista.
Fede schietta che ha una forma: Disciplina.
Chi viola comunque la disciplina rende un servizio al nemico» (18).
Un simile documento non è l'unico del genere ma ha il pregio di essere forse l'ultimo di questo tipo ad essere emanato in quanto reca la data del 23 giugno 1943 ed anche se la sede nella quale fu scritto è lontana dai campi di battaglia essendo il campo di Yol in India è in fondo la reazione rabbiosa alle notizie che pur giungev ano delle disfatte delle truppe dell'Asse che avevano chiuso con la disfatta poco più di un mese prima la loro drammatica avventura nel Nord Africa . Difficile quindi pensare ad una efficacia se non limitatissima dei propositi di «defascitizzazione» auspicati dai comandi anglo americani e che uno speciale documento delle autorità britanniche a proposito dei prigionieri italiani ritenevano compito principale della potenza detentrice. Ma questo obiettivo di «produrre un corpo d'italiani addestrati ad assumere la loro parte nella costruzione della nuova Italia» si rivelò a lungo irra ggiungibile vista la situazione nei campi (19). La stessa documentazione britannica ce ne offre la ripro va allorquando le autorità preposte ai campi dovettero codificare la serie dei divieti che nei campi dovevano aver esecuzione, e cioè: a) L'esposizione di ogni forma di: Il fascio, la svastica, il sol levant e, le lettera P .N .F., le bandiere delle nazioni n emiche , immagini di Mussolini e Hitler, distintivi di fascio esclusi i membri di unità fascista, il motto «Me ne frego». b) il portare distintivi di partito che includano uno qualsiasi dei simboli predetti. Questo rion sarà applicato ai distintivi di reparto portati da membri di tali unità. e) indossare la camicia nera sa lvo per coloro che appartenevano a reparti di Milizia, la cui uniforme comprende la cami cia nera. e) La compilazione, distribuzione, firma e possesso di tessere di partito. La compilazione di liste di partito e di li ste nere. d) Le grida e i detti: Viva l'Italia fascista, Viva il Fasc io, Viva il Fascismo, Viva il Duce, Viva Mussolini, Viva l'Asse, Heil Hitler, Banzai; il grido: Duce, Duc e, A noi, eia eia Alalà; il saluto alla voce risposta per Mussolini, il richiamare «Il duce» e la risposta «Evviva» alla fine delle adunate, il canto di Giovinezza, il canto di Deutschland ueber alles, il canto dell'inno giapponese. f) iscrizioni:
Ogni scritta riferita a cose britanniche o alleate o persone precedute dalla lett era «M» (che significa morte) e ogni scritta riferita a cose o persone italiane o di altri paesi nemici precedute da «Evviva» o dal sim bolo W. La scritta «Viva l'Italia», «Viva il Re» è permessa» (20).
Dall 'i n si eme della documentazione raccolta e qui solo in parte citata si può dire che la prima fase può essere ritenuta di sostanziale immobilismo politico dei prigionieri. Un'unica breccia potè aprirsi allorquando da parte di taluni detentori si diede la possibilità di passare dallo st ato di coatt i allo stato di «lavoratore» o come si diceva allora di «cooperante» . Anche in questo caso però l'irrigidimento iniziale fu notevole e l'affermazione riportata dal Pini secondo cui «co lui che in terra britannica fa nasce re anche una so la spiga di grano tradisce il duce e l'Italia» può dare la misura del rifiuto politico opposto a questa evoluzione (21). Altre testimonianze fanno apparire nella sua luce drammatica il problema che peraltro fu risolto dalle truppe dei detentori con provvedimenti autoritari di lavoro coatto. Nel rifiuto stava spesso un ragionamento politico generale di so lidarietà ver so chi era rima sto in pa t ria a combattere quegli stessi nemici che chiedevano il lavoro de l prigioniero: «Ogni passo fuori dal reticolato è un contributo al nemico. Tale affermazione potrà a prima vista sem brare apparente, invece era sostanzial e. Perchè alcuni mi rispondevano, esprimendosi così: ma io vado a raccogliere patate e questo è ammesso dalle leggi internazionali .. . Si, però ... al posto del negro, che raccoglieva patate, ci sei tu ... e forse! ... in Italia, quel negro sta distruggendo o saccheggiando la tua amata casa ... ed ancora di più ... approfitterà dei tuoi cari ... moglie, sorelle, ... figlie ... »(22).
Il problema del lavoro quando non era del tutto coatto ma veniva richiesto dal detentore con spontanea adesione del pri- gioniero suscitò notevoli divisioni tra gli stessi prigionieri. Infatti mentre l'uso autoritario del prigioniero italiano non provocava conseguenze di tipo genera le, l'esprimere una volontà di lavorare , e quindi l'avere la possibilità di rifiutare coinvolgeva il sottoscrittore in un rapporto con il proprio detentor e che andava al di là dello status di prigioniero e lo poneva in una via intermedia verso l'uomo libero; i vari «prigionieri sulla parola» erano forse in quanto tali ed in quanto lavoratori per il «nemico» passati in campo nemico e quindi da ritenersi traditori? La domanda ebbe alterne risposte pratiche fino a quello che ritenuto il documento-chiave nella que sti one e cioè il cosiddetto «accordo di Eldoret» che fu firmato il 27 luglio 1942 dal gen. Guglielmo Nasi con le autorità britanniche nella sua veste di vice-governatore dell'Impero e di ufficiale di più alto grado tra i prigionieri italiani dopo la morte del duca d'Aosta, viceré d'Etiopia (23). In esso ogni prigioni ero veniva lasciato lib ero di accettare o no di lavorare per le autorità inglesi ma venivano legittimati co loro che si impegnavano in tali lavori. L'impegno portava alla «libertà sulla parola» e quindi ad una certa libertà del prigioniero che avrebbe potuto così riprendere una vita che li potesse emancipare da quella «patologia della prigionia» che mortificava tutti e tutti minacciava nel corpo come nello spirito. Anche in questa occasione il risvolto politico appare evidente con un doppio tipo di reazione: di consenso e di rifiuto. «Ognuno che non fosse contaminato dalla fede littori a applaudì al contratto, anche se ad esso non era estranea una convenienza logistica dei padroni di casa. Chi per cuore ed intelletto ri usciva a rendersi co nto del progressivo scadimento fisico e morale cui la lunga prigionia sottoponeva tanti giovani, riusciva altresì ad ammettere che il lavoro in un paese nemico potesse essere di natura tale da mantener si al di fuori d'ogni influenza su lle sorti della propria na zione in guerra ... » (24). Ed era in questo spirito che il gen. Nasi ave va concluso l'accordo; «ho il dovere, disse in un incontro con i prigionieri, di ricondurre in Patria degli uomini ancora validi, non degli sche- letri; quindi sulla base degli accordi intercorsi fra noi ed il comando inglese, uscite tranquilli dai campi, facendo lavori che non siano incompatibili col vostro onore di soldati e di italiani ... »(25). Non fu sempre capito questo atteggiamento e per molti nostalgici fascisti l'accordo di Eldoret era viziato di tradimento e pertanto chi lo sottoscriveva veniva sottoposto all ' ostracismo ed alle violenze di costoro che predicavano la non collaborazione assoluta con il nemico.
Abbiamo voluto accentuare con maggior attenzione a questi problemi non solo perchè si posero ad una quantità notevole di prigionieri italiani (essendo l'eccezione solo la Germania e l'URSS) ma perchè prefiguravano con le loro problematiche i molti problemi che l'evoluzione politica dell'Italia doveva rendere acuti nell'animo di ogni prigioniero militare e civile. Duratura tensione politica, quotidiana difficoltà di rapporti con le autorità detentrici, ignoranza permanente di ogni notizia sulla guerra ed infine assoluta impreparazione ad una corretta vita politica furono tutti elementi che resero in tutti i campi di prigionieri italiani drammatica la situazione all'annuncio della caduta del fascismo in Italia. Il 25 luglio rappresenta a questo livello una vera rivoluzione, una vera mutazione di fondo che sconvolse dalle basi l 'intero edificio sul quale lo sforzo bellico e la stessa sofferenza della prigionia era costruita. «Sebbene, osservò Luigi Pignatelli, molti di noi si andassero convincendo della trag ica situazione militare in cui si trovava il nostro paese e si rendessero conto delle insostenibili responsabilità ricadenti sul fascismo e sul suo capo per aver condotto la nazione alla disfatta, la n<:>tizia della caduta del fascismo giunse ai più inattesa e provocò, tra i prigionieri, reaz ioni assai diverse da quelle che ebbe nel Regno ... »(26). La notizia stessa della caduta del fascismo suscitò addirittura incredulità poichè le stesse sconfitte del!' Asse venivano attribuite alla propaganda nemica, così la caduta del fascismo pareva frutto di un'ennesima manovra di questo tipo. «Insensibili, ormai ed increduli alle bugie di tutte le radio-trasmittenti arrivammo ignari all'ormai famo- so 25 luglio 1943 ... » (27). Le perplessità ed il disorientamento di queste masse di prigionieri alle prese con una nuova realtà furono totali; « ... ed una mattina, scriveva dall'India Alfio Berretta, ritornando dalla conta, sentiamo tutti gli altoparlanti radio istallati da pochi giorni suonare la Marcia reale a non finire e poi gridare che Mussolini non c'è più. Alcuni dicono tradimento, altri meno rp.ale, ritorneremo subito a casa (28).
Il cataclisma politico italiano venne vissuto anche a livello di un vero crollo di ogni punto di riferimento; digiuni com'erano questi ex-militari di tutto ciò che avesse attinenza ai sistemi di democrazia parlamentare ai quali il re pareva voler ritornare con un nuovo «incarico» di governo al mar. Badoglio, la novità venne sentita senza il necessario bagaglio di riferimenti pr ecisi. L ' unico elemento che suonò familiare nel proclama di B adoglio che sigillava questa grande novità fu l'affermazione «la guerra continua» che quindi doveva significare che poco o nulla era cambiato quanto ai rapporti con i detentori: erano ancora nemici. Lo sbandamento vi fu, ma non provocò profon de divisioni tra le masse dei prigionieri. Ce lo conferma, tra gli altri, il Piccini che scrive: « ... il 25 luglio, anche se imprevisto e improvviso, non aveva prodotto divisioni o sbandamenti: era stato accettato da tutti, anche dagli ufficiali della Milizia e dalle Camicie nere che a v evano ubbidito all'ordine di mutare i distintivi dei fasci con le stellette. Si sperò da parte di ognuno "in una più chiara condotta di guerra e rinacque l'estrema fiducia nella buona stella italiana: il famoso Stellone ... » (29). Il riferimento al Re ed al militare chiamato a dirigere il governo, cioè al mar. Badoglio eran elementi di pacificazione degli animi ch e presero solo ad interrogarsi con nuove ansie sul proprio futuro . Da parte loro i detentori mostravano di gradire la caduta del fascismo in Italia anche se nulla o poco parve mutare nei loro atteggiamenti.
Di questi momenti tragici sono documenti coevi e convincenti quanto andavano sc rivendo nei bollettini dei vari campi i prigionieri che dovevano pure rende re conto dello loro scelte e quindi -delle novità italiane. Anche se tali pubblicazioni andavano soggette alle censure relative appare interessante notare che in questo breve periodo dei quarantacinque giorni l'antifascismo non ha difficoltà ad essere affermato e a gettare tra gli ex-militari un certo ponte di unanimità. Tutto ciò appare peraltro sospeso ad un filo che si spezzerà 1'8 settembre con l'annuncio della conclusione dell'armistizio con le Nazioni Unite.
L'annuncio della firma dell'armistizio gettò nei vari microcosmi che erano i vari campi di prigionieri (alcuni dei quali oramai erano di molte diecine di migliaia di uomini) sconcerto, amarezza e disorientamento. L'evento risultava inspiegabile a questi uomini isolati da anni alla realtà italiana. Nelle memorie che registrano questa data questi sentimenti sono evidenti:
«Tutti restammo pallidissimi, senza respiro, increduli. Dicevamo fra noi : È impossibile! ... È propaganda inglese! ... » (30)
«Io non vidi mai piangere soldati in prigionia, ma a Mandera ne vidi parecchi, 1'8 settembre, con le lagrime agli occhi
» (31)
Alcuni ne furono così disorientati che «non seppero risolvere il dramma scoppiato nelle loro anime: videro buio e non riuscirono a trovare una via d'uscita e risolsero la crisi togliendosi la vita: tanti furono trovati impiccati nelle docce e ai lavandini. Altri si piegarono su se stessi, come se dentro si fosse spezzato qualcosa» (32)
« ... Disperatamente soli e isolati dal mondo, senza notizie, letteralmente oppressi dallo schiacciante peso degli avvenimenti, che cadevano su di noi attraverso il gracidante annuncio degli implacabili altoparlanti nemici ... » (33)
«Ogni tanto qualcuno diceva la sua e poneva interrogati vi ai quali nessuno sapeva rispondere» (34).
Anche nella lontana Russia la notizia venne a provocare sussulti e speranze che puntualmente il giornale «ufficiale» dei prigionieri «L'Alba» registrò nelle sue colonne.
Nuova spaccatura tra di essi tra coloro che si mostravano irriducibili nostalgici e quindi nemici dei detentori ad oltranza e coloro che convinti dell'imminenza della fine della guerra e quindi della prigionia si diedero a manifestazioni di euforia e magari di riconciliazione con le autorità dei campi. Passato il momento della novità nulla peraltro mutò nella vita dei prigionieri nei vari campi.
Pochi, troppo pochi ebbero della vicenda una visione costruttiva come la ebbe Luigi Pignatelli che ne seppe capire tutta l'importanza e tutta la portata:
La notizia dell'armistizio giunse come un fulmine a ciel sereno: molti avevano sperato che, eliminate le interferenze politiche, raggiunta fra gli italiani una maggiore concordia nel comune intento e restituito il comando delle forze armate a uomini di sicura esperienza militare e di alto ascendente personale, le sorti delle nostre armi avrebbero potuto volgere al meglio. Ben pochi riu scivano a avere, più per intui zione, certo che per informazione, una visione realistica della cose . Quando la notizia dello armi st izio si diffuse, la verità apparve finalmente tutta intera: coloro che per essere meglio degli altri in grado di valutare la situazione avevano il dovere di illustrarla ai loro compagni, non mancarono di compiere ogni sforzo affinchè la concordia che aveva sempre regnato fra noi non si spezzasse e ognuno comprendesse che il nostro paese, giunto alla catastrofe militare e alla resa a discrezione, si trovava bensì altermine fatale di un cammino di inganni, di errori, di millanteria, di pubblica e privata prepotenza, ma s'era altresì posto all'inizio di una nuova via da percorrere, dall'altra ben diver sa, tanto aspra ed erta quanto profondo il baratro nel quale eravamo precipitati; e che per essere in condizioni di metterci sulla nuova strada, confortati dal se ntimento della conseguita libertà civile, occorreva meditare sugli errori del passato, alleggerire il nostro fardello di non poche utopistiche aspirazioni, compiere tutte le rinunce che la patria ci avrebbe richiesto, riguadagnar e la fiducia dei popoli. Ripetevamo ai nostri compagni di prigio- nia che se la sfortuna ci faceva trovare in quel tormentato momento , lontani dal nostro paese, anche da questa triste condizione potevamo trarre vantaggio, essendo dato più a noi che ai nostri connazionali di volgere, senza preoccupazioni immediate, senza minacce o pressioni, uno sguardo sereno sopra uomini e cose del passato, sopra i doveri nostri del presente, sopra l'avvenire.
Ai più la notizia portò solo sgomento, incredulità ed incertezza anche perchè sul piano concreto l'armistizio segnò l'inizio di disordinate manifestazioni da parte dei prigionieri e soprattutto ad una parve mutare: i prigionieri rimasero prigionieri ed i detentori sembravano acconciarsi a rimanere tali, quasi in eterno. Specie questi ultimi dimostra:r;ono una certa miopia o meglio una mancata politica d i apertura, di generosità che non doveva certo essere solo vista quale generosità vera e propria bensì intelligente uso d~lle occasioni offerte da questi uomini disposti, in questa nuova situazione, a costruire un nuovo avvenire alla loro patria. Invece si verificò ciò che Gabrio Lombardi ha definito con efficace immagine l'anelasticità degli alleati nei confronti degli italiani in generale e dei prigionieri in particolare. Procedure caute e lentezze burocra t iche congelarono, unendosi ad una certa diffidenza, la situazione politica dei prigionieri ai quali la convinzione generale di dover essere presto liberati si accompagnò spesso alla disponibilità di ritornare a combattere sotto le insegne regie questa volta contro i tedeschi che ancora occupavano e violentavano l'Italia. In questa luce il problema che si pose alle coscienze fu impostato in modo dinamico da molti ma l'immobilismo dei detentori non subì la sperata evoluzione. Se a questa situazione si aggiunge un insieme di reazioni sorte dopo la nascita della Repubblica sociale italiana nel Nord si possono avere gli elementi di fondo per capire l'evoluzione della situazione dei prigionieri vittime spesso di un comp lesso d i reazioni a situazioni pregresse ed a mancate evolu zioni. Pertanto la prospettiva prima che le dichiarazioni delle autorità italiane del Regno del Sud avevano fatto sorgere divennero labili e neanche la formale dichiarazione di guerra dell'Italia alla Germania del 13 ottobre venne sostanzialmente a mutare le cose. La cobelligeranza divenne un mito che nei vari campi si tradusse in varie fasi di politicizzazione, più acuta nei campi russi (35), e soprattutto nella famosa divisione tra cooperatori e non cooperatori. Per taluni prigionieri lo stupore di Palermo o di Boscolo erano realtà intangibili quanto ai rapporti con la potenza detentrice: «Come? - si interrogava il primo - sino a pochi giorni or sono gli inglesi erano i nostri aguzzini detentori? ... oggi alleati? ... » (36). Ed il secondo: « ... Anche ammesso che il Re fosse davvero schierato a fianco degli Anglo-americani, come avrei potuto io combattere insieme a loro; e magari contro i tedesc hi che mi avevano liberato dall'accerchiamento dell' Akarit? E, poi, di là c ' erano altri italiani che, sbag liassero o meno, continuavano pur semP.re una guerra che avevamo cominciata insieme ... » (37).
Divisi tra cooperatori e non cooperatori i prigionieri non ebbero grandi conseguenze pratiche nel loro status di fondo che rimase quello di prigionieri di guerra. I primi, i cooperatori, legati ad una dichiarazione che li emancipava da certe limitazioni (38) non ebbero peraltro la cosa che più stava loro a cuore e cioè la prospettiva ravvicinata di tornare a casa inserita come fu la loro opera ad attività locali che non li muoveva di molto dalla regione della precedente forma di prigionia. Per i secondi il dramma si complicava dalle misure di discriminazione che il detentore ritenne di dover adottare nei loro confronti accusandoli di essere «criminali» o «strong fascist» e quindi di essere pericolosi ad ogni effetto. In realtà i molti non-cooperatori riteneva no che la stessa scelta posta innanzi ai prigionieri fosse errata e come il gen. Ettore Scala pensavano: «Siamo soltan to prigionieri e soldati . Abbandoniamo ogni altra considerazione e lasciamo che gli eventi si compiano. Quando usciremo dai reticolati ciascuno prenderà la strada che meglio ritiene ... » (39). Ed un altro: «Non volevamo collaborare ... per un senso di dignità militare, civile e di amor patrio ... Questo nostro a tteg- giament o avrebbe avuto certamente l'approvazione incondizionata dei nostri compagni d'arme caduti sui campi di battaglia ... » (40).
Il disorientamento non fu superato soprattutto perchè la stessa formula dell'armistizio, quella successiva della cobelligeranz a e quindi le novità italiane erano scaturite in un clima equivoco ed incerto ed in ogni caso erano e rimasero a lungo ali' oscuro i prigionieri di guerra che dovett ero aspettare la fine del '46 o gli inizi del '47 per ritornare liberi e per meglio capire che cosa era capitato all'Italia e agli italiani nel periodo del loro isolamento e quindi per tornare a vivere un'e sperienza di vita libera e democratica.
Note
(1) Si veda anche P. Badoglio, L'Italia nella seconda gue rra mondiale, Milano, Mondador i , 1946, p. 260 ali. 5: prigionieri di guerra.
(2) Si tratta della Relaz ione final e sull'a ttività s volta dal Servizio Prigionieri di Guerra, in data 24 giugno 1946, all. 1, doc. ined. in Ministero della Difesa, Archivio dell'Ufficio Storico dello S.M. Es erci t o
(3) M. Sancipriano, Umanità dei prigionieri, in «Humanitas», Brescia Morcelliana, 1958, p. 896 cartella n. 2271, fase. 3
(4) F. Benuzzi, Fuga sul Kenya, Milano, L'Eroica, 1947, p. 18.
(5) G. Palermo, Noi Prigionieri, s.l. Roma, Porfidio Editore Lucano, s .d.p. 39.
(6) A. Berretta, Prigionieri di Churchill, Milano, Ediz. Europee. 1953, p. 25.
(8) F ascist camps, a cura di C.G. Baghino, Roma, C .E.N . 1960, p. 7 .
(9) F . Benuzzi op. cit. p. 21.
(10) A. Boscolo, Fame in America, Milano, Edi z . Europee, 1954, p .
(7) R. Valiani, Quando ero a Zonderwater, Firenze, D. Lumini, 1966, p . 88. 189.
(11) A. Boscolo, op. cit. p. 21.
(12) L. Pignatelli, Il secondo Regno, Milano, Longanesi, 1969, p. 238.
(13) Fascist camps, op . cit. p. 56.
(14) F . Bersani, I dimenticati, Milano, Mursia , 1975 , p. 131.
(15) U . Pini, Sotto le ceneri dell'Impero, Milano, Mursia, p . 967, p. 182.
(16) A. Denti di Pirajno, La mia seconda educazione inglese, Milano Longanesi, 1070, p 100.
(17) A . Berretta, Tragedia di Burguret, Milano, Ceschina 1966, p. 25.
(18) A. Del Guercio, All'ombra dell'Himalaia, Milano, Gastoldi, 1955, p. 202.
(19) Si tratta di un documento dal titolo Background of Fascism, edito il 3 agosto 1942 da l Governo Generale dell'India di cui esiste una copi a datti!. presso l'ufficio storico dell'Esercito e che è stato anche pubblicato nell'agosto 1966 su «L'Osservatore politico e letterario».
(20) A. Del Guercio, op. cit. p. 54. Circolare di Yol (India) in data 18 aprile 1942.
(21) U . Pini, op. cit . p . 202.
(22) G . Pal ermo, op. cit . p . 89.
(23) Secondo altre fonti sarebbe stato firmato il 24 giugno 1943 (te stimonianza del gen. Luigi Riccardi, in L. Pignatelli, op. cit. p . 47).
(24) U. Pini, op. cit. p. 202 .
(25) Dichiarazioni del gen. Nasi del marzo 1943 al campo di Burguret nel Sud Africa riportate da L. Avanzini, Burguret verso l'inferno, Dom odossola, Antonioli, 1969, p. 75.
(26) L. Pignatelli, op. cii. p. 241.
(27) L. Avanzini, op . cit. p. 77.
(28) A. Berretta, op cii. p. 142.
(29) F . G. Piccinni, Africa senza sole, Prato, Soc. Edi t. Emiliana, 1964, p. 223.
(30) G. Palermo, op . cit . p. 88 .
(31) F. G. Piccini, op. cit p . 206.
(32) A. Berretta, op. cit p 191.
(33) Fascist Camps, op. cit. p. 56.
(34) F .G. Piccinni, op. cit. p. 207.
(35) Se ne vedano gli echi su «L'Alba» specie il n. 45 del 19 febbraio 1944 con l'appello di 460 ufficiali «per un'Italia libera, indipendente e democratica» che seguiva quanto aveva scritto il n. 20 del 24 agosto 1943, I prigionieri devono mettersi al passo col popolo .
(36) G. Palermo, op cit p. 93.
(37) A. Boscolo, op. cit . p . 78.
(38) Le fo r mule scelte per prestare questo lavoro erano più o meno simili per tutti i detentori. Ecco la formula britannica :
«In conseguenza dell'armistizio concluso tra le Nazioni Unite ed il Regno d'Italia e dello stato di guerra che ora esiste tra l'Italia e la Germania, IO DICHIARO di voler lavorare secondo gli ordini e per conto della Comunità Britannica delle Nazioni ed assisterla con tutti i mez zi nella prosecuzione della guerra contro il nemico comune: L A GERMANIA.
IO MI IMPEGNO a non abusare della confidenza e della fiducia in me riposta, e a non violare alcuna delle condizioni sotto cui i privilegi speciali che la conseguente dichiarazione comporta sono stati a me concessi.
IO M I I MPEGNO ad eseguire tutti gli ordini e ad uniformarmi a tutti i regolamenti promulgati dalle Autorità Militari, ben sapendo che mancando a tali doveri, perderò il diritto ai miei privilegi».
(39) A Berretta, op cit p 101.
(40) L. Avanzini, op. cit. p. 82 .