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GLI INGLESI E L'8 SETTEMBRE 1943
Premessa
Le straordinarie vicende dell'8 settembre e dei giorni immediatamente prima e dopo confermano che la storia degli avvenimenti conserva tutto il suo fascino quando si tratta di svo lte così deci sive, così difficili da interpretare e così incalcolabili nel loro impatto c on la st oria di un popolo. La dichiarazione dell'armistizio tra le Nazioni Unite e l'Italia non rappresentò soltanto uno sviluppo ch iave nella st oria co ntemporanea italiana. Nella storia della Seconda guerra mondiale, nella storia dei rapporti fra i Tre grandi, nell'evoluzione dei rapporti fra politici e militari, in que st a fase della guerra, il momento costituì indubbiamente una pietra miliare nella creazione di nuovi equilibri e cli nuo vi rapporti di forze. Nelle pagine seguenti, non intendiamo raccontare anc ora una volta le tappe che hanno portato gli all eati al loro «accordo » con il governo italiano, nemmeno dal punto di vista del governo di Churchill e delle altre componenti della direzione politica strategica britannica. Quello che si intende fare, invece, è indicare i parametri di azione, i criteri che hanno gu idato il comportamento dei protagonisti ingle s i nel corso di questi giorni e settimane decisive. Mettendo in sieme documenti di archivio, la storia ufficiale, le numerose memorie ed autobiografie, le analisi posteriori degli storici politici e militari, è possibile distinguere, infatti, una ser ie di punti fermi nelle menti dei principali difensori del potere britannico che possono aiutare a comprendere le loro prese di posizione, i conflitti fra di loro e alcuni dei loro atteggiamenti nel ca ldo di que st a complicata situazione.
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Tutto ciò, tuttavia, non ci solleva dalla necessità cli capire fino in fondo l'evoluzio ne degli avvenimenti. È importante conoscere, per esempio, la disposizione delle forze militari delle principali forze in gioco e la sua evoluzione giorno dopo giorno. Senza una chiara visi on e delle circ ostanze militari, soprattutto l'imminenza d ell o sbarco di Salerno, è impossibile cap ire i punti cli vista dei Quartieri generali alleat i ad Algeri. Allo stesso tempo, in termini politici, è obbligatorio rendersi conto che Churchill e Ro osevel t, in quel momento, vivevano e lavoravano insieme negli Stati U ni ti; Churchill q uindi era lontano dal Gabinetto di guerra e dal Ministero degli Esteri e lon tano dalle forze che avevano molto da dire su ll e vicende italiane. È altrettan to ne cessario ricordare l'evoluzione della pos izi one sovietica: proprio alla fine di agosto, Stalin aveva comunicato in un messaggio di rara asprezza un senso di profonda frustrazione rispetto ai modus operandi degli alleati inglesi e americani. La necessità immediata di ricostituire l'equilibrio politico con l 'Unione Sovietica, era un altro elemento pressan te, a breve termine, all'interno di questa situzione. Infine occorrerebbero conoscenze dettagliate sulla precisa posizione del governo italiano, sui rapporti al suo interno e sulla disposizione precisa delle forze strategiche, tattiche e diplomatiche che premevano sul Re, su Badoglio e sull'Alto comando da un'ora a ll'altra. Su quest'ultimo prob lema m olti dettagli rimangono da chiarire e, forse, non saranno m ai chiariti in modo co mpl eto. Occorre quindi sottolineare a que sto punto la drammaticità del contesto, la gra nde con fu sione che cir con da va le azioni di quasi tutti i protagonisti, il loro modo di assistere più o meno impotente ad un dramma di portata sconosciuta, incalcola bil e , la soggettività di uomini co involti in vicende in rapida evoluzione che avrebbero pot u to cambiare il corso della g uer ra. Il senso di intensa eccitazione ed agitazione traspare in quasi t utte le memorie scritte dai protagonisti d opo gli avvenimenti - sop rattutto quelli ingle si - ma ne ssu no ha mai preteso nei mesi e a nni success ivi che essi avessero un minimo di r eale controllo sug li avv enimenti o che sapessero con più di un'ora o di un giorno di anticipo cosa sarebbe accaduto nell'immediato futuro o a breve termine. I pochi piani politici erano sa ltati o dovevano essere modificati radicalmente; i piani strategici erano di poca utilità e dovevano essere alterati di ora in ora con conseguenze imprevedibili. L'annuncio stesso dell'armistizio, 1'8 settembre, era un prodotto della confusione delle circostanze (essendo stata fatta il 3 settembre la firma sull'armistizio) e pochi erano gli uomini che sono riusciti a mantenere la calma e l'attaccamento a certi principi di fondo nel mezzo di questa situazione.
Da parte inglese i più calmi indubbiamente erano i funzionari del Foreign Office capeggiato dal loro Ministro, Anthony Eden. Lontani dalle vicende militari e dal caos della situazione romana, per non parlare dell'atmosfera di intensa emozione che si respirava nell'ambiente del Presidente e del Primo Ministro in Quebec, essi mantenevano fermi una serie di obiettivi stabiliti nei mesi precedenti che vedevano il risultato della guerra contro l'Italia in una visione a lungo termine. Il capo della democrazia americana presso il quartiere gnerale alleato, Robert Murphy, spiegò nelle sue memorie quale era il punto di vista degli inglesi come era stato a lui spiegato da Harold MacMillan, suo collega britannico: «Per gli inglesi il Mediterraneo fu un collegamento essenziale nel loro sistema imperiale e si preoccupavano seriamente per quello che sarebbe accaduto durante e dopo la guerra. Così essi sono arrivati (alla crisi italiana) con una visione completamente diversa dalla nostra. Per quasi tutti gli esperti americani, il Mediterraneo era un campo di battaglia temporaneo e poco di più ... ». Murphy insiste che l'unico modo di riconciliare questi due punti di partenza degli alleati anglosassoni era di improvvisare un compromesso, sia sul piano strategico che su quello politico, che è costato allo sfo rzo di guerra la capacità di incidere rapidamente e positivamente nei momenti crucia li , per esempio, dopo la caduta di Mussolini (1). Un altro esperto americano, William Reitzel, scrivendo pochi anni dopo la fine del conflitto, era più preciso: «Per la Gran Breta- gna, la sconfitta dell'Italia rappresentò una categoria diversa di vittorie che non per gli Stati Uniti. Per i primi, si trattò di porre fine a quindici anni di confusioni politiche e preoccupazioni strategiche: era l'eliminazione di un rivale locale che aveva quasi raggiunto i suoi vantati obiettivi strategici. Rappresentò il passo decisivo e più grande in un processo di restaurazione di una posizione mediterranea che si era deteriorata ser iamente. Se la vittoria creò dei problemi, essa fornì anche delle opportunità pratiche. Per gli Stati Uniti, al contrario, la sconfitta dell'Italia fu in primo luogo una tappa della guerra contro la Germania. Era una sconfitta amministrata più con dispiacere e pena che non con rabbia. Si sentiva vagamente che l'Italia era stata liberata e che, in termini generali, bisognava incoraggiarla a ritornare alle su e tradizioni prefasciste » (2).
In realtà queste erano le premesse, non esplicite, della politica inglese verso l'Italia in questi mesi. Per quanto riguardava l'elaborazione di piani concreti e di scelte operative, il Foreign Offi ce si era preparato bene fin da giugno, se non prima. In tal modo il Ministero degli Esteri inglese prese la iniziativa in campo del tutto aperto: in nessun'altra parte del sistema britannico esisteva una capacità di pianificazione per una situazione come quella italiana e n emmeno nei mesi success ivi è mai emersa una strategia molto diversa da quella del Foreign Office. In altre parole, nè il Ministero della guerra, nè il Parlamento, nè nella stampa e nemmeno a livello del Primo Ministro è mai apparsa un'alternativa alla vis ione del Foreign Office e solo Churchill aveva il potere e le conoscenze per contrastare le loro scelte. Tuttavia, quando il Foreign Office faceva i suo i giudizi si riguardava la situazione strategica e geopolitica dell'Italia, nel suo insieme: la sua posizione e statu s nell 'arena internazionale, mentre non si tralasciava la situazione interna, di cui il Foreign Office sapeva molto poco. Eden e i suoi funzionari sapevano benissimo che le priorità essenziali erano quelle militari e che dovevano adattare la loro strategia all'evolversi della situazione militare. Inoltre, condividevano la visione della guerra sviluppata da Churchill e confermata a Casablanca: una visione secondo la quale il teatro mediterraneo non solo era un passo fondamentale per la sconfitta della Germania a medio termine, ma anche un'alternativa vera e propria ai piani americani per un'invasione attraverso la Francia a breve termine. Su questo argomento - la cosiddetta strategia mediterranea degli inglesi - la discus sione è stata molto accesa negli anni successivi alla guerra. Nei termini in cui era designata secondo le decisioni di Casab lanca è essenzialmente fallita. Roma non è stata presa in poche settimane, i Balcani non sono stati liberati dai tede schi, la Turchia non è stata coinvolta nella guerra, il Mar Nero non è stato messo a disposizione degli alleati, la Germania non ha dovuto togliere grandi forze dal suo fronte orientale e, in fin dei conti, la guerra non è finita nel 1943 come sembrava possibile nel gennaio di quell'anno.
Tuttavia, bisogna riconoscere che la caduta di Mussolini e l'armistizio del1'8 settembre erano frutti grandi - forse gli unici di qualche importanza - quella strategia che, in quel momento, sembrò così co nferm ata, suscitando la grande soddisfazione del Primo Ministro e del governo inglese in generale per l'evoluzione degli avvenimenti di quei giorni . Per il Foreign Office, la resa dell'Italia significò l'inizio della fine della guerra, sicuramente in termini geopolitici, di una lun ga e travagliata definizione di obiettivi politici per il dopoguerra. Nessuno, con la possibile eccezione del lungimirante generale Smuts, aveva previsto quanto dura e lunga sarebbe stata la guerra in Italia. Era quindi con una certa urgenza che il Foreign Office premeva per l'imposizione delle sue priorità politiche. Nel modo in cui si è verificato il crollo italiano, il Forei gn Office vedeva la conferma della n atura essenzialmente avventuristica del regime di Mussolini, della falsità delle sue pretese. Elimi nar e l'Italia dalla scena internazionale - almeno come gran de potenza - era una premessa indiscussa della linea del Foreign Office. Sfruttare l'estrema debolezza ed umiliazione del momento dell'armistizio per ridimensionare una volta per sempre le pretese strategiche dell'Italia come potenza, era una priorità assoluta per il Foreign Office che spiega molti dei suoi argomenti ed anche il tono secondo cui questi argomenti venivano sostenuti nel1' emergenza di settembre. Il Foreign Office sa peva di non poter controllare l'evolversi della situazione sul posto, nemmeno mediante l'agente inglese supremo in loco, Harold Mac Millan, il quale era una designazione politica di Churchill. Ma con un piano a lungo termine già elaborato (e codificato nel cosiddetto Lungo armistizio) e con una serie di sei criteri di fondo nel giudicare la desiderabilità o meno di una determinata strada, essi spe ravano di avere il meglio nella lotta tattica fra le posizioni politiche e militari al momento della scelta decisiva per i futuri rapporti fra Italia e Nazioni Unite. Guardiamo più da vicino questi sei criteri.
1.
Il Foreign Office e il Dipartimento di Stato erano convinti, nell'autunno del '43, che era giunto il momento di riprendere l'iniziativa politica nel campo - in senso largo - del comando alleato dalle mani dei comandanti militari. L'iniziativa stessa della Conferenza del Ministero degli Esteri, nel novembre success ivo, fu designata nella stessa ottica. Rispetto a Tito, alla situazione francese e ad a ltr i luoghi del mondo, secondo il Foreign Office, le priorità militari erano state imposte senza alcuna considerazione per gli interessi a lungo termine - presumibilmente invariati - della Gran Bretagna nelle varie situazioni: Il caso Darlan, nel Nord-Africa, sembrò solo co nferm are l'inettitudine dei militari di fronte a complesse scelte politiche. Una lotta dura ed aspra fra Algeri e Londra contraddistingueva per esempio la sit uazione della propaganda: i militari ridesignandolo spesso in nome di obiettivi a breve termine; il PWB e il PID del Foreign Office insistendo da Londra che si dovevano imporre altre priorità di più ampio respiro. I londinesi diffidavano in particolare della tendenza americana di delegare al comandante in loco una fetta più o meno illimitata di autonomia decisionale, vecchia prassi americana che in questa occasione veniva rinnovata secondo l'abitudine di Roosevelt di rinviare all'ultimo momento (preferibilmente alla fine delle ostilità) le scelte politiche (3).
Ma la situazione militare nell'estate del '43 era alquanto delicata, con l'invasione della Sicilia completata in tempi non particolarmente brevi e poi con ogni indicazione che i tedeschi avrebbero rinforzato con grande efficienza il fronte del sudEuropa. Questo processo di rinforzamento, sempre più incalzante con il passare dei giorni, rappresentò un retroscena vivace che condizionò e preoccupò sempr e di più i comandanti militari nella loro lotta con le circostanze italiane. Sbarchi in Calabria e Salerno erano pianificati per la prima settimana di settembre e forti erano le pressioni di Churchill per quello che venne descritto come «lo sfruttamento della vittoria». Operando ai limiti estremi delle loro risor se, per quanto riguarda i mezzi di sbarco e di copertura aerea, le forze alleate dovevano raggiungere via mare il punto più a nord possibile della penisola italiana e poi, sparpagliarsi rapidamente ancora a nord, con l'intenzione di arrivare al più presto a Napoli, di catturare le basi aerea di Foggia e, infine, spingersi a Roma e ad Olbia. Con l'aumento della pressione tedesca a sud di Napoli, la posizione dell'Italia e soprattutto quelle delle sue forze armate divenne sempre più cruciale. Avrebbero partecipato o no alla lotta e allo sforzo angloamericano? Sarebbero rimasti in loco o addirittura a fianco dei tedeschi? Questi erano gli interrogativi immediati che i comandanti militari dovevano affrontare e che essi non potevano separare dalla s ituazione diplomatica dell'Italia. Il governo italiano, a quanto pare, considerò la propria posizione militare come la questione più urgente e mandò non un diplomatico ma un rappresentante del comando dei capi di Stato Maggiore, il generale Castellano, a trattare con gli alleati la par- tecipazione mi,litare dell'Italia al loro fianco. Il Foreign Office notò che que st o perso naggio si recò in primo luogo dai rappr esentanti diplomatici della Gran Bretagna e degli Stati U niti. Ma i militari di Algeri avevano previst o una mo ssa del genere e perciò avevano preparato un breve armi st izio militare - il cos idd etto Armistizi o corto - per t rattar e imme di a tam ente una resa ita liana e la conv ersi one delle for ze italiane in appoggio tattico all'invasi one alleata di Sale rno. Con l'in tervento del Pr esidente, del Primo Ministro e dei capi di Stato Maggiore congiun ti a Washington, Alg er i fu autorizza ta a tratt are con Cas tell ano utilizzando l 'Armistizio corto. La co n segue n za fu il drammatico negoziato fra Castellano e Mon tanari da una parte, Bedell Smith e Strong dall'altra, la ser a del 19 agosto a Lisbona (4). Eppure, otto giorni dopo, da Quebec furono date istruzioni nuove le quali obbligavano Eisenhower ad applicare anche le 44 clausole dell'Armist izio lungo ed ottenere in tal modo la resa inco n dizio nata dell' esercito e dello Stato italiano. Tutto ciò fu la conseguenza della lotta fra E den da una p a rte , i militari dal1' altra, che aveva il s uo epicentro a Quebec. Ch ur chill, come al solito, oscillava fra una posizione ed un'alt ra, arrivando ad una s pecie di compromesso che implicava l'u so di entrambi gli armistizi. Vecchio combattente se stess o , la lotta fra poli ti ci e militari con t inuava a ll'interno della propria personalità, in un mom ento adottando le form e, le parole e le priori tà di Ed en, in un altro, sposando le tes i dei militari , segue ndo minuziosam ente l'evolu zi one della situazione tattica e rimproverando costantemente i suoi generali per la loro cautela ed ecc ess iva precau zion e.
La confusione generata dal conflitto di competenza fra politi ci e milita ri si vedeva anch e negli scarsi e poco realistici piani co struiti per il mantenimen t o dell'ordine nel paese invaso dopo le battaglie. Governo mili tar e, Commissione di controllo, Consiglio consulti vo per l ' It a lia erano tutt e nozioni inventate per raggiungere un compromesso di qualch e tipo fra gli elementi alleati in lotta. A br ev e termine, il comando di Algeri ha vin to le battaglie più importanti. Pur dovendo applicare sia l'Armistizio corto che quello lungo, Eisenhower, MacMillan e Bedell Smith hanno lavorato nei limiti dei loro spazi di autonomia per ammorbidirne il funzionamento concreto e per rispettare l'esigenza italiana di mantenere uno spazio politico proprio. Lanascita delle idee di cobelligeranza fra settembre e ottobre del '43 rappresentò il culmino di questa evoluzione delle vedute del Quartiere generale alleat o e la massima estensione del suo potere. Pur dovendo cos truire a partire da novembre una vasta e complessa Commissione di controllo, secondo i desideri dell'armisti zio lungo , si fecero molti sforzi per ricostruire la capacità operativa e la legittimità dello Stato italiano. Inoltre, un altro fattore rinforzò la posizione di vantaggio dei militari: il desiderio dei sovietici di partecipare più o meno attivamente nel condurre la resa italiana. Volendo emarginare o ridurre al minimo la presenza sovietica in questo momento e in queste circostanze, Eden ed i suoi avevano il gioco facile nel dire che il comandante militare doveva determinare le relazioni della situazione senza intromissioni di potenze straniere o esterne. Rendendosi pienamente conto di questo loro vantaggio, Eisenhower, Mac Millan etc. formarono una posizione di forza unita ed efficiente in Algeri la quale, pur risentendo fortemente dei tentativi di condizionamento da parte del Ministero degli Esteri inglese e pur producendo una notevole confusione nella posizione alleata nel suo insieme - soprattutto sulla natura dei due armistizi, ha gestito con una certa efficacia la resa italiana.
Nè i nemici di guerra nè il Ministero degli Esteri inglese hanno mai dubitato sul fatto che l'Italia doveva arrendersi incondizionatamente. La resa incondizionata costituiva il principio organizzativo del lungo armistizio. I comandanti militari, a l contrario, pensavano che uno strumento capace di suscitare la simpatia degli italiani per la causa alleata e, quindi, il loro aiuto in casi di invasione, doveva offrire una forma di resa «onorevole». Perciò essi ribadivano la differenza fra un armistizio puramente militare per garantire la fine delle ostilità e uno strumento di resa totale dello Stato e del governo del paese. Mentre, in sostanza, l'armistizio corto implicava la resa più o meno incondizionata delle forze armate, il documento non era usato pr questi fini e, secondo Eisenhower, doveva avere scopi puramente pratici ed utilitari. Ancora una volta troviamo Churchill in posizione di intermediario, dichiarando, in una nota lettera ad Eden del 9 agosto, che la pressione esagerata sulla resa incondizionata senza un minimo di prospettiva di misericordia poteva bloccare qualsiasi forma di resa (5). Fin dal 16 luglio , il comandante supremo aveva utilizzato u.na specie di promessa di resa onorevole nella sua propaganda verso l'Italia e, nella deliberazione di Quebec, veniva resa esplicita l'idea del «guadagnarsi il biglietto di ritorno» dell'ex nemico (6). A questo punto, le predisposizioni americane giocavano un ruolo fondamentale, ma gli americani non avevano piani o disposizioni precise per convertire queste disposizioni in un reale impatto sulla situazione. Il risultato era una regnante confusione e, dopo l'applicazione della firma italiana aWarmistizio lungo il 27 settembre, l'imprecisione più completa circondava la natura precisa dell'atto di resa dell'Italia. Secondo le memorie del direttore di propaganda britannica, Bruce Lockhart, venne lanciato dagli aerei alleati sulle città italiane un volant ino recante un messaggio che suggeriva una resa onorevole da una parte e dall'alt ra la resa incondizionata. Di fronte agli interrogativi su questo volan t in o , Bruce Lo ckhart non seppe far altro che dire una battuta : la questione , in fin dei conti, non veniva mai risolta (7).
Lo stesso conce tto di cobelligeranza, ancora una volta, rivelò tutta la sua a mbiguità quando si cercò di rispondere alla domanda se l 'Itali a si era arr esa incondizionatamente od onor evo lme n t e . Ch urc h ill ha sempre sostenuto che la messa a di- sposizione della flotta italiana in sè costituiva un atto onorevole di partecipazione delle forze armate italiane a fianco degli alleati. I russi hanno sempre sostenuto le dure posizioni del Foreign Office e, in ogni contatto con l'Unione Sovietica, la formula applicata degli inglesi era quella della resa incondizionata. La forma e molti atti della Commissione di controllo alleato esprimevano il desiderio inglese di instaurare un regime di occupazione in Italia. Perfino dopo la dichiarazione di cobelligeranza, il Foreign Office diceva che - contro i desideri di Algeri - la parola «controllo» doveva rimanere nel titolo del nuovo organismo costruito per amministrare l'armistizio (8). Lo stesso sradicamento totale del fascismo, uno dei compiti ufficiali della commissione di controllo, era una conseguenza logica delle idee di resa incondizionata e, ripetutamente, gli esponenti inglesi di questa Commissione (che erano la maggioranza) dichiaravano, secondo i giudizi dei loro colleghi americani, che ·l'Italia era un nemico sconfitto in modo totale (9). Le proteste americane erano inutili: l'amministrazione era unica - inglesi e americani lavorando insieme con eguale responsabilità - e, quindi, si doveva prendere una unica direttiva. In pratica il grado di confusione era molto elevato. Le vicende diplomatiche e militari dell'8 settembre e soprattutto il comportamento di Eisenhower e dei suoi luogotenenti non si possono capire senza una piena comprensione del loro desiderio di ammorbidire, nei limiti del possibile, la applic a zione della fam igerata formula di Casablanca e del loro tentativo sempre più disperato di arruolare le forze italiane dalla propria p a rte nella emergenza della battaglia di Salerno. Il trucco di presentare prima l'Armistizio corto e poi quell o lungo, volu to dagli inglesi e poi approvato da Rooseve lt , deluse mo lto i comandanti sul luogo e creò uno stato di confusione e di incertezza nelle menti degli interlocutori italiani (10).
Fi n dalla cad ut a di Muss oli n i gli inglesi dic hia r av ano:
« Do b bi am o aver e u na am mini strazion e itali a na s ul luo go con cui trattare». Il possibilismo di Churchill operava in questa sfera secondo la linea di un possibile negoziato con Badoglio e il Re senza pregiudizi per il futuro. In una lettera a Roosevelt del 31 luglio egli spiega: «La mia posizione è che, una volta scomparsi Mussolini e fascisti, io tratterò con qualsiasi autorità italiana in grado di consegnare la merce. Non ho alcun timore, a questo proposito, di riconoscere la casa SavoiaBadoglio, a condizione che essi siano quelli che possono obbligare gli italiani a fare quello di cui noi abbiamo bisogno per i nostri obiettivi di guerra. Questi obiettivi, sicuramente, sarebbero ostacolati dal caos, dal bolscevismo o dalla guerra civile. Non abbiamo alcun diritto di imporre delle difficoltà ulteriori alle spalle dei nostri soldati. Può darsi che, una volta accettato l'armistizio, sia il Re che Badoglio affondano nella vergogna della resa e che un luogotenente ed un nuovo Ministero possano emergere» (11). Mentre i sentimenti dell'opinione pubblica e del Parlamento in Inghilterra militavano sicuramente contro una trattativa prolungata per non riconoscere il governo Badoglio, il Foreign Office aveva previsto, fin dalla caduta di Mussolini le necessità politiche e diplomatiche che avrebbero reso necessarie la permanenza del Re e del suo Primo Ministro al vertice dello Stato. Mentre Churchill, nei primi istanti dopo la caduta di Mussolini, sognava una nuova Italia antifascista, il Foreign Office preparava un documento che il Primo Ministro aveva letto parola per parola nella sua dichiarazione alla Camera dei Comuni il 27 luglio. In quel momento ~hurchill dichiarò: «Noi non sappiamo cosa accadrà in Italia. Ora che Mussolini se n'è andato e una volta che il potere fascista è sicuramente ed inevitabilmente distrutto, saremmo incauti se dovessimo fare a meno di qualsiasi mezzo possibile per arrivare a conclusioni generali con la nazione italiana.
«Sarebbe un errore grave, quando l e vicende sono in queste condizioni flessibili, fluide, formative per le potenze venute in soccorso, Gran Bretagna e Stati Uniti, agire in modo tale da rompere l'intera struttura ed espressione dello Stato italiano».
La liberazione, continuò Churchill, doveva rimanere come tale e non trasformarsi in un sistema di occupazione con un governo tipo Quisling o in un sistema completo di amministrazione e di mantenimento della legge dell'ordine (13). Churchill non aveva mai nascosto il suo rispetto per le istituzioni monarchiche, persino nella versione italiana e, apparentemente, continuò a credere fino alla morte che soltanto Mussolini era responsabile del disastro italiano sul piano militare. Da questo punto di vista, 1'8 settembre fu imbarazzante per i disegni inglesi. Mentre la flotta era arrivata con grande rischio e gravi perdite in mano agli inglesi, lo Stato come tale era crollato e il Re ed il Primo Ministro si erano precipi t ati in una fuga umiliante verso la salvezza della costa orientale.
Quello che salvò il Re e Badoglio era l'aggravarsi della situazione militare da una parte e l ' assenza di un qualsiasi protagonista delle forze antifasciste capace di parlare in nome di un'altra Italia dall'altra. Con la scoperta dell'intenzione dei tedeschi di combattere metro per metro in Italia e con h presa di coscienza più o meno s im ultanea che le forze della Germania erano capaci di difendere i Balcani e di combattere in altre zone del Mediterraneo, ·la situazione strategica divenne sempre più delicata.
La conseguenza più diretta era la necessità di utilizzare sia le forze militari italiane che le nascenti forze della Resistenza fino ai limiti del possibile. In pratica i limiti del possibile erano estremamente ristretti , ma senza l'autorizzazione del Re e del Primo Ministro nessun rapporto con queste forze fu possibile. All'antifascismo italiano, a questo punto, si offrirono grandi opportunità. Ma a sfruttare l'occasione fu presente solo il conte Sforza il quale ritornò alla fine di settembre dagli Stati Uniti. Nessuno dei due grandi leaders e tanto meno Churchill prendevano s ul serio la credibilità politica del conte Sforza, vedendo in lui uno dei tanti pretendenti alla guida di un gruppo di forze politiche es tremament e ambigue ed evanescenti con legami debolissimi con la popolazione italiana (13). L'imprepara- zio ne delle forze politiche ed antifasciste per l'appuntamento dell'8 settembre e del periodo successivo divenne a quel punto evidente. Ancora una volta fu la dichiarazione di cobelligeranza a coprire la confusione ed a salvare la faccia agli alleati anglosassoni ed allo Stato italiano. Vaghi erano gli aiuti dati e quelli richiesti; vaghi erano i diritti dello Stato ricostituito rispetto ai due armistizi che rimanevano in forza. L'Italia aveva la sua promessa di libere elezioni democratiche dopo la fine del conflitto. Nel frattempo il suo comportamento e status sarebbe stato giudicato secondo i risultati. Oltre i governi inglese ed americano non erano disposti ad andare, se non per costituire la Commissione di controllo alleato come impalcatura dello Stato tradizionale. All'infuori di essi, Churchill, Eden e soprattutto l'energico ambasciatore inglese nel Vaticano, Sir D' Arcy Osborne, vedevano soltanto anarchia, caos ed il rischio di «bolscevizzazione». Il capo dei bolscevichi, Giuseppe Stalin, intanto era un alleato temuto, rispettato e considerato ind ispensabile. Riconoscere il Re e Badoglio era una mossa che Churchill aveva promesso di non fare. Solo con le promesse più dure sui limiti ai diritti italiani e sull'applicazione inequivocabile degli armistizi, gli alleati anglosassoni erano riusciti ad ottenere il consenso sovietico alla cobelligeranza ed alla continuità del loro rapporto con il Re e con Badoglio (14).
4. Centralità dei rapporti con l'Unione Sovietica.
I termini essenziali del rapporto fra Gra n Bretagna e Unione Sovietica a questo punto della guerra eran o delineati con gran franchezza mediante uno scambio di lettere fra il generale Smuts e Churchill durante la fine di agosto e l ' in izio di settembre.
Affermando ripetutamente che gli sforzi d i guerra degli alleati angloamericani su terra erano assolu t amente insignificanti rispetto a quelli realizzati dall'esercit o ro sso, Smuts vedeva - p r endendo per scontato anche lu i l' immin ente fine dell a guer- ra - pericoli sempre più visibili per l'equilibrio geopolitico fra l'Unione Sovietica e le altre potenze in Europa, una volta terminata la guerra. Egli sottolineava la contraddizione sempre più evidente fra le vaste risorse materiali che inglesi ed americani sembravano capaci di costruire ed il prodotto insignificante e misero di questi sforzi su terra (egli non metteva in dubbio le capacità della marina e delle forze aeree). Churchill replicava a Smuts, il 5 settembre, che non c'era da dubitare sul fatto che l'Unione Sovietica sarebbe divenuta una potenza suprema dopo la guerra e che si trattava, quindi , di riconoscere questa realtà ed imparare vivere con essa (15). Partendo da premesse simili , Anthony Eden , nel luglio del '43, aveva cominciato a disegnare sistemi di consulenza diplomatica e geopolitica con i ru ss i i quali avrebbero equilibrato la presenza deg li angloam erica n i nella sfera di conquista russa e , in modo simile, la presenza russa nelle zone di conquista angloamericana da quel momento della guerra in poi (16). Mantenere forme di collaborazione e di consulenza politiche con l'Unione Sovietica divenne l'asse centrale della condotta britannica. Sul piano della politica estera , Eden dichiarò nei giorni caldi di settembre che le porte dovevano essere mantenute aperte (17). Come mai, quindi, i russi hanno contribu ito così poco all'evolversi della situazione in Italia in quei tempi? I russi erano stati informat i, durante le settimane estive, dei disegni dell'armistizio britannico , e non si erano mai opposti ai suoi contenuti. Ma nel tentativo di venire incontro alle indicazioni di luglio di Eden, Stalin aveva proposto l'instaurazione di una commissione militare politica nel Mediterraneo per la sovrintendenza della liberazione ed occupazione dei territori nemici (18). Gli americani non potevano ac cett a re strutture soprannazionali simili, almeno non s e nza u n pro lungato dibattito politico in terno che Roose velt era d eterminato ad evitare a tutti i costi. Allo stesso tempo la p ro posta di Stalin per una commissione nel Medit errane o, me tteva in dubbio la catena di comando che passava direttam ent e d a l Presidente al Primo Ministro attraverso i capi di Stato Magg io re congiunti a Washington ai comandanti nel campo. Il 6 settembre, dopo diverse discussioni sull'argomento, in un discorso pubblico in Canada, Churchill sottolineò con vigore il valore del sistema dei capi di Stato Maggiore congiunti indicandolo come modello di controllo da seguire anche dopo la fine delle ostilità (19). Egli ribadì in privato che non era possibile condurre una battaglia e consultare i sovietici ogni momento. Nonostante la successiva inclusione di un delegato sovietico nel consiglio consultivo per I' Italia e la riconciliazione fra tutti gli alleati alla successiva conferenza dei Ministeri e dei Ministri degli Esteri a Mosca, la strada verso l 'esclusione di ogni reale partecipazione sovietica alla liberazione dell'Italia era a questo punto già avviata. In verità, a Londra si sperava di mantenere diversi canali aperti verso l'Unione Sovietica e di non pregiudicare alcun t ipo di accordo con i russi. Manca tuttora una visione complessiva dell'approccio inglese al problema della Russia nella seconda parte della seconda guerra mondiale e molte sono le indicazioni - la più famosa è quella dell'accordo di percentuali del dicembre ' 44 - che gli inglesi speravano fino alla fine in una specie di divisione delle sfere d'influenza dell'Europa nel momento più opportuno (20).
Ma la mancanza di forze strategiche britanniche e la dipendenza politica ed economica della Gran Bretagna dagli Stati Uniti non permettevan o agli inglesi di raggiungere alcun tipo d i accordo costruttivo anche se i sovietici l'avessero voluto. Una delle maggiori incognite dell'8 settembre riguarda il preciso atteggiamento delle autorità militare e politica americana e britannica intorno al problema sovietico al momento della resa italiana.
5. Londra dovrebbe essere il centro del processo decisionale.
La commissione proposta da Stalin finì i suoi giorni in modo del tutto innocuo a Londra sotto il nome di Comm issione consultiva per l'Europa e questo fu uno dei pochi risultati che gli inglesi riuscirono ad ottenere dalla conferenza dei Ministri degli Esteri di Mosca. Nonostante la diffidenza per ogni processo decisionale fuori dalla propria por t ata, il Foreign Office non possedeva la forza politica di imporre altre scelte sul comando militare e tanto meno sull'amministrazione di Roosevelt. Tuttavia, nella burocrazia permanente di Whitehall perdurava la diffidenza alquanto profonda per i processi decisionali instaurati a Washington e ad Algeri. A Wa shington esistevano, oltre ai capi di Stato Maggiore congiunti, il Combined Civil Affairs Committee , comitato congiunto per gli affari civili, un organismo che doveva pianificare l'amministrazione dei territ ori nemici occupati. Questi comitati erano governati dai militari americani nei quali il War Office britannico ed il Foreign Office vedevano numerosi nemici. Mentre non si sa con molta precisione quale fosse lo stato dei rapporti tra Foreign Office e Dipartimento di Stato, non ci sono dubbi che riguardo al problema Italia il Foreign Office aveva poca pazienza per i punti di vista dell'Establishment di Washington. I militari della capitale americana sembravano incapaci di formulare un punto di vista realistico e unanime sul futuro dell'Italia. Gli americani non erano in grado di formulare la propria versione di un armistizio che non fosse quello di Eisenhower (21). Sopra ogni cosa e con un potere supremo ed assoluto regnava la figura di Roosevelt verso il quale i funzionari inglesi mostravano una commistione non insolita di rispetto, ammirazione e disprezzo. La battaglia furiosa intorno a Roosevelt tra isolazionisti ed internazionalisti contrastava enormemente con la forza unita dell'opinione pubblica inglese e sembrava dimostrare a Londra l'immaturità in politica internazionale dell'opinione pubb lica americana. Roosevelt stesso con la sua difficile ed ottusa insistenza nell'evadere i problemi politici, rinviandoli alla fine del conflitto per minimizzare i confli t ti e le possibilità di dibattito, confermava agli occhi del Foreign Office la presenza di certi impulsi demagogici e populisti. La lotta, a volte poco dignito- sa, tra alti comandi inglesi ed americani sulla s trategia mediterranea, su chi doveva essere senior partner e su lla natura della resa italiana , dava al Foreign Office l'idea di una azione americana senza una direzione strategica di fondo e senza una linea politica costruttiva.
Churchill superava queste difficoltà trattando direttamente con il Presidente. È interessante notare dalle sue memorie che egli voleva essere vicino al Presidente nel momento della resa italiana proprio per minimizzare le differenze e le difficoltà di comprensione (22). Ma le differenze di fondo, prodotti di interessi strategici e politici profondamente di ver si, rimanevano ugualmente. Osservatori come Murphy, Strong ed altri hanno visto nel tentativo del Primo Ministro di coprire le differenze ed i compromessi che ne risultavano uno dei motivi delle «opportunità perse» del momento italiano nel settem bre del '43. In realtà , fintantochè Londra persisteva nell'impossibile strada dell'egemonia britannica in questa s fera d'azione alleata, la con fusione e l'insuccesso erano inevitabili.
La proposta di Stalin di una Commissione mediterranea, da applicare secondo lui in Sicilia, era pericolosa agli occhi del Foreign Office per un altro motivo oltre a quello già presentato: avrebbe rinforzato il potere politico del quartiere generale alleato ad Algeri. In quella sede com e abbiamo visto, si era costru ita una formidabile equipe politico e militare da Eisenhower come comandante supremo con deputati politici MacMillan e Murphy e, sul piano militare, Bedell Smith e Kenneth Strong. Per questo gruppo, le trattative con Castellano e Zanussi ed i contatti pericolosi ed ambigui con Badoglio ed il suo governo rappresentavano un potente rinforzamento della loro s fera di azione politica, soprattutto quando l'annuncio della resa italiana e delle sue modalità furono condotte sotto i loro auspici. Eisenhower e la sua squadra non na scondevano i loro dubbi su lla procedura dei due armi stizi e sull'irrealismo delle forze burocratiche a Londra che avevano imposto una soluzione di questo genere, ai loro occhi ingannevole. Il Foreign Office contrat- taccava, secondo i suoi piani, insistendo sulla costruzione del Consiglio consultivo per l'Italia che coinvolgeva gli alleati minori, soprattutto Grecia e Jugoslavia, con Francia ed i Dominions, nel governo dell'Italia. Probabilmente Eden ed i suoi funzionari avrebbero coinvolto i rappresentanti di questi paesi anche nella resa stessa ma non osavano; una tale mossa non poteva essere contemplata senza la diretta inclusione di un rappresentante sovietico.
6. L'Italia precedente per l'organizzazione del dopoguerra in Europa.
Non è storicamente chiaro in che misura le vicende italiane abbiano costituito un precedente reale per il trattamento delle altre zone dell'Europa liberate dalle forze del nazifascismo. È interessante constatare che l'occupazione della Germania, 18 mesi dopo, è stata condotta secondo una divisione rigorosa in zone di presidenza nazionale, a differenza del caso italiano dove regnavano le forze congiunte delle due potenze angloamericane. Al momento dell'8 settembre e nel periodo precedente e in quello successivo a questa data, le burocrazie permanenti di Washington e di Londra speravano che questa svolta potesse e dovesse rappresentare un precedente per i compiti in avvenire. Più che di precedente si trattava di una prova degli obiettivi, dei metodi e dei rapporti di forze all'interno del campo alleato intorno al problema di quali linee nazionali avrebbero prevalso nell'organizzazione del dopoguerra in Europa. I sovietici, indubbiamente, vedevano il caso italiano in term ini di precedenti. L'impossibile combinazione fra inglesi ed americani da una parte e Badoglio ed il Re dall'altra, era, secondo loro, la minaccia di un futuro accordo di qualsiasi tip o con i resti del regime nazista in Germania (24). Per organizzare i loro piani per i territori liberati, gli inglesi possede vano almeno due strutture di importanza particolare: The Administration of Territo- ries (Europe) Comrnittee, capeggiata da Attlee e condotta in presenza di osservatori americani; poi il Dipartimento dell'Economia della ricostituzione all'interno del Foreign Office. Gli americani, per conto loro, possedevano notevoli strutture di pianificazione della politica estera all'interno del Dipartimento di Stato e in organismi come il Council of Foreign Relations. Le loro delibere, al contrario, di quelle inglesi, erano piuttosto astratte e non costituivano uno sforze coordinato per produrre piani operativi.
Sappiamo poco degli sforzi compiuti, delle strutture di pianificazione inglesi e tanto meno del loro impatto sulla condotta delle operazioni in Italia. Indubbiamente il disegno a lungo termine, in special modo quello della Commissione di controllo, era in gran parte prodotto dall'ambiente dell' Administration of Ter ritories (Europe) Committee attraverso i funzionari competen ti del Foreign Office. Era un caso imbarazzante che gli alleati non potessero pubblicare nè l'Armistizio corto nè quello lungo. Essi non avevano dubbi circa la negatività dell'effetto che queste dure condizioni avrebbero prodotto sull'opinione pubblica. Il precedente it aliano era scoraggiante ed era, quindi, compito dei rappresentanti supremi politici di recuperare la situazione. Da qui ne risultò l'insistenza di Roosevelt e di Churchill su l fatto che la resa poteva avere i suo i aspetti onorevo li, c he gli italiani avevano la possibilità di riguadagnare il loro posto fra le nazioni mondiali e soprattutto che la promessa delle libere elezioni democratiche sarebb e stata mantenuta. Ma i dubbi inevitabilmente rimanevano. Quale era l'atteggiamento che rifletteva veramente quello angloamericano? Le condizioni durissime dell'armistizio, seppur modificato ambiguamente da Roo sevelt? Oppure le promess e e gli incoraggiamenti del Primo Ministro e del Presidente? Data l'impossibilità di capire la situazione all'interno dell'Italia, il precede nte politico costituito da questa esperienza è indubbiamente di scarso valore, visto col senno del poi.
Nel giro di poche settimane, a partire dall'8 settembre, gli inglesi furono costretti ad ammettere che le difficoltà politiche e militari presenti in Italia erano molto più grosse del previsto (25). Sperando in un rapido avanzamento, l'eliminazione dei tedeschi, la sconfitta chiara ed inequivocabile degli italiani e poi l'instaurazione di una Commissione di controllo politico e militare per organizzare una rapida transizione verso una situazione di dopoguerra, gli alleati dovevano far fronte invece al nemico ben insediato, al concetto ambiguo di cobelligeranza e ad un popolo incerto se aiutare almeno le forze alleate. Non esisteva un unico, complessivo atteggiamento alleato per guidare l'opinione pubblica in Italia e dirigere la vita italiana su basi nuove. Nonostante la propaganda , la distanza fra le varie posizioni in campo era troppo grande per poter esprimere un punto di vista univoco e chiaro . Fra Londra e Washington, fra politici e militari, fra angloamericani e sovietici, troppe erano le poste in gioco per favorire un'atteggiamen t o semplice e diretto davanti al caos dell'agosto-settembre 1943.
Detto questo, bisogna sottolineare che le vicende di questi giorni richiedono tuttora ulteriori indagini per risolvere alcune delle più importanti incognite rimaste. Abbiamo indicato alcuni degli interrogativi riguardanti i rapporti con i sovietici. È chiaro che, all'interno del vertice italiano, il caos e l'incertezza di quelle settimane hanno lasciato questioni e dubbi che esigono una risposta. In particolar modo, la propaganda angloamericana di questo periodo meriterebbe una più ampia indagine. La sua evoluzione in relazione agli avvenimenti politici e militari, la sua oscillazione tra posizioni estremamente promettenti e la copertura di realtà ben più dure sono chiare. Occorrono un esame dettagliato delle vere prese di posizione all'interno della macchina propagandistica ed una spiegazione di come le lotte descritte in queste pagine si siano riversate sui fabbricatori di messaggi, di slogano per il consumo del popolo italiano. Il lavoro dei servizi di Intelligence rimane alquanto oscuro. In che modo e con quale evoluzione gli alleati sono venuti a conoscenza dello sviluppo della presenza tedesca? Cosa hanno saputo della reale disposizione delle forze italiane e del rapporto tra forze italiane e tedesche? Quali erano le fonti angloamericane sulla situazione politica all 'interno del paese in questi tempi e come e in quale momento tali informazioni possono aver inciso sull'atteggiamento e sul comportamento degli alti comandi angloamericani in queste settimane? In campo inglese sarebbe necessario conoscere ancora più dettagliatamente i rapporti fra Churchill ed il gabinetto di guerra da una parte e il Foreign Office dall'altra, circa la questione italiana, soprattutto in rapporto al disegno degli armistizi e sulla loro elaborazione in relazione agli americani. I capi di Stato Maggiore britannici rappresentavano un altro polo del potere di Londra da indagare, mentre poche sono le indicazioni che hanno finora emesso sull'atteggiamento dell'opinione pubblica e del Parlamento su queste vicende.
L'atteggiamento di fondo ed il tono più normalmente usato del Foreign Office si possono ritrovare in un documento del 20 settembre che discuteva la proposta di cobelligeranza emersa dal quartiere generale di Algeri. Tale documento rappresentava una dura presa di posizione contro l'allargamento del campo alleato per includere il governo del Re e del Badoglio come desiderato da Eisenhower e da MacMillan. I paragrafi centrali del documento suonano come segue: «Noi abbiamo sempre previsto che il maresciallo avrebbe tentato di raggiungere lo status di alleato o di quasi alleato. È naturale che come parte di questa manovra egli disse in quel momento che l'Italia voleva dichiarare guerra alla Germania. Il maresciallo sa che solo in questo modo l'Italia può sperare di riguadagnare il suo posto nel mond o del dopoguerra. L'implicazione è che solo attraverso la concessione di questo status il maresciallo può organizzare il popolo italiano in una resistenza attiva contro i tedeschi. I capi di Stato inglesi sono assolutamente convinti che il valore degli italiani come combattenti attivi è trascurabile.
«Il generale Eisenhower ha presentato il caso come se l'alternativa consistesse in una belligeranza italiana attiva e mancanza di cooperazione, dichiarando che avere gli italiani come combattenti attivi potrebbe creare una differenza fra il successo completo ed il successo parziale nella campagna che abbiamo davanti in Italia.
«Se noi presumiano, come è nostro diritto, che gli italiani sono incapaci di uno sforzo militare attivo e che il governo Badoglio non è assolutamente in grado di esercitare il minimo controllo .necessario per uno sforzo di guerra del genere, questo argomento (di Eisenhower) viene a scadere. Le uniche alternative reali sembrano essere tra una cooperazione più o meno attiva ed una più o meno passiva. Se noi riconosciamo l'Italia come quasi alleato avremo il primo. Se noi continuiamo come ora possiamo contare, sicuramente, sull'ultimo. In verità si può dubitare della esistenza di una differenza sostanziale fra queste due alternative» (26).
Per una comprensione più approfondita di questo tipo di atteggiamento, possiamo rivolgerci ad una acuta analisi portata avanti dall'ufficio dei servizi strategici (O.S.S.) americano che risale all'agosto del '44. Il documento, qui citato solo in parte, è inedito: «Negli anni successivi al 1870, il mantenimento dei buoni rapporti con l'Italia era un aspetto essenziale della politica britannica nel Mediterraneo che aveva come scopo primario la neutralizzazione di ogni minaccia alla sicurezza delle comunicazioni britanniche da parte di una combinazione di potenze ostili. L'espansione italiana nel nord e nell'est dell' Africa è avvenuta senza una forte opposizione britannica perciò con qualche misura di sostegno. È vero che la predominanza del potere della marina britannica nel Mediterraneo ha messo l'Italia, in qualche modo, in una posizione di dipendenza dalla Gran Bre t agna e che l'atteggiamento britannico nei confronti dell'Italia era contraddistinto da una notevole superiorità e disprezzo benigno. Tuttavia, i rapporti delle due potenze si basavano essenzialmente su interessi comuni e legami tradizionali piutto- sto che su una qualsiasi forma di sottom issione italiana obbligata».
Ma con l'avvento del fascismo, continuano gli analisti de l1'0.S . S., tutto ciò era cambiato: «L'ascesa del governo fascista, simultanea al deterioramento notevole della posizione strategica della Gran Bretagna rispetto l'Italia - dovuto, in primo luogo, allo sviluppo di nuov e armi da guerra - tendeva a sovvertire le basi di questa amicizia anglo-italiana. Tuttavia, i governi inglesi degli anni '20 e '30 continuavano a to ll erare e talvolta ad in coragg iare la politica estera aggressiva del fascismo, forse pensando che l'Italia poteva essere tenuta a bada dalla flotta britannica. Nel frattempo, l'Italia conti nu ò ad essere un elemento utile per l'equilibrio del potere europe o. Questa situazione va integrata con la tendenza diffusa tra le classi elevate, di diverse nazioni democratiche, di considerare il fascismo una protezione contro la crescita di movimenti socia li radicali in Italia ed altrove . Gli inglesi non hanno voluto opporsi decisivamente alle aggressioni fasciste in Etiopia ed in Spagna: obiettivamente essi hanno favorito l'atta cco italiano alla Gran Bretagna ed alla Francia nel giugno del 1940».
Gli avvenimenti si erano evoluti a favore degli inglesi, co n risultati ormai evidenti: «la fine del patto d'acciaio, seg uita dalla dichiarazione di guerra di Mussolini, dall a sconfitta italiana e dalla sua resa incondizionata, per la pr im a volta, hanno me ss o il governo br itannico nella posizione di determina r e - unila teralmente - la base futura dei rapporti angl o- italiani. La preoccupazione per la rotta del Med it erraneo rimaneva una considerazione primaria della politica britannica nel sud dell'Europa. La Gran Bretagna, chiaram ente, era interessata a ricostituire una situazione di altri tem pi, qu ando l' Itali a non costitu iv a una importante mi n accia agli in teres si britannici.
«In teoria questo obiettivo poteva es sere raggiunto con due m eto di:
1) una cooperazione volontaria anglo-italiana, basata su interessi ed ideali comuni, come si era verificato nell'epoca prefascista.
2) una cooperazione involontaria, basata sulla sottomissione completa di un'Italia indebolita in modo decisivo.
«Le tradizioni liberali britanniche puntavano verso la prima delle soluzioni, che avrebbe comportato degli sforzi per instaurare un governo democratico antifascista in Italia e la ricostituzione dei rapporti anglo -americani sulla base dell'amicizia storica e sugli interessi comuni su larga scala (equilibrio europeo, libertà dei mari, governo democratico etc.). Il governo britannico, apparentemente, ha preferito cercare di ridurre l'Itali a ad uno Stato dipendente.
«Facendo queste scelte, il governo britannico è stato fors e influenzato in parte dai timori di vedere cadere un'Italia democratica prima o poi sotto il dominio comunista, diventando un avamposto delle influenze sovietiche nel Mediterraneo. I critici dell'attuale governo britannico, mettendo in rilievo la sua pr esunta paura di movimenti popolari, la sua tendenza di cont are su gruppi economici e sociali che in altri tempi hanno collaborato con il fascismo, hanno descritto l'attuale politica britannica in Italia come mirante alla conservazione del «fascismo senza Mussolini» (27).
La diffusione su larga scala di punti di vista di questo genere, nei più alti livelli del governo americano, era solo uno dei risultati negativi çli quella presa di posizione decisiva da parte degli inglesi contro l'Italia, rappresentata dall'Armistizio lungo, episodio fra i meno onorevoli della partecipazione politica britannica alla Seconda guerra mondiale.
* * *
NOTE
(1) R. Murphy, «Diplomat among the Warriors», Garden City (N.Y.), 1964, pp. 166-167 .
(2) W Reitzel, «The Mediterranean, Its Role in American Foreign Policy», N. Y , 1948, p. 26.
(3) Cf. D.W. Ellwood, «L'Alleato nemico La politica dell'occupazione anglo -americana in Italia, 1943-1946», Milano, 1977, pp. 214-17.
(4) Per un resoconto normalmente trascurato di queste trattative, cf. Genl. Sir Kenneth Strong , «Intelligence at the Top», London, 1968, ca. 5.
(5) W.S. Churchill, «The Second World War», vol. 9, «The Invasion of Italy», ediz. del 1972, p. 89.
(6) Ibid. pp. 38-41.
(7) R.H. Bruce Lockhart, «Comes the Reckoning», Lon., 1947, pp. 252-53.
(8) Commento del F.O. ad un telegramma Eisenhower - Combined Chiefs of Staff, 16/10/43, in Public Record Office, Londra (PRO), Foreign Office Generale Correspondance (FOGC), fascicolo R/10350/6447/22.
(9) Cf. «Memorandum sulle relazioni anglo-americane in Italia (in particolare nella Commissione alleata di controllo)», del rappresentante personale del Presidente americano presso la Santa Sede, Myron C, Taylor, 15/10/44, in «Vaticano e Stati Uniti, 1939- 1952. Dalle carte di Myron C. Taylor», a cura di E. Di Nolfo, Milano, 1978, pp. 377-83 .
(10) Cf. A . N . Garland & H.McG Smyth, «Sicily and the Surrender ofltaly», volume nella serie, «The U.S. Army in World War II», pp . 448-50.
(Il) Churchill , op. cit., pp. 56-57.
(12) Il documento del F.O. si trova in PRO.FOGC. R/6793/6447/22 (tel. del F.O. a Washington del 24/7/1943).
(13) Churchill, op. cit., pp . 175 -177.
(14) Ellwood, op. cit., pp. 39-43 .
(15) Churchill, op . cit., pp. 112-14.
(16) Per i dettagli, Ellwood, op. cit., pp. 37-38.
(17) Cf. tel. F.O. -Ambasciata britannica a Mosca, 21/9/43, in PRO, FOGC, U/4447/3646/22.
(18) Il telegramma di Stalin è riprodotto in «Foreign Relations of the United States», 1943, Vol. 1, pp. 782- 83.
(19) Churchill, op. cit., p. 109. ·
(20) Cf. Graham Ross, «Foreign Office Attitudes to the Soviet Union, 1941-45», in Walter Laqueur, ed., «The Second World War. Essays in Military and Politica! History», Lon., 1982, pp 255-74
(21) Cf. Sir Llewellyn Woodward, «British Foreign Policy in the Second World War», Lon., 1962, pp. 230 -32 .
(22) Cf. A. Varsori, «Senior» o «Egual» Partner?» in Rivista di Studi Politici Internazionali, n 2, 1978, pp. 229-260.
(23) Churchill, op. cit., pp . 107-08.
(24) Cf. verbale di una conversazione entro Eden e Maisky, Ambasciatore sovietico a Londra, 22/6/43, in PRO, FOGC, R/6793/6447/22.
(25) Memorandum del F . O . «Relations with the Italian Government and Control Commission in ltaly», 4/10/43, in PRO, FOGC, R/10097/7447/22.
(26) Commento de l F.O del 20/9/43 in PRO, FOGC, R/8935/5880/22.
(27) OSS Report n. 2318, «Brit ish Policy in Italy», 15/8/44, in National Archives, Washington.D.C . , Record Group 226, OSS, Research and Analys is Branch.