
74 minute read
GIANFRANCO BIANCHI
L'ARMISTIZIO E IL FASCISMO
L'enunciato richiede di per sè un chiarimento: a quale «fascismo» vada abbinato il fatto armistiziale de11'8 settembre 1943, dal momento che, in stato di «crisi terminale», quello del ventennio era caduto la notte del 25 luglio, per un voto maggioritario contro Mussolini nell'ultima seduta del massimo suo consesso politico, fornendo in tal modo a re Vittorio Emanuele III il «pretesto costituzionale» per destituire da Capo del Governo il duce, facendone firmare la successione al maresciallo Pietro Badoglio.
Advertisement
Il dibattito storiografico di quegli avvenimenti è così compendiabile: se si è trattato di un «colpo di Stato» della Monarchia sabauda compiuto all'ombra del «tradimento» di fascisti e della «defezione di una cricca militare», oppure del logico epilogo, per dissolvimento, del regime mussoliniano che aveva giocato la proprie sorti con un intervento nel secondo conflitto mondiale, definito per antonomasia «la guerra fascista».
L'illusoria tesi di Dino Grandi
Non alternativa ma preclusiva è la tesi più volte proposta e sostenuta dal Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Dino Grandi, elaboratore dell'ordine del giorno (redatto con Giuseppe Bottai, Alfredo de Marsico e Luigi Federzoni), che aveva sconfitto Mussolini in Gran Consiglio. Gli intenti che lo stesso Grandi ha poi riaffermato a varie riprese (durante gli undici anni 1962-1973), nel carteggio che ci siamo scambiati, incalzato anche dalle mie obiezioni, sono: «Io non vole- vo il colpo di mano complice la Corona. Ciò avrebbe falsato interamente il carattere della nostra azione. I militari, sopraggiunti dopo che il Sovrano ebbe deciso, si incaricarono di trasformare quello che nei nostri intendimenti doveva essere lo sviluppo della situazione, in un colpo di Stato da paese balcanico o sud americano. Questi capi militari codardi e disprezzabili fecero di più: mentre la nostra preoccupazione era di liberare l'Italia dalla guerra concentrando le responsabilità solamente sul decaduto Regime fascista, furono essi ad addossarle agli italiani con la frase ''la guerra continua''. Le responsabilità di una guerra che la popolazione non aveva voluto e «dalla quale il Gran Consiglio intendeva liberarli».
Inoltre Grandi pensava a un immediato cambiamento di fronte per mettere gli angloamericani da vanti al fatto compiuto e, quindi, porli nell'impossibilità di chiedere la «resa senza condizioni» decisa alla Conferenza di Casablanca, perchè ormai superata: così avremmo fatto causa comune con loro, contro le truppe di Hitler.
Una settimana prima, nell'incon t ro col duce a villa Gaggia, il Fuhrer aveva sostenuto l'impossibilità di inviare i rinforzi richiesti dal generale Ambrosio. Invece il 26 luglio, forzato il Brennero nella notte, reparti germanici in formazione di combattimento irrompono nell'Alto Adige e, incuranti di reazioni e proteste italiane, impongono di far proseguire i loro convogli verso il Sud, lasciando presidi a guardia delle più importanti opere viarie, assumendo il controllo delle centrali teJefoniche, telegrafiche ed elettriche.
Era illusione di Grandi che gli Alpini stessero arroccati dietro il «Vallo del Littorio», pronti e fedeli al motto «di qui non si passa».
Attraverso la riviera ligure di Ponente, per il Cenisio e per il Piccolo San Bernardo stavano calando le Divisioni tedesche, frammiste a reparti delle SS e a quelli della Guardia del corpo «Adolf Hitler». Senza preavviso, una Divisione paracadutisti arrivò dalla Francia fino a sud di Roma. Alle proteste del ge- nerale Ambrosio, l'addetto militare germanico nella Capitale e il maresciallo Kesselring rimasero evasivi.
In questa prospettiva, seguirono i due incontri diplomatici e militari italo-tedeschi al Brennero e a Bologna, con reciproco fallito tentativo di ingannare l'interlocutore, perfettamente convinto del contrario di quanto gli veniva detto.
Nel frattempo, Grandi continuò a ritenersi adatto e idoneo (e lo ripeterà anche di recente, benchè la documentazione storico-militare e diplomatica abbia comprovato che le determinazioni prese dagli Angloamericani erano irreversibili), a «contattare>> i Capi missione di Madrid e di Lisbona per negoziare una nostra uscita «indolore» dalla «guerra fascista».
A onor del vero, è la stessa opinione che Grandi aveva manifestato a Badoglio con una lettera autografa datata O porto 27 settembre 1943: «Desidero farti pervenire l'espressione della mia solidarietà . Questa dichiarazione non è determinata da alcun altro sentimento o motivo se non quello che deve anima- . re e sospingere tutti gli italiani: il dovere di raccogliersi silenziosamente e fedelmente intorno al Re ed al suo Governo in quest'ora così grave per il presente e per l'avvenire della nostra Patria.
«Credo di avere servito il mio Re ed il mio Paese. Nessun altro sentimento o pensiero mi hanno guidato quando ho preso personalmente la decisione con tutti i rischi e le responsabilità, di restaurare la Costituzione attraverso l'unico organo che la legge contemplava, e alla prima occasione in cui si presentava possibile. E ciò perchè l'Italia possa schierarsi attivamente a fianco della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Il che apparirà ancora più evidente il giorno in cui l'Italia sarà liberata col diretto contributo, per merito del valore dei nostri so ldati, da la tirannia tedesca e anche da coloro che sotto la protezione delle armi tedesche hanno oggi instaurato una pseudo-repubblica anarchica, dimostrando in quest'ora di sventura nazionale di essere animati non da amore di Patria, ma da cieco odio di fazione» (1).
La rivalsa «nazifascista» di Mussolini
Dalla Germania dove era stato trasvolato dalla prigionia a Campo Imperatore con uno scenografico rapimento, Mussolini, appreso che Hitler lo avrebbe rispedito in patria, con una voce spenta e dal tono irriconoscibile, così dice da RadioMonaco: «Camicie nere, italiani e italiane, dopo un lungo silenzio ecco che di nuovo vi giunge la mia voce e sono sicuro che la riconoscerete : è la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili e che ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria».
Dopo accenni a fatti personali, passa all'esame delle responsabilità fasciste e non. «Anzi, mentre rivendichiamo in pieno le nostre responsabilità, vogliamo precisare quelle degli altri, a cominciare dal Capo dello Stato. È la stessa monarchia che durante tutto il periodo della guerra, pur avendola il Re dichiarata, è stata l'agente principale del disfattismo e della propaganda antitedesca».
Evocate a suo modo le premesse, conclude: «Date queste condizioni, non è il Regime che ha tradito la monarchia, ma la monarchia che ha tradito il Regime». Quattro i nuovi doveri: «1) riprendere le armi a fianco della Germania, del Giappone e degli altri Alleati; 2) preparare senza indugio la riorganizzazione delle nostre Forze Armate intorno alla formazione della Milizia; 3) elim inare i traditori in particolar modo quelli che fino alle 21,30 del 25 luglio militavano talora da parecchi anni nelle file del Partito e sono passati nelle file del nemico; 4) annientare le plutocrazie parassitarie e fare del lavoro, finalmente, il soggetto dell'economia e la base infrangibile dello Stato».
Sempre da una stazione radio del Terzo Reich, e dopo il secondo rabbuffo di Hitler, Mussolini annuncia di assumere nuovamente «oggi, 15 settembre 1943, la suprema direzione del Fascismo in Italia».
Nomina Alessandro Pavolini «alla carica provvisoria di segretario del Partito Repubblicano Fascista»; ripristina «tutte le istituzioni del Partito con i seguenti compiti: a) appoggiare efficacemente e cameratescamente l'esercito german ico che si batte su l suolo italiano contro il comune nemico; b) dare al popolo immediata, effettiva assistenza morale e materiale; e) riesaminare la posizione dei membri del Partito di fronte al colpo di Stato della capitolazione e del disonore, punendo esemplarmente i vili e i traditori». Ordina pure «la ricostituzione di tutti i reparti e le formazioni speciali della Milizia Volontaria per la Sicurezza dello Stato» il cui comando verrà affidato al generale Renato Ricci, più noto come capintesta dell'Opera Nazionale Balilla.
Il 17 settembre «il PFR libera gli ufficiali delle Forze Armate dal giuramento fatto al re, il quale, capitolando e abbandonando il suo posto, ha consegnato la Nazione al nemico, trascinandola nella vergogna e nella miseria».
Il 1° ottobre il maresciallo Rodolfo Graziani parla al Teatro Adriano di Roma agli ufficiali dell'ex regio esercito. Come scriverà il proconsole di Hitler, vo n Rahn, a opporsi a Badoglio e al Re per aderire alla Repubblica di Salò costui «un pò vi fu spinto e vi scivolò». Comunque, il suo primo discorso contro «l'infedeltà e il tradimento che hanno deturp ato la bandiera d'Italia» è un atto di fede nel nazi fascismo.
Una presa di posizione del generale Ambrosio
Fin dal 29 settembre, a Mal ta, il comandante in capo delle Nazio ni Unite, Eisenhower , dopo che Badoglio aveva firmato il «Lungo armi stizio» , più gravoso del «Corto» firmato a Santa Maria dei L ongarini (Cassibile) dal generale Giuseppe Castellano, mette in evidenza il significato attribuibile provvisoriamente al documento , in parte già superato dalla realtà dei fatti, e in parte modificabile se il Regno d'Italia si acquisterà quel «biglietto di ritorno» di cui Roosevelt e Churchill avevano parlato alla Conferenza di Québec, alludendo all ' entità del- l'effettiva collaborazione, poi denominata «Co-belligeranza». In particolare Eisenhower aveva fatto riconoscere a Badoglio che i militari italiani erano già oggetto di offesa bellica tedesca alla quale si doveva reagire con una dichiarazione di guerra. Oltretutto affinchè quanti già si battevano alla macchia non fossero considerati e trattati come «franchi tiratori». Di recente è stato ripetuto che l'intralcio alla dichiarazione di guerra al Terzo Reich sarebbe dovuto a Vittorio Emanuele III. Risulta invece da un documento originale «Segreto» su carta intestata «Comando Supremo» con numero di protocollo 1854/0p, avente in indirizzo il duca Acquarone, ministro della Real Casa e per oggetto la «Dichiarazione di guerra alla Germania», che le riserve provenivano dal generale Vittorio Ambrosio, Capo dello Stato Maggiore, che testualmente scriveva: «Il generale Castellano mi ha trasmesso copia della lettera 240 in data 2 c.m. trasmessa a V.E .. Le comunico in merito il mio punto di vista.
« 1) I vantaggi degli Alleati per la nostra dichiarazione di armistizio sono stati di per se stesso enormi. Se avessimo avuto la nostre Divisioni fra Salerno e le Puglie invece che a Roma, non sarebbero mai sbarcati.
«Inoltre la nostra collaborazione è stata già in questo mese della massima intensità; basta pensare al possesso assicurato della Sardegna e della Corsica; alla protezione dei porti di Bari, Brindisi e Taranto; alla guerriglia, ai sabotaggi di ogni genere fatti in Italia e nei Balcani, con vittime imprecisate ma certo numerosissime; al possesso assicurato di numerose isole egee; alla difesa sfortunata di Cefalonia e Corfù. Tutto questo è stato fatto senza nessuna contropartita, salvo la promessa di attenuare le condizioni di pace.
«2) La rottura delle relazioni col Giappone è da escludere. Se a noi è permesso, al massimo, di essere cobelligeranti, vuol dire che possiamo collaborare per cacciare i tedeschi dal nostro suolo, ma non abbiamo nessuna ragione di combattere i giapponesi. Per questo occorrerebbe una vera alleanza politi- ca, che non è concessa. La rottura delle relazioni col Giappone, preludio della guerra, cagionerebbe l'invio della nostra flotta a combattere nel Pacifico, ed è questo che loro vogliono e che noi non dobbiamo permettere mai, senza alleanza politica.
«3) La dichiarazione sarebbe in realtà sfruttata .a nostro danno dalla propaganda fascista, in quanto la guerra verrebbe dichiarata da un Governo che ha giurisdizione, per modo di dire, su sette province, che non ha esercito, nè aeronautica, e che ha una flotta comandata dall'ex nemico. La nostra dichiarazione di guerra sarebbe per conseguenza semplicemente platonica.
«4) Alle prossime operazioni su Roma, parteciperanno sì e no 5000 uomini. La sorte dei prigionieri sarà certo dolorosa, ma saranno in numero assolutamente tr"ascurabile di fronte a decine di migliaia che sono morti, o fucilati o di stenti.
«5) Il rimettere sotto la nostra sovranità i territori occupati, fa più comodo agli Alleati che a noi, perchè si disinteresseranno di tutto (viveri, carbone, ordine pubblico, ecc.). Però il provvedimento, nonostante quanto sopra, sarebbe per noi certamente importante, perchè ci consentirebbe di riannodare gradatamente le fila di tutti i servizi del nostro Paese, a mano mano che viene liberato.
«6) Di alleanza politica non è il caso di parlarne, come è detto chiaramente nella lettera dei Capi di Stato.
«Parere conclusivo. La data dell'armistizio è stata anticipata [recte, «non posticipata»] senza alcun riguardo alla nostra situazione, così che si è generata una crisi gravissima in Italia e nei Balcani. Dobbiamo evitare che si ripeta questo passivo senza contropartita. La non belligeranza dovrebbe essere oculatamente negoziata.
«Poichè peraltro gli anglo-americani non entreranno certamente in discussioni politiche e neppure negozieranno compensi a fine guerra, si deve almeno ottenere eh~ ci mettano in grado di realmente combattere per non fare una dichiarazione platonica che servirebbe soltanto ai loro fini politici. E quindi debbono portarci in Continente le Divisioni della SardegnaCorsica (queste ultime complete) e fornire i mezzi per mettere in efficienza altre Divisioni.
«Inoltre non dovrebbe essere permessa la propaganda comunista. Niente rottura col Giappone senza alleanza politica. Il Capo di Stato maggiore generale Ambrosio».
I punti antifascisti nei primi «repubblichini»
Al Nord, intanto, la immediata apparizione di una stampa «di punta» neofascista non ancora sottoposta - in quelle prime settimane - a controllo ministeriale rivela coincidenze singolari, per scelta di temi, critiche e riprovazioni contro metodi e sistemi invalsi durante il Ventennio con quelle che allora costavano ai «mormoratori» e agli antifascisti, la relegazione, l'esilio o la condanna del Tribuna le speciale; lo stesso che, ancora il 23 luglio 1943, emise l'ultima sentenza quando ormai Vittorio Emanuele III, in nome del quale si pronunciavano i verdetti, aveva deciso di disfarsi di Mussolini.
La spontanea parola d'ordine sembrava diventata «mai più quel fascismo»! Un fascismo - in realtà l'unico storicamente esistito in concreto in quegli anni del Regno d'Italia - che aveva lasciato proliferare i germi del proprio disfacimento con le nomine dall'alto di immeritevoli e di incapaci, di arrivisti e di tesserati infedeli al giuramento stampato sulla loro tessera del PNF, oltre che di monarchici «potenzialmente traditori».
Ma se per costoro auspicate e promesse erano dure sanzioni, neppure Mussolini poteva esimersi da responsabilità per essersi circondato «dei peggiori tra i fascisti», e di avere lasciato persistere, con le promozioni a scelta, un <<clan» badogliano nell'Esercito.
Esiste pure un fondo costituito da numerose relazioni spontanee, accorate e piene di rancori, destinate a Mussolini «redivivo»: una documentazione che merita di essere tolta dall'inedito come farò in successive pubblicazioni. Essa comprova quanto genuino fosse il «grido di dolore e di vendetta» di cui si fece eco nei primi numeri «II Fascio» foglio ricomparso a Milano all'annuncio della riorganizzazione delle Camicie nere all'insegna del Littorio repubbl icano: «Mai più quel fascismo, purnirne i responsabili!».
ALDO A. MOLA
CORONA, GOVERNO, CLASSE POLITICA NELLA CRISI DEL SETTEMBRE 1943
Sommario: I . La politica delle «Nazioni Unite» verso l'Italia: da «provocare il collasso» a «salvare lo Stato». - 2. Sconfitta militare e iniziativa del re. - 3 Badoglio: il governo più assoluto della storia d'Italia. - 4. Il re regna e governa . - 5. La «ritirata volontaria>>, una «forma particolare di resistenza mediata». - 6. L'unica certezza: il passato. - 7. Quando gl'Italiani rimasero soli, - 8 . Impossibilità di sganciamento indolore e di resistenza in armi. - 9. Il sacrificio della «retroguardia». - 10. Tutte le forze armate sotto il controllo del re. - 11. Lo Stato continua. - 12. Conclusioni: da quel filo, quella tela.
1. - «Noi ci compiacciamo col popolo italiano e con Casa Savoia per essersi liberati di Mussolini, l'uomo che li ha coinvolti in guerra come strumento di Hitler e li ha portati sull'orlo del disastro. Il più grande ostacolo che divideva il popolo italiano dalle Nazioni Unite è stato rimosso dagli italiani stessi. Il solo ostacolo che ora rimane sulla via della pace è l'aggressore tedesco. Voi volete la pace; voi potete avere la pace immediatamente, e una pace alle condizioni onorevoli che i nostri governi vi hanno già offerto[ .]» (1). L'appello - indirizzato agl i Italiani il 29 luglio 1943 dal comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, gen. Eisenhower - condensa le contraddizioni fondamentali che resero ineluttabilmente drammatica la crisi italiana dell'estate 1943. Esso correva sul duplice binario - Casa reale/popolo - imboccato dai vincitori per giungere prima possibile a <<provocare un collasso interno in Italia» (2) - secondo l'intento enunziato il 14 gennaio 1943 dal ministro degli esteri britannico, Eden, al collega statunitense, Curdell Hull - e costringere alla resa senza condizioni la po- tenza più debole dell'Asse, in una visione strategica globale che ormai faceva del Mediterraneo un teatro secondario della guerra in corso (3).
Generico nell'interpretazione del colpo di Stato (4) del 25 luglio e mendace nell'ostentazione delle «onorevoli condizioni» alle quali il regno d'Italia avrebbe potuto ottenere la pace (resa senza condizioni e clausole armistiziali duramente punitive, in realtà), il messaggio del gen. Eisenhower perseguiva l'obiettivo di spingere la crisi italiana, dopo la caduta del governo fascista e l'arresto del «duce», all'epilogo ragionevolmente attendibile: la richiesta unilaterale di armistizio da parte dell'Italia. Per contro, come era stato il punto d'intreccio (non di convergenza) tra forze diverse e contrastanti prospettive politiche, così la caduta del governo Mussolini aveva aperto la via non già a un processo univoco, dalle cadenze scontate (richiesta d'armistizio, democratizzazione interna ... ), bensì a una nuova e più aspra fase della lunga lotta fra i protagonisti della caduta del regime e le forze cui essa assicurava nuovo spazio: gli uni e le altre operanti su impulsi di remota germinazione e con prospettive molto più vaste di quanto lasciasse intendere l'incombenza della guerra in corso, con la quale, nondimeno, tutti dovevano pur fare i conti (5).
I sondaggi condotti da singoli personaggi della Corte e da esponenti della dirigenza politico-economica italiana per verificare la disponibilità delle Nazioni Unite a favorire l'usci ta del regno dalla guerra - preminentemente diretti verso il}terlocutori britannici, a conferma dell'ottica italocentrica della guerra prevalente nella tradizione diplomatica nazionalista che insisteva nel considerare il Mediterraneo quale centro dell'attenzione mondiale (6) - pur nel loro costante fallimento (7) avevano fatto comprendere che gli anglo-americani non erano affatto disposti ad avallare - con l'avvio di trattative - la persistenza di un governo fascista o erede politico diretto di quello mussoliniano. L'intransigenza precedentemente ostentata dagli Alleati nei confronti dei regime faceva però gioco al nuovo go- verno italiano, cui sarebbe bastato poco per risultare differente rispetto al precedente. Se ne colsero subito i rilevanti riflessi in merito all'assetto istituzionale, che - come più avanti meglio diremo - costituiva il fulcro del corso politico in via di svolgimento in Italia. Infatti, se ancora nel maggio 1943 il dipartimento di Stato degli Usa riteneva che alla proclamazione della resa «le prerogative della Corona dovessero essere sospese» (8), dopo il 25 luglio il premier britannico Winston Churchill s'affrettò a dichiarare alla Camera dei Comuni, a Londra, che sarebbe stato «un grave errore da parte delle potenze liberatrici, Inghilterra e Stati Uniti, nel momento in cui la situazione italiana [era] in questa situazione aperta, fluida, agire in modo da abbattere e distruggere l'intera struttura ed espressione dello Stato» (9), ovvero la monarchia e il governo del re, pur sì poco rappresentat ivo, composto com'era di militari e «tecnici». A datare dal 1° agosto 1943 , in sintonia col nuovo orientamento nei confronti della situazione italiana, cessava dunque l'impiego, da parte anglo-americana, dell'epiteto di «fascista» sino a quel momento largamente usato per bollare il governo Badoglio, né Vittorio Emanuele III sarebbe più stato liquidato come «piccolo re idiota» (10).
2. - Colti di sorpresa dal colpo di Stato del 25 luglio, gli anglo-americani non avevano tardato a constatare l ' assenza di forze adeguatamente organizzate e immediatamente alternative rispetto al blocco attestatosi al potere. Badoglio, inoltre, proprio con la ferma repressione delle manifestazioni di piazza (11), mostrò di riuscire a tenere la situazione interna sotto controllo : obiettivo - era da credere - tanto più agevole da conseguire quando il governo di Roma non fosse più stato alle prese con la guerra e avesse potuto dedicare tutte le sue energie alla riorganizzazione del Paese . Risultava in tal modo confermata la valutazione formulata sin dal 9 febbraio 1943 da Curdell Hull circa la perdurante debolezza degli antifascisti non monarchici e la solidità, al contrario, di Casa Savoia - «distinta da Vittorio Emanuele III» (12) - attorno alla quale si aggregavano aristocratici, conservatori, esercito, imprenditori, sicché tutto lasciava prevedere ch'essa potesse «conservare il potere sovrano almeno durante il periodo interinale fra il Regime fascista e il suo successore definitivo» (13).
Per intendere l'azione di Vittorio Emanuele III - convinto che conservare la Corona su l suo capo fosse l'unica via sicura per assicurare il futuro della dinastia in Italia - occorre ricordare ch'egli non aveva alcun dubbio d'essere stato il vero e precipuo attore del rovesciamento di Mussolini. Né si trattava di mera e infondata presunzione. Se l'approvazione dell'ordine del giorno Grandi-Bottai da parte del Gran Consiglio del fascismo - organo dello Stato, ma a quel riguardo con poteri solo consultivi (14) - non costituiva vincolo assoluto per la decisione sovrana di revoca di Mussolini, la netta maggioranza raccolta dai gerarchi decisi a restituire al re le prerogative statutarie aveva fatto intendere che il partito nazionale fascista non costituiva più una base sufficiente per Mussolini. Di più: esso si rivelò improvvisamente - un mese e mezzo dopo l'appello di Giovanni Gentile a serrare i ranghi attorno al «duce» ( 15) - inconsistente, incapace a rappresentare non solo gl'Italiani ma persino se stesso. La riassunzione dei poteri statutari da parte del re era del resto l'indicaz ione offerta sia dai gerarchi favorevoli a un cambio della guardia al vertice del governo (anche Farinacci, oltre a Ciano, Federzoni, De Bono, De Vecchi ... : vale a dire gli antichi quadrumviri), sia dagli esponenti del prefascismo (Bergamini, Casati, Soleri, Bonomi ... ) e da comunisti disponibili ad assecondare l'iniziativa della Corona, se si fosse rivolta a rovesciare il fascismo, a portare l'Italia fuori dalla guerra e a ripristinare le libertà politiche (16).
Quella era anche stata la «lezione» tratta dagli scioperi del marzo 1943, nei quali alcune interpretazioni sto riografiche han ritenuto ~i cogliere il segno dell'irruzione delle masse operaie nel vivo della lotta politica, con ambizioni protagonistiche (17).
In realtà, mentre taluno - come l 'amministratore delegato della Fiat, Vittorio Valletta, mirava a ricondurre la protesta nei tradizionali confini della contesa sa lariale (18), la vasta partecipazione all'agitazione di iscritti ai sindacati fascisti indicò che se la soluzione della crisi doveva essere politica, questa andava cercata nell'intervento di una forza in grado di mediare al di sopra dello stesso partito di Mussolini, senza peraltro consegnare il Paese a un antifascismo dai contorni ancora indecifrabili (19). Le dimensioni assunte dagli scioperi, dunque, condussero semmai all'ampliamento e al consolidamento del fronte disposto ad assecondare l'inizia tiva della Corona. Da parte sua il sovrano era perfettamente a conoscenza dell'avversione nei confronti della guerra diffusa in ogni ceto; ma - com'ebbe a riferire il Capo di Stato Maggiore Generale, Pietro Badoglio, nella seduta del Comando supremo del 5 giugno 1940 - non ne era affatto preoccupato. Proprio Vittorio Emanuele III - disse il maresciallo dell'impero - gli aveva ricordato di aver ricevuto nella primavera del 1915 «fasci di lettere contro la guerra» (20), ma non se n'era lasciato condizionare, a differenza dell'ex presidente Giolitti, che perciò non godeva affatto della memore ammirazione del re, secon do la ripetuta testimonianza di Dino Grandi (21).
Il re non aveva dunque dovuto attendere gli scioperi per sapere che cosa effettivamente pensassero e s'attendessero le cosiddette «masse» o per constatare che il regime non contava affatto sul generale «consenso»: condizione, codesta, che non aveva costituito un vincolo neppure per i governi susseguitisi nei primi ventidue anni del suo regno. Nel giudizio del re l'irrequietezza di alcuni ambienti notabilari (senatori, grandi imprenditori, banchieri ... ) faceva par te di quei «fenomeni interni dell'organismo nazionale, i quali - spiegava Vittorio Emanuele III - assomigliano molto a ciò che nell'organismo sono le digestioni, le malattie, le guarigioni, ma non si elevano a fattori determinanti della politica estera», cioè «dell'azione dello Stato in relazione alla politica degli altri Stati» (22): sola «politi- ca» meritevole di attenzione, l'unica atta a consegnare alla storia l'azione dei singoli e i destini dei popoli.
Che anche fra i conservatori prendessero a serpeggiare malumori contro il sovrano e persino affiorassero venature di repubblicanesimo non era in fine motivo di soverchia preoccupazione per un sovrano che più volte, nel corso dei suoi quarantatrè anni di regno, aveva veduto anche i mazziniani più animosi e gli spiriti più indipendenti farsi strenui sostenitori della Corona, quando questa s'era rivelata unico potere effettivamente capace di far superare all'Italia le crisi più impegnative. Non erano infatti divenuti «uomini del re» i radicali d'inizio Novecento, i Barziali e Bissolati (23), i Nitti e i Meda, Arturo Labriola e D'Annunzio? La parlamentarizzazione e l'ascesa al governo del fascismo non s'erano altresì tradotte in una massiccia conversione d~ proposito d'eversione a lealismo monarchico (per quanto interessato)?
Antichi avversari e guardinghi fiancheggiatori erano stati conciliati alla Corona, in passato, con argomenti convincenti: i vistosi progressi sociali e i successi in politica estera dell'età giolittiana e, nel corso della grande guerra, le vittorie militari e la disperata resistenza dopo Caporetto, quando Filippo Turati aveva dichiarato che anche per i socia li sti la patria era sul Piave. Nel luglio 1943, però, il re non aveva da offrire che una grave sconfitta su molti fronti, la perdita delle colonie (comprese quelle conquis.tate prima del fascismo), la prospettiva di perpetua sudditanza nei confronti di un alleato arrogapte e prepotente e, in alternativa, l'invasione del territorio metropolitano, a conclusione di una guerra non desiderata dal Paese e poco gradita a una parte consistente della stessa classe dirigen t e. Poiché, malgrado la paziente attesa del re e dei capi militari, Mussolini non era riuscito a ottenere che un massiccio sforzo germanico capovolgesse le sorti belliche nel Mediterraneo, per Vittorio Emanuele III l'unica via per afferrare nuovamente il controllo della situazione era portare l'Italia fuori dalla guerra: cioè giocare la sconfitta a vantaggio di una rapida stabi liz- zazione interna, così da riprendere libertà d'iniziativa nelle relazioni internazionali. Su quella strada il re sapeva di poter contare anche sul concorso - convinto o per forze maggioredi molti strenui avversari dell'istituto monarchico, cui però non fosse venuto meno il senso della realtà in cui versava l'Italia: alle prese, com'era, con vincitori (non «liberatori») ben decisi a farle pagare a caro prezzo tre anni di guerra, taluni remoti circoscritti successi , persino le prove di valore militare, e a cancellarla per sempre dal novero delle «potenze», sia pure di seconda fila.
3. - Il 25-26 luglio il sovrano aveva mostrato di aver recuperato l'iniziativa e un'autonomia d'azione più ampia di quanta gliene avrebbero volentieri riconosciuta gli antifascisti, nel timore di rimanerne succubi, e di quanta fossero disposti a conferirgliene i gerarchi, intesi a dissociarsi da Mussolini, e i generali, ormai consci della sconfitta. La repentina drastica revoca del potere a Mussolini, l'ordine d'arresto sulla soglia dell'augusta dimora e la designazione di Badoglio - anziché di Caviglia (24), come suggeriva Grandi, o di un politico bene accetto all'antica guardia liberaldemocratica - confermavano che il re perseguiva un disegno suo, ispirato alla tradizione sabaudadonde i Lamarmora, Menabrea, Pelloux ... - assai più che dettata dal panico per le agitazioni operaie o dalle pressioni dei gerarchi e degli esponenti del riaffiorante antifascismo liberaldemocratico (25).
Sorprende, pertanto , la sorpresa di quanti hanno cercato nell'azione governativa dei quarantacinque giorni ciò ch'essa non poteva contenere. La liquidazione del Partito nazionale fascista e degli organi che ne ripetevano la presenza nello Stato - Gran Consiglio, Camera dei fasci e delle corporazioni, Milizia ... - non comportava la «democratizzazione», bensì volgeva a ripristinare il sistema di potere configurato dallo Statuto albertino, cui infatti s'appellavan o, in varia misura, le diverse «cospirazioni» convergenti, dimentiche della flessibilità, nella pratica attuazione, delle norme statutarie, ripetutamente adattate, dopo il 1848, alla reformatio in pejus.
Il governo Badoglio - non va dimenticato - operò nel quadro dei poteri configurati dalla legge 24 dicembre 1925, n. 2663, sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo, e dalla legge 31 gennaio 1926, n. 100, che riconobbe al governo la facoltà di emanare leggi, cioè di rendere ordinario ciò che in passato era stato straordinario: l'eccezionalità dei poteri condensati nelle mani del governo in stato di guerra (26). Del resto, nell'estate 1943 - quando la guerra c'era davvero - dovevano e potevano esser rese operanti le prerogative invalse in tempi anche meno calamitosi. «Governo del re» - composto da militari e da alti funzionari - fra tutti i provvedimenti consentiti dalla potestà pressoché assoluta di cui era rivestito, il ministero Badoglio prese le sole misure che il maresciallo riteneva atte ad allentare l'ostilità degli antifascisti (la liberazione dei prigionieri politici, tra nne anarchici e comunisti, in primo tempo) e attuò un oculato movimento di prefetti e alti burocrati, ostentato quale o ffensiva epuratrice da una stampa che, investita a sua volta da profondi sommovimenti, moltiplicava aggettivi e avverbi intorno ai magri sostantivi dei mutamenti effettivamente operati nell'assetto dello Stato (27). Giova ricordare, a conferma, che la prima legge organica sull'epurazione della pubblica amministrazione dal fascismo venne datata il 27 luglio: ma del 1944, non dell'anno precedente.
La repressione armata dalle manifestazioni popolari di esultanza per il rovesciaµiento del governo di Mussolini - da liquidare come nemico in battaglia, secondo le note disposizioni - nei giornali ebbe un'eco nettamente inferiore rispètto alle mosse guerresche del maresciallo contro gl'illeciti profitti di regime. Dietro quei «panni sporchi», stesi a gara da molti che pur avevano sino alla vigilia impastato le veline del Minculpop, l'azione effettiva del governo Badoglio rimase, non meno di quella del suo predecessore, al riparo dalle ingerenze (giudicate indebite) delle correnti antifasciste, aspiranti all'immediata realizzazione del programma «pace, libertà, riforma delle istituzioni».
Sciolta la Camera dei fasci e delle corporazioni (contro il suggerimento di Grandi, che proponeva di depurarla dai rappresentanti del Pnf, serbando viva e valida l'Assemblea dei consiglieri «economici» (28)), per effetto dell'art. 48 dello Statuto anche il Senato regio e vitalizio (di lì a poco definito «sudicio» da Benedetto Croce, che n'era pur membro attivo da anni (29)) risultava giuridicamente impedito e procrastinato sino a quando, quattro mesi dopo la fine della guerra, non fosse stata eletta la nuova Camera, promessa col RDL 2 agosto 1943, ovvero sine die (30).
4. - Per quanta convinzione ciascuno ponesse nella rappresentazione del proprio ruolo a nessuno sfuggiva l'epilogo verso il quale volgeva la scena italiana dall'agosto 1943: la richiesta unilaterale d'armistizio per la palese mancanza di risorse e di volontà adeguate a reggere lo sforzo di una guerra nella quale il Paese era stato cacciato, non senza sporadici entusiasmi, tre anni addiet ro, nell'illusione di una vittoria rapida , senza costi soverchi. Perciò, mentre da un canto ostentava di soccorrere il debole alleato, Hitler trasferì nella penisola quindici divisioni germaniche (31) e fece approntare i piani per la cattura del re e del governo. Da parte sua, mentre dichiarava di «continuare la guerra» a fianco della Germania sino alla vittoria finale, quest'ultimo lasciava che la guerra continuasse da sécon tragico seguito di bombardamenti aerei sulle maggiori città - e volgeva propositi ed energie a predisporre lo «sganciamento» dall'ingombrante alleato per l'ora dell'armistizio, non senza ordinare, intanto, la più ferma resistenza contro l'avanzata anglo-americana attraverso la Sicilia e lungo la Calabria (32).
Dal canto loro, anche gli anglo-americani continuarono a «recitare» sino in fondo la parte di «nemici»: raddoppiando le incursioni (con perdite, per gl'Italiani, nettamente superiori a quelle subìte prima del 25 luglio) e riservando un trattamento anche più duro nei confronti dei militari italiani, catturati in numero così rilevante da crea re non lieve imbarazzo al vincitore. A quel modo gli «alleati» spingevano alle corde un avversario che da oltre un anno ricorrentemente inviava segnali, a vario livello di competenza e attendibilità, per far conoscere la propria di sp onibilità a trattare la resa, a condizioni non umilianti. Questa t rama - non solo ieri indagata con intenti prevalentemente scand a listici e solitamente giudicata secondo criteri estranei alla storiografia - divenne pi.ù fitta col fallimento dei sondaggi tentati da Badoglio attraverso canali diplomatici tradizionali e si fece frenetica dopo il rientro da Lisbona del gen. Giuseppe Castellano (33) (27 agosto 1943), là inviato per stabilire i preliminari della trattativa armistiz iale. Quando scrisse che furono i militari - non i diplomatici, né altri - a tenere in pugno le fila dei contatti infine approdati alla resa, come già i generali erano stati gl i autori del vero 25 luglio, Castellano intendeva dire che il protagonis ta dell'estate 1943 fu il re tornato, a norma dell'art. 5 dello Statuto, alla guida dell'unica forza organi zza ta del Paese: l'esercito .
Nello scenario dei rapporti di forza fissati dal crollo del regime fascista, il governo Badoglio figurò come il meno sta nel più: e non perché il maresciallo fosse a sua volta «con le stellette» e quindi soggetto alla disciplina mili tare che lo voleva, in ultimo, agli ordini del re, secondo il criterio cui Badoglio stesso ricors e la mattina del 9 settembre per imporre al principe Umberto d'intrupparsi nel regio corteo da Roma a Pescara (34), bensì perché - liquidata la Camera dei deputati, paralizzato pertanto il Senato, inconvo cabili i comizi, sciolto il partito fascista senza che una legge ripristinasse la lib ertà d'associazione politica - il governo rispo se esclus ivamente al re, come mai era accadu to dall'av vento dello Statuto, ché lo scioglimento della Camera in nessun caso aveva creato una vacanza di poteri né modificato così alla radice i rapporti di forza tra gli organi dello Stato. In assen za di strumenti di mediazione tra questo e il «popolo» - di lì gli appelli radiofonici del re e del capo del governo direttamente rivolti agl ' ltaliani, nella tradizione, dura a morire, dei mussoliniani «dialoghi con la folla» - il sovrano fu il perno delle decisioni determinanti in spregio all'obliviato principio secondo il quale il re regna e non governa.
Minutamente aggiornato sulle trattative in corso tra gli emissari militari e i rappresentanti delle Nazioni Unite, fu il re, non altri, a suggellare l'assenso dell'Italia alla resa sigla t a a Cassibile il 3 settembre 1943 (35). Malgrado la durezza delle sue clausole, lo strumento firmato dal gen. Castellano per il re comportava l'inapprezzabile pregio di abilitare la Corona a garante della sua esecuzione. Badoglio era, infatti, «Capo del governo italiano» - come figurava in calce all' «armistizio corto» (36) - in forza della nomina regia e in stretta osservanza del1 ' art. 65 dello Statuto, senza preliminare indicazione da parte di alcun organo dello Stato o forza politica organizza t a.
Malgrado l'esibizione di ostilità nei confronti del re d'Italia - spinta, a Brindisi , sino alla volgarità (37) - anche gli alti ufficiali anglo-americani meno propensi a subìre il fascino di una dinastia quasi millenaria non s'illudevano che l'Esercito e l'Aeronautica e, meno ancora, la Marina ottemperassero a ordini privi del suggello reale. Che poi la Corona fosse sul capo di un sovrano screditato per la ventennale collusione col fascismo agli occhi degli Alleati era un vantaggio in più: giacché non costituiva l'ultima delle ragioni della debolezza politica dell'Italia e della sua inidoneità a chiedere un trattamento diverso da quello, durissimo, contemplato in quella «resa senza condizioni» che la Dichiarazione di Québec accennava vagamente a correggere in proporzione al contributo che gl'Italiani avrebbero recato nella lotta «contro la Germania durante il resto della guerra» (38): concorso che gli Alleati - soprattutto i britannici - intendevano però contenere nei ristretti limiti delle informazioni e del sabotaggio e con riluttanza consentirono prendesse veste di «cobelligeranza».
Anche l'accettazione del giorno e dell' o r a scelti dai vincitori per proclamare l'armistizio fu addossata a Vittorio Ema- nuele III, al termine del consulto fra Badoglio, i ministri delle tre armi, il capo di Stato Maggiore Generale, Roatta, il gen. Carboni, il ministro della Real Casa, duca d' Acquarone, impropriamente ricordato come «Consiglio della Corona» (39). Se nessuno - militare, politico, imprenditore, intellettuale ... - s'era veramente adoprato per impedire a Mussolini di dichiarare l'intervento dell'Italia in guerra, peraltro sancito dai previsti avalli normativi, anche tra fine agos t o e 1'8 settembre si verificò una vasta e sempre più affannosa fuga dalle respon sabilità per lasciare che un uomo solo e una sola istituzione, secondo un antico e non spento costume, si facessero infine carico delle decisioni ultime: così da coprire tutti e, al tempo st esso, da accollarsi l'onere degli eventi, dinanzi al Paese e alla st oria, secondo la condotta che, attraverso il tempo, aveva veduto avvinghiarsi alla monarchia il giacobino Crispi e il reazionario Pelloux, il t rasformista Depretis e le speranze degli stessi aventinisti.
5. - Giunto a Brindisi, Vittorio Emanuele III dichiarò di esservisi trasferito per seguire il suo governo (40). Il sistema dei poteri configurato dallo Statuto albertino conteneva tale ambiguità: che il re figurasse non responsabile di gesti da lui stesso ordinati a un governo che non poteva non eseguirli. Ha però osservato giustamente Carlo Ghisalberti che «né la forma scritta dello Statuto albertino, né, quel che più conta, l'applicazione pragmatica dello stesso fatta in età liberale, avevano mai potuto autorizzare la genesi di una visione garantistica della monarchia>> (41).
In effetti a Brindisi il re non aveva affatto seguìto il governo, bensì, semmai, il suo solo capo, Badoglio, e quei pochi ministri militari che, abbarbicati al maresciallo, non avevano subìto la sorte d'essere «dimenticati» a Roma (42). Anzi, a Brindisi i titolari dei ministeri si ritrovarono in numero insufficiente a costituire una regolare seduta del governo: sicché ai vuoti si dovette ovviare con supplenze, surroghe e nomine la cui le- gittimità presenta rilevant i motivi di dubbio. Quando però non si voglia ridurre quel trasferimento da Roma a Pescara e a Brindisi a una somma di precipitose viltà - come sostenuto dalla diffusa polemistica - o rimpicciolirlo a una «fuga» patteggiata col comandante delle forze germaniche, Albert Kesselring (secondo quanto venne sostenuto da Ruggero Zangrandi (43), con molta convinzione ma senza prove convincenti), e ci si prefigga, in vece, di spiegare le ragioni profonde di quella scelta, occorre porsi dal punto di vista dei suoi attori e domandarsi quali criteri l'abbiano dettata e quali scopi essi si proponess ero di conseguire.
Constatata l'impossibilità di arroccarsi nella capitale, mancate le condizioni militar i necessarie per prendere la testa di uno schieramento a difesa dinanzi alle armi germaniche in pross imità di Roma, la condotta del re non fece che ricalcare il modulo di comportamento proprio di una dinastia cresciu t a fra le battaglie (44) e più vo lte ricorsa al ripiegamento a difesa in un centro minore dello Stato, in a t tesa che il corso della guerra · o i dissidi tra i nemici ribaltassero le sorti del conflitto e ne rendessero cercata l'alleanza: criterio sperimentato con successo da sovrani celebrati quali grandi capitani - da Enrico IV di Francia a Federico II di Prussia - e infine raccomandato da Karl von Clausewitz nel cap. XXI del libro sesto del suo cele.bre Vom Kriege, ove viene spiegata l'opportunità della «ritirata volontaria all'interno del paese come una forma particolare di resistenza mediata, per mezzo della quale il nemico deve andare in rovina non tanto per effetto della spada del difensore , quanto a causa dei suoi propri sforzi», in assenza, dunque, «di una battaglia decisiva». È pur vero che von Clausewitz avrebbe preferito difendere «sanguinosamente ogni palmo di terreno con una resistenza continua e misurata» (avendo in mente l'esempio di Kutuzov); eg li non escludeva, tuttavia, decisioni più drastiche, benché «normalmente il popolo e l'esercito [e, aggiungiamo noi, molti «storici»] non distinguano la ritirata libera e razionale da quella piena di precipitazione e di intral- cio, né se il piano sia stato adottato avvedutamente in previsione di sicuri vantaggi, oppure se è il risultato del timore che ispirano le armi nemiche»: circostanze, codeste, nelle quali «l'esercito perderà facilmente la fiducia nel suo capo ed anche in se stesso» (45).
Non fu però per mero ossequio alla trattatistica bellica che la ritirata del re, del capo del governo, dei ministri militari e dello Stato Maggiore ebbe per conseguenza lo sbandamento del1' esercito (a differenza di quanto accadde per la marina e l'aviazione).
6. - Il dibattito sul crollo dell'esercito, oltreché sulla pretesa «viltà» del sovrano e dei capi militari, s'è imperniato sull'intempestività della data di proclamazione dell'armistizio. Mentre alcuni affermano che l'anticipo di quattro giorni sul 12 settembre, suggerito dal gen. Castellano sulla scorta di erronee elucubrazioni intorno a un sibillino accenno fattogli dal gen. Bedell Smith (46), impedì allo Stato Maggiore di tenere sotto controllo la situazione, - sì da elevare la «fatalità>> a protagonista della fase cruciale della crisi italiana-; altri hanno ribadito che anche lo sfascio del regio esercito va imputato al «tradimento>> dei suoi capi, solleciti solo della propria personale salvezza.
La prima spiegazione risponde all'intento di liberare da qualsiasi imputabilità quanti, per cariche ricoperte e mezzi di, sponibili, erano responsabili delle decisioni (ovvero di non aver deciso), e a quello, di altro segno politico, ma non meno diffuso, di dissolvere l'intera vicenda in una generica «desistenza» degl'ltaliani a causa dell'incontenibile proromp ere dell'antica predilezione per la pace (quante volte era stato ripetuto, nei secoli, che gli Italiani non si battono e non sanno battersi!).
La seconda spiegazione - prevalente nella storia, come nella stori ografia (47) - risulta a sua volta non meno deludente, giacché, apparentemente valida nella sua applicazi9ne al circo- scritto momento della ritirata da Roma a Pescara, in realtà isola la crisi dell'estate 1943 dal corso complessivo della storia dell'Italia uni ta e dal quadro dei poteri definitosi nel tempo col consenso - per adesione o costrizione - del «popolo», nelle sue diverse componenti.
Dev'essere invece percorsa altra via, sì da restitu ir e ai fatti dell'8-12 settembre il significato, autentico, di «verifica» della natura e dell'assetto del regno e, al t empo stesso, di «lezione», che non ci sembra sia stata compresa né posta a partito negli anni seguenti, neppure con l'ins t aurazione della Repubblica, nè con l'accelerazione della sua ormai incombente decomposizione. È nell'ambito degli equilibri di potere configurati dallo Statuto - e depauperati, come già s'è detto, dai provvedimenti eccezionali del governo pressochè monocratico del maresciallo Badoglio - che assumono peso effettivo le personali propensioni dei protagonisti (48), i cui singoli atti venivano a mancare di vaglio, controllo, correttivi, per l'inesistenza o la paralisi degli organi che avrebbero dovuto o potuto almeno parzialmente provvedervi. Su tali premesse va fondato l'esame degli eventi seguitisi dal rientro da Lisbona del gen. Castellano all'arrivo del re a Brindisi.
Le condizioni armistiziali poste dagli anglo-americani non chiedevano al governo italiano di schierare le forze armate a fronte dell'ex alleato, bensì la cessazione delle ostilità e l'acquartieramento dell'esercito, in attesa di disposizioni, la consegna delle flotte, navale e aerea, in basi designate, e di tenere sotto controllo le vie di comunicazione e le artrezzature produttive. Due clausole - la 8 e la 11- risultavano ambigue e contraddittorie: «immediato richiamo in Italia delle Forze Armate italiane da ogni partecipazione nella guerra in qualsiasi zona in cui si trovino attualmente impiegate» e «il Comandante in Capo delle Forze alleate avrà pieno diritto di imporre misure di disarmo, di smobilitazione e di smilitarizzazione», mentre la 9, richiedendo «garanzia da parte del Governo italiano che se necessario impiegherà tutte le sue forze disponibili per assi- curare la sollecita e precisa esecuzione di tutte le condizioni di armistizio», lasciava intravvedere, nello spirito della Dichiarazione di Québec, la prospettiva, inseguita da Castellano, di una cooperazione immediata tra esercito italiano e Forze alleate. Sennonché le previsioni sull'effettiva risposta germanica alla proclamazione dell'armistizio rimanevano divise tra la speranza che i tedeschi «filassero al nord» - coltivata non dai soli itali ani, ma anche, almeno in alcune fasi, dallo stesso Comandante in capo alleato, gen. Eisenhower - e il timore di doverne fronteggiare l'aggressione armata. Solo i fatti - in particolare i modi nei quali sarebbe stata attuata la coincidenza fra annunzio dell'armistizio da parte alleata, sua proclamazione da parte del governo italiano e sbarco anglo-amer ican o in Italia - avrebbero potuto sciogliere le incertezze, perché le contromisure delle forze germaniche sarebbero state prese co n diretto riferimento al teatro d'operazioni configurato dalle mosse del nemico assai più che da quelle dell'ex alleato.
Il passo della Dichiarazione di Québec (punto 5) in cui si diceva che dai porti del Nord la navi italiane avrebbero dovu to recarsi «a sud della linea Venezia-Livorno» non era certo fatto per chiarire le idee sulle reali in tenzioni degli anglo-americani, i cui disegni (anche n ella prospettiva più au dace e ottimistica) ricadevano comunque molto a sud di tale linea .
A rendere più confusa la predisposizione delle misure con le quali fronteggiare le r eaz ioni tedesche alla dichiarazione d'armistizio contribuiva la reciproca sopravvalutazion e coltivata da Itali ani e Alleat i in merito alle rispettive dotazioni in uomini e mezzi: mentre il governo di Roma era convinto (o voleva credere) che i vincit ori fossero perfettamente in grado di balzare in forze al nord di Roma (errore nel quale era stato indotto dagli Alleati, che lasciarono intendere di poter davvero gettare nella battaglia le quindici divisioni richieste dagl'Italiani), gli angloamericani, che avevano saggiato in Sicilia la capacità di resistenza dei reparti italiani, ritenevano che il governo di Roma fosse in condizione, lasciata la capitale, di tenere il controllo dell'Italia meridionale, mentre i tedeschi compivano la ritirata almeno sino alla dorsale appenninica tosco-emiliana, secondo i propositi prevalenti a Berlino e dei quali i comandi alleati erano a conoscenza grazie alla decrittazione dei messaggi in codice corsi, al riguardo, nel campo avversario.
7. - La realtà era però tutt'altra: né gli anglo-americani intendevano impiegare le forze promesse - ormai in parte destinate alla lunga preparazione dell'operazione «Overlord», in programma per la primavera 1944 -, né comunque eran disposti ad arrischiare i propri reparti nella penisola prima che il governo di Roma avesse neutralizzato le sue ancora temute forze con l'ordine di eseguire le condizioni armistiziali. Per parte loro, gl'ltaliani non potevano dilatare a piacere i tempi fra la persistenza dello schieramento a fianco dell'alleato germanico, la proclamazione dell'armistiz io e l'applicazione delle sue clausole in linea col documento di Québec, secondo il quale essi avrebbero agito contro i t edeschi, le loro proprietà , i movimenti delle loro truppe, d'in tesa e con l'apporto delle Nazioni Unite, impegnate a recare «tutto l'aiuto possibile».
Constatare che gl'Italiani rimasero dunque vittime del «gigantic bluff» abilme n te (49) giocato da Eisenhower non significa certo proporre una condanna del comportamento angloamer icano, né dimenticare che era stata l'Italia a entrare in guerra a fianco della Germania contro le Nazioni Un ite e non viceversa : mira, bensì, a una valutazione meno emotiva e faziosa, né ideologicamente inquinata, della sequenza degli eventi e delle loro ragioni.
Né basta rassegnarsi ad ammettere che gli anglo-americani non dovevano particolari riguardi nei confronti del vinto; occorre invece domandarsi se non avrebbe recato loro più sicuro vantaggio fare maggior conto dell'apporto del regno d'Italia per battere la Germania in un teatro ormai secondario del conflitto mond iale, ma non del tutto irrilevante per la sua c o ntiguità con la regione balcanica, altrimenti consegnata all'egemonia dell'URSS, come d i fatti avvenne (50).
Quando, la sera dell'8 settembre 1943, Vittorio Emanuele III accettò di subire la proclamazione dell'armistizio, anticipata rispetto alle previsioni su cui s'erano fondati il governo e i capi militari italiani, era ormai chiaro che non si sarebbe verificata alcuna delle cond izioni pochi giorni prima fatte balenare per indurre Roma alla rapida accettazione delle dure condizioni armistiziali: non lo sbarco anglo-americano nell'alto Adriatico, né quello a nord di Roma, o nelle sue vicinanze, così da far sistema con le forze armate schierate a ridosso della capitale, né, infine, l'aviosbarco di una divisione di paracadutisti nei pressi di Roma e l'afflusso di artiglierie pesanti alla foce del Tevere, per fermare le divisioni corazzate germaniche. A Roma non si sapeva che l'unica operazione di trasporto aereo aìlestita dagli Alleati -e fermata all'ultim'ora dal gen. Taylor - aveva un intento ancora una volta ostile (51), non di soccorso, nei confronti del governo italiano: era perciò chiaro che gl'Italiani dovevano fare da sé. Nell'ora più difficile della storia unitaria, perduto l'alleato essi non poterono contare, tutto sùbito, su alcun amico, neppure interessato. Nella sfiduciata desolazione voluta dai vincitori - cui premeva che il primo tra i Paesi costretti alla resa risultasse umiliato, a mònito per gli altri minori alleati della Germania - furono prese le decisioni supreme: l'allontanamento del sovrano e del governo dall'indifendibile capitale, alla volta di una plaga sgombra da ex alleati non meno che da ex nemici, e il rinvio dell'ordine d' applicazione delle direttive contenute nelle «memorie operative» (52) diramate in vista della proclamazione dell'armistizio .
È stato osservato che tali scelte rispondevano a criter i tradizionali della diplomazia sabauda: l'attendismo - ribadito con la procrastinazione, sino all'estremo, dell'attuazione di misure che, mentre dovevano premunire per il futuro, ne compromettevano altresì il corso -e il ripiegamento sul «sacro egoismo», cui già si era ispirata la condotta del regno dalla co n flagrazione europea, nell'agosto 1914, a Versailles. Aggiungiamo ch e ent rambi quei criteri risultano produttivi per uno Stato fo r te e co n effettiva possibilità di scelta tra le parti in conflitto: riescono invece causa di maggiori rischi e, spesso, di grave danno quando sian fatti propri da un Paese costretto a subire gli eventi, senza spazio di libera manovra, quale appunto era l'Italia all'inizio del settembre 1943. s· . El usa la cattura da par te dei germanici, rifiutato il ricovero sotto l 'ala troppo protettrice delle Nazioni Unite, benché militarmente sconfitto il capo dello Stato italiano poteva asp irar e alla riaffermazione della sovranità nazionale, raccogliend one gl'immediati vantaggi sul terreno, decisivo, dei rapporti internazionali. L'amara consapevolezza della disparità fra i mezzi necessari a co st ituire una situazione politica nuova (la dichiarazione di guerra a lla Germania) .già aveva imposto d 'imper niar e la «Memo ria op. 44», compilata fra il 22 agosto e il 2 settembre, sul rifiuto di prendere l'iniziativa militare co ntro l'ex alleato e di non considerare l'ex nemico come nuovo, sicuro, immediato cobelligerante.
Per il sovrano, nondimeno, armistizio significava cessazione delle ostilità e riaffermazione dell'incolumità dello Stato: non era, cioè, la premessa per un immediato ribaltamento di fronte (suggerito da Dino Grandi e piu a vanti sollecitato da Badoglio per impulso degli Alleati). A trattenere il re dall'operare un vero e proprio «voltafaccia» non fu, però, l'imbarazzo per le attestazioni di lealtà nei confronti della Germania ribadite sino all'ultima ora (53), né il tormento interiore per la sorte dei famigliari vittime della rappresaglia hitleriana, quanto il proposito di trattare i futuri impegni dell'Italia su basi più forti rispetto a quelle consentite dalla sconfitta e determinate dalle catastrofiche conseguenze di un armistizio cui il governo pervenne tenendone quanto possibile all'oscuro gli alleati di ieri e, forzatamente, l'opinione pubblica e le forze organizzate del Paese, a cominciare dalle Forze Armate.
Troppe ragioni, infatti, impedivano che per l'Italia - occupata dagli eserciti dei due fronti in lotta e divi sa dalla contrapp osizione tra ideologie sanguinosamente ostili - armistizio significasse annunzio di pace anziché, come di fatto accadde, preambolo di una seconda difficile fase di guerra, esterna e interna.
Il «sacro egoismo» altro non era, dunque, che l 'aspetto più appariscente della cautela cui Corte e governo ispiravano le proprie mosse, nell'interesse del Paese non meno che proprio, vista l'inattendibilità delle promesse fatte dagli anglo-americani.
Così - non va dimenticato - il trasferimento a Pescara e a Brindisi fu anche una eloquente risposta agli Alleati che avevano proposto al sovrano di rifugiarsi su un bastimento, sotto tutela del vincitore, in una posizione incomparab ilmente più debole rispetto a quella recuperata da Vittorio Emanuele III e dal governo nel «regno del Sud».
Le difficoltà incontrate dagli anglo-americani nel risalire la penisola dopo lo sbarco a Salerno, andato a un passo dal fallimento per !'irruente reazione germanica, dimostra che non erano inesatte le stime rapidamente fatte dal re e dai suoi colla boratori in merito alla indifendibilità di Roma e alla opportunità di affrontare, con i propri soli mezzi, la controffensiva che i tedeschi avrebbero scatenato a replica di quella dichiarazion e di guerra alla Germania cui molti sollecitavano il g o verno italiano senza valutarne appieno le pur prevedibili conseguenze per l'esercito e le regioni sott o controllo nemico.
Qu ella dir ett iva illumina il retroterra sul quale si formarono le decisioni del re, di Badoglio e dei vertici militari nella notte tra 1'8 e il 9 settembre. Alla proclamazione dell'armistizio le singo le armate dell'esercito italiano erano sc hierate secondo piani concorda ti con gl i alti com andi germanici (e quindi noti nei dettagli all'ex allea t o): in quasi tutti i casi gl'italiani erano a contatto di fuoco co n i tedeschi, largamente inseriti o recent e mente penetrati all'interno dei loro dispiegamenti, con moto accelerato dopo il 25 luglio dal Tr entino lungo la penisola e spec ialmente a Roma e nei suoi dintorni, ove gli «sfusi» erano causa di par tico lar e preoccupazione (54). I vertici militari italiani sapevano che i germanici conoscevano bene le risor se - in uomi- ni e mezzi - sui quali essi potevano contare: Roma aveva subordinato l'intervento in guerra a massicce forniture belliche tedesche e per tre anni aveva combattuto con mezzi in larga misura forniti dall'alleato, decisivi per alcuni settori qualificati. Esclusa qualsiasi possibilità di successo di un'eventuale improvvisata aggressione generale dell'esercito germanico da parte italiana, anche lo sganciamento dall'ex allea t o si presentava niente affatto agevole, scontato, indolore, nel quadro di un conflitto che lasciava pochi margini alla neutralità e nel cui ambit o procacciarsi dotazioni belliche era assillo quotidiano. L'appropriazione dell'armamento degli it aliani, usciti dalla guerra, da parte dell'ex alleato, che proseguiva la lo t ta, in molti casi aveva, inol t re, il carattere di un ragion evo le risarcimento o di restituzione dei prestiti in est in t i (55).
Che fare, dunque, nell'impos sibilità di attaccare e di sganciarsi se non met t er;s i nella condizione di non dover contra t taccare con forze impari, senza poter contare sul s occorso dei vincitori e con incert e pros pe tt ive di dùrevole resistenza? A quanti ripetono che il governo avrebbe dovuto ordinare alle armat e di ripiegare nella penisola e di attestarsi in ordine di combattimento a posta e fulcro di una resistenza di massa contro l'occupazione nazista , va ricordato che alla fine del 1943 gli effettivi delle «bande» armat e costituitesi nell'Italia centro-settentrionale non superavano i 6.000 uomini: che era quanto poteva essere alimenta t o da un territorio quale la penisola, diffusamente urbanizzato e sovrappopolato, niente affatto adatto alla «guerra per bande» nell'età della motorizzazione (56).
9. - Oltre a quelle tecniche, anche ragioni politiche sconsigliavano al governo del re d'impartire gli ordini che tanta parte della storiografia ha rinfacciato alla monarchia e a Badoglio di non aver saputo né voluto dare. Già nel 1922, quando la «marcia su Roma» ancora poteva essere fermata con la proclamazione dello stato d'assedio, venne fatto sapere al re che l'esercito rimaneva fede le, ma era meglio non metterlo alla pro- va. Sarebbe stato più agevole tentare la stessa prova dopo quattro lustri di fascistizzazione dell'esercito e dopo tre anni d'indottrinamento, durante i quali la guerra a fianco della Germania era stata predicata a ufficiali e soldati come un'alleanza ideologica e, più ancora, di civiltà? Lo stesso Eisenhower, profondo conoscitore della «mentalità» militare, avanzò ripetutamente forti dubbi, sulla possibilità che davvero bastasse un ordine regio per ottenere che tutti i reparti volgessero le armi contro l'ex alleato col quale molti soldati italiani avevano cameratescamente condiviso anni di guerra (57).
· Ora, la monarchia, che aveva sempre temuto la sedizione militare quale pessimo tra i mali, aveva buoni motivi per non provocarla essa stessa chiedendo l'impossibile, con suo sicuro detrimento e ponendosi nell'obbligo di dovere un giorno celebrare quei massicci processi per alto tradimento nei riguardi di quanti avessero rifiutato di ottemperare all'ordine, non mai aperti nei confronti delle forze armate della Repubblica·Sociale perché radicate in una loro pur discutibile legalità.
La Corona aveva risposto all'ordine del giorno Grandich'essa stessa aveva implicitamente sollecitato - lanciando l'appello all'unità nazionale. Per attingerla occorreva però far scendere rapidamente il sipario sui vent'anni di regime, eludere qualsiasi contrasto ideologico e pertanto evitare di spaccare il Paese sulla «questione fascista» che si preferiva considerare chiusa con le misure decretate dal governo Badoglio nei giorni immediatamente successivi al 25 luglio.
Trascorse quarantott'ore dalla proclamazione dell'armistizio, risultò a suo modo riuscita l'operazione fondamentale per la salute dello Stato: salvare la testa delle forze armate, il re, il capo del governo, i vertici militari, che da tempo avevano preso il controllo delle trattative con le Nazioni Unite e cui sarebbe ora spettato di trovare idonee soluzioni di compromesso con l'ex alleato per non provocarne la reazione armata.
Come in tutte le battaglie perdute, che non si voglia trasformare in catastrofe generale e definitiva, anche in quel caso la salvezza della testa dell'esercito s ' accompagnò al sacrificio della retroguardia: sennonché, per le circostanze sopra ricordate, era tale pressoché l'intero esercito italiano, mescolato con l'ex alleato - imminente nemico -, privo di mezzi per un'adeguata difesa e impossibilitato a schierarsi in ordine di combattimento se non rischiando di moltiplicare a dismisura la tragedia di Cefalonia, sì da trasformare l'armistizio nel massacro di inter e armate, chiuse in sacche di resistenza l ' una dall'altra isolata, condannate a esaurire rapidamente le proprie scorte, senza ser ia possibilità di rifornimento da parte dei «vincitori» che impiegarono poi diciotto mesi per portare a livelli non meramente simbolici gli aiuti al movimento armato di resistenza ne l nord Italia, i cui effettivi erano tanto meno consistenti e più concentrati rispetto alle armate schierate dall'Italia nel settembre 1943. La sorte inflitta dai tedeschi a polacchi, russi, jugoslavi, bulgari - sterm inati in massa - lasciava pochi margini d'illusione sul trattamento che Hitler avrebbe ora riservato agli Italiani se questi stessi gliene avessero offerto il destro con una dichiarazione di guerra, prima che la costituzione della RSI bene o male, vi facesse scudo. Paradossalmente, proprio la mancanza di direttive - che sarebbero potute essere sol o di resistenza armata contro i germanici - mise dunque i comandi nella condizione di suggellare lo sbandamento dei reparti con l'ordine di scioglimento (58): unica formula atta a liberare i soldati dall'imputazione di diserzione dinanzi al nemico in armi, prima o poi diversamente lanciata contro le centinaia di migliaia di uomini delle armate degradate a retroguardia di uno schieramento il cui quartier generale, rifiutato l'impari scontro, aveva preso stanza a Brindisi, più lontano possibile dal pericolo di eliminazione sommaria. Parimenti, abbandonati a se stessi i comandi italiani poterono rapidamente imboccare la via di singol e trattative con gli occupanti, riuscendo a strappare - al di là di alcuni privilegi formali nelle modalità della resa (59) - la sa lvezza per la quasi totalità degli uomini, diversamente condannati a subi re la rappresaglia tedesca .
Dopo altri tre giorni, la notizia della liberazione di Mussolini dall'albergo-carcere del Gran Sasso e del suo trasferim ~nto in Germania - presumibilmente per prendervi la guida di uno Stato vassallo del Reich, come di fatto avvenne - agli occhi del governo del Sud conferì un preciso significato costruttivo all'odio che le misure germaniche di rappresaglia contro i militari italiani avrebbero suscitato nei confronti di quanto sapesse di nazifascista.
10. - Il modo del trasferimento del re, di Badoglio e dei capi militari da Roma a Brindisi costituisce verifica del modesto rilievo avuto dagli scioperi operai (del marzo e dell'agosto 1943) nella determinazione della condotta dei vertici dello Stato. La previsione che i tedeschi non si sarebbero ritirati dalla penisola senza colpo ferire o quanto meno senza depredarla di quanto po t esse occorrere alla loro guerra, affondando le mani nelle regioni industr ializzate del nord e nelle loro cospicue risorse agricole, non indusse infa t ti i protagonisti della vicenda - quasi tutti piemont esi, a cominciare dal sovrano, già «principe di Napoli» ma infine «conte di Pollenzo», e dal figlio, poi «conte di Sarre» -a mutar rotta, benché fosse chiaro che quella deci sione avrebbe potuto aprire un solco difficilmente colmabile fra la dinas t ia e alcuni fra gli ambienti tradi zionalmente a essa più fedeli. Se mai ve ne fosse stato bisogno quella era la dimostrazione che la Corona e i suoi uomini pensavano e agivano in una visione autenticamente nazionale del proprio ruolo, senza indulgen ze né predilezioni regionali. Parimenti inattendibile era l'ipotesi - affacciata a posteriori dal gen. Carboni e da una corrente storiografica -che il re incitasse gl'italiani a prendere l'iniziativa della resistenza armata.
Educato nel culto della tradizione sabauda, anziché farsi ispiratore di una insurrezione popolare, priva di seri sbocchi là dove l'esercito stesso veniva forzatamente sacrificato, Vittorio Emanuele III condivideva semmai il pensiero del conte di UìrSaluce che nella Enquéte sur la monarchie (un testo ben noto al sovrano) affermava: «laforce militaire doit étre entièrement entre !es mains du souverain: il y a là un genre de responsabilité qu 'il doit se reserver. Il doit conserver sous sa seule autorité l'armée du pays», nella convinzione, del resto, che «le principe de la division du travail condamne le système de la nation armée» (60), reputata da Vittorio Emanuele III un residuo di mentalità ottocentesca, incompatibile con lo Stato moderno. In quell'ottica, e per una seconda più radicale considerazione, era impensabile che il principe di Piemonte potesse restare a Roma: ove avrebbe costituito un pericolo per la continui t à della dinastia se fosse caduto (com'era molto probabile) nelle mani dei tedeschi o se fosse stato indotto a porsi a capo di «volontari» oggettivamente antagonisti nei confronti del governo di un re secondo il quale «si regna uno per volta» (61). Umberto, in altre parole , doveva seguire il padre non ta n to per obbedienza alle gerarchie militari - ai cui occhi egli era ung enerale in ser vizio con incarico di comando effettivo (62) - bensì per impedire che, in c aso di morte o di impedimento fisico del padre - si creasse un vuoto di legittimità e il governo, in carenza della prevista sanzione regia dei suoi atti e costretto a fondarsi su basi extrastatutarie, scivolasse sul piano inclinato della illegit t imità, perdendo il privilegio che ne faceva altra cosa rispetto alla nascente Repubblica sociale it aliana. La presenza di Umberto a fianco del padre avrebbe anche scongiurato il r ischio che - dichiarato Vittorio Emanuele III impedito a esercitare la sua funzione (perché sotto quel controllo angloamericano che in una sentenza del 1954 venne invocato da un tribunale della Repubblica quale prova dell'assenza di legalità nell'Italia centro-meridionale (63)) - il principe venisse in qualche modo contrapposto al padre.
11. - Il 14 settembre - t re giorni dopo il reg i o radiome ssaggio di Brindisi - gli anglo-americani proposero a Vittorio Emanuele III di rivolgere un nuovo appello al Paese (64). A quel punto il sovrano poteva ritenere d'aver effettivamente a ssolto - attraverso la sua persona - il «dovere di preservare l'integrità [dello Stato], adottando immediatamente i provvedimenti che ne possono garantire la conservazione» (65) nella forma consona alla sua trad izione. Vittorio Emanuele aveva infatti ottenuto che i vincitori si rivolgessero alla Corona e al governo del re quali unici depositari dei diritti della nazione italiana. Dal punto di vista del suo concetto di sovranità, il re poteva quindi ritenere d'aver chiuso in attivo -o con un passivo di gran lunga inferiore a quanto fosse stato lecito temere nelle drammatiche ore fra la sera dell'8 e l'alba del 10 settembrela partita aperta mesi addietro per rimuovere Mussolini dal governo, smantellare il «partito unico» e predisporre lo sganciamento dell'Italia dalla guerra a fianco della Germania di Hitler. Se fino a quel momento aveva avuto pochi margini di manovra, dal 14 settembre e, poco oltre, con la proclamazione della Repubblica sociale, anche le Nazioni Unite si trovarono a percorrere una via obbligata: per restituire efficienza all'organizzazione civile, economica, militare in Italia, insomma per contare su uno Stato, dovevano rincalzare le basi dell'unico istituto che rappresentasse la continuità delle leggi, cioè la Corona.
In quella direzione operarono sia l'imposizione della firma, a Malta (29 settembre), del!' «armistizio lungo», accettata dal maresciallo Pietro Badoglio, «capo del governo italiano, rappresentante il Comando supremo delle /orze armate italiane di terra, mare ed aria, e debitamente autorizzato dal Governo italiano» (66), ch'era tale per investitura regia, e sia, il 13 ottobre, la dichiarazione di guerra alla Germania: cespite di diciannove mesi di «cobelligeranza» italiana a fianco dellè Nazioni Unite.
12. - Giunti sul confine cronologico che ci eravamo prefissi non possiamo non guardare i fondamentali salienti delle vicende successivamente attraversate, in Italia, alla ricerca di un nuovo assetto istituzionale. La necessità di convogliare tutte le forze disponibili verso la guerra di liberazione - nel quadro della serrata gara fra le Nazioni Unite in vista degli equili- bri post-bellici - condusse a quella «tregua istituzionale» che si tradusse in cospicuo vantaggio per la monarchia, anche perché la rinunzia all'esercizio dei poteri regali da parte di Vittorio Emanuele III, a differenza di quanto suggerito da Badoglio e da Benedetto Croce, non si tradusse in una reggenza - che sarebbe suonata condanna politica per il re e suo figlio (67)bensì nell'elevazione di Umberto a Luogotenente del re, come consigliato da Enrico De Nicola: preludio all ' assunzione della Corona dopo la tardiva abdicazione del maggio 1946. Il prolungamento della guerra oltre i più pessimistici timori dell'autunno 1943 non fece, poi, che rilanciare il prestigio della monarchia, che risaliva la penisola con gli Alleati e per molti divenne simbolo della liberazione. Si comprende, perciò , che la Corona abbia potuto riaffermare, col tempo, la sua centralità anche nella risorgente vita dei partiti, come mostr ò Ivanoe Bonomi quando si recò a rassegnare le dimissioni del suo governo al Luogotenente e non al Comitato centrale di liberazione nazionale, che riteneva di esserne il mandat ario. In quello stesso . clima di restaurazione potè aver luogo la nomina di un nuovo presidente del non più convocato Senato del regno e quella di un presidente della Camera, in attesa della convocazione dei comizi (68): segni esteriori grazie ai quali la forma de l potere assumeva ed esercitava potere sostanziale a van t aggio della Corona, cioè di una istituzione specialmente fondata su simboli e miti.
Quanto siamo andati dicendo non intende essere una giustificazione della condotta tenuta dal re, da Badoglio e dai vertici militari nel corso della crisi italiana dell'estate 1943, né insinuare ch'essi abbiano «fatto b ene» a precipitarsi da Roma a Brindisi lasciando allo sbando l ' esercito. Meno ancora ci preme contrapporre alle ricorrenti invettive contro la «viltà» dei militari l'ampia messe di fatti che pur costituiscono documento del prezzo pagato dalle Forze Armate in difesa del proprio Paese, sia con iniziative singole, sia affrontando con eroica determinazione le rappresaglie ordinate da Hitler (69) e sia accet- tando la deportazione in Germania, senza cedimenti nei confronti delle profferte di liberazione a patto d'inquadramento nelle file della Rsi. Semmai ve ne fosse bisogno, ripeteremo anche noi, con Croce, che l'ufficio della storia non è di formulare postume condanne o assoluzioni, bensì di spiegare per quali cagioni, tra le tante possibili, il corso storico abbia infine imboccato una sola direzione, giungendo a uno tra i tanti approdi che le premesse consentivano.
Abbiamo invece inteso descrivere il funzionamento di un assetto del potere, mostrandone la rigidità anche in presenza di una crisi gravissima. Come sarebbe stato politicamente ingenuo attendersi ch'esso funzionasse altrimenti, così risulta storiograficamente inconsistente l'addebito, da taluno mosso a quell'assetto - sorto con lo Statuto octroyé e deterioratosi per via, dapprima con l'avvento del fascismo al potere, poi col colpo di Stato del 25 luglio 1943 -, di non aver saputo investirsi delle aspirazioni politiche di forze a esso avverse e di non aver funzionato secondo i principi di una «democrazia» che gli era e gli sarebbe rimasta estranea. Non ci può attendere che un sistema dia frutti esogeni rispetto ai fini per i quali esso venne costruito. Non meno vano è poi pensare di modificarlo nei comportamenti lasciandone immutata la forma: tosto o tardi questa torna a generare la sostanza per la quale è stata ideata.
Note
(1) Cit. in M. Toscano, Dal 25 luglio al/'8 settembre, Firenze, Le Monnier, 1966, pp. 177-78. «La campagna d'Italia» - ha osservato E. Aga Rossi, La politica degli Alleati verso l'Italia nel 1943, «Storia contemporanea», III, 1972, n. 4, p. 866 - [era iniziata] senza alcun piano né militare né politico a lungo termine, ma come risultato di successivi compromessi tra le diverse strategie inglesi e americane».
In merito all'ordinamento interno dell'Italia gli Usa erano, in generale, orientati a favore di un rinnovamento istituzionale profondo, mentre i britannici propendevano per accettare la differenziazione - proposta dal re e dal governo Badoglio - tra la Corona e il fascismo e conservare, per quanto possibile, le istituzioni esistenti, nel timore, espresso da Churchill all'indomani del 25 luglio, che non vi fosse più nulla «tra il re e i patrioti raccolti attorno a lui( ... ) e il bolscevismo all'assalto». Per recenti rassegne storiografich e al riguardo, v. A. Varsori, Inghilterra e I talia, 1940-1943, «Nu ova anto lo g ia» f. 2147, lugli o-sette mbr e 1983 e E. Di No l fo, Quell'B settembre, ivi, f. 2148, ottobre-dicembre, ove comparve la relazione ripresa nel presente volume.
(2) « Il nostro obiettivo deve essere quello di cacciare l'Italia fuori della guerra il più rapidam ente possibile e ciò può essere realizzato quasi con lo stesso effetto, sia che l'Italia concluda una pace separata, sia che i risentimenti e i disordini all'interno del Paese raggiungano tali proporzioni che i Tedeschi siano costretti ed effettuare una occupazione totale»: ipotesi gradita a Londra perché Berlino avrebbe dovuto sostit uire con le proprie le truppe italiane su l fronte russo, in Francia e nei Balcan i , così da alleggerire le difese in vista dell'attacco anglo -americano sul fronte della Manica. « Pertanto - concludeva al riguardo Eden - il punto di vista del Governo di S.M. è quello che non dovremmo contare sulla possibilità di una pace separala, ma dovremmo mirare a provocare in Italia tali disordini da richiedere un'occupazione tedesca». A tale scopo veniva raccomandata l'intensificazione dei bombardamenti aerei sulle città italiane e della propaganda «disfattis ta». (M. Toscan o, op cit. pp. 14-17).
(3) M. Mazzetti, L'armistizio con l'Italia in base alle relazioni ufficiali anglo -americane, in Memorie storiche militari, 1978, Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, Roma, 1978, p. 167.
(4) Tra gl'innume revoli argom enti giuridici concorrenti a lla defini zione del 25 luglio quale «colpo di Stato», a prova della frattura della continuità nel governo del Pae se, valga ricordare che la pras si stat utaria prevedeva che il presidente del consiglio dimissionario (nei caso, Benito Mussolini) controfirmasse il decreto di nomina del suo success ore, «assumendo perciò la responsabilità di una soluzione di massima della crisi ministeriale in accordo colle regole della correttezza costituzionale» (E. Crosa, La monarchia nel diritto pubblico italiano, Torino, Bocca, 1922, p. 124), pena, altrimenti, la nullità dell 'atto di nomina per la natura dei d ecret i regi: atti complessi nei quali dovevano concorrere la firma sovra na e quella di un ministro (Cro sa, op cit., pp. 34 e segg., e G. Maranini, Le origini dello Statuto albertino, Firenze, Vallecchi, 1926, pp. 230 e segg., a commento dell'art. 67 dello Statuto: « I ministri sono responsabili. Le leggi e gli atti del Governo non hanno vigore, se non sono muniti della firma di un ministro», combinato con agli artt. 5 e 6 dello Sta tuto stesso). Vedansi altresì C A. J emolo, Continuità e discontinuità costituzionale nelle vicende italiane del 25 luglio 1943, «Atti dell'Accademia dei Lincei. Classe scienze morali», II, 1947, n. 34, e E . Lodo lini , Le illegittimità del governo Badoglio . Storia costituz ionale del «quinquennio rivoluzionario» (25 luglio 1943 - 1 ° gennaio 1948), Milano, Gas tal di 1953.
(5) Per una rassegna storiografica sul crollo del regime, v. N Gallerano , Fascismo: la caduta, in Storia d'Italia, a cura di F. Levi, U Le vra, N
Tranfaglia, Firenze, la Nuova Italia, voi. 2°, 1978, pp. 489-500; L. Cortesi, Lotta politica e continuità dello Stato nel 1943, in «Movimento operaio e socialista>>, 1969, n. 4 . L'opera documentariamente più ampia sulla caduta del fascismo riamane G. Bianchi, 25 luglio: crollo di un regime, Milano, Mursia, I a ed. 1963; con più ampia prospettiva tematica, v . altresì F . W. Deaki n, Storia della repubblica di Salò, Torino, Einaudi, 1963.
(6) A. A. Mola, L'imperialismo italiano. La politica estera dall'Unità al fascismo, Roma, Editori Riuni ti, 1980, pp . XXI e segg . e 203 e segg.
(7) Tra i contatti «ufficiosi» occorre distinguere quelli personali avviati da personaggi sia pure di spicco della dirigenza al potere o recentemente rimossi: valga il caso, anche a nostro avviso sconcertante, di P. Badoglio, che, senz'av allo alcuno, operò sondaggi presso ambienti britannici: (v. P. Pi eri - G. Rochat, Badoglio, Utet, 1976, p. 778, e G. Rochat, La direzione della guerra italiana da Mussolini a Badoglio (1940-1943), in 8 settembre: lo sfacelo della IV Armata, pref. di Guido Quazza, Istituto per la storia della Resistenza in Piemonte, Torino, Book Stare, 1978, p. 24, ove viene definito «gesto veramente inaspettato» la comunicazione di Badoglio al Vaticano prima e agli anglo-americani poi, sin dal novembre 1942, della sua disponibilità ad assumere la guida di un governo militare (cfr. anche Actes et documents du Saint Siège relatijs à la seconde guerre mondiale, VII, Le Saint Siège et la guerre mondiale, nov. 1942 - déc. 1943, Città del Vaticano, 1973, pp. 155-57).
A tacere degli scombinati sondaggi avventurati dalla principessa Maria José (oltre tutto ignaro il principe Umberto) e da Aimone di Savoia (su cui M. Toscano, op. cit., p. 163) circa l'avvio di formali contatti ufficiosi (missione Blasco Lanza d' Ajeta del 2 agosto 1943 e missione Berio del 6 agosto, entrambe fallite), v. G. Artieri, Cronaca del regno d'!Lalia, Il, Dalla Vittoria alla Repubblica, Milano, Mondadori, 1978, pp. 808 e segg. e M. Toscano, op. cit., p . 141 e segg.
(8) D. Ellwood, Nuovi documenti sulla politica istituzionale degli alleati in Italia: 1943-45, «Ita lia contemporanea», Rassegna dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, aprile-giugno 1975, n. 119, pp. 79 e segg.
(9) E. Aga Rossi, op. cit., p. 885. Com'è noto, Churchill propendeva invece per «trattare con qualsiasi autorità italiana in grado di consegnare la merce» e aggiungeva: «Non ho il minimo timore, a questo scopo, di dare l'impressione di voler riconoscere la casa di Savoia o Badoglio, sempre che siano costoro le persone capaci di far fare agli italiani ciò di cui abbiamo bisogno per i nostri obiettivi militari: obiettivi che certo verrebbero ostacolati dal caos, dalla bolscevizzazione o dalla guerra civile». Tra le previsioni di Churchill v'era però anche l'ipotesi che «dopo l'accettazione delle condizioni d'armistizio tanto il re quanto Badoglio sprofondino sotto l'odio provocato dalla resa e che possano essere scelti il Principe ereditario e un nuovo capo del governo».
(10) Come Vittorio Emanuele III venne bollato in una trasmissione radiofonica per l'Europa dell'Office War Information il 26 luglio 1943. In proposito J .P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo, Bari, Laterza, 1972, pp. 367-68.
(Il) Su cui AA.VV., L'Italia dei quarantacinque giorni: 25 luglio - 8 settembre 1943, Istituto nazionale per la storia del MLI, Milano, 1969. La ricerca compiuta dagli Autori di quel volume conclude con l'individuazione di 83 morti (43 dei quali il 28 luglio) 516 feriti e 2059 arresti, quale bilancio complessivo degli scontri fra dimostranti ed esercito all'indomani del 25 luglio; 10 morti, 20 feriti e 227 arresti per violazione del coprifuoco; 12 morti, 36 feriti e 169 arresti (distinti tra «fascisti» e «antifascisti») per incidenti verificatisi tra la folla. Il 3 agosto 1943 l'assistente del rappresentante personale del presidente degli Stati Uniti, Roos evelt, presso la S Sede, Tittmann osservava comunque che «il Governo Badoglio ha attualmente sotto controllo la situazione interna e il timore di disordini sociali è per ora cessato», aggiungendo che «tale Governo ha avuto fin dall'inizio l'appoggio del Vaticano» (M. Toscano , op. cit., p. 41). Sul sostegno profferto dalle organizzazioni cattoliche al governo Badoglio, T. Sala, Un 'offerta di collaboraz ione de/l'Azione Cattolica italiana al governo Badoglio (agosto 1943), «Rivista di storia contemporanea», Torino, Loescher, 1972, n. I; ma v. anche Mario Casella , L'Azione Cattolica alla caduta del fascismo, Roma, Studium, 1984.
(12) M. Toscano, op. cit ., p. 24. Sulla «grave debolezza dell'antifascismo ''politico", come si ripresenta nel paese nella prima meta del '43 e poi nelle settimane badogliane» insiste anche G. Quazza, Resistenza e storia d'Italia: problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 99. A sua volta - prendendo atto dello scarso seguito di cui i partiti si mostrarono capaci nell'estate 1943 - Giorgio Amendola parlò di fallimento dell'iniziativa popolare quale cau sa della «priorità dell'intervento reg io», sostanzialmente privo di realistiche alternative e che, pertanto, non può essere giudicato una sorta di controrivoluzione preventiva, bensì come unica iniziativa effettivamente atta ad avviare lo sganci amento dell'Italia dalla Germania (G. Amendola, Unità e socialismo, dibattito fra Amendola, Lelio Basso e Giancarlo Pajetta, «Rinascita», 1965, n. 22, 17 luglio, p. 16).
(13) M. Toscano, op. cit., p. 24.
(14) L'irrilevanza costituzionale della pronunzia del Gran Consiglio fu asserita, non senz a fondamento, da C. A . Biggini (v . L. Gariba ld i, Mussolini e il professore: vita e diari di Carlo Alberto Biggini, Milano, Mursia, 1983, pp. 60 e segg ). Ri tennero invece vincolante per la Corona il voto del Gran Consiglio altri costituzionalisti, fatti consultare dal re.
( 15) Non men o efficace fu l 'appello del PNF ai suoi maggio r i esponenti affinché galvanizzassero le «masse» con una massiccia sortita di oratoria patriottica. Negli ultimi mesi del regime si radicalizzò la differenza tra quanti invocavano una «seconda ondata» - cioè il ritorno all'intransigentismo dell e origi n i, ispirato da Roberto Far inacci - e quanti invece pro- pendevano per la definitiva dissoluzione del fascismo nell'ambito della «nazione», come suggerivano, con l'antico capo del nazionalismo, Luigi Federzoni, i gerarchi Dino Grandi e Giuseppe Bottai. Quanto più il fascismo aveva mirato (o preteso) di assorbire in sé tutti gli aspetti vitali della nazione, tanto più esso doveva rinunziare a identificarsi con una sua sola corrente . In questo senso, anche storici d'orientamento antifascista (Luigi Salvatorelli, Giacomo Perticone ...) asserirono che il fascismo s'avviava ormai, nei suoi ultimi tempi, a riconoscere una qualche forma di «pluralismo» di tendenze, se non al riconoscimento pubblico dei partiti: soluzione, codesta, peraltro rifiutata anche da militanti antifascisti, fra i quali, Duccio Galimberti e Antonino Repaci, nel Progetto di costituzione confedera/e europea ed interna (ed. Torino -Cuneo, 1946), all'art. 56 proponevano: «È garantita la libertà di pensiero, ma è vietata la costituzione di partiti politici» (p. 71) .
(16) G. Vaccarino, Il 25 luglio . La crisi del fascismo, «Il movimento di liberazione in Italia», n. 72, 1963, n. 3, pp. 12 e segg
(17) Per una cauta equilibrata interpretazione C . Pinzani, L '8 settembre 1943: elementi ed ipotesi per un giudizio storico, «Studi storici», XIII, 1972, n. 2, pp . 289 e segg., ove si ricorda che ancora «nell'autunno del '43 le masse popolari erano sostanzialmente disorientate» (p . 334).
(18) P. Bairati, Vittorio Valletta, Torino, Utet, 1983, pp. 96 e segg . ; V. Castronovo, Giovanni Agnelli, Torino, Utet, 1971, pp. 616-17.
(19) Era del resto poco credibile che la «stabilizzazione» del Paese potesse essere trovata attraverso i partiti, dopo il fallimento e il crollo del «partito unico»: cui veniva anzi imputata la penetrazione nello Stato di uomini incompetenti, i cui unici meriti erano la tessera del partito, la smaccata «fedeltà» al duce o il servile attaccamento a uno dei gerarchi. Sul terreno del «sentimento nazionale» venne invece sorgendo la disponibilità degl'imprenditori ad assecondare un «movimento patriottico» dai contorni ideologicamente indeterminati, bensì volto a trovare «ordine, unità e significato all'ombra della monarchia» (Bairati, op. cit., pp . 119-20).
(20) Verbali delle riunioni tenute dal Capo di S . M. Generale, I, 26 gennaio 1939-29 dicembre 1940, Ufficio Storico SME, Roma, 1983, seduta del 5 giugno, p. 58 . Sullo «spirito pubblico» fra il 1939-40 v . L'Esercito italiano alla vigilia della 2a guerra mondiale, Ufficio Storico SME\ Roma, 1982, pp. 509 e segg . Tra i molti commenti riferiti dagl'informatori sulle valutazioni che i «comuni cittadini» pronunziavano in merito alla preparazione dell'esercito, da un rapporto riservato, datato Genova l 1 settembre 1939 , menzioniamo: «Il pubblico commentando quanto avviene nei reparti del R. Esercito dice che gli inconvenienti si verificano perché manca l'organizzazione militare; che l'Esercito è sfornito di tutto e che in queste condizioni è assurdo pensare che si possa fare una guerra » (ivi, p. 510) .
(21) Cfr. Due diari del 1943, a cura di R . De Felice, «Storia contemporanea>>, 1983, XIV, n. 6, p . 1038. «Ella sa che io non condivido la sua ammirazione per Giolitti>> disse a Grandi il re, secondo il quale «il più illuminato uomo di Stato che abbia avuto l'Italia, dopo Cavour, è stato il Marchese di San Giuliano» .
(22) D. Grandi, Pagine di Diario del 1943, in Due Diari, cit., p. 1040. Già ricordata da D. Grandi in una lunga intervista, la citazione era stata utilizzata da S. Bertoldi, Vittorio Emanuele III, Torino, Utet, 1970, pp. 382-83. Dello stesso v. altresì Contro Salò: ·vita e morte del regno d'Italia, Milano, Bompiani, 1984.
(23) Lungo riuscirebbe l'elenco degli «oppositori» trascorsi nell'area della Corona nei primi vent'anni di regno di Vittorio Emanuele III: gran parte dei «radicali», i socialisti riformisti, parecchi cattolici - anche prima del benestare del conte Gentiloni - e, infine, taluni (avrebbe detto Giuseppe Garibaldi) «mazziniani ringhiosi» (Agostino Berenini, per esempio). Sulla vicenda v. U. Alfassio Grimaldi - Oh. Bozzetti, Bisso/ali, Milano, Rizzoli, 1983, pp. 207 e sgg.
(24) Sul rifiuto di conferire al maresciallo Enrico Caviglia l'incarico di formare il governo, oltre ai ricordi di D. Grandi (che considerava Caviglia «il solo fra i grandi Capi militari della prima guerra mondiale che non abbia fornicato col fascismo e dimostrato servilità al Duce», op. cit., p. 1056) cfr P Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Milano, Palazzi 1958, secondo il qua le a giudizio del re l'incarico a Caviglia avrebbe palesato «il ritorno alla Massoneria» .
Mentre, secondo Bertoldi e altri, la ragione del diniego a Caviglia andrebbe cercata nel fatto che, a differenza di Grandi e di altri ex gerarchi il re era «fascista» (op. cit., p. 437), la spiegazione va invece cercata nella necessità, per Vittorio Emanuele Ili, di mostrare anche a quel modo la continuità dello Stato e degli atti del suo regno, malgrado i legami corsi col fascismo. Portare al governo un «mai iscritto al partito fascista» sarebbe suonato condanna non del solo regime, bensì anche di chi - il re stesso - l'aveva a va llato in ogni sua fase. Badoglio esprimeva invece il groviglio di contraddizioni, compromessi, tensioni per vent'anni cresciuto nella «diarchia».
La condotta di Badoglio risultava dunque più prevedibile (n el caso dell'acquiescenza di massima ai desideri del sovran o) rispetto a quella del maresciallo Caviglia, certo più autonomo e in questo senso ritenuto espressione della Massoneria .
(25) L. D'Angelo, Ceti medi e ricostruzione. Il partito democratico del lavoro (1943 -1948), Milano, Giuffrè, 1981, pp. 58 e segg .
(26) Valeva peraltro il precedente del 2 agosto 1848, di poco seguente la proclamazione dello Statuto, allorché un Regio Decreto sancì: «Il Governo del Re è investito durante l'attuale guerra de/l'indipendenza di tutti i poteri legislativi ed esecutivi, e potrà quindi per semplici Decreti Reali e sotto la responsabilità ministeriale, salve le istituzioni costituzionali, fare tutti gli atti che saranno necessari per la difesa della patria e delle nostre istituzioni» (E Crosa, op. cit , p. 235) : fonte del più volte lamentato esautoramento delle prerogative della rappresentanza politica e del ritorno a una prassi assolutistica , cu lminata, appunto, nel governo Badoglio.
(27) Sul movimento dei prefetti operato dal governo Badoglio v. AA. VV., L'Italia dei quarantacinque giorni ... , cit., pp. 179 e segg. e C. Pavone, La continuità dello Stato : istituzioni e uomini, in AA . VV . , Italia 1945-48: le origini della Repubblica, Torino, Glappichelli, 1974, pp. 267-82.
(28) D. Grandi, Pagine di Diario, cit., pp. 1066-69. L'ex ambasciatore d'Italia a Londra riteneva, a quel modo, di assicurare continuità alla rappresentanza politica, evitando che il «colpo di Stato» si risolvesse nell'appropriazione del potere da parte d ei militari, anche nella convinzione che, a parte i giorni del rovesciamento di Mussolini, il re sarebbe rimasto ancora più isolato di prima nei confronti del Paese e le sorti della monarchia gravemente danneggiate . Il disegno di legge approntato a quello scopo da Grandi recitava, agli artt. 2 e 3: «( ... ) La Camera dei Deputati è formata dai componenti del Consiglio Nazionale delle Corporazioni e Gli attuali Consiglieri Nazionali che sono membri del Consiglio Nazionale delle Corporazioni restano in carica quali membri della Camera dei Deputati fino alle nuove elezioni ( )».
Badoglio imboccò invece una via che, a norma dell'art. 48 dello Statuto («Le sessioni del Senato e della Camera dei deputati cominciano e finiscono nello stesso tempo. Ogni riunione di una Camera fuori del tempo della sessione dell'altra è illegale, e gli atti sono intieramente nulli») paralizzò il Senato e recise alla radice la rappresentativa legale della Camera Alta (G Maranini, op. cit , pp. 215-16). È curioso che lo scioglimento dell'agosto 1943 non sia preso in considerazione nella diligente rassegna del periodo statutario di L. Carlassare all'art. 88 della Costituzione della Repubblica (Carlassare-Cheli, Il Presidente della Repubblica, Il, Artt. 88-91, Commentario della costituzione a cura di G. Branca, Bologna, Zanichelli, 1983, pp . 18-41).
(29) Benedetto Croce era stato nominato senatore, per alto censo, il 26 gennaio 1910 . Non si ha notizia di suoi pubblici pronunziamenti contro il fascismo o contro il Senato prima del 25 luglio 1943 . Il filosofo tenne tuttavia un «diario». Tra i senatori non fascisti ricordiamo Inigo Campioni, Enrico Caviglia, Salvatore Contarini, Carlo Schanzer, Carlo Sforza, che pagarono con la vita o con l'esilio, dentro o fuori la patria, la loio coerenza.
30) C. Pavone, op cit., pp 205 e segg e P Ca lamandrei, Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, dir etto da P . Calamandrei e A. Levi, Firenze, Barbera, 1050, poi in P. Calamandrei, Opere giuridiche, a cura di M . Cappelletti, Napoli, 1968, Ili, p. 297 e G. Guarini, Lo scioglimento delle Assemblee parlamentari, Napoli, Jovene, 1948 .
(31) Ancora nell'incontro di Tarvisio (6 agosto 1943) - ricorda M . Palermo, Memorie di un comunista napoletano, Parma, Guanda, 1975, p. 301 - «da parte italiana furono chieste ai tedeschi forze anche per l'Italia meridionale e gli stessi generali italiani che vi parteciparono testimoniano che Keitel, a questo proposito, si f!ZOStrò più arrendevo/e di quanto non si fosse mostrato con Mussolini a Feltre». Tali insistenze erano suggerite dall'op- portunità di allontanare qualsiasi sospetto sulle trattative armistiziali, ormai decise e avviate: il loro soddisfacimento, nondimeno, non poteva che aggravare la già disperata situazione dell'esercito italiano, tanto più che veniva a urtare contro l'opposizione italiana nei confronti dei tentativi germanici di accorrere, non richiesti, a «proteggere» la base navale di La Spezia, dalla quale furono respinti manu militari (D. Bartoli, L'Italia si arrende, Milano, Editoriale Nuova, 1983, pp. 149-50).
(32) A. Santoni, Le operazioni in Sicilia e in Calabria (luglio -settembre 1943), Roma, Ufficio storico SME, 1983.
(33) G. Castellano, Come firmai l'armistizio di Cassibile, Milano, Mondadori, 1945. Secondo quel generale - di cu i s i vedano anche La guerra continua, Milano, Rizzoli, 1963, e Roma kaputt. Contributo ad una discussione storica, Roma, Casini, 1967 - i militari presero la guida della liquidazione del fascismo perché «senza capi che le organizzino e senza armi per attuarle le rivoluzioni non si fanno» (p . 69) - ove dunque la fatidica parola, «rivoluzione», torna nella penna di un militare d'orientamento sicuramente conservatore, a conferma deJla perenne confusione delle linguee, successivamente, tennero in pugno le trattative armistiziali con gli angloamericani perché il governo «dormiva» (p. 80). A commento delle proposte di cui Castellano - sul quale v. S. Hoare, In missione speciale, Milano, Rizzoli, 1948 - e il gen . Zanussi - inviato all'insaputo di Castellano, con compito analogo, tanto da ingenerare legittimi sospetti sull'attendibilità degli emissari italiani - furono latori, M. Toscano, ribaltando sui militari l'insinuazione d'incapacità da costoro lanciata nei confronti dei diplomatici tradizionali, scrisse: «È bene che si sappia che l'assoluta inesperienza dello Stato Maggiore italiano circa la complessità delle operazioni aero-navali induceva ad auspicare con estrema facilità sbarchi nella penisola tecnicamente impossibili a breve scadenza» (op. cit., p. 46) . Sulla missione Zanussi si veda
G. Zanussi, Guerra e catastrofe d'Italia, voll. 2, Roma, Corso 1946 e, su altri sondaggi, E . Lanza D' Ajeta, Documenti prodotti a corredo della memoria presentata al Consiglio di Stato, Roma, Ferraiolo, 1946 e A. Berio, Missione segreta (Tangeri 1939-1943), Milano, Dall'Oglio, 1947. Uti le altresì la «testimonianza» del capo del governo: P . Badoglio, L'Italia nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1946: V. Vailati, Badoglio racconta, Torino, Ilte, 1955 e Id., Badoglio risponde, Milano, Rizzoli, 1958.
(34) G. Artieri, op. cit., p. 848. Lo stesso Artieri, pur non prevenuto nei confronti della Corona, definisce «odissea squallida e stravolta» il <<viaggio terrestre verso Pescara» (p. 856).
(35) L. Marchesi, Come siamo arrivati a Brindisi, Milano, Bompiani, 1969, p . 64: «Badoglio non aveva espresso un parere ben chiaro(. .. ) in ogni modo il re decise di accettare le condizioni».
(36) La versione italiana dei testi armistiziali e della Dichiarazione di Québec venne ripubblicata in «Relazioni Internazionali», 1983, n. 35, in occasione del Convegno internazionale «Otto settembre 1943: l'armistizio italiano 40 anni dopo» (Milano, Palazzo Clerici, 7-8 settembre 1983), i cui Atti sono raccolti nel presente volume.
(37) G. Artieri, op cit , pp. 864 e segg: valutazione confermata anche dagli storici più prevenuti nei confronti della monarchia. Harold Mac Millan lamentò quell'attegg iamento «strano per un ufficiale britannico», osservando : «Forse è attorno alla monarchia che noi potremo in qualche modo mettere insieme un Governo» (The blast of War, 1939-1945, London, MacMillan, 1967).
(38) «Le condizioni di armistizio - recita il "Promemoria di Québec" - non contemplano l'assistenza attiva dell'Italia nel combattere i tedeschi. La misura nella quale le condizioni saranno modificate in favore dell'Italia dipenderà dall'entità dell'apporto dato dal Governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra ., Le Nazioni Unite dichiarano tuttavia senza riser ve che ovunque le forze italiane e gli italiani combatteranno i tedeschi, o distruggeranno proprietà tedesche, od ostacoleranno i movimenti tedeschi, essi riceveranno tutto l'aiuto possibile delle forze delle Nazioni Unite ... »: la profonda diffidenza nei confronti del sospettato doppiogioco degl'Italiani e le difficoltà oggettive dissuas ero nondimeno gli anglo-americani dal fornire agli Italiani un supporto adeguato nel momento più difficile, cioè nei giorni immediatamente seguenti la proclamazione dell'armistizio, durante i quali l'esercito italiano venne abbandonato a se stesso, ovvero alla sconfitta e alla rappresaglia dell'ex alleato.
(39) Estraneo allo Statuto, tale istituto s'affacciò nei giorni della marcia di D'Annunzio su Fiume, come ricorda Luigi Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Milano, Mondadori, 1967.
L'eterogeneità dei presenti alla riunione - oltreché, s'intende, la mancanza di qualsiasi formalità nella sua convocazione e nei su oi lavori, nel cui corso ebbe parte determinante il maggiore Luigi Marchesi - indica la natura ecceziona le, non istituzionale, di quel consesso, sul quale G. Carboni, Memorie segrete, 1938-1945, Firenze, Parenti, 1955; M. Roatta, Otto milioni di baionette. L'esercito italiano in guerra dal 1940-1944, Milano, Mondadori, 1946; L. Marchesi, op. cit., p. 102, e Appendice (pp. 163 e segg.), nonchè R. Zangrandi, L'Italia tradita, Milano, Mursia, 1971, pp. 134 e segg , col quale conco rdiamo ove scrive che «la definizione stessa di "Consiglio della Corona" è impropria» . '
(40) S . Bertoldi, op. cit., p. 452 . Circa gli antecedenti dell'armistizio e le ragioni che vi avevano orientato la condotta del re, v. altresì la lettera inviata da Vittorio Emanuele II al duca d' Acquarone, quando questi dovette difendersi dai procedimenti epura tivi a suo carico (ivi, p. 463) .
(41) C . Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia, 1848- 1948, Bari, Laterza, 1977 (2a ed.), vo i. 2°, p. 391. Secondo Ghisalberti dopo l'armistizio «la monarchia non aveva in realtà che limitati poteri anche perché buona parte del territorio sottratto all'occupazione tedesca era sotto il diretto governo militare anglo -americano» (p. 393) : essa conservò nondimeno tutte le prerogative, anche se, di fatto, dovette rassegnarsi a esercitarl e su spazi (territoriali e politici) più limitati.
(42) Fu la sorte - clamorosa - del ministro degli esteri, Raffaele Guariglia: con la cui forzata ecliss i l'intero quadro del personale diplomatico veniva drasticamente ridotto a più rigida subordinazione rispetto al capo del governo (R . Guariglia, Ricordi, 1922-1946, Napoli, Esi, 1949). Sull'intero periodo fondamentale la testimonianza di E. Caviglia, Diario (aprile 1925 - marzo 1945), Roma, Casini, 1952.
(43) Sulla sua scia anche C. De Biase, L '8 settembre di Badoglio, Milano, Edizioni del Borghese, 1968, riecheggiant e , da altro versante, noti giudizi polemici di Gaetano Salvemini, contro la monarchia e Badoglio.
(44) Quella era l'immagine ch e d ella Casa sabauda era stata fissata da Davide Calandra nel ce lebre altorilievo bronzeo collocato nell'Aula dei Deputati , a Roma, quando, al culmine dell'età giolittiana , l'Italia tornava al programma di conquiste coloniali con l'impresa di Libia. Là tutti i conti, duchi e sovrani erano presentati in armi, a ricordare che militari e rano stati dalle origini e nei secoli la storia e la fortuna dei Savoia .
(45) K. Von Clausewitz, Della guerra, Milano, Mondadori, 1970 (su autori zz a zione dell'Ufficio storico SME, cui risale la 1a edizione in lingua italiana, Roma, 1942), p . 619. Molto significativamente secondo il grande stratega tedesco a quello sulla Ritirata all'interno del paese segue il capitolo sulla Guerra di popolo.
(46) In proposito s i veda l'acuta analisi di M. Mazzetti, op . cit ., pp . 128 e segg .
(47) Mentre la libellistica italiana non manca di scagliare ricorrentemente fango sulla dirigenza nazionale (quasi per offuscare, con il grigiore di ie ri, certo disagio per gli anni seguenti), è significativo che nessun cenno a pretes e «viltà» della dirigenza militare italiana s ia contenuto nel Resoconto delle attività svolte dal Governo militare alleato né in quello della Commissione alleata di controllo in Italia, edite da L. Mercuri, Quaderni FIAP, Roma, 11. 17, s . a. Per una tesi diametralmente opposta, E. Kuby, Il tradimento tedesco: come il Terzo Reich portò l'Italia alla rovina, Milano, Rizzoli, 1983, pp . 165 e segg . al nitore delle cui tesi - spesso storiograficamente ineccepibili - nuoce l'eccesso di appassionatamento apologetico.
(48) Aderiamo al criterio di R. De Felice, secondo il quale«(...) indispensabile è non dimenticare mai che le vicende storiche sono innanzi tutto vicende di uomini singoli e collettivi che, anche quando credono di agire razionalmente, agiscono soprattutto in base alla loro soggettività, al loro modo di essere, innanzi tutto culturale ed emotivo, e di vivere un data realtà alla luce sia dell'esperienza del passato sia di una certa idea del futuro» («Storia contemporanea», Due diari ... , cit., p. 1033).
(49) Su l qua le M. Mazzetti, op. cit., p. 124 . Zangrandi (op. cit , p. 92) ricorda che, secondo H. Hardy Butcher, (My three Years with Eisenhower, Simon & Schuster, New York, 1946, trad. it., Milano, Garzanti, 1950) il Comandante in capo alleato «non volle firmare l'atto conclusivo di quello che aveva definito un crooked dea! : uno sporco affare»
(50) Fu dopo il crollo dell'Italia - e, a l tempo stesso, dell'aspirazione britann ica a balzare sui Balcani - che Churchill trattò con Stalin la celebre «spartizione» delle quote d'influenza sui diversi Paesi dell'Europa sudorientale . Stalin accettò i criteri del premier britannico con riserva mentale, convinto - come ebbe a dichiarare allo jugoslavo Gilas - che i sistemi sociali dei diversi Stati sarebbero infine coincisi con quelli delle ideologie retrostanti gli eserciti vincitori, sin là dove questi fossero giunti .
(51) M. Mazzetti, op. cit., pp. 149 e segg.
(52) Sulla preparazione dell'armistizio v . Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, Ufficio Storico SME, Roma, 1975, pp. 13-47.
(53) R. Rhan, Ambasciatore di Hitler a Vichy e a Salò, Milano, Garzanti, 1950, ov'è ricordato (p. 266) che sul mezzogiorno de11'8 settembre, chiamato a colloquio, l'ambasciatore di Germania si sentì ripetere da Vittorio Emanuele III che l'Italia avrebbe tenuto fede all'alleanza sino alla vittoria.
(54) Sulla distribuzione delle forze germaniche in Italia alla vigilia del1'armistizio v. Cenni sulla dislocazione delle devisioni tedesche in Italia nel luglio -settembre 1943 sulla base delle fonti tedesche, in AA.VV., I quarantacinque giorni, cit., pp . 170-178 .
(55) E. F. Moellhausen, La carta perdente Memorie diplomatiche, 25 luglio 1943 - 2 maggio 1945, Roma, Sestante, 1948 (2a ed.), pp. 27 e segg. e A. Kesselring, Soldato fino all'ultimo, Memorie di guerra, Milano, Garzanti, 1954, pp. 176-97. Di tali disposizionj presero realisticamente atto i diplomatici italiani schieratisi con la Repubblica sociale (si veda, per tutti, F. Anfuso, Da Palazzo Venezia al Lago di Garda, Milano, Garzanti, 1950, poi Bologna, Cappelli).
(56) Che le difficoltà di organizzazione della guerra di liberazione non fossero solo d'indole politica bensì anche legate al «terreno» venne sempre ricordato da quanti ne scrissero con esperienza di militari. Si vedano, per es ., F. P arri, Gli inizi della Resistenza, «Il movimento di liberazione in Italia», 1955, nn. 1-2, pp. 16-28, e R. Luraghi, Primi orientamenti per lo studio della crisi politico -militare del 1943, ivi, pp. 75 -79 . ,
(57) In un telegramma del 27 luglio 1943 ai Capi di Stato Maggiore Combinati Eisenhower faceva sapere di non credere che gl'italiani avrebbero volto le armi contro i tedeschi perché le Forze Armate avrebbero «ritenuto completamente disonorevole cercare di volgersi in modo deciso contro i loro precedenti alleati». Tale valutazione venne recepita anche nella relazione ufficiale The Mediterranean Theater of Operations: Sicily and the Surrender of Italy, a cura di N. Garland e H. M . Smyth, Wash ington, 1965 , pp. 270-71.
(58) V. al riguardo l'accorata testimonianza di Aldo Quaranta, poi comandante militare della I Divisione Alpina «G.L.» nel Cuneese, in 8 settembre : lo sfacelo della IV Armata, cit., pp . 297 -99: «Ho personalmente scritto, sotto dettatura del generale Ve rcellino, l'ordine di scioglimento del- l'armata. Ricordo che il generale, con senso di responsabilità, ebbe a commentare il suo provvedimento con queste parole: "io sono un soldato; per me, in questo momento, i miei soldati sono virtualmente dei disertori. Voglio coprire la loro azione ed è per questa considerazione che ho dato l'ordine di scioglimento dell'armata", la quale in realtà, si era già spontaneamente sciolta prima dell'ordine stesso».
(59) L. Giaccone, Ho firmato la resa di Roma, Milano, 1973, pp. 146 e segg.; M. Caracciolo di Feroleto, «E poi?». La tragedia de/l'esercito italiano, Roma, Corso, 1946; E. Musco, La verità sul/'8 settembre, Milano, 1965 e, per inquadramento generale, F. Rossi, Come arrivammo all'armistizio, Milano, Garzanti, 1946.
Quanto alle traversie conseguite all'armistizio anche in settori ove meno pressante era la presenza germanica A. Basso, L'armistizio del settembre 1943 in Sardegna, Napoli, Rispoli, 1947; G. Magli, Le truppe italiane in Corsica prima e dopo l'armistizio del/'8 settembre 1943, Lecce, 1952, e, per un'ampia rassegna di «casi», M. Torsiello, Settembre 1943, MilanoVarese, C isalpino , 1963.
(60) Ch. Maurras, Enquete sur la monarchie, 1900-1909, Paris, Nuovelle Librairie Nationale, 1910, pp. 79 e 554.
(61) Sulla formazione d i Vittorio Emanuele III - a parte lo stucchevole L. Morandi, Come fu educato Vittorio Emanuele III, Torino, Paravia, 1903 (1 a ed. 1901) dal quale si trae comunque conferma che il re aveva più attenzione per i dettagli che per le idee generali - vedansi A . Consiglio, Vita di Vittorio Emanuele III, Milano, Rizzali, 1950; N. D'Aroma, Vent'anni insieme: V E. III e Mussolini, Bologna, Cappelli, 1957, P . Silva, Io difendo la monarchia, Roma, De Fonseca, 1946; S Bertoldi Vittorio Emanuele III, cit., e R. Bracalini, Il re «vittorioso»: la vita, il regno e l'esilio di Vittorio Emanuele III, pref. di U. Alfassio Grimaldi, Milano, Feltrinelli, 1980. Manca, nond imeno, un'opera adeguata alla personalità e al ruolo svolto dal re .
(62) G. Artieri, Umberto II e la crisi della monarchia, Milano, Mondadori, 1983, pp. 234 e segg.
(63) A. Pavone (op. cit., p 249) cita una sentenza - invero sconcertante - del tribunale supremo militare che il 26 aprile 1954, giudicando su un ricorso del comandante della legi one Tagliamento e di altri, condannati per l'ucci sione di 102 partigiani, affermava che nell'Italia meridionale, dopo 1'8 settembre «la sovranità di fatto, o meglio l'autorità del potere legale» era nelle mani degli alleati occupanti, i quali permanendo lo stato di guerra, erano «sempre giuridicamente il nemico», sicché a differenza dei soldati del «regno del Sud», de facto e de jure privi di vera indipendenza nazionale, solo quelli della Rsi si dovrebbe concludere agissero secondo leggi certe e fondate: conclusione che noi non condividiamo certo.
(64) Del resto sin dal 12 settembre 1943 la missione alleata presso Badoglio espresse la convinzione che fosse opportuno «concedere al governo Badoglio un riconoscimento formale» (E. Aga Rossi, op. cit . , p . 891). Po- co appresso, il 18 settembre, Eisenhower, manifestava ai Capi di S .M. Combinati la convinzi on e che «l'importanza dell'amministrazione Badoglio [risiedesse] nella sua incontestata pretesa di legalità>> e avanzava alcune ipotesi di solu zione dei problemi istituzionali ita liani: «a) rafforzamento del carattere nazionale dell'amministrazione mediante l'inclusione di rappresentanti dei partiti politici(. ) b) un decreto che ristabilisca la precedente costituzione( .) c) eventuale possibile abdicazione del Re in favore di suo figlio o di suo nipote. (Ciò richiede un attento studio in quanto potrebbe risultare maggiormente popolare all'estero che presso il popolo italiano)( )» (M. Toscano, op cit., pp. 78-80).
(65) E. Crosa, op. cit., p. 57, ove vengono definiti i «doveri dello Stato».
(66) Oltre che in M. Toscano, op. cit., pp 93-106, lo si veda in «Relazioni Internazionali», 1983, n. 35, cit. e in questo stesso volume.
(67) La carica di Luogotenente - proprio perché non contemplata dallo Statuto, bensì introdotta nella prassi, sin da quando, assunto il comando delle forze armate durante la prima guerra d'indipendenza, Carlo Alberto l'aveva affidata a Eugenio Emanuele - indicava che il sovrano conservava intatte le sue prerogative e si limitava ad affidarne l'esercizio ad altra persona. La Luogotenenza - nel giudizio unanime degli esegeti dello Statuto - era istituita «quando il titolare si trovi in una situazione di fatto da cui origina un ' incapacità relativa o totale ad esercitare le proprie funzioni, ma egli tuttavia conservi la piena capacità giuridica ad esercitare le funzioni regie>>, sicché il suo incaricato non era «istituzionalmente investito di funzioni regie, né ad esso riconosciuti diritti subbiettivi a prerogative» bensì rimaneva nella posizione di «delegato mentre il re conserva la piena capacità giuridica all'esercizio di esse» (E. Crosa, op. cit., pp. 280-83, ma anche Pagliano, Reggenza e Luogotenenza, Roma, 1915; Marchi, Le luogotenenze generali, Roma, 1918, che produce altresì una rassegna delle diverse figure di «reggenza», e Raggi, Contributo alla dottrina delle rinunce, Roma, 1914).
Ricord iamo, per confronto, le norme statutarie in merito alla reggenza: art. 12 : Durante la minori tà del Re [cioè al di sotto dei 18 anni] il principe suo successore più prossimo parente nell'ordine della successione al Trono [che, come noto , seguiva la legge salica] sarà Reggente del Regno, se ha compiuti gli anni ventuno; art . 13: Se, per la minorità del Principe chiamato alla Reggenza, questa è devoluta ad un parente più lontano, il Reggenfe che sarà entrato in esercizio conserverà la Reggenza fino alla maggiorità del Re; art. 14: In mancanza di parenti maschi la Reggenza apparterrà alla Regina Madre; art . 15: Se manca anche la Regina Madre, le Camere convocate fra dieci giorni dai Ministri, nomineranno il Reggente; e, fondamentale, art. 16: Le disposizioni precedenti relative alla Reggenza sono applicabili al caso in cui il Re maggiore si t rovi nella fisica impossibilità di regnare. Però, se l'erede presuntivo al Trono ha compiuto diciotto anni, egli sarà in tal caso di pieno diritto di Reggente.
A differenza del Luogotenente, il Reggente era quindi il vero titolare dell'organo designato dalla costituzione a regnare in vece del re, con piena competenza e rivestito di tutte le prerogative regie. Dalla proclamazione dello Statuto mai s'era dato il caso che i poteri della Corona fossero trasferiti a un Reggente, sicché la dottrina se n'era occupata solo in astratto. Era comunque chiaro che il sovrano vivente dovesse far luogo al reggente solo previa dichiarazione d'impedimento fisico (malattia inabilitante e irreversibile : e non era il caso di Vittorio Emanuele III) o, peggio, di incapacità giuridica, possibile, secondo lo Statuto, solo se fosse stata sentenziata nelle forme previste - non dalle co lonne di qualc he giornale o nei pamphlets della disputa partitica - l'«alto tradimento>> del Sovrano nei confronti dello Stato: ipotesi, codesta, che avrebbe potuto prender corpo solo in condizioni del tutto diverse da quelle effettive, che vedevano invece il sovrano alla guida (non solo nominalmente) della rinascita nazionale e nelle quali, comunque, non solo le Forze Armate ma anche larga parte dei «volontari della libertà» si riconoscevano nel tricolore con Io scudo sabaudo .
L'orgoglio che, senza iattanza, Vittorio Emanuele III nutriva per i suoi quarantatrè anni di regno gli impediva certo d'accettare d'essere qualificato fisicamente incapace, né, meno ancora, politicamente «colpevole» per l'avvento di Mussolini a l governo - il cui esordio ebbe il voto favorevole di libera li, popolari, nazionalisti, demo-sociali .. . - e per la sua permanenza sul trono malgrado il delitto Matteotti, dopo il quale, infatti, il governo Mussolini aveva ancora ottenuto, oltre a quello dei fascisti e dei fiancheggiatori intruppati nel «listone», il voto favorevole di Croce e Giolitti, a tacer d'a ltri.
Sull'intera vicenda sempre utile Fr. Cognasso, I Savoia, Milano, Dall'Og lio, 1971, pp . 994 e segg.
(68) S. Cannarsa, Il Senato da/fascismo alla repubblica: agonia, morte e rinascita, Roma, La politica parlamentare, 1962, p . 37.
(69) D. Bartoli, op. cit ., passim .