24 minute read

ENNIO DI NOLFO

L'ARMISTIZIO DELL'8 SETTEMBRE 1943 COME PROBLEMA INTERNAZIONALE

La storia dell'armistizio è abbastanza ben conosciutae altri aspetti saranno messi in luce durante questo convegno - come fatto interno. Lo è meno come problema delle relazioni internazionali; cioè come problema delle relazioni tra l'Italia e gli Alleati o, soprattutto, come problema delle relazioni tra gli alleati. In tal senso ci sono ancora molte cose da dire, su lle quali hanno gettato luce p er primo, anni fa, il Toscano, e più di recente i lavori di Miller, Varsori, Ellwood, Agarossi e soprattutto il lungo lavoro che Bruno Arcidiacono pubblicherà tra poco su questo tema (1). Avendo avuto la possibilità di consultare il dattiloscritto di questo lavoro debbo esprimere pubblicamente al suo autore la mia gratitudine, per avermi reso accessibili molti degli elementi mancanti al quadro d'assieme. Per comodità espositiva, tratterò la questione secondo le fasi in cui essa si pose: una prima, fra il 1940 e il 1942; una seco nda , dall'autunno 1942 al 24 gennaio 1943; una terza, dal gennaio al settembre 1943; e una quarta •dall'o tt obre 1943 al marzo 1944.

Advertisement

Nella prima fase la questione ebbe quasi soltanto un rilievo teorico, benché non privo di significato politico. Si tratta della fase che si potrebbe far coincidere con i peace feelers periodicamente emergenti dall'Italia, seconda dell'andamento più o meno soddisfacente delle operazioni militari, t rascorso il breve entusiasmo della «vittoria» contro la Francia, quando l'esercito italiano dovette fare le sue prime prove in Afr ica e in Grecia. La brus ca rivelazione dell'impreparazione italiana diffusa dal modo in cui, alla fine dell'ottobre 1940 , ebbe inizio la campagna contro la Grecia e la rapidità con cui, nel dicem- bre dello stesso anno, gli inglesi riuscirono a rovesciare la faticosa offensiva italiana sulla costa settentrionale dell'Africa, spingendosi sino a Tobruch e Bengasi, fecero capire agli inglesi (e a tutte le forze in campo) che l'Italia era «l'anello debole» del1' Asse e che, a causa dell'impreparazione militare o della fragilità economica, o della pressione dell'opinione pubblica o di un intervento della monarchia, era opportuno prevedere che essa avrebbe cercato una pace anticipata. Chi ha studiato questo aspetto delle situazione italiana, cercando di capire il problema politico più' che di svelare gli episodi scandalistici relativi a strani mercat i progettati da millantatori scarsamente credibili, ha messo in luce portata e limite di questa ipotesi (2). Probabilmente nell'inverno 1940-41 gli inglesi pensarono, alquanì: o ottimisticamente, considerata la presa germanica sul continente e la dipendenza già ins t auratasi tra Hitler e Mussolini, che il ritiro dell'Italia dalla guerra fosse auspicabile e nego z iabile. Questo atteggiamento inglese, scrive il Varsori, «era più ipotetico che reale». Esso era influenzato dalla debolezza obiettiva dell'Italia, da un residuo di poli t ica di appeasement e dal calcolo dei vantaggi militari che una resa italiana avrebbe procurato. Tuttavia , raccomanda lo stesso autore, non si debbono ignorare due altri aspetti del problema: che la guerra non aveva ancora assunto il carattere di · scontro ideologico contro il nazifascismo, e che l'Inghilterra, essendo rimasta a combattere da sola, progettava senza tenere conto delle relazioni con i futuri alleati. Gli inglesi guardavano ai gruppi di , potere tradizionalisti in Italia - la monarchia e i militari, guidati da Badoglio - come agli interlocutori naturali di una fase di transizione.

Questa situazione mutò durante il 1941, quando il tema acquistò un più preciso profilo internazionale. Non era solo l'avversione suscitata in Inghilterra dalle vicende della guerranon ultima e sin troppo enfatizza t a, quella del bombardamento di Londra da parte dell'aviazione italiana - quanto il fatto che a ll a Gran Bretagna si associarono, caratterizzando ideologicamente la guerra, gli Stati Uniti, prima con la politica degli aiuti autorizzata dal Lend Lease Act del marzo 1941 e poi col diretto coinvolgimento nella guerra; e l'Unione Sovietica, dal momento dell'aggressione hitleriana. I nuovi alleati e la Gran Bretagna davano vita a una coalizione che, nel 1941 e nel 1942, ma forse anche dopo, definì solo a fatica i suoi obiettivi di guerra; perciò doveva anche sentirsi impreparata dinanzi all'ipotesi che uno degli avversari volesse una pace separata. L'Inghilterra non era più sola; essa non doveva più schivare la sconfitta con le risorse della diplomazia. Doveva invece pensare a una grande vittoria, con una grande coalizione, della quale facevano parte grandi potenze, difficili da mettere d'accordo; e potenze minori, sulla pelle delle quali in passato un compromesso sarebbe stato forse ipotizzabile, ma alle quali ora gli inglesi avevano fatto promesse che essi avrebbero dovuto mantenere, e che perciò rendevano anche impossibile parlare con gli italiani in termini di compomesso. Fino alla metà del 1942 questa situazione non doveva subire mutamenti sostanziali.

Con la seconda fase, dall'autunno 1942 al 24 gennaio 1943, cioè al giorno in cui, durante la conferenza di Casablanca, Roosevelt annunciò che gli alleati avrebbero accettato solo la «resa incondizionata» dei loro avversari, la questione acquistò d'improvviso una grande attualità e si pose con infinite sfaccettature, lungo i canali più misteriosi e meno prevedibili: sempre suscitando problemi interni all'Italia, problemi nei riflessi con la Germania, ma anche problemi relativi alle relazioni con gli alleati e tra gli alleati, in un insieme che è utile cercare di districare.

Or mai le vicende di quel momento drammatico sono in gran parte note. Dopo avere cullato per un momento l'illusione della vittoria militare, gli italiani furono bruscamente messi davanti alla certezza de ll a sconfitta . Prima ancora della battaglia di E l Al a mein e dello sbarco americano in Nord -Africa, durante gli ultimi mesi dell'estate gli italiani che appartenevano in vario modo alla classe dirigen t e videro che la sconfitta militare era inevitabile e con essa la crisi del fascismo. Essi concep irono anche i rischi collegati alla sconfitta e si posero il problema di eluderli, o renderli meno gravi. Dovevano perciò tentare nuovamente, ma in condizioni del tutto diverse, di mettersi in contatto con gli alleati. La risposta che costoro avrebbero dato agli appelli italiani avrebbe dato indicazioni sul modo in cui essi concepivano il dopogu~rra, e vi collocavano l'Italia: non il modo retorico, affidato alle grandi dichiarazioni di principio, ma il modo pratico, della realtà politica. Ecco dunque la crisi italiana acquistare un significato che riguardava non solo il destino della penisola, ma coinvolgeva sin da allora il modo di essere delle future relazioni tra le potenze occidentali e l'Unione Sovietica.

Ciò avveniva sia per la natura degli appelli che da parte ital iana giungevano agli alleati, sia per lo stadio particolare che le relazioni delle potenze occidentali con l'U nione Sovietica avevano in quel momento raggiunto. Sul piano interno, l'immagine che si profilava dinanzi agli italiani che erano in grado di comprendere la situazione del paese, era quella di una sconfitta rovinosa, che avrebbe forse visto il fascismo trascinare nel suo crollo le stesse strutture fondamentali della società italiana. Era una sensazione che doveva diffondersi in profondo, suscitando allarme e paura. Perciò tutti (dai gerarchi dissidenti alle alte sfere militari, dagli esponenti della grande industri a a quelli della famiglia reale, e infine a quelli vicini alla Chiesa o interni a essa) videro la via d'uscita nel tentativo di operare una dissociazione, in qualche caso sfaccia tamente tardiva, rispetto . alla gerarchia fascista o, quanto meno, rispetto all'uomo Mussolini, sul quale si propendeva spontaneamente a concentrare l'intera responsabilità della scelta dell'Italia nel giugno 1940.

Questa operazione esigeva l'esistenza di due condizioni preliminari: la disponibilità dei destinatari a dar retta al messaggio loro inviato, e l'esistenza di un messaggio dai contenuti persuasivi per quei destinatari. La scelta dei destinatari non era oggetto di una possibile discussione. Dal momento che l'Italia stava per essere sconfitta dagli anglo-americani, questi sarebbero stati i protagonisti o i dominatori dell'immeditato futuro politico del- la penisola e con loro bisognava cercare l'intesa. Quanto al contenuto del messaggio da lanciare, esso derivava dalla stessa natura della diagnosi allarmistica. Se la sconfitta poteva provocare il collasso sociale dell'Italia, occorreva rendere sensibili gli alleati rispetto a questo rischio, persuaderli della necessità che l'ordine sociale fosse salvaguardato, che una destabilizzazione fosse evitata, poiché da questa avrebbero tratto vantaggio le forze della sinistra, trasformando la crisi del regime mussoliniano in una crisi della società italiana. Gli italiani che nut rivano queste preoccupazioni, lasciavano capire di essere pronti a sbarazzarsi presto di Mussolini e a fare una pace separata dalla Germania, purché l'operazione fosse condotta in modo tale da ev it are una sconfitta drammatica. In altre parole, il progetto collegava la precisa volontà di conservare il cont rollo della società italiana alla speranza che il recupero delle alleanze internazionali che il fascismo aveva spezzato servisse a dare quella forza che le classi dirigenti italiane da sole non possedevano più. E ra una proposta precisa di alleanze internazio n ali di classe (si direbbe usando certi slogan ricorrenti) in cambio dell ' offerta di mettere a disposizione degli alleati non t anto le restanti risorse militari italiane, quanto il territorio dell'Italia, con tutta l'importanza strategica che esso poteva avere nella prosecuzione della guerra contro la Germania.

La risposta che gli alleati avrebbero dato a questi appelli, che furono numerosi e sempre più angosciati (3), avrebbe rivelato il modo in cui essi concepivano il futuro dell ' Italia e perciò, indirettamente, il modo in cui essi concepivano le loro reciproche relazioni e quelle con l'Unione Sovietica. Tuttavia sarebbe difficile indicare con assoluta sicurezza il contenuto reale di tali risposte poiché anziché una reazione sola, se ne manifestarono due ordini: uno esterno e formale e un altro segreto e sos tanzi ale . Reciprocamente essi erano contraddittori, e rivelavano una certa incoerenza di fondo sia nel merito del problema italiano, sia nel metodo secondo il quale le potenze interessate av r ebbero dovuto trattarlo.

Sul piano esternamente percepibile si può dire che gli appelli ital iani furono respinti. Il 24 gennaio 1943, durante la conferenza di Casab lanca, il presidente americano annunciò la tesi della «resa incondizionata». Ciò implicava il rifiuto di trattare e per conseguenza l'indisponibilità degli alleati a prendere in considerazione ipotesi, come quelle segretamente provenienti dall'Italia, le quali invece erano basate sul presupposto che esistesse un mutuo interesse a negoziare. La formula della resa incondizionata contraddiceva l'idea di una pace separata e negoziata con l'Italia e implicava una politica di defascistizzazione radicale, cioè proprio quella politica che tante forze in Italia si preoccupavano di evitare, prevenendola. In realtà poi va detto che la formula della «resa incondizionata», come molti autori hanno rilevato, era più un ' astrazione politica o una petizione di principio, che una proposta di lavoro. Fatta eccezione per il caso della Germania , in cui il dissolversi dell'autorità politica del Terzo Reich produsse i risultati della «resa incondizionata», sia nel caso dell'Italia, come in quello del Giappone, due anni dopo, la resa sarebbe stata accompagnata da negoziati e condizioni che circoscrivevano l'assolutezza del proposito iniziale (4). Tuttavia lo slogan non era vuoto di contenuto diplomatico. Esso traeva ragione dalla situazione italiana ma aveva come destinatario il governo sovietico, e come scopo quello di provocare una diminuzione dei sospetti di Stalin verso gli alleati. Nel momento in cui, per fondate ragioni tecniche, Roosevelt non poteva tener fede alla pro- ' messa, fatta più vo lte , d i aprire un secondo fronte in Europa entro il 1942, esponendo i sovietici a ll a tentazione di fare loro una pace separata con la Germania (5) , diventava indispensabile fornire loro qualche garanzia che li rassicurasse che non sareb b ero rimasti so li a combattere contro i tedeschi, qualche garanz ia circa la determinaz ione degli alleati occidentali di combattere il nazismo sino alla sua sconfitta totale. Questa garanzia era c ontenuta - per l'appunto - nella formula «resa incondizionata», sost ituto provvisori o del secondo fronte in Eu- ropa e segnale inviato non tanto alle potenze dell'Asse (non comunque all'Italia) quanto all'Unione Sovietica. Dal punto di vista internazionale essa significava che gli allea t i occidentali non avrebbero agito da soli, non avrebbero assunto iniziative unilaterali. Era una posizione, dunqu e , che collegava il problema it aliano al progetto di una futura co ll aborazion e e convivenza t ra i vincitori. Invece, accogliere gli appelli italiani , imbevuti di anticomun ismo, e perciò di antisovieti smo, avrebbe avuto il significato oppos t o.

Tuttavia, se si passa dalle dichiarazioni pubbliche ai comportamenti effettivamente seguiti ~agli occiden t ali, l ' impress ione cambia. So tt o la sdegnosa dichiarazione di Roosevelt stava in realtà molto più variegata, intessuta a ncora di una tenace e costante attenzione verso gli ambienti it a liani disposti a di ssociarsi dal fascismo , senza esclusione di ne ssuna corrente politica o personalità (dai fascisti di sside nti, al re, ai mili t ar i). La t esi della «resa incondizionata» diventava perciò una sp ecie di coperchio sopra un ribollire frenetico di ipot esi alt ernative. Il problema era solo che tale ribollire non fosse visibile all' esterno. Né gli americani né gli inglesi si tiravano indietro di fronte alla possibilità di una pace separata: né prima né dopo il 24 gennaio 1943. Gli americani erano disposti a t rattare con il re persino dal giorno stesso in cui erano entrati in guerra contro l'Italia (6) e avevano continuato a essere disposti a farlo nel 1941 e nel 1942. Proprio nel gennaio 1943, mentre Roosevelt usava un certo linguaggio a Casablanca, il Post-War Foreign Policy

Preparation Committee del Dipartimento di Stato, discuteva in ogni suo aspetto la situazione italiana per raggiungere la conclusione che la sola soluzione possibile sarebbe stata quella di un governo di t r ansizione guidato dai militari, cioè dal maresciallo Badoglio , e il mantenimen t o di casa Savoia, salvo eventuale abdicazione del re (7). La resa incondizionata, si ammetteva dunque in seno al Dipartimento di Stato, doveva essere applicata solo all~ Germania e al Giappone. Cordell H ull scrisse più tardi: «Il presidente Roosevelt e io ritenevamo ... che sa- rebbe stato possibile far ritirare l'Italia dalla guerra prima della resa della Germania e del Giappone ... Sentivamo che il diritto dell'Italia sarebbe stato accelerato se noi avessimo adottato nei confronti degli italiani un atteggiamento diverso da quello che avevamo nei confronti di tedeschi e giapponesi» (8). Quanto agli inglesi, nonostante l'irrigidimento maturato con il tempo e sebbene Anthony Eden si distinguesse per una posizione personale tenacemente ostile all'Italia, sta il fatto che non appena dall'Italia giunsero, anziché le periodiche voci che riferivano di malumori o velleitarie intenzioni di questo o quel personaggio, precise indicazioni sulle intenzioni del maresciallo Badoglio e del maresciallo Caviglia, oppure quelle sulla disponibilità del nuovo duca d'Aosta a cercare la strada di un compromesso e di un armistizio (si badi bene: un armistizio e non una resa) lungi dal lasciarle cadere come irrilevanti o premature, come era stato fatto in passato, vennero prese nella più seria considerazione, nonostante l'impegno solenne enunciato a Casablanca. Fu solo alla fine di febbraio che Eden mise la parola fine a questa parte della vicenda (9). Ma questa pausa non significò anche l'interruzione del dibattito interno, poiché in seno al Foreign Office il dibattito proseguì ancora sino all'estate. Questa ambiguità e la mancanza di decisione che ne derivava, non erano solo il risultato della volo ntà di tenere i sovietici all'oscuro delle opzioni valutate dai due governi occidentali . Esse riflettevano anche l'esistenza di due prob lemi non risolti ma tali da non poter essere elusi: il problema çlel rapporto tra inglesi e americani rispetto all'Italia sconfitta e all'attuazione dell'armistizio; e il problema della partecipazione sovietica sia alla definizione sia all'attuazione dell'arm istizio stesso (o delle clausole di resa, se si vuole tener presente la differenza allora rilevata tra i due termini).

Il primo dei due problemi fu . posto, e risolto, almeno sul piano teorico, con sufficiente rapidità. Esso rifletteva le preoccupazioni di fondo che gli inglesi nutrivano verso l'Italia, perciò il desiderio di avere, nelle questioni italiane un peso pre- ponderante, così da avere la certezza che la «tenerezza» americana verso gli italiani (un sentimento spiegato da ragioni interne ben precise) lenisse il peso delle durezze che da parte britannica si volevano far sentire agli italiani.

La questione nacque di fatto quando, decisa l'operazione sbarco in Sicilia, gli stati maggiori alleati incominciarono a studiare i metodi di attuazione dell'occupazione militare (non si parlava ancora di armistizio o resa ma solo di occupazione militare). Iniziato in febbraio lo studio del problema, i vari organi inglesi pervennero, all'inizio di marzo, a definire la richiesta che la responsabilità dell'amministrazione non fosse divisa tra americani e inglesi in parti eguali ma in parti che tenessero conto dei maggiori interessi inglesi nel Mediterraneo e del maggior impegno britannico nelle operazioni belliche dello stesso scacchiere. Perciò si doveva riconoscere agli inglesi la posizione di «senior partner», cioè di primi e principali responsabili dell'amministrazione stessa, traducendosi poi la formula nell'assunzione delle maggiori cariche amministrative e del maggior numero delle stesse.

Si trattava, a ben guardare, di un'iniziativa ingenua. Il ruolo rispettivo delle due potenze che insieme operavano in Italia, non sarebbe stato determinato da intese di principio preliminari, ma dalla realtà esistente sul campo, cioè dalla maggiore o minore disponibilità di uomini adatti, dalla minore o maggiore capacità di elaborare soluzioni adeguate ai casi concreti. Il fatto che Churchill e il governo inglese si spingessero a enunciarle ufficialmente riflette le esitazioni e i sospetti esistenti anche all'interno dell'alleanza occidentale. Aspetti puntualmente riflessi nella risposta americana: un diniego secco e reciso, basato sull 'affermazione degli interessi americani verso la Sicilia e sull'attenzione con cui da parte della popolazione americana di origine sic iliana si guardava alla situazione che si stava delineando. Fu, questo, un serrato dibattito diplomatico, che proseguì sino alla vigilia dello sbarco in Sicilia, e fu concluso durante la conferenza TRIDENT, tenuta a Washington alla fine del mese di maggio (10).

La tesi britannica fu ridimensionata e l'unico risultato che gli inglesi ottennero fu l'istituzione, accanto al Comando supremo per il Mediterraneo, allora tenuto da Eisenhower, di una sezione politica, alla cui guida fu destinato Harold Macmillan, uomo così abile da dare agli inglesi qualsiasi garanzia di efficace controllo (11). E tuttav ia, proprio questa incertezza interna finiva per trasformarsi in un ostacolo rispetto alla disponibilità verso eventuali riprese delle iniziative di pace italiane. Si poteva sin dalla fase preliminare comprendere che la gestione e attuazione pratica dell ' armistizio sarebbero stati i motivi di molte difficoltà tra loro intrecciate. Le relazioni angloamericane sulla mutua divisione di responsabilità; i rapporti che, nell'ambito della formula della resa incondizionata, sarebbero stati tenuti con il governo monarchico e, dopo il 25 luglio, con il maresciallo Badoglio, e la mancata defini zione di criteri concordati con i sovietici, anzi la propensione delle due po t enze occidentali a agire autonomamente, salvo a chiedere poi la ratifica sovietica erano, nell'insieme aspetti che , se trattati isolatamente, potevano apparire marginali ma se considerati nell'insieme davano un quadro di dimensioni europee. In altre parole, rappresentavano un momento critico per l'avvio delle relazioni interalleate all'inizio del dopoguerra. È per questo che alcuni autori hanno poi parlato di preludio della guerra fredda o di precedente italiano.

L'aspetto più delicato - e con questo siamo in pieno nella terza delle fasi sopra accennate - era quello della partecipa' zione sovietica alla preparazione dell'armistizio e al controllo della sua esecuzione. È un tema che si pone ben avanti 1'8 settembre, ma che ebbe la sua verifica pratica solo dopo le conferenze di Mosca e Teheran, di ottobre e novembre-dicembre dello stesso 1943. Il problema fu posto, come fa giustamente osservare Arcidiacono, contemporaneamente alla polemica sulla «senior partnership», nel febbraio 1943, da Eisenhower, il quale indicò l'opportunità di intese relative alla Sicilia, ma rilevò anche che queste «avrebbero inevitabilmente costituito un prece- dente per l'amministrazione civile dell'Italia e della Germania» (12). La tesi che Eisenhower sosteneva era che le operazioni rientrassero esclusivamente sotto la responsabilità dei Combined Chiefs of Staff, mentre la preoccupazione inglese era quella di assicurare al governo britannico (proprio in considerazione degli interessi strategici inglesi in Italia) la possibilità di intervenire direttamente sul campo, senza dover seguire la lentissima trafila dei comandi mili tari. La presenza di Macmillan nella struttura alleata costituiva, da questo punto di vista, una sicura garanzia di controllo. Tuttavia questa appariva, agli occhi del Foreign Office, come una soluzione parziale del problema, che doveva anche essere considerato nella portata di occasione «per porre le fondamenta di una collaborazione tripartita capace di s opravvivere alla vittoria militare della coalizione». (13) Era questa, in particolare, l'opinione di un ufficio recentemente cos t ituito, il Dipartimento per l'Economia e la Ricostruzione, posto sotto la guida di Gladwyn Jebb. Sin dalla prima fase dei suoi lavori, questo nuovo dipartimento prese una direzione nettamente favorevole alla partecipazione sovietica alle maggiori decisioni relative a tutti i territori nemici, poiché in t al modo si sare bbe ottenuto il vantaggio di «impegnare i s ovi etici a consultare (gli alleati) rispetto a qualsiasi territorio nemico fosse catturato dalle forze russe». In cambio, essi avrebbero ottenuto l'impegno occidentale a consultarli «in relazione ai territori dell'Europa occidentale e dell'Africa settentrionale» (14). Su questa base, scrive Arcidiacono, «il Foreign Office avrebbe cost ituito un progetto generale, il cui obiettivo era facilmente percepibile: una soddisfacente transizione dalla cooperazione bellica alla collaborazione in tempo di pace, raggiunta, tale collaborazione, grazie all'adozione nei territori occupati, di una visio ne tripartita unitaria che, mentre concedeva a Mosca un droit de regard in Occidente, avrebbe evitato il rischio del monopolio sovietico nell'Europa orientale» (15).

Era, come si vede, una concezione basata sulla premessa della durevole intesa fra le grandi potenze, come garanzia per il mantenimento dell'ordine in Europa nel dopoguerra. E era anche una logica diametralmente opposta a quella che avrebbe poi condotto alla guerra fredda. Dentro questa visione si situavano nozioni come la resa incondizionata, la defascistizzazione, il rifiuto di rivalutare chi si era compromesso sino in fondo con la guerra. Infatti i sovietici avrebbero posto condizioni politiche parallele a quelle che avrebbero subito. Se la soviet izzazione doveva essere limitata, anche la rivalutazione delle forze che avevano sostenuto il fascismo in Italia e il nazismo in Germania avrebbe dovuto essere limitata. Perciò la visione illuministica di Jebb presupponeva un tipo di relazioni post-belliche che nella sostanza contrastava con i progetti strategici che lo stesso governo britannico nutriva nei confronti dell'Italia.

Ciò tuttavia non fu subito percepito. Lo stesso Eden fece mostra di condividere l'impostazione di Jebb, che aveva il merito di prevenire il rischio che una delle grandi potenze agisse alle spalle dell'altra (16). Perciò, dopo alcune settimane di elaborazione, si giunse alla redazione di un documento, che Eden sottopose il 25 maggio al War Cabinet, nel quale i principi enunciati da Jebb erano tradotti nella proposta che i diversi armistizi prossimi a stipularsi fossero affidati a una serie di commissioni interalleate, presiedute a rotazione dal rappresentante di una delle tre maggiori potenze. Una Commissione delle Nazioni Unite per l'Europa doveva assumere il compito ·di suprema autorità alleata sul continente, coordinando e dirigendo le atti' vità delle diverse commissioni e dei diversi comandi militari operanti nelle varie regioni occupate. Anche questa commissione doveva essere presieduta a turno, e diretta di fatto da un esecutivo a tre, con diritto di veto (17). Eden, che in quell'occasione caldeggiava l'accoglimento della proposta, usò principalmente l'argomento ricordato da Woodward, «che un accordo su questi punti fosse ·necessario, se si voleva evitare che l'Unione Sovietica firmasse un armistizio separato e organizzasse un sistema separato russo nell'Europa orientale» (18).

Le proposte di Eden vennero esaminate ancora per alcune settimane e alla fine di giugno il ministro degli esteri brit annico fu autorizzato dal suo governo a trasmetterne la sostanza ai governi sovietico e americano. Il che egli fece in un breve documento che dava al punto di vista britannico non più il carattere di elaborazione interna ma quello di proposta internazionale.

La proposta incontrò immediatamente seri ostacoli e, quasi senza che i sovietici ne fossero resi consapevoli, venne di fatto accantonata proprio durante le stesse settimane in cui, caduto Mussolini, il governo Badoglio compiva i primi maldestri passi verso la stipulazione dell'armistizio, ma per ciò stesso costringeva gli alleati a precipitare le loro decisioni me t odologiche . Tuttavia la svolta che accompagnò tale adeguamen t o e che rimase per un certo tempo inspiegata (19), risentì dell'accelerazione della vicenda politico-militare in modo che contribuisce a spiegare l'affiorare e l'affermarsi di tali ostacoli.

Le obiezioni venivano formulate sia da parte inglese, sia da parte americana. In giugno il prof. Webster osservava che la Commissione di armistizio per l'Italia avrebbe incominciato a funzionare , almeno per un certo tempo, mentre la guerra con la Germania sarebbe ancora stata in corso. Perciò sarebbe stato possibile integrarla nella più ampia Commissione delle Nazioni Unite per l ' Europa, che non era ancora costituibile .. Finché le operazioni militari erano in corso, era dunque difficile che la Commissione di armistizio fosse altro che un organismo subalterno al Comandante in capo, cioè al generale Eisenhower. Ma come poteva partecipare a questo controllo un rappresentante sovietico, in contatto diretto con Mosca e con il compito di pres iedere a rotaz ione la Commissione di controllo, mentre il Comandante in capo riceveva i suoi ordini dai superiori gerarchici, cioè dai Combined Chiefs of Staff, da Washington?

(20). La contraddizione era nelle cose e la conclusione era fatale. Se la Commissione di controllo fosse entrata in funzione prima della caduta della Germania, sarebbe stato impossibile darle l' assetto istituzionale previsto dalla proposta inglese e sareb - be stato indispensabile porla sotto la s upervi s ione di Eisenhower. E ciò poteva portare al blocco di tutto il meccanismo pensato dagli inglesi, poiché la situazione andava a cozzare contro il fermo principio della dottrina militare americana, secondo cui durante il conflitto la piena supremazia sul teatro delle operazioni spettava al comandante militare. Ne seguiva che , finché in Italia fossero continuate le ostilità, non sare bbe stata tollerata la presenza di alcun altro «executive body», di qualsiasi natura esso fosse, capace di disporre di poteri propri, cioè sottratto al controllo militare. O ss erva ancora puntualmente Arc idiacono che que sta contraddizione metteva in evidenza il fatto che tutta la concezione ing lese era basata sul presupposto che all'armistizio tene sse dietro immediatamente la pace; perciò essa non contemplava la possibilità di altri due anni , o quasi, di guerra, nel corso dei quali i problemi militari avrebbero avuto la prevalenza (21). Sicché si può per paradosso affermare che l'armistizio ita liano divenne internazionalmente causa di di vis ione tra gli alleati poiché esso era venuto troppo presto r ispetto ai preparativi e agli stud i sulle possibile conseguenze e sul modo di provvedervi.

I primi a manife stare sul piano diplomatico le esigenze derivanti dall'affacciarsi della nuova situazione furono gli americani. Es si avevano una prima volta. affrontato l'argomento con Eden, durante una visita che questi fece a Washington nel marzo 1943, nel corso del quale Harry Hopkins «so tto lineò la necess ità di concordare un piano comune per il momento del croll o della Germania, per evitare che l'Europa fo sse sommersa dal caos e cadesse nelle mani dei com unist i, Italia comp res a» (22).

Questo scambio di ide e fu all'ori gine di un lungo stud io, ri chiesto da Roo sevelt, su tutti gli a s petti della s ituazione italiana (23), dal quale emergeva una diversa attenzione degli Stati Uniti verso il problema italiano e, se non ancora l'a ttua rsi di una politica autonoma, l'affiorare della volontà di far s ì c he la situazione non sfuggisse al controllo. E verosimilmente si può pensare che ques te analisi fossero anche all'origine del tipo di risposta che gli americani diedero poi al promemoria britannico, contenente le proposte di costituire il complesso meccanismo di controllo degli armis tizi europei. Il combinarsi dell'analisi politica e della dottrina militare confluì infatti, all'inizio di luglio, in una controproposta nella quale non si faceva alcune esplicita menzione degli organi di supervisione e si affermava che l'esecuzione dell'armistizio avrebbe dovuto interamente essere affidata al generale Eisenhower, sotto il controllo dei due governi alleati, per via gerarchica (24) . E da cià derivò che il governo sovietico ricevette solo scarse informazioni preliminari e dovette accettare di delegare gli alleati a rappresentarlo nel negoziato o, meglio, nella firma dell ' armistizio di Cassibile. Una fondata esigenza militare generava un problema politico dalla non lieve portata internazionale. Ciò emergerà sinteticamente nell'analisi della quarta fase della presente esposizione. Intanto va aggiunto che sia la dinamica rapida degli eventi in Italia, sia l'assenza dei sovietici, sia le propensioni reali degli inglesi e degli americani provocarono, all'interno della relazione Italia-alleati, la ricomparsa del tema che la resa incondizionata aveva sommerso. Infatti, subito dopo la stipulazione dell'armistizio, ponendosi il problema del rapporto con la monarchia italiana e con le forze militari che l'avevano appoggiata nell'allontanamento di Mussolini, risultò quasi spontaneo recuperarla, riconoscendone l'autorità legittima, ma congiuntamente sancendo una continuità istituzionale che salvava quegli equilibri di sostanza per i quali si erano nutri t i tanti timori nel 1942.

La quarta fase vide giungere alla conclusione il problema dei contenuti politici internazionali dell'armistizio italiano considerato come momento della creazione del sistema post-bellico di alleanze. La questione fu discussa infatti a Mosca, in una seduta della Conferenza dei ministri degli esteri. In quell'occasione Molotov assunse un atteggiamento non ben decifrabile e non ben decifrato. Infatti egli si riferì alle proposte inglesi sul controllo t ripartito, mostrando di considerarle ancora valide; ascoltò da Eden e Hull spiegazioni più o meno contorte e reticenti su ll'in tenz ion e di far prevalere, al momento, le esigenze militari. Nel seguito della discussione, accettò che si costituissero tre Commissioni: la European Advisory Commission, che all'apparenza somigliava alla Commissione di coordinamento europeo suggerita dagli inglesi; un Advisory Council for Italy; e una Allied Contro! Commission p er l'Italia. I sovietici avrebbero preso parte alle prime due commissioni, che avevano soltanto poteri consultivi; non avrebbero avuto che una parte simbolica, come è ben noto, nella terza, che aveva poteri reali in Italia. Il punto non decifrato riguarda la misura in cui i sovietici furono volutamente fuorviati dagli alleati, quella in cui essi non cap irono la portata del compromesso raggiunto, e quella in cui fecero mostra di non aver capito, cioè fecero buon viso a cattiva sorte, riservandosi di restituire il colpo diplomatico nel modo e a l momento opportuno (25).

Propenderebbe per un'interpretazione avvalorante un relativo candore sovietico una risposta basata esclus ivamente sul riscontro della corrispondenza diplomatica tra sovietici, americani e inglesi, dopo la conferenza, e nella fase di costituzione della Advisory Commission for Italy: un n egoziato durante il quale i sovietici mostrarono di esser persuasi che la loro sarebbe stata una funzione di reale contenuto politico, così come il fatto che a guidare la delegazione nella Commissione fosse designato il viceministro degli esteri, Vishinski. Tuttavia, accanto a questa linea esterna, i sovietici, dopo la conferen za di Mosca, avviarono una linea int erna di intervento in Italia che, attraverso il rientro di Palmiro Togliatti, gli incontri di Vishinski con Renato Prunas, a ll 'inizio di gennaio del 1944, e la successiva, clamorosa svolta di Salerno, mostrò di portare a risultati assai più rilevanti di quelli che, con le loro restrizioni, gli alleati occidentali avevano voluto evitare. Era la linea che, mediante l'inatteso riconoscimento diplomatico sovietico del governo Badoglio e la proposta di collaborazione lanciata dal Partito comunista italiano, doveva portare i comunisti per la prima volta al potere in Italia. In tal modo i due aspetti che internazionalmente si era pensato di tutelare venivano aggirati: la vita sociale italiana era direttamente esposta all'attività di un forte partito comunista (del quale nessuno allora poteva valutare la disponibilità alla moderazione); e l'intervento sovietico nelle vicende italiane, impedito poiché avrebbe potuto turbare le retrovie di un esercito che combatteva, veniva attuato nella maniera più clamorosa e più carica di effetto che si potesse allora concepire (26).

Note

(1) Cfr. infatti: M: TOSCANO, Dal 25 luglio all'B settembre (Nuove rivelazioni sugli armistizi fra l'Italia e le Nazioni Unite), Firenze 1966; D. ELLWOOD, L'alleato nemico, La politia dell'occupazione anglo-americana in Italia 1943- 1946, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 64-124; A. VARSORI, «Senior» o «Equa!» partner?, in «Rivista di studi politici internazionali», 1978, pp. 230 -60; A. VARSO RI, Italy, Britain and the Problem of a Separate Peace during the Second World War: 1940-43, in «The Journal of ltalian History», I, 1978, pp. 455 -91; E. AGAROSS1, La politica degli Alleati verso l'Italia nel 1943, in L'Italia fra tedeschi e alleati, a cura di R. De Felice, Bologna 1973, pp . 171 -219; B. ARCIDIACONO, L 'invasion de l'Italie dans /es relations interalliées . La Répétition générale: le Foreign Office et le problème du contro/e du territoire italien, 1943-1944, tesi di dottorato in corso di pubblicazione, presentata nel 1981 all'Jnstitut Universitaire de Hautes Etudes Internationales di Ginevra; B. ARCIDIACONO: The Dress Reharsal: The Foreign Office and the Contro! of Jtaly, 1943-1944 (espone alcune osservazioni portanti la dissertazione sopra citata); E. DI NOLFO, Montini e la Crisi italiana del '42, in «Il Veltro», 1978, pp . 247 -58;

(2) A. VARSORI, ltaly, Britain ecc. cit., pp . 455-67 e 488-90.

(3) Cfr.: M. TOSCANO, op. cit.; A. VAR SORI, op . ult. cit.; E. DI NOLF O, art. cit.

(4) Sugli aspetti generali della formula di resa incondizionata: A. ARMSTRONG, Unconditional Surrender, New Brunswick, 1961, R.G. O'CONNOR, Diplomacy for Victory. FDR and Unconditional Surrender, New York 1971; M. BALFOUR, Another Look at Unconditional Surrender, in «International Relation s» , 1970, pp. 719-36.

(5) Cfr.: R.M .W. KEMPNER, La pace separata di Stalin nel 1943, in «Rivista di st udi politici internazionali», 1951, pp. 85-88.

(6) Cfr. il doc pubblicato e commentato in: E. DI NOLFO, Dite al re Vittorio che l'America non vi abbandona, in « Il corriere della sera», 22 giugrto 1975, p. 11 .

(7) Verbali di due riunioni rispettivamente tenute il 2 e il 9 gennaio 1943 da parte del Postwar Foreign Policy Preparation Committee, Division of Special Research, in Notter File rispettivamente box 64 e 66, in Rg . 59, National Archives, Washington.

(8) D. ELLWOOD, op . cit., p . 34.

(9) M. MATLOFF eE. SNELL, Strategie Planningfor Coalition WarJare. 1941-1942, Washington 1953, pp . 268 -69.

(10) B. ARCIDIACONO, L'invasion de l'Jtalie cit., pp. 177 e ss.

(11) A. VARSORI, «Senior» ecc. cit., pp. 258-60 .

(12) B. ARCIDIACONO, The «Dress Reharsal» cit., pp. · 3 e nota 7 ivi; A. VARSORI, «Senior» ecc. cit., pp. 231-33 .

(13) B. ARCIDIACONO, art. cit., p. 5, e nota 14 ivi cit.

(14) B. ARCIDIACONO, art. cit., p. 6, e nota 15 ivi cit.

(15) B. ARCIDIACONO, art. cit., p. 6.

(16) B. ARCIDIACONO, art. cit., p. 16.

(17) D. ELLWOOD, op. cit., pp. 37-38; Sir. L. WOODWARD, British Foreign Policy in the Second World War, voi. I, Londra 1970, p . 444; B. ARCIDIACONO, art. cit., pp .7 -8 e nota 22.

(18) L. WOODWARD, op. cit., I, p. 444 .

(19) Così: D. ELLWOOD, op. cit., p. 38; anche: G. WARNER, ltaly and the Powers 1943- 1949. The Rebirth of ltaly 1943-1950, a cura di S. Woolf, p . 34 .

(20) B. ARCIDIACONO, art. cit., p 11, nota 28.

(21) B ARCIDIACONO, art. cit., p. 12.

(22) E. AGAROSSI, op . cit., p. 199 .

(23) Il documento è largamente riassunto in: E. AGAROSSI, op. c it., pp. 199-202 .

(24) B ARCIDIACONO, art. cit., pp 14-15; D. ELLWOOD, op. cit., p. 38.

(25) Gli atti della conferenza di Mosca in Foreign Relations of the Uniled States, 1943, vol. I.

(26) Cfr. per tutti: M. TOSCANO, La ripresa delle relazioni diplomatiche fra l'Italia e l'URSS nel corso della seconda guerra mondiale, in «Pagine di storia diplomatica contemporanea», vol. II, Milano 1963.

This article is from: