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ANTONIO VARSORI
L'ARMISTIZIO E LE FORZE POLITICHE IN ESILIO
Nell'esaminare le reazioni degli esuli antifascisti agli eventi de11'8 settembre 1943 è necessario tener conto delle valutazioni che essi più in generale diedero della crisi del fascismo e dello stato italiano, crisi posta in evidenza dapprima dalle sconfitte militari, quindi dall'estromissione di Mussolini, dai «45 giorni>> badogliani, dall'armistizio, dalla dissoluzione delle forze armate e, infine, dalla fuga della famiglia reale da Roma. Questi avvenimenti infatti rappresentano gli elementi fra loro strettamente correlati di un unico- processo che aveva avuto inizio con il coinvolgimento italiano nel conflitto mondiale e che si sarebbe concluso solo nel dopoguerra.
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Gli ovvi limiti derivanti da un intervento a un convegno rendono impossibile un'analisi dettagliata che si estenda a tutti i settori dell'emigrazione antifascista, una realtà oltremodo complessa attiva in questi anni in numerosi paesi: dagli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Francia, all'Egitto, al Canada, all' Australia, al Sud America. Questa indagine si limita dunque a prendere in considerazione le opinioni e le reazioni che risultano, ·a nostro avviso, più significative.
Ciò premesso è opportuno indicare quale «chiave di lettura» è stata utilizzata per questo studio. In un saggio sui rapporti tra il sistema internazionale e il sistema politico italiano negli ultimi quarant'anni, Ennio Di Nolfo ha offerto, tra l'altro, una utile periodizzazione. In tale ambito l'arco di tempo tra le fine del 1942 e la prima metà del 1943. è stato definito della «crisi del fascismo». La seconda metà del 1943 e i primi mesi del 1944 sino alla «svolta di Salerno» furono caratterizzati, sempre a giudizio del Di Nolfo, dall' «orgoglio antifascista e dal rifiuto della realtà internazionale», mentre il periodo successivo è stato indicato come quello della «collaborazione antifascista e della subordinazione alla grande alleanza internazionale» (1).
Questa periodizzazione, nonchè l'opinione di altri auto r i (2), pone in luce la particolare rilevanza internazionale degli eventi italiani dell'estate 1943. Il 25 luglio prima - conseguenza in qualche modo diretta dello sbarco alleato in Sicilia (operazione <<Husky») - il 3 e 1'8 settembre poi erano infatti, non solo uno spartiacque nella vi t a politico-sociale della nazione, ma anche il sintomo di radicali mutamenti nella posizione internazionale dell'Italia. Quest'ultima scompariva definitivamente dal novero delle grandi po t enze e dal 1943 per un lungo periodo di tempo - certamente sino agli inizi degli anni '50essa sarebbe stata spesso considerata un «oggetto» di politica estera, più che un soggetto internazionale autonomo. Questa evoluzione contrastava con i mutamenti politici interni, con la fine della dittatura, con il seppur lento recupero da parte del paese delle libertà democratiche. D'altro canto, come lo stesso schema interpretativo proposto da Di Nolfo indica, l'antifascismo italiano stentò a rendersi conto di questa realtà e parve anzi avanzare per il futuro del paese soluzioni che si ponevano in contrasto con la strategia delle potenze alleate e con i nuovi equilibri internazionali in cui l'Italia si stava inserendo. Il futuro politico-istituzionale della nazione, messo in discussione proprio dagli eventi legati a11'8 settembre, si trovò al centro del dibattito fra i partiti antifascisti. Nell'azione e nei progetti di tali forze, sia nel regno del Sud , sia nell'Italia centro-settentrionale occupata dai nazisti , vi era quale primo obiettivo il completamento del processo avviato con il 25 luglio e con l'armistizio, ovvero la realizzazione di una «frattura» netta con il passato, quale premessa per la costruzione di un paese nuovo. Se in tale contesto la liberazione della penisola dai tedeschi e la distruzi one del fascismo di Salò erano esigenze ovvie e primarie, la maggioranza delle forze antifasciste concordava sulla necessità di allontanare dal potere anche i due maggiori artefici del rovesciamento di Mussolini e dell'armistizio con gli anglo-americani, Vittorio Emanuele III e Pietro Badoglio. Ad essi infatti erano attribuite parte delle colpe del regime e l'incapacità di realizzare lo sganciamento dalla Germania.
Questo atteggiamento intransigente, anche se all'interno dell'antifascismo non mancavano significative sfumature, questa politica di contrapposizione alla monarchia e a Badoglio, ma anche agli alleati, permase sino all'aprile del 1944, sino a quando cioè con la «svolta di Salerno» e il nuovo atteggiamento assunto dal PCI, gran parte delle forze antifasciste dovettero piegarsi all'evidenza che gli avvenimenti politici italiani non erano che parte di un'evoluzione del sistema internazionale, caratterizzata da mutati equilibri, dall'affermarsi di nuovi predomini e, nel caso italiano , dall'interazione fra le scelte di Washington, di Londra e, in misura minore, di Mosca.
Un parziale rifiuto della realtà e delle implicazioni internazionali furono dunque fra gli elementi caratterizzanti la posizione degli antifascisti nella penisola di fronte agli eventi del1' estate 1943. Ma quali furono le previsioni, le interpretazioni, le reazioni di quei settori dell'opposizione a Mussolini, che avevano agito sino ad allora all'estero, spesso nelle capitali delle nazioni in guerra con l'Italia? Potevano essi aver acquisito, grazie ai contatti intrattenuti con i responsabili alleati, alla libertà goduta, alla possibilità di informazione attraverso una stampa libera, una visione più chiara del futuro ruolo dell'Italia? Compresero il significato internazionale degli avvenimenti italiani?
E quali conseguenze ne trassero? È su questo aspetto dell'atteggiamento degli esuli che questa indagine intende soffermarsi. Con l'occupazione della Francia da parte tedesca nell'estate del 1940 gli Stati Uniti erano divenuti ben presto il più importante centro di attività dell'emigrazione antifascista. In questo paese si erano rifugiate personalità quali Carlo Sforza, Alberto Tarchiani, Randolfo Pacciardi, don Luigi Sturzo, Ambrogio Donini, Giuseppe Berti; da alcuni anni inoltre Gaetano Salvemini dimorava e insegnava presso la Harvard University (3).
Come si è tentato di dimostrare in un recente volume (4), l'emigrazione antifascista nel continente americano, in particolare quei settori che si riconoscevano nell'azione del gruppo di tendenze liberaldemocratiche «Mazzini Society» e del suo leader Carlo Sforza, tentò di elaborare tra il 1941 e il 1942 un preciso progetto politico mirante a determinare l'assetto politico della penisola una volta scomparso il fascismo. Tale progetto, che prevedeva quali fasi intermedie la realizzazione di una sorta di governo in esilio (il Comitato nazionale italiano) e di una legione di volontari da affiancare alle truppe alleate, delineava per il periodo postbellico:
« .. .l'immagine di un'Italia defascistizzata, laica, ma non anticlericale, probabilmente repubblicana, in cui una nuova classe politica antifascista, ma legata alle migliori tradizioni del Risorgimento e della democrazia prefascista, fosse pronta, nel rispetto del sistema economico capitalista e delle esigenze della <<legge» e dell' «ordine», a concedere dall'alto al popolo italiano una sorta di New Deal» (5).
Questo progetto politico, di cui Sforza fu il maggiore interprete, ma che fu per qualche tem po convidiso da Salvemini e da Sturzo, non trascurava il contesto internazionale; presupponeva anzi un chiaro coinvolgimento dell'Italia postfascista nel sistema occidentale e una stretta.alleanza con gli Stati Uniti, di cui la penisola sarebbe divenuta una sorta di «junior partner» mediterraneo. Proprio da parte di Washington non vi fu però lo sperato appoggio alla creazione del Comitato nazionale e della legione di volontari. Inoltre lo stesso movimento antifascista fu presto condizionato da profondi contrasti, tra l'altro tra Sforza e Salvemini, che si manifestarono in merito alla questione dei rapporti con gli alleati.
Alla fine del 1942, mentre si avvicinava rapidamente una decisa evoluzione della situazione militare, nonchè politica, nel Mediterraneo, la strategia per la costituzione del Comitato nazionale e della legione falliva in modo evidente. Londra e Washington d'altro canto sceglievano di affrontare il «problema italiano» in un'ottica prevalentemente militare, puntando soprattutto all'eliminazione dell'Italia quale potenza belligerante. Questa scelta implicava l'accantonamento di qualsiasi piano che tenesse conto dell'emigrazione antifascista . La presa di posizione alleata non scoraggiò gran parte degli esuli. Questi ultimi attribuirono d'altronde l'atteggiamento anglo-americano a motivazioni transitorie ed essi dedicarono quindi una crescente attenzione agli eventi della penisola, rendendo note le loro posizioni e avanzando programmi e progetti.
Il tema dell'evoluzione della situazione italiana fu affrontato da Sforza nel maggio del '43 in un articolo dal titolo significativo «Resisterà l'Italia di fronte all'invasione?». In esso il conte sosteneva che prime conseguenze di uno sbarco alleato sarebbero state l'amichevole accoglienza da parte italiana dei liberatori e la rapida adesione dell'esercito alla causa alleata. Quanto ai fascisti, essi non avrebbero opposto alcuna seria resistenza, mentre Mussolini sarebbe fuggito, si sarebbe suicidato o sarebbe stato assassinato. Per ciò che concerneva la monarchia, anche il re sarebbe fuggito e il popolo italiano avrebbe finito con lo scegliere una forma di governo repubblicana. Il leader della «Mazzini Society» coglieva quindi con esattezza un elemento del futuro panorama italiano, la rapida dissoluzione del regime fascista, ma trascurava come alcuni gruppi di potere, che sino ad allora avevano collaborato con Mussolini, avrebbero potuto alfine trovare la forza per disfarsi del Duce e proporsi quali interlocutori degli alleati. In particolare egli sembrava sottovalutare la monarchia e l'esercito. Era questa sottovalutazione una forma di incomprensione della realtà italiana? La risposta è a nostro avviso solo parzialmente positiva. Sforza non dubitava dell'esistenza di una propensione britannica, ma non americana, al compromesso con le forze conservatrici italiane, fossero esse incarnate da Badoglio, da Vittorio Emanuele III o da Dino Grandi. Come egli aveva sostenuto sin dal 1941, però, Vittorio Emanuele poteva forse assicurare l'estromissione di Mussolini dal potere, ma non sarebbe stato in grado di porre le pr emesse per l'instaurazione di un fo r te regime democratico nel dopoguerra. Il permanere dei Savoia al potere avrebbe al contrario favorito il «disordine» polit ico e s ociale, preparando la stra da a una nuova dittatura. GU alleati dovevano perciò considerare quali interlocutori per l'Italia postfascista non il re e i s uoi seguaci, bensì l'antifascis mo liberaldemocratico. Il vero prob lema per Sforza non era dunque la fine del fascismo, data per cer ta e imminente, ma la creazione di un nuovo assetto istituzionale e politico del paese, assetto che dipendeva in lar ga parte dalle scelte alleate. Questa convinzione era implicita nelle paro le del conte, il quale scriveva:
«Gli italiani presteranno fede ad altri italiani onesti e rispettati - ma essi non presteranno fede a proclami stranieri.
La storia italiana è piena di proclami dei governi francese, inglese e austriaco fatti all'indomani della ca duta di Napol eone - proclami pieni di gra ndi promesse di unità e lib ertà, ma presto dimenticati appena il bisogno dell'aiuto italiano scomparve. Sebbene sia vero ch e gli italiani stanno pregando per la loro liberazione, des id ero avvert ire ancora una vo lta gli alleati che la strada verso una completa cooperazione da parte degli italiani deve essere preparata con cura » (6).
Sforza sott olineava dunqu e il ruolo che gli anglo-a m ericani avrebbero giocato nella fase deci siv a della cr isi italiana, ma sembrava nutrire la speranza di un possibile accordo fra l'an tifascismo e i governi alleati.
Se i progetti del conte apparivano condizionati da una certa caute la «dip lomatica » e da una voluta fiducia verso Was h ington e Londra, b en più esplicite erano le a nali si e le proposte prove nienti da altri settori dell 'em igrazi one antifascista negli Stati Uniti. Fra la primavera e l'estate de l 1943 Gae tano Salvemini, in collaborazione con un suo allievo, Giorgio La Piana , affrontò il «prob lem a Ita lia» in un lungo sagg io dal titolo «What to do with Italy» (o «La sorte dell'Italia) (7). I due antifascisti non na scondevano i loro intenti po lemici nei confronti della politica perseg uita sino a quel momento dagli anglo-americani ver- so la penisola. Essi per prima cosa denunciavano il pericolo che gli alleati mirassero a far uscire l'Italia dal conflitto attraverso l'instaurazione di un «fascismo senza Mussolini». A questo proposito l 'analisi di La Piana e di Salvemini mostrava alcune interessanti capac ità di previsione, ma anche alcuni evidenti errori di prospettiva. I due antifascisti non volevano prestar fede - come Sforza d'altronde - all'eventuale allontanamento di Mussolini a opera della monarchia e dell'esercito, ritenute entrambe istituzioni troppo compromesse con il fascismo e dunque incapaci di ribellarsi a esso. Ove invece le previsioni si rivelavano esatte era nel delineare lo scenario che avrebbe fatto seguito a un abbandono dell'Asse da parte dell'Italia. Scrivevano i due autori:
«Il giorno in cui il Governo italiano vacillerà nella sua f edeità all'alleanza tedesca sarà un momento doloroso perchè sarà anche il giorno nel quale la invisibile occupazione germanica diventerà interamente visibile» (8).
Non è questa la sede per analizzare in maniera dettagliata quanto scritto in «What to do with Italy», ma limitando le nostre osservazioni alle previsioni circa l'imminente crisi politica italiana, va sottolineato come Salvemini e il suo collaboratore indi viduas sero con una certa esattezza altri caratteri di tale crisi. Essi non condividevano l'ottimismo di maniera di Sforza e prevedevano che il crollo militare non sarebbe stato accompagnato da un'automatica liberazione del paese da parte alleata. Si prefigurava al contrario una dura lotta tra il movimento di opposizione al regime e le residue forze fasciste. Né ci si faceva soverchia illusione circa l'evoluzione della situazione militare:
«Per un pò di tempo i nostri giornalisti e strateghi in poltrona hanno riempito intere colonne di profezie piene di speranza e in apparenza logiche, secondo le quali i tedeschi avrebbero già deciso di abbandonare l'Italia al suo destino. L'Italia , osservarono detti strateghi, è diventata un peso, difficile com'è da difendersi contro l'invasione, perc iò i generali tedeschi sarebbero pronti a ritirarsi al di là del Brennero nel cuore dell'i- nespugnabile fortezza europea. Pascendosi nelle illusioni questi strateghi dimenticano che è nell'interesse tedesco, sia dal punto di vista militare, come dal punto di vista economico, di continuare a fare la guerra in territorio non tedesco fino a quando sarà possibile e che una ostinata difesa dell'Italia non è affatto impossibile. O per lo meno che si può fare della sua occupazione un'impresa lunga e difficile per gli alleati» (9).
Il realismo di Salvemini si spingeva oltre e si annunciava in modo ben più radicale rispetto alle enunciazioni di Sforza che il futuro dell'Ita lia sarebbe stato deciso dagli alleati; si scriveva infatti:
«Dopo aver fatto la loro resa <<militare», le potenze del1' Asse saranno costrette ad inchinarsi davanti a qualsiasi decisione «po li tica» che i vincitori possano imporre. Esse dovranno pure accettare incondizionatamente una pace imposta» (10).
Di fronte a questa eventua li tà le proposte di Salvemini e La Piana erano semplici: gli alleati dovevano accettare quali interlocutori per l 'Italia postfascista gli oppositori di Mussolini, questi a loro volta dovevano accettare un ridimensionamento del ruolo internazionale del paese, cercando però di preservare la piena indip ende nza di quest'ultimo di fronte a Washington e a Londra. Essi non si nascondevano la difficoltà di questo obiettivo e rifiutando ogni ipo tesi di compromesso puntavano sull'aiuto delle opinioni pubbliche anglosassoni e sui gruppi di pressione democratici e progressisti. In realtà - al pari di Sforza - gli au tori di «What to do w'ith Italy» non comprendevano su quale piano si stessero muovendo gli anglo-americani nel dete rminare il loro atteggiamento verso l'Italia. Di fronte all'approssimarsi della crisi del fascismo, Washington e Londra decisero di perseguire obiettivi di prevalente carattere militare. Se si rifiutava l'ipotesi del dialogo con il movimento antifascista, non era per una precisa scelta conservatrice imperniata sul mantenimento al potere del re, di un militare o di un fascista «moderato», quanto piuttosto per la regola «on engage et puis on voit». Né gli antifascisti potevano sapere che il meccanismo mi- litare posto in atto dagli alleati, il quale avrebbe condotto all'aperto manifestarsi della crisi politica italiana, nasceva quasi casualmente attraverso il compromesso fra contrastanti indirizzi strategici. Basti ricordare come la decisione di estendere le operazioni dalla Sicilia al continente venisse presa solo agli inizi di giugno del '43 in un incontro tra Churchill e Eisenhower, come questa decisione fosse condizionata ai risultati di «Husky», come gli alleati affidassero dopo il 25 luglio la «gestione» dell'armistizio a Eisenhower, il quale avrebbe agito più sulla base di esigenze strategico-militari, che di progetti politici nei confronti dell'Italia (11).
Con tali premesse non deve stupire che il 25 luglio risu ltasse evento inaspettato sia a Washington, sia a Londra. La caduta del fascismo, al contrario, non colse impreparat i alcuni fra gli esuli italiani. Uno fra i primi a prendere posizione fu il conte Sforza, il quale la sera stessa del 25 luglio tenne nel suo appartamento di New York una conferenza stampa di fronte a numerosi giornalisti (12). Una serie di dichiarazioni del conte furono pubblicate sul «New York Times» il 30 luglio. Sfor z a sottolineava che primo obi_ettivo italiano doveva essere un rovesciamento di alleanze. Ma questa decisione non poteva essere presa, a suo avviso, da personaggi screditati quali il re e Badoglio, bensì da italiani antifascisti di sentimenti patriottici. Sforza, comunque, nel suo realismo, sembrava in part e comprendere le esigenze alleate: se da un lato cercava di dissipare un supposto timore di un pericolo rivoluzionario, dall'altro lasciava intravvedere la possibilità di un compromesso , anche se temporaneo, fra l'antifascismo e Badoglio. Egli inoltre ribadiva che solo l'eliminazione di Vittorio Emanuele III po t eva evitare all'Italia pericolosi rivolgimenti sociali e politici. Egli dichiarava:
«Opporsi a tali ipotesi al fine di favorire idee tradizionali di un ordine formale, che non è vero ordine perché basato sul tradimento, potrebbe significare non solo un allungamento del conflitto ma la creazione di quello stesso disordine di cui alcuni hanno più paura di quanto non abbiano di una guerra lunga» (13).
Quanto a Salvemini, questi si dimostrava ora più pessimista circa l'evoluzione della politica alleata verso l'Italia e soffermava l'attenzione sulla situazione venutasi a creare nella penisola con il nuovo governo Badoglio. Egli, in un articolo apparso su «New Repub lic» il 15 agosto, delineava con chiarezza la fine dell'esperimento dei «45 giorni» e le contradditorie conseguenze dell'armistizio. Lo storico partiva dalle seguen ti premesse:
«Ch urchill e Roo sevelt stanno facendo in Italia due guerre si multanee. Una mira a otte ne re « la resa in condizionata», l'altra mira a prevenire la rivoluzione. Se la resa a discrezione fosse stata il loro unico scopo nell 'invadere l'Itali a, essi avrebbero cercato di creare le condizioni favorevoli a una vera rivoluzione, in seguito al collasso morale causato dalla caduta di Musso li ni. Ma nelle loro m enti e nelle loro azioni la guerra contro la rivoluzione interferisce con la guerra per la resa a discrezione e la paralizza» (14) .
Salvernini sopr avvalutava così l'in teresse americano e quello inglese, almeno in questa fase, a l mante n imento nella penisola d ella «legge» e dell' «ord ine », come so ttovalutava il ruolo delle motivazioni di ordine mi li tare nelle sce lte alleate, ma il dilemma tra «prevenzio n e de lla rivoluzione» e resa incondizionata bene si adattava all'alternativa che.si poneva al governo Badoglio. In pro posito Salvemini scriveva :
«Il Re e Badoglio no n possono fare né guerra né pace. Se rimangono fedeli a Hitler, il paese sarà di strutto dagli eserciti alleati. Se si stacca no da Hitl er, il paese sarà ancor più ferocemente d ist rutto dag li eserciti di Hi tler» ( 15).
No tava in oltre Salve mi ni come «i l Re e Bad og lio non si potessero arrendere incondizionatamente a Churchill e a Roosevelt , a meno che l'intera macchi na militare fascista non si «fosse disintegrata» ( 16).
Mentre Salvemini pu bbli cava qu esto articolo il Re e Bado glio avevano già imboccato la via c he a vre bb e condotto alla firma della resa di Cassi bile. Come lo st orico aveva in parte pre- visto, la contraddittoria posizione di Vi tt orio Emanuele III e del capo del governo condusse al disastro de11'8 settembre, alla fuga da Roma, alla dissoluzione dell'esercito. La prima reazione di Salvemini a questi avvenimenti fu indica t iva dell'atteggiamento che sarebbe stato assunto da una parte dei fuoriusciti. Per molti fra essi 1' 8 settembre rappre sentava il definitivo fallimento delle tradizionali forze conserva trici italiane. Con l'armistizio e soprattutto con l'incapacità di realizzare in modo efficiente lo sganciamento dall'alleato tedesco la monarchia, ma anche gli altri gruppi di potere già compromessi col fascismo, avevano segnato la loro condanna: per loro non vi sarebbe stato più alcun valido ruolo da svolgere nella fu t ura Italia democratica. Quanto agli alleati, la loro decisione di continuare a dialogare con il re e con Badoglio, a dispetto dell'8 settembre , era un errore imperdonabile. Già il 14 settembre Salvemini scriveva:
« .. .la situazione in Italia cambia ogni qua r to d'ora e quel ch'era ragionevole ieri può diventare assurdo domani. Ma v i sono certi principi morali che possono e debbono servire da bussola permanen t e. Il Re e Badoglio dopo essere stati responsabili con Mu ssolini di tutte le sofferenze del popolo italiano in questa guerra sciagurata, hanno aggiun t o a tutti i loro vecchi delitti un delitto nuovo. Insieme con Mussolini essi avevano voluto il trattato di alleanza con la Germania. Quel trattato li obbligava a non fare un armistizio separato. Piuttosto che disonorarsi con l'armistizio separato, il Re doveva abdicare e Badoglio dimettersi. Altri non legati al passato e non loro dovevano sottomettersi all ' armistizio disastroso che essi avevano reso inevitabile. Anche la cobelligeranza avrebbe dovuto essere decisa da uomini nuovi che non avessero avuto doveri verso la Germania, e perciò avrebbero potuto negoziare la cobelligeranza a fronte alta, e non dai due miserabili aborti morali che si erano incatenati all'alleanza del 1939» (17).
Al di là dell'ovvia condanna morale, vi era nelle parole di Salvemini una condanna politica; ma quali erano dunque le so- sti ricordare a questo proposito la reazione alla notizia dell'armistizio da parte dell'«Italia libera», l'organo repubblicano diretto da Randolfo Pacciardi:
« .. .la formula «unconditional surrender» avrà ora il suo pieno significato.
I fini di guerra e di pace delle Nazioni Unite saranno spiegati.
Il destino del popolo italiano sarà fissato ...
Si vedrà se l ' Italia - l'Italia del popolo, sarà l'alleata delle Nazioni Unite o fremerà scontenta nell'ombra.
Si vedrà se Roosevelt e Churchill vogliono imporci una monarchia traditrice e screditata, cioè un'altra dittatura, o se ci lasceranno liberi di costruire pazientemente col sacrificio, con la dedizione, col silenzio, la nostra nuova vita di nazione libera e repubblicana» (20).
Al di là degli accenti re t orici l'articolo dell'«Italia libera» ben sottolineava il ruolo determinante che gli alleati avrebbero potuto e dovuto giocare nel delineare l'evoluzione degli eventi italiani dopo 1'8 settembre, ma gli esuli democratici e repubblicani, fra cui Salvemini e Pacciardi, non sembravano avanzare realistiche soluzioni; essi al contrario si arroccavano su una posizione di condanna, moralmente giusta quanto politicamente . sterile, sia delle scelte anglo-americane, sia dell'azione di Badoglio e del re. Il dilemma che si poneva all'antifascismo era bene sintetizzato da don Sturzo in una lettera a Pacciardi della fine di ottobre del 1943. Il leader popolare sostel)eva:
« ... Sulla critica ai governi di Londra e di Washington possiamo trovarci d'accordo, benchè con delle divergenze giuridiche e pratiche. Ma a che giova insistervi?
Noi siamo obbligati, volere o no, a partire da due documenti che fanno stato; l'armistizio firmato da Badoglio a nome di Vittorio Emanuele, la cobelligeranza accordata al presente governo d'Italia con l'espressa riserva del futuro regime. tre le vie: 1) l'adesione al governo Badoglio per combattere tedeschi e fascisti nei suoi quadri; 2) l'opposizione politica al governo Badoglio, ma lottare (come possibile) fascisti e tedeschi; 3) rinunziare ad ogni lotta pratica, usando solo il diritto di critica e protesta (Aventino)» (21).
Lo stesso Sturzo, sebbene con alcune significative sfumature, affermava implicitamente in questa stessa lettera di preferire la terza ipotesi, già scelta d'altro canto dal suo interlocutore e da Salvemini. Né si deve ritenere che questa posizione fosse prerogativa esclusiva degli esuli negli Stati Uniti, ché essa era condivisa ad esempio da alcune personalità antifasciste che avevano vissuto in esilio i mesi precedenti la crisi del regime e che erano rientrate in Italia solo con i «45 giorni». La loro posizione intransigente aveva già trovato espressione nel noto documento di Lione, siglato nel marzo da Emilio Lussu, Giuseppe Saragat, Giorgio Amendola e Giuseppe Dozza, quali rappresentanti di «GL», del PSI e del PCI (22). Se l'armistizio, gli even t i immediatamente successivi, l'atteggiamento alleato verso il re e Badoglio rafforzarono l'intransigenza di numerosi esuli, questi stessi elementi determinarono una significativa evoluzione nell'atteggiamento di altri fuoriusciti, in particolare di Sforza. Quest'ultimo si rese conto che la partita politica per il futuro dell'Italia si sarebbe giocata nella penisola, ma che i giocatori più forti restavano Washington e Londra. Sforza intuì inoltre che, per il momento, sia gli Stati Uniti, sia la Gran Bretagna annettevano particolare importanza al mantenimento al potere del re e di Badoglio, soprattutto di quest'ultimo. Solo accettando in tutto o in parte questo dato di fatto sarebbe stato possibile dare avvio al dialogo fra gli anglo-americani e l'antifascismo e il conte ritenne inoltre possibile conciliare le esigenze dei primi e gli obiettivi del secondo. In tale ambito diveniva opportuno dare un appoggio, per quanto condizionato e temporaneo a Badoglio - garanzia per gli alleati degli accordi militari - e posporre la discussione sul futuro dell'istituzione monarchica. Furono queste considerazioni le premesse della lettera indirizzata il 23 settembre da Sforza a Badoglio tramite l'assistente segretario di Stato A. A. Berle ed Ei- senhower. Questo documento, concordato con cura dal leader antifascista e dall'uomo politico americano merita qualche attenzione perchè aiuta a illustrare la interpretazione di Sforza degli eventi italiani. Nella lettera Sforza dichiarava di aver letto con interesse la dichiarazione rilasciata da Badoglio il 16 di quello stesso mese e nella quale il maresciallo aveva indicato come primo dovere di tutti gli italiani contribuire alla sconfitta della Germania e alla cacciata dei tedeschi dal paese. Anche Sforza riteneva dovere di ogni italiano, senza distinzione di partito o di fede politica, prendere parte alla lotta contro l'invasore nazista. Quindi egli sosteneva:
«Per tutto il tempo in cui il maresciallo Badoglio risulterà impegnato in questo compito e sarà accetto agli alleati nel suo dedicare le risorse militari e materiali a questa lotta, considero criminale compiere alcuna azione che possa indebolire la sua posizione o porre a repentaglio le sue attività connesse alla liberazione dell'Italia e del popolo italiano. Sono pronto a offrire il mio pieno appoggio per tutto il tempo in cui egli sarà impegnato in questo sforzo, soprattutto perché questo è l'unico mezzo per distruggere gli ultimi criminali residui del fascismo.
Questioni di politica interna possono e dovrebbero essere poste in disparte per il periodo della lotta, e l'azione militare e politica di tutti gli italiani che desiderano la libertà e il futuro della loro terra natale dovrebbe essere dedicata al sostegno di quelle forze organizzate che stanno cercando di distruggere il comune nemico. Mi impegno personalmente a compiere t utto ciò e inviterò i miei molti amici e seguaci a uniformarsi a tale indirizzo» (23).
Queste affermazioni rappresentavano un netto mutamento rispetto alle posizioni assunte da Sforza sino ad allora e rispondevano a una precisa interpretazione dell'armistizio e soprattutto dei rapporti di forza venutisi a creare anche a causa di questo fra Italia e alleati. Ulteriori indicazioni circa l'atteggiamento del conte erano fornite dalle dichiarazioni da lui rilasciate a Berle in un incontro con l'uomo politico americano il
22 settembre. Nel corso del colloquio Sforza aveva continuato a negare l'opportunità di un'unione nazionale intorno al re, ma aveva espresso un parere non del tutto negativo nei confronti di Badoglio; aveva anzi indicato alcuni elementi positivi nel curriculum del maresciallo che gli alleati avrebbero potuto sfruttare nella loro propaganda. Sforza inoltre aveva sostenuto: «Non pretendo che sia giunto il momento di abbattere la monarchia. Al contrario. Questo è un problema per il dopoguerra.
Ho semplicemente interesse per ciò che ritengo sia meglio al fine di vincere la guerra, niente altro. E so - da numerosissime fonti - che l'unanimità morale in Italia non sarà raggiunta attraverso un re discusso e disprezzato ma con l'unione attorno all'esercito e agli uomini - chiunque essi siano -che ne sono a capo. Perchè l'esercito è un dato di fatto - un dat o di fatto rispettato da tutti» (24).
La presa di posizione del conte era dunque una risposta positiva alle esigenze alleate, in particolare a quelle di Washington; presupponeva una realistica valutazione degli eventi italiani e della situazione internazionale, né essa sembrava d'altro canto pregiudicare quella evoluzione in senso democratico del paese auspicata dal movimento antifascista, sia all'estero, sia nella penisola. Se il paragone non fosse forse troppo azzardato, si potrebbe sostenere che la lettera di Sforza a Badoglio era un'anticipazione della politica avanzata da Togliatti con la «svolta di Salerno>>. Perchè dunque la presa di posizione di Sforza non ebbe la possibilità di affermarsi? In primo luogo vi è da chiedersi se lo stesso Sforza credesse sin o in fondo a quanto dichiarato all'assistente segretario di Stato americano e quanto influisse sul suo atteggiamento l'esigenza contingente di ottenere dagli alleati l'autorizzazione al rimpatrio (25). Né Sforza poteva contare, al rientro nella penisola, su una forza politica organizzata e soprattuto disposta ad accettare la sua strategia, va anzi ricordato come il Partito d'Azione, di cui il conte aspirava a essere uno dei leaders, fosse il più strenuo difensore del rifiuto della situazione che si era venuta a creare nel regno del sud con l'armistizio (26). Va inoltre sottolineato il tiepido e contraddittorio appoggio americano all'azione del conte. Washington era disposta a favorire una soluzione di compromesso imperniata su un accordo tra Badoglio e Sforza per ragioni di carattere strategico-militare; una volta appurate l'incapacità italiana di mobilitare forze sufficienti per la prosecuzione della campagna d'Italia, nonché l'impossibilità di risolvere rapidamente la partita con i tedeschi, l'attenzione dei militari e dei politici americani verso le questioni italiane diminuì sensibilmente ed essi lasciarono in tal modo campo libero all'azione e agli interessi di Londra sino alla metà del 1944. Ben diversi sarebbero stati l'interpretazione inglese degli eventi italiani e l'atteggiamento verso Sforza (27).
Il paragone fra la lettera di Sforza a Badoglio e la «svolta di Salerno» ci conduce a esprimere alcune considerazioni sulle reazioni all'8 settembre da parte dei comunisti italiani operanti all'estero. Si è fatto cenno in precedenza alla presa di posizione sottoscritta da Dozza e Amendola a Lione nel marzo del '43. Essa, tra l'altro, indicava un atteggiamento intransigente verso ogni ipotesi di soluzione della crisi politica italiana attraverso un compromesso patrocinato dalla monarchia o dall'esercito, né gli estensori del documento di Lione sembravano aver tenuto conto delle esigenze strategiche e politiche anglo-americane. Questa scelta - confermata all'indomani dell'armistizio dall'operato del PCI nella penisola - risultava evidente da affermazioni quali:
«la pace, l'indipendenza, la libertà potranno essere conquistate solo dalla volontà del popolo. Il Partito Comunista d'Italia, il Partito socialista italiano, il movimento «Giustizia e Libertà» condannano le illusioni di coloro che aspettano la salvezza del paese da un repentino mutamento di condotta della monarchia o dallo sbarco in Italia di forze alleate» (28).
Interessanti diversità erano riscontrabili nella posizione assunta sin dall'autunno del 1942 dal mensile «Stato Operaio», pubblicato in quegli anni a New York, il quale, in un fondo redazionale, sembrava invece auspicare una sorta di politica di «concordia nazionale», avente quali precipui obiettivi la cacciata di Mussolini e la sconfitta della Germania hi t leriana. La rivista teorica del PCI collegava strettamente la crisi interna italiana alla crisi del ruolo internazionale del paese e affermava: «La tragica esperienza della guerra ha mostrato le cose nella loro realtà. Le fittizie conquiste del fascismo sono andate perdute. Invece della gloria è venuta la disfatta, una serie di catastrofi militari che hanno coperto di vergogna il paese. Invece della realizzazione degli ambiziosi sogni imperiali, l'asservimento alla Germania hitleriana che domina come uno stato vassallo il no stro paese. Gli italiani di tutti i partiti, di tutte le condizioni soc iali, ed i fascisti stessi si sono accorti della tragica ampie zz a di questa ,catastrofe nazionale. Come nazione indipendente l ' Italia è sparita dalla scena europea, sotto il prepotente tallone hitleriano» (29).
L'estensore dell'articolo proseguiva indicando come queste contraddizioni fossero ormai note a ogni gruppo sociale, alla stessa monarchia, agli alti gradi dell'esercito, al Vaticano, «che sentono e comprendono che il momento è venuto di separare le proprie responsabilità da quelle del regime fascista» (30). Diversamente dagli esuli di matrice liberaldemocratica, repubblicana, socialista e dagli stessi comunisti operanti in Francia e in Italia que st a eventualità non era considerata in modo negativo dallo «Stato Operaio». Si auspicava anzi l'unità più ampia della nazione italiana , unità che sembrava estendersi persino a settori del Partito fascista. Si scriveva infatti:
<<L'unità della nazione italiana che il fascismo intendeva realizzare sotto il suo controllo si sta realizzando, invece, contro il fascismo e gli italiani vanno ritrovando loro stessi, la loro unità nazionale, la loro dignità di nazione nella lotta contro l'oppressione hitleriana, contro la cricca mussoliniana che li ha venduti allo straniero. La nazione non farà inconsulta vendetta. Sarà implacabile contro Mussolini e i suoi complici ma tende le mani agli italiani onesti che si staccano dal fascismo e vengono a lottare contro di esso» (31).
Obiettivo primo era dunque il rovesciamento di alleanze. Questa linea teneva ben conto della realtà internazionale e non trascurava che una vittoria militare era la prima meta dell'Unione Sovietica, ma un'affermazione dell'U.R.S.S. non poteva non avere conseguenze sul ruolo del PCI e, conseguentemente, sulla situazione italiana. La crisi del fascismo e della istituzione monarchica erano dunque momenti importanti, ma essi andavano inseriti in un più ampio contesto: la sorte della penisola d'altro canto non sarebbe stata determinata solo a Roma, o , in seguito, a Brindisi e a Salerno, ma anche a Washington, a Londra e a Mosca. Questo atteggiamento realistico trovò piena espressione nelle posizioni di Palmiro Togliatti, esule nell'Unione Sovietica. Già alla fine di aprile del 1943 egli, commentando in un radiomessaggio il rimpasto governativo effettuato da Mussolini due mesi prima, indicava il crescente isolamento del duce e sembrava attribuire solo a quest'ultimo ogni responsab ili tà per il coinvolgimento italiano nella guerra. Togliatti concludeva il suo discorso con un appello: «Questo concentramento delle ultime forze del fascismo attorno a Mussolini ha però anche il suo positivo. Gli italiani che sanno ragionare e comprendono i loro interessi individuali, di gruppo e nazionali, vedranno meglio, così, contro chi bisogna dirigere i colpi, chi deve essere buttato con disprezzo nell'immondezzaio, se si vuole che sia evitata all'Italia la peggiore delle catastrofi» (32).
Non deve stupire se anche dopo la cadutà di Mussolini l'attenzione di Togliatti si appuntasse sull'obiettivo della vittoria militare e, conseguentemente, sull'immediato «ralliement» italiano agli alleati. È in questa ottica che va valutata la dichiarazione del leader comunista del 3 agosto, nella quale egli auspicava le dimissioni di Badoglio e l'abdicazione del re; tali affermazioni non erano contraddittorie rispetto a quanto sostenuto in seguito dallo stesso Togliatti (33). Agli inizi di agosto del '43 infatti Vittorio Emanuele III e il nuovo capo del governo sembravano voler proseguire nella guerra a fianco della Germania; le dichiarazioni di Togliatti rappresentavano dunque uno sprone nei confronti dei due responsabili italiani affinchè comprendessero che l ' allontanamento del duce non era una misura sufficiente e che un rapido rovesciamento di fronte era l'unica via d'uscita loro rimasta. L'8 settembre fu dunque per il leader comunista soprattutto il punto di partenza per una collaborazione fra tutte le forze ostili al fascismo nella lotta contro Mussolini e i tedeschi. Trasmettendo da Radio Mosca il 10 settembre l'esponente del PCI affermava:
«L'Italia ha bisogno oggi di un nuovo governo il quale prenda nelle sue mani apertamente, senza esitazioni, la bandiera della difesa d'Italia con t ro la vile aggr essione hitleriana, pe r salvaguardare il sacro retaggio della nazione . Se il go verno Badoglio seguirà questa linea di difesa della nazione, il popolo gli darà il suo appoggio» (34).
Tale posizione sarebbe stata confermata in seguito da Togliatti, ad esempio in un articolo apparso sulla «Pravda» il 12 settembre e la cui rilevanza è stata indicata d~ Paolo Spriano. Scriveva tra l'altro Togliatti:
«Sarebbe assurdo di voler parlare attualmente, per esempio di una consultazione generale in vista di stabilire la forma del futuro governo allorché bisogna prima di tutto unirsi e fare la guerra contro gli occupanti tedeschi» (35).
In Togliatti, come in Sforza, prevaleva dunque, almeno in una prospettiva di breve periodo, l'interpretazione dell'armistizio come evento internazionale. Solo tenendo conto della realtà della disfatta italiana e dell'esigenza di coinvolgere il paese nella vittoria alleata sarebbe stato possibile acquisire alcuni meriti di fronte ai vincitori e controbilanciare gli errori del fascismo. Non si trattava di ignorare il significato politico interno dell'8 settembre quale crisi delle tradizionali forze conservatrici italiane e occasione per radicali mutamenti, quanto di rimandare, per ragioni di opportunità politica, il dibattito su questo importante aspetto - ben presente sia nei progetti di Togliatti, sia in quelli di Sforza - al dopoguerra, quando anche una diversa e più chiara realtà internazionale avrebbe forse consentito scelte più precise e coerenti con gli obiettivi antifascisti di lungo periodo.
Questa breve analisi di alcune reazioni dell'emigrazione antifascista all'armistizio e, più in generale, agli eventi dell'estate del 1943 ha trascurato, anche per ovvie ragioni di spazio, alcuni aspetti comunque meritevoli di attenzione. A questo proposito si può ricordare come alcuni recenti studi abbiano cominciato ad analizzare l'azione del fuoruscitismo antifascista durante la seconda guerra mondiale, un tema sul quale sino a poco tempo fa restava unico, per quanto valido, punto di riferimento il noto «Storia dei fuorusciti» di Aldo Garosci. È possibile citare ora, fra gli altri, il contributo di Nicola Oddati sugli esuli in Gran Bretagna, quello di Elisa Signori sui fuorusciti in Svizzera, gli studi di Gianfranco Cresciani e Luigi Bruti Liberati sul fascismo e l'antifascismo rispettivamente in Australia e in Canada, nonchè alcuni lavori sull'emigrazione liberaldemocratica negli Stati Uniti (36).
Ciò che ci premeva in questa sede era di analizzare alcuni aspetti delle valutazioni sull'8 settembre e sulle sue conseguenze da parte di esponenti dell'emigrazione antifascista in rapporto al contesto internazionale, nonchè cogliere le differenze esistenti tra le posizioni di alcuni di essi, in particolare Sforza e Togliatti, e quelle espresse dall'antifascismo che si stava riorganizzando nella penisola. All'atteggiamento di quest'ultimo erano d'altronde vicini - come si è cercato di dimostrare - altri esuli, quali, ad esempio, Salvemini e Pacciardi. L'analisi condotta non pretende di essere esaustiva delle posizioni delle personalità prese in considerazione e quanto affermato ha soprattutto valore di stimolo per una più approfondita indagine sulle attività e sulla elaborazione teorica del movimento antifascista operante all 'estero, non trascurando come queste e gli stessi eventi italiani si inserissero in un ben preciso contesto internazionale.
NOTE:
(1) E. Di Nolfo, Sistema internazionale e sistema politico italiano: interazione e compatibilità, in L. Graziano e S. Tarrow (a cura di), La crisi italiana, voi. I, Formazione del regime repubblicano e società civile, Torino, E inaudi, 1979, pp. 79 - 112.
(2) Cfr., ad esempio, le considerazioni in D. W. Ellw ood, L'alleato nemico. La politica dell'occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 48-63; E. Colletti, Collocazione internazionale dell'Italia dall'armistizio alle premesse dell'alleanza atlantica (1943 - 1947), in AA. VV., L'Italia dalla liberazione alla repubblica, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 30-49.
(3) Cfr. su queste personalità, tra l'altro, A. Garosci, Storia dei fuoriusciti, Bari, Laterza, 1953 e C. Delzell, I nemici di Mussolini, Torino, Einaudi, 1966, passim.
(4) A . Varsori, Gli alleati e l'emigrazione democratica antifascista (1940-1943), Firenze, Sansoni, 1982.
(5) Ibidem . p. 318.
(6) C. Sforza, Wi/1 ltaly Resist Invasion?, maggio 1943.
(7) G. Salvemini e G. La Piana, La sorte dell'Italia, in G. Salvemini, L'Italia vista dall'America, a cura di E. Tagliacozzo, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 163-394
(8) G. Salvemini, Ibidem, pp 187-188
(9) Ibidem, p . 393.
(10) Ibidem , p. 327 .
(11) Su questi aspetti cfr ., fra l'altro, A. N. Garland e H. MacGaw Smith, Sicily and the Surrender of Italy, Washington, Government Printing Office, 1965.
(12) M. G. Melchionni (a cura di), Dal diario del conte Sforza: il pe, riodo post-fascista (25 luglio 1943 - 2 febbraio 1947), in «Rivista di studi polit ici internazionali», XLIV, 1977, n. 4, p. 423; C. Sforza, L'Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, Roma, Mondadori, 1944, p. 188.
(13) Sforza for urging Italy to join us, in «The New York T imes », 30 Vlll.43.
(14) G . Salvemini, Due guerre contro l'Italia, «New Republic» . 15.Vlll.43. ora in G. Salvemini, L'Italia .. ., op. cit . , pp. 403 -404.
(15) Ibidem, p. 402.
(16) Ibid.
(17) G. Salvemini, Allearsi al re significa tradire il popolo. Lettera ad un amico, in «La controcorrente», settembre 1943, ora in G. Salvemini, L'Italia op. cit., p . 438.
(18) G . Salvemini, Quel che ci costano il re e Badoglio, «La controcorre nte », ottobre 1943, ora in G . Salvemini, L 'Italia , op . cit., p. 451. Non sorprende che la valutazione di Salvemini sulla «svolta di Salerno» fosse negativa; cfr., ad esempio, quanto dichiarato dallo storico di Harward a
Ernesto Rossi in una lettera del dicembre 1944, G. Salvemini, Lettere dall'America 1944-1946, a cura di A. Merola, Bari, Laterza, 1967, p. 64.
(19) G. Salvemini, Ibidem, p 452.
(20) Resa incondizionata del re e Badoglio, s.f., in «L'Italia Libera» , 16.IX.43.
(21) L. Sturzo, Scritti inediti, voi. III, 1940-1946, a cura di F. Malg eri, Roma, Cinque l une, 1976, lettera da Sturzo a Pacciardi, 25 . X.43., pp . 170- 171. Sull'esilio americano di Sturzo cfr. G. De Rosa, Luigi Sturzo, Torino, UTET, 1977, pp. 403-432.
(22) Il testo dei due documenti siglati a Lione in P. Alatri, L 'antifascismo italiano, voi. Il, Roma, Editori Riuni t i, 1973, pp. 1001-1004.
(23) Il testo in inglese di questa lettera è rinvenibile, fra l'altro, in L. Zeno, Ritratto di Carlo Sforza, Firenze, Le Monnier, 1975, p. 410. Per una critica della presa di posizione di Sforza cfr., ad es empio, G. Salvemini, Eden, Churchill and Sforza, in <<Free Italy», febbraio 1945.
(24) L. Z eno, Ritratto , op. cit., p 411. Per un'analisi dell'azione di Sforza in questo periodo cfr. anche A. Varsori, Gli alleati .. . , op. cit. , pp 279- 300.
(25) Cfr. A. Varsori, Ibidem, Sforza scriveva a Sturzo il 24 settembre: «... non ho che un desiderio: andar d'accordo con quanti si battono per cacciare i tedeschi d'Italia. È il porro unum: tutto il resto verrà dopo; comprese le necessarie sanzioni per tutti i traditori, per tutti coloro che avrebbero vo lu to disonorare l'Italia; ciò non per vendetta, ma per la riabilitazione morale della nostra patria». Cfr. L. Sturzo, op. cit. , pp. 157-158.
(26) Sulla posizione del Partito d'Azione cfr., fra l'altro , E. Lussu, Sul Partito d'Azione e gli altri. Note critiche, Milano, Mursia, 1968, pp. 81-97; nonchè il recente G. De Luna, Storia del Partito d'azione. La rivoluz ione democratica (1942 - 1947), Milano, Feltrine lli, 1982, pp. 125-169
(27) Sull'atteggiamento inglese verso Sforza cfr. D. W. Ellwood, L 'alleato ... , op . cit., passim.
(28) P. Alatri, L'antifascismo ... , op. cit., p . 1002 .
(29) Il Fronte Nazionale Italiano metterà fine alla dittatura fascista, in «Stato Operaio», settembre/ottobre 1942.
(30) Ibidem.
(31) Ibidem .
(32) Il testo di questo radiomessaggio in P. Alatri, L'antifascismo ... , op. cit., p . 1012.
(33) D. Sassoon, Togliatti e la via italiana al socialismo. Il Pci dal 1944 al 1964, Torino, Ei naudi, 1980, p. 19.
(34) Cit. in D. Sassoon, Ibidem.
(35) P Spriano, Storia del Partito comunista italiano, voi. V, La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Tori no, Einaudi, 1975, p. 129. P er alcuni giudizi sulla «svolta di Salerno», cfr., ad esempio , P . Spriano, Sulla rivoluzione italiana, Torino, Einaudi, 1978, pp. 141-156; nonchè E. Dì Nolfo, Sistema , cit., pp. 94-96.
(36) N. Oddati, Carlo Petrone: un cattolico in esilio 1939-1944, Roma, Cinque lune, 1980; I. Silone, Memoriale dal carcere svizzero, a cura di L. Mercuri, Roma, Lerici, 1979; R. Broggini, I rifugiati italiani in Svizzera e il foglio Libertà! Antologia di scritti 1944-1945, Roma, Cinque lune, 1979; E. Signori, La Svizzera e i fuorusciti italiani . Aspetti e problemi dell'emigrazione politica 1943-1945, Milano, Angeli, 1983; G Cresciani, Fascismo, antifascismo e gli italiani in Australia 1922-1945, Roma, Bonacci, 1979; L. Bruti Liberati, La società canadese e il fascismo : « View from a fire-proof house», in «Storia contemporane a», XIII, 1982, n. 4/5, pp. 877-908; J .P. Diggins, Mussolini and Fascism. The View from America, P rinceton (N J.), Princeton Uni v ersity Press, 1972; A . Varsori, Gli alleati ... , op. cit.