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LAMBERTO MERCURI OSSERVAZIONI SULL'ARMISTIZIO

La Comunicazione dal titolo «armistizio e la nascita dei partiti politici» mi porta necessariamente ç1 compiere alcune precisazioni anche di carattere metodologico, rese del resto necessarie dall'ampio fermento di revisione ideologica e storica in atto da anni sia a livello di ricerca che di interpretazione storiografica.

Una prima notazione positiva, mi pare utile esternarla: e concerne il carattere aperto e problematico dei nostri lavori. E poi, per venire a qualche più pertinente dettaglio, dirò subito che il titolo della mia «conversazione» rischia di essere, in qualche misura limitativa, giacchè in Italia nel settembre-ottobre 1943, e anche prima di tale data naturalmente, accaddero molte cose e una visione degli eventi, sia pure qui dichiarati, rischia sempre di essere un pò partigiana o riduttiva secondo la quale l'armistizio di per sè può sembrare un argomento del tutto avulso da altre realtà o accadimenti. È vero che il nostro Convegno prevede una intelligente sequenza di tali accadimenti visti da varie angolazioni e di più argomenti collegati all'Armistizio. Il giudizio storico -è noto - è dato da molte cose ma è un problema che scaturisce dal vivo delle coscienze del proprio tempo e della cultura di cui ci si è nutriti e i materiali non si traggono solo dalle fonti, ma anche da molti giudizi espressi dai contemporanei, dalle suggestioni che provengono da opinioni ripetute, dalle passioni degli uomini o da altro ancora.

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In questo ordine di idee, occorre riconoscere che un discorso organico non potrebbe cominciare «ex abrupto» con 1'8 settembre 1943 ma deve risalire almeno alla considerazione di alcuni eventi decisivi che caratterizzarono appunto il 1943: la caduta del fascismo, i <<quarantacinque giorni», l'Armistizio, la nascita o la ricostituzione dei partiti politici e l'inizio della Resistenza armata. Il periodo infatti che va dal 25 luglio all'8 settembre 1943, iniziato con la caduta del regime mussoliniano e chiuso appunto con l'annunzio dell'armistizio con gli anglo-americani dato dal Maresciallo Badoglio e firmato a Cassibile, rimane il momento più drammatico della nostra più recente storia che non sarebbe però del tutto chiaro se non si risalisse alla considerazione della guerra perduta, argomento già toccato da altri eminent i colleghi e da altri specialisti.

In quegli angosciosi quarantacinque giorni parve tuttavia che l'Italia sconfitta ed esposta a tremendi bombardamenti quotidiani e all'invasione di due eserciti stranieri, spartito il territorio italiano tra due padroni, il tedesco e gli anglo-americani, non avesse più non solo la volontà di continuare la guerra ma di tornare ad inserirsi come popolo libero tra gli altri del mondo.

Eppure, già vibrava in quella generale abiezione l'atmosfera della ripresa, destinata a seguire quell'oscuro tracollo: la rapida resurrezione degli italiani che trovarono in sè lo slancio a partecipare di lì a poco alla lotta contro i tedeschi fino alla riconquista del paese, dell'indipendenza del paese ricostituito come in una «nuova» nazione.

Le forze antifasciste che si erano andate raggruppando in quei giorni nei comitati unitari delle opposizioni, erano in fase embrionale e di assai tenue incidenza. Anche nell'evento della caduta del regime mussoliano i partiti o i gruppi politici ebbero assai scarsa o nessuna incidenza.

Di certo tali forze non erano in grado di imporsi nel corso dei «quarantacinque giorni» come alternativa al potere «monarchico-badogliano» ma, in un modo o nell'altro, erano tuttavia rappresentative dei sentimenti popolari anche se non era facile comprendere quale peso effettivo tali gruppi, persone o partiti avessero. E di ciò v'erano le ragioni. Ma andiamo per ordine. Nella seconda metà del 1942 la ricostituzione o la costituzione dei partiti antifascisti era ancora allo stato embrio- nale e a renderla tale non era solo l'occhiuta vigilanza delle varie forze di polizia ma anche per una serie di difficoltà: di ristabilire antichi legami andati perduti o affievoliti nel corso del tempo e ancor più di stabilirne dei nuovi e l'affiorare, in non pochi casi, di divisioni anche profonde tra uomini che - uniti per tanti anni da un comune atteggiamento di critica e di opposizione al fascismo, adesso al momen to di prepararsi a passare all'azione, mostravano di risentire o sentire prospettive diverse e, talvolta, persino di giudicare diversamente i loro rispettivi comportamenti passati di fronte al fascismo. In realtà, più che di partiti, è giusto parlare e più propriamente, di gruppi sparsi nel paese e spesso neppure sistematicamente collegati tra di loro. Tra questi gruppi i più significativi erano, per un verso, quelli che in alcune maggiori città italiane raccoglievano i rappresentanti della vecchia classe politica liberale-democratica ai quali faceva capo un certo numero di antifascisti più giovani e di intellettuali che, non di r ado, avevano fatto in tempo a fare le loro prime esperienze politiche nei partiti e movimenti del periodo aventiniano, che avevano svolto successivamente una certa attività clandestina e che talvolta erano legati ai maggiori esponenti da vincoli di na tura familiare; e per altro verso quelli attorno ai quali si andavano ricostituendo, quasi sempre ad oprea di vecchi esponenti popolari, le file del partito cattolico. Un terzo polo era poi costituito dal nuovo Partito d'Azione che raccoglieva elementi, in generale, più giovani e di varia formazione ideologica-politica anche se i più significativi dirigenti di esso non si differenziavano molto, quanto a formazione ad ambienti frequentati in passato, dai loro coetanei gravitanti intorno ai vecchi esponenti liberal-democratici e, anzi, piuttosto spesso ne avevano condiviso fino a pochissimo temp o prima le posizioni.

Quasi inesistente a quest'epoca il Partito Socialista (le sue prime manifestazioni di vita risalgono all'estate 1942 e la sua effettiva ricostituzione avvenne più tardi) e quello repubblicano che avvenne in aree di forte tradizione repubblicana. Quan- to al PCI - lo ha scritto Amendola - anch'esso aveva un'intelaiatura tutto sommato tenue tant'è che il 1° numero dell' Unità clandestino venne alla luce nel luglio. Ma i legami tra i vecchi compagni non erano stati recisi del tutto nel corso del tempo fascista. L'anno del processo ricostitutivo o lo stabilirsi e l'intensificarsi dei contatti stavano in un rapporto di causa-effetto con il precipitare della situazione militare: non è un caso che essi furono successivi alla vicende negative del fronte italotedesco in Africa settentrionale e anche ad alcuni eventi di politica internazionale. Mario Vinciguerra aveva colto bene, osservando come nel Mezzogiorno, nonostante tutto, una certa agitazione politica era stata mantenuta viva e che «l'ambiente nel suo complesso, era predisposto ad una resurrezione di superstiti persuasi ·che, passata la bufera, si sarebbe potuto riaprire al pubblico il vecchio albergo co n alcuni adattamenti imposti dalle circostanze» («Un'altra guerra continua» in Mercurio, A.II 0 , n. 9 , maggio 1945).

Tutte le forze politiche erano convinte che fosse urgente e possibile allontanare Mussolini dal potere e far uscire l'Italia dal conflitto. Ma l'accordo praticamente finiva qui: sui mezzi, le alleanze e gli obiettivi più particolari e soprattutto sull'atteggiamento da tenere verso i fascisti moderati e, cosa ancora più importante, verso Vittorio Emanuele III e lo stesso istituto monarchico, le posizioni erano diverse e le divisioni non erano solo tra le varie componenti dell'antifascismo ma vivevano anche all'interno di alcune di esse: di sicuro all'interno dei liberaldemocratici e, almeno, in un primo momento, degli stessi comunisti.

In quella situazione, era venuto al centro delle meditazioni dei rappresentanti delle forze politiche, (e già lo era stato negli anni dell'esilio e "della clandestinità" in patria) il problema delle strutture sulle quali si sarebbe dovuta ricostruire la «nuova» Italia. In quei momenti, convulsi e tragici, appariva abbastanza ipotizzabile la nuova organizzazione statuale come un vero e proprio «stato dei partiti» (e i fatti successivi si incari- cheranno di dimostrare la fondatezza del fenomeno); quei gruppi (incunaboli dei futuri Comitati di Liberazione Nazionale) avevano chiesto al re un risoluto antinazista, ma il monarca fu contrario ad un cambiamento repentino della situazione; anzi era contrario a contatti con chi era fautore di ogni cambiamento, anche con gli esponenti del prefascismo che egli chiamava «revenants». In realtà, il comportamento delle autorità ufficiali italiane non fu certo specchio di una politica lineare ma piuttosto rivelatrice di una determinata militaresca mentalità: rovesciare l 'alleanza e combattere accanto all'ex nemico per non perdere di vista il salvataggio delle istitutzioni dinastiche e con esse il resto.

È probabile che gli Alleati non seppero valutare pienamente il reale stato delle cose italiane; tra l'altro essi non riuscivano a comprendere la paralizzante paura che i circoli dirigenti italiani avevano dell'ex alleato germanico e giudicarono o vollero pensare che la richiesta d'armistizio era sostanzialmente un «gioco» concordato per conoscere i piani degli anglo-americani e per evitare l'occupazione tedesca dei territori italiani.

In effetti dire che si ebbe paura di aver coraggio è dire soltanto una parte della verità e occorre rifarsi alla considerazione che le varie schermaglie con cui si pensava di tenere a bada i tedeschi e raggiungere un qualche accordo con gli angloamericani finirono per seminare incertezza, confusione e lu tti tra le popolazioni italiane, le forze armate e per umiliare il paese. Gli avvenimenti dell'8 settembre maturarono quasi fatalmente in quest'atmosfera. «Il colpo di stato» regio aveva prodotto altre fratture, pericolose indecisioni, timide furberie che avevano approfondito le incomprensioni e gli equivoci tra il governo Badoglio, gli Alleati e il paese, come si accennava. In verità, le azioni da intraprendere non erano del tutto chiare e non tutti erano risoluti a combattere. Impossibile resistere agli angloamericani, assai pericoloso staccarsi dalla alleanza con Hitler. Sul piano dei partiti furono significative le decisioni dei rappresentanti dei gruppi che apparivano più risoluti: gli azionisti a Firenze (5-6 settembre) mentre i comunisti ri uni ti a Ro~a nei giorni 29 e 30 agosto 1943 avevano già costituito la loro direzione . La prima riunione di cui discorriamo fu rivelatrice di un «modello di maturazione politica e di tenuta morale di fare di quello scelto manipolo di intellettuali una delle forze conduttrici della Resistenza , sin quando avrebbe potuto resistere agli interni impulsi di divaricazione» (sono parole di Ferruccio Parri), e l'altra egualmente risoluta nel rivendicare il potere decisionale alle forze popolari e nel porre la necessità della lotta. Al di là di queste due storie parallele, si fa strada più in generale la scelta della guerra ai tedeschi. Naturale che anche gli altri partiti sentissero la necessità di combattere i tedeschi e l'appendice fascista che si andava riorganizzando in quei momenti grazie alle armi germaniche. Ma non furono soltanto i gruppi politici che sentirono la necessità della lotta: vi furono anche i militari, soprattutto nei gradi inferiori che presero la via dei monti e non gettarono le armi. Ma nel quadro del momento non è da sottovalutare un certo stato d'animo, piuttosto diffuso d'accettazione rassegnata degli eventi, che era nell'animo di una parte dei militari, e di non pochi cittadini, una sor ta di scelta del quieto vivere o anche della «neutralità» tra due invasori, tedesco e anglo-americano, che albergava in una non trascurabile parte delle popolazioni italiane.

A questo clima di attendismo o di neutralità a loro volta si piegarono anche alcuni esponenti dei partiti antifascisti convinti che era meglio non essere coinvolti in una vicenda da essi non sentita o avversata per non assumere responsabilità o pesanti eredità.

A parte quanto si è già osservato, in quei giorni non mancarono tuttavia i segni tangibili della rinata presenza dei gruppi politici. Anche per il gusto con il quale, attraverso comizi, improvvisati cortei e altre manifestazioni di giubilo, gli italiani assaporarono i frutti della libertà che avevano perduto vent'anni prima. Non furono numerosi, in realtà, coloro i quali valutarono correttamente che la caduta del fascismo si accompagna- va al proclama del Maresciallo Badoglio «la guerra continua» e quali conseguenze tale comunicato avrebbe di lì a poco com portato.

A Roma, in Via Adda, il 9 settembre si riunirono alcuni rappresentanti dei partiti politici per dar vita, sull ' esempio di quanto già era avvenuto in Francia sotto l'occupazione germanica, al Comitato di Liberazione Nazionale.

Ecco il testo della decisione:

«Nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla Resistenza, per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle Libere Nazioni».

L'indomani con l'aggravarsi della situazione militare della Capitale, il Comitato redige un appello alla resistenza armata del popolo, appello che sarà diffuso con tutti i mezzi possibili e in un generale stato di disfacimento. In un momento tragico e decisivo, la volontà unitaria di coloro i quali si dicevano rappresentanti delle diverse forze politiche organizzate puntava sulla guerra liberatrice contro la Germania nazista e contro l'appendice fascista salodina. I sei movimenti d'azione politica del CLN (la DC, il PC, il Pd' A, il PSI d'unità proletaria, la Democrazia del Lavoro e il PLI) seppero esprimers i allora e successivamente con abbastanza chiarezza sul futuro assetto democratico del paese con i seguenti obiettivi:

- riscattare l'Italia, combattendo, dallo stato di soggezione, come paese ex nemico dovuto alla resa incondizionata agli Alleati, dalla monarchia complice del regime fascista e procedere alla ricostruzione e al rinnovamento delle istituzioni e della società secondo principi e direttive di libertà e di giustizia che verranno poi sanciti nella Carta Costituzionale nel 1948.

Qui va fatta una ultima considerazione, sia pure di passata. Non ci sentiamo nè possiamo riprendere, qui per ragioni di tempo quanto è stato ripetutamente osservato e lamentato sul- la mancan za di una storia organica dei partiti politici dalla loro costituzione o ricostituzione dopo il lungo tun ne l del fascism o. Che si sia guard ato poco o molto in quella direzione storiografica, forse anche per una tradizione d'ossequio all'accademia secon do la quale non possono diventar oggetto d'indagine storica temi appartenenti a periodi vicini o relativamente recenti sui quali il tempo non abbia operato le opportune decantazioni (le eccezioni non mancano, naturalmente) de ntro i parti ti e ai loro meccanismi, è cosa certa . Si tratta -a nostro vedere - di un campo da dissodare e da coltivare. È del pari certo che esistono problemi pregiudiziali di fonti anche quando non sono andate distrutte o perdute, problemi di tecnica della ricerca, della utilizzazione critica delle font i, di natura interpretativa ecc. per cogliere le complessità estreme degli elementi.

E così per quanto riguarda il tasso pagato per così dire alle ideologie nella interpretazione della storia italiana del secondo dopoguerra e dalla ricostituzione delle vicende dei partiti come si diceva spesso si è lasciato il compito ai politologi o ai sociologi (o come qualcuno osservava anche ai «tutto logi») per i quali l'esame dell'argomento è sembrato quasi sempre una cosa non ben definita che sta tra la atemporale e lo schemati co, o poco attenta al vaglio del dubbio metodico o peggio ancora condizionato da indirizzi provenienti da gerarchie partitiche.

Una qual siasi fede politica rion può, non deve rinunciare a un lavoro cri tico. Son o rimasti -a nostro vedere - fuori della storiografia vera e propria sistemi organi zzat ivi, i nessi tra dirigenti e iscritti, i rapporti tra politica del partito e composizione sociale degli iscritti e anche l'analisi del diverso e del comune all'interno stesso del movimento di azione politica e la dialettica tra questi e gli elettor i. E cos ì le vicissitudini e la mentalità di una generazione che si è fatta promotrice di tale rinascita.

Sarebbe un errore ridurre tutto il «nuovo» dell'Italia repubblicana alla nascita o alla rinascita dei partiti politici. Anzi pensiamo che si debba vedere con maggiore attenzione verso altri settori e soprattutto al campo internazionale.

Ma non poco del cambiamento dell'Italia e della sua ascensione sociale lo si deve ai partiti politici, sia sul piano della ragione sia sul piano del pluralismo politico e soprattutto per quel che riguarda gli anni che vanno dal finire del 1943 agli inizi del 1950. È una storia che s'intreccia anche con il vecchiume, indugi e falsi schemi rivoluzionari, mitologie, chiasso, fughe dalla realtà, non sempre avvertite. Anche - forse soprattutto nel corso della Resistenza - il discorso potrebbe avere una precisa valenza. Comunque la si voglia vedere, la vicenda resis t enziale è anche storia di partiti e dei movimenti politici. In questa cornice, fatte le necessarie distinzioni storiche, ci potrebbe soccorrere il fatto che già nel corso della lotta si parlò e si tenne conto degli ideali, dei miti, delle passioni, della tradizione che sono anche criteri storici per cui non sarà facile negare che non vi siano state lacerazioni nella storia d'Italia: un salto tra Stato liberale e il fascismo e un altro tra fascismo e post-fascismo. Un mezzo, uno strumento di liberazione dal più recente passato. Quel che è avvenuto allora e negli anni successivi, cioè sui risultati positivi e negativi oppure sui ritardi st orici anche dei partiti italiani rispetto alla realtà politica e sociale (e a quella internazionale) è un altro discorso e tutto da discutere che esu~ la completamente dal compito che mi è stato qui affidato.

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