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Prolusione del Sen. prof. GIOVANNI SPADOLINI
Ministro della Difesa
Quella sera dell'8 settembre di quaranta anni fa, dopo che alle 19.45 fu reso noto l'armistizio di Cassibile dando luogo a convulse alternative di coscienza, richiede ancora oggi a tutti noi di curvarci su quella vicenda con animo di pietas storica e con il senso intero di una tragedia italiana.
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Una tragedia, in particolare, delle forze armate: fuggiasco il re, al quale l'ordine del giorno Grandi nel Gran Consiglio aveva rivendicato la «suprema iniziativa di decisione» in materia di politica estera e di guerra; fuggiasco il suo governo; nessun piano operativo coordinato per far fronte alla prevedibile reazione germanica; cancellato all'ultima ora quello di un in t ervento aeronavale angloamericano.
Drammatiche incertezze solcavano il cielo livido d'Italia: la pace e nulla più, passando sotto il giogo della resa incondizionata, e domani o dopodomani una qualche forma di democrazia nata dalla sconfitta, dalla fame, dalla disperazione e dal1' occupazione straniera? Una forma di ripudio pili; radicale delle responsabilità della guerra fascista, mettendosi sulla via di quella che più tardi sarebbe stata la «cobelligeranza» italiana? Una ripresa di potere fascista, sostenuta dalle forze tedesche, con un impeto di rabbia repressiva reso più crudele dalla consapevolezza della larga probabilità di una sconfitta dell'Asse?
A Porta San Paolo, a Cefalonia, a Corfù, a Spalato, nelle acque della Sardegna, in cento altri luoghi la scelta da parte delle nostre forze armate, là dove esisteva un embrione di possibilità pratica di resistenza, là dove si ebbe l'iniziativa di ufficiali che, in assenza di direttive coordinate, volevano almeno salvare l'onore e la dignità della bandiera italiana, fu nei giorni e nelle settimane che seguirono, netta e corale. Essa verrà qui ricordata nei suoi aspetti particolari e memorabili. Ma al Ministro della Difesa di un governo democratico appartiene di ricordare oggi qui, anzitutto, che quella scelta si colloca agli inizi della lotta armata contro l'invasore, della Resi stenza. 87 .303 caduti, fra l'autunno '43 e la primavera '45, 365 medaglie d'oro a ufficiali sottoufficiali e soldati, altre medaglie d'oro che fregiano le bandiere di armi, corpi e reparti hanno una nuda, severa eloquenza che non patisce commentario di parole artificialmente commosse. Ed essi parlano ormai a noi anche attraverso le parole scolpite nella Costituzione della Repubblica, nelle quali il loro sacrificio senza esitazione e, in tanti, senza speranza, trova la forma di una volontà energica di vita nazionale futura.
La patria italiana! Quale significato poteva avere quella parola in quei giorni, nella constatazione di un apparato statale e militare frantumato, nell'umiliazione di so ldati e ufficiali che si disperdevano lungo le strade amare dell'8 settembre, di fronte allo spettacolo dell'insipienza e della codardia! Eppure, proprio da ques to senso di umiliazione nazionale e militare doveva nascere il nucleo di qualcosa di fermo e durevole nella coscienza italiana, il pianto e la rabbia farsi volontà di riscatto, la lontana suggestione del Ri sorgimento alimentare la speranza di un secondo Risorgimento. Ricordo, per tutti, uno fra i giova ni ufficiali di complemento, senza guid a e frementi fra le macerie morali dell'8 settembre, nei qua li i l senso di patria offesa lascerà una i mp ronta incancellabile.
Parlo di Francesco Compagna, mio indimentic abile compagno a Palazzo Chigi, che fino all'ultimo avrebbe ricordato la promessa silenziosa formata in qu ei giorni, e ricollegato gli inesorabili d overi della difesa attual e dell'Occidente, e proprio in materia di euromissili, alla lezione più amara della storia europea, quella che con 1'8 settembre ebbe la risonanza più profonda dell ' antifascismo itali ano : voglio dire di Monaco. Nella vicenda che segue 1'8 se ttembre, la «pianta uomo», come la chiamava Carlo Cattaneo, risorge vigo rosa in Italia.
Nei soldati italiani di ogni grado (dovunque, ripeto, si ritrovasse un minimo di condizioni operative, entro e fuori i confini, e dei capi) scattò immediato l'impegno della riscossa. Un impegno ancor più meritorio perché prese corpo nel volgere di poche ore o giorni, e nel contesto di un giustificato sbandamento generale. Si reagì anche là dove non sussisteva ragionevole probabilità di successo, dove la certezza era nel senso dell'annientamento, o di crudeli rappresaglie.
Intere unità di dissolsero, è vero: ma in molti casi non perché mancasse lo spirito combattivo, ma per assenza di direttive ai comandi periferici unita a inferiorità schiacciante di armamenti, o per decisione di comandanti che preferirono con saggia umanità lasciar liberi, e serbare a future lotte, i loro uomini piuttosto che condannarli all'annientamento, ai plotoni di esecuzione, alla deportazione. Non pochi fra quei comandanti si offriranno poi con consapevolezza ai plotoni di esecuzione del nuovo nemico.
Esistono più ragioni, che il convegno verrà identificando e districando, per le quali i cammini della storiografia italiana e, ad esempio, francese sono stati nel dopoguerra così divergenti, e fra noi ha prevalso a lungo ùn senso come di oblio della sventura. Ma se la nostra letteratura storica non possiede un grande esame di coscienza come fu, ad esempio, L 'étrange défaite di Mare Bloch (e un'eco non placata ne ritorna nella sua Apologie de l'histoire), non si può assegnare come sola causa la inevitabilità della sconfitta finale della guerra fascista.
Quella convinzione di inevitabilità era un atto di fede combattente, più e prima che il risultato di un calcolo delle forze in gioco. Nel corso della guerra vi erano stati, invece, periodi nei quali la vittoria dell'Asse e l'avvento del Nuovo Ordine europeo (Neue europeische Ordnung») erano apparsi a più d'uno, anche dalla parte dell'antifascismo, inevitabili.
Nel 1943, senza dubbio, era già diverso. Eppure una lunga notte di quasi due anni attendeva ancora l'Italia perfino con lo spettro crudele della guerra civile che ci r iportava alla stagio ne pre-unitaria, ai seco li della decadenza e del servaggio .
Su questo sfondo risalta il sempli ce eroismo di quanti, singoli e reparti militari, fino al livello di divisione, scelsero di obbedire al comunicato di armistizio che, mentre prevedeva la cessazion e ovunque di atti di ostilità contro le forze angloamericane, imponeva però alle nostre forze armate di «reagire ad a ventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Non cedere le armi : questo era l'ultimo ridotto dell'onore italiano.
Ecco, fra le tant e pagine ancora poco conosciute, la risposta del comando d ella divisione Acqui all'intimazione di resa: «La divisione intende rimanere sulle sue posizio ni fino a quando non ottiene assicurazi oni, con garanzie che escludano ogni ambiguità, che essa possa mantenere le sue armi e le sue munizioni, e che solo al momento dell'imbarco essa possa consegnare le sue artiglierie .. . Se ciò non accadrà, la D ivisione preferirà combattere piuttosto di subire l'onta della cessione delle armi ed io, s ia pure con rincrescim ento, rinuncerò definitivamente a trattare con la parte tedesca, finché rimango a capo della mia divisione. Prego darmi risposta entro le ore 16». Chi firma è il generale Antonio Gandin , passato 1Ogi orni dopo per le armi co n tutti i suo i ufficiali superstiti: 186.
I lavori di queste due giornate passeranno in ra ss egna le riper cuss ioni dell'8 sette mbre n el comando s upremo, nelle varie armi, nei campi di prigionia, nei part iti in Italia, n elle for ze politiche in esilio e nei principali paes i belligeranti: S tat i Uni ti, Inghilterra, Francia, Germania, fino allo svil uppo meno immediato, che fu quello ve rs o la «cobelligeranza» italiana. È appena il caso di ricordare che le offerte d egli e s uli di dar vita ad una « legi one italiana» che rinnova sse le glori e dei garibald ini delle Argonne nel 1° conflitto mondiale, e del «battaglione Garibaldi » nella g uerra di Spag na, non er ano sta te raccolte. Ma ora sa rebbero so r ti una divi sione Garibaldi in Montenegro, un battaglione Garibaldi in Bosnia, Serbia e Croazia, una sezione del s ervizio di informazione e, s u più ampia base, il Corpo italiano di liberazione, della forza di un corpo d'armata , che combattè con valore risalendo la penisola s ino alla linea Gotica, e nell'ultima fase i quattro «gruppi di combattimento» Cremona, Friuli, Folgore e Legnano, oltre a due già approntati, Mantova e Piceno, che avevano forza di divisioni, anche se la prudenza lessicale degli alleati impose una denominazione più riduttiva.
Queste, dall'angolo visuale che è e de ve essere proprio di un Ministro della Difesa della nuova democrazia italiana, sono alcun e non ignorabili origini della prima resistenza armata. A noi di non dimenticarlo, alla st oriografia di coglierne le vicine e lontane interrelazioni con la complessiva storia d'Italia.
Non dimenticare significa ricercare nella medi tazio ne del passato le sorgenti dell'energia costruttrice dell'avvenire. E chieder si, anche, in quale misura si sia stat i degni del sacrificio di uomini che non sono più. Quaranta anni formano una int era misura storica. Per gli anziani, che videro e vissero quegli avvenimenti, è un'ora di bilanci: e il co n su n t ivo delle speran ze è incerto, spesso amaro.
Per i giovani, che ancora non erano nati, vale nel bene e nel male il risultato del moto c he si svi luppò da quei giorni per approdare all'insurre zione d'aprile del 1945 e alla Repubblica. È questa la base sulla quale ess i sono chiamati ad agire, e questo anche l'o ggetto del giudi zio st ori co. Che non è giustificatore, né giustiziere ma ambisce a porci di fronte alla verità, attraver so l'accertamento di ciò che è realmente accaduto. E la verità è la sola premessa all 'azio n e consapevole, cioè efficace. Dobbiamo misurare in che cosa quel movimento di riscatto nazionale e di rinnovamento democratico è riuscito, e dov e è fallito. L ' Italia ha riscattato allora, combattendo, l'onore; ha riavuto l'indipendenza nazionale; ha ripreso il suo seggio nei grandi consess i democratici mondiali; ha fondato, per volontà di popolo, la Repubblica e ne ha disegnato le libere istituzioni. La sua Costituzione, come inse gnava Piero Calamandrei, è insieme un bollettino di vittoria sui resti della dit ta tura totalitaria sconfitta, e un programma di vita morale e di grandi riforme civili. Ci sono st ate insidie e minacce: ma la Repubblica ha re- sistito, mentre prendevano via via forma le istituzioni costituzionali che ne delineano il volto concreto. Intanto, il paese ha attraversato, grazie a quell'inserimento fermo nel sistema delle alleanze occidentali che fu la scelta decisiva della generazione uscita dalla guerra, il più lungo periodo di pace della sua storia unitaria. Una condizione, questa, che ci appare tanto felice quanto scontata, mentre pure conflitti locali e bufere di guerra squassano il mondo; ma gli storici futuri sapranno apprezzarne le ripercussioni profonde sulla nostra vita collettiva, e ci diranno a quale prezzo è stata conquistata e mantenuta. Anche l'ora che attraversiamo, e le difficili responsabilità che affrontiamo, sono un capitolo della lotta per difendere le sempre attaccate garanzie della pace.
Indipendenza , Repubblica , pace: è molto , eppure non basta. Anche in questi giorni sentiamo dire e leggiamo che non è stata, non è la «Repubblica pura e dura» che sognavano i migliori della Resistenza. Non ovunque il senso del dovere è egualmente fermo, g li argini contro la corruttela invalicabili, l'efficienza degli apparati di Stato all'altezza della sfida di questo tempo.
L'organismo umano può lottare vittoriosamente contro le malattie: ma non è dubbio, se guardiamo a quest'ultimo giro di anni, che l'eversione terrorista e .quella dei centri di potere occulti, con le loro implicazioni interne e internazionali, fossero malattie mortali. La Repubblica, ancora una volta, ha vinto : ma la lotta per la sopravvivenza si colloca pur sempre sul terreno di una necessità assoluta e primordiale, diverso da quello dell'armoniosa edificazione di una città libera. Uno Stato in lotta contro la P2 e la P 38, secondo una formula semplificatrice, sì, ma efficace, è uno Stato che deve ancora fare appello ad una morale di combattimento.
Noi vediamo, perché lo viviamo, il dramma di questa condizio ne. Ma non scorgiamo contrasto fra questa morale di combattimento ed il grande slancio nazionale che è nec essario per porre mano alle riforme istitu zionali, e alle altre.
Al contrario, proprio coloro che, battendosi, cominciarono dopo 1'8 settembre a ricostruire il volto deturpato dell'Italia ed a restitu ire un fondamento morale alla sua indip endenza di nazione, non erano solamente, come si dice, i portatori di una speranza; essi sentivano di potere e voler portare nella risoluzione delle questioni della pace lo stesso ·spirito militante che li aveva sostenuti nella tragedia della guerra, e spinti a gettarsi senza riserve nella lotta armata. Un nuovo filone d'intransigenza doveva invadere, vivo e impetuoso, il sistema delle vecchie transigenze italiane, non diversamente da come avevano sentito gli uomini del Risorgimento.
Ebbene, non c'è dubbio che chi si volge con animo deluso verso quelle lontane speranze di una Repubblica «pura e dura» ha senza dubbio una sua ragione. Ma si deve anche subito aggiungere che se in questi anni la Repubblica è apparsa in pericolo, è anche stata più fortemente amata, se tanti uomini che la servivano (chiamati con sprezzo dall'eversione «servi dello Stato») hanno di nuovo dato per essa la vita.
Fintantoché la «pianta uomo» in Italia sarà capace di manifestazioni come queste, le vie delle nostra rinascita resteranno aperte. Lo Stato non è una morta architettura istituzionale, un simbolo di parate: esso è lo strumento di un popolo per costruire il suo futuro indipendente, finché sappia suscitare devozioni disposte a correre, quando occorra, incontro a questo estremo limite.
Come gli uomini che scelsero la via dell'onore dopo 1'8 settembre, così questa silenziosa e irremovibile opzione per la via del dovere ci fa sentire in tutta la sua forza il messaggio delle lettere dei condannati a morte della Resistenza: «lo Stato, siamo noi!». Così, attraverso le età, la pa t ria italiana rinasce nei suoi figli minori.
ROMAIN H. RAINERO
L'ITALIA E GLI ARMISTIZI
Tentare di valutare oggi, a quarant'anni dagli eventi, che cosa produssero gli armistizi del settembre 1943, non solo sul tessuto interno dell'Italia ma nel quadro delle sue relazioni internazionali, rimane uno dei compiti più difficili e meno esplorati della ricerca storica. Infatti, se appare abbastanza spiegabile e logica l'intera storia del capovolgimento del regime a partire dal 25 luglio con, in bella sequenza, una serie di fatti che confermano l'esistenza di una volontà e di una vecchia struttura politica alternativa, a parte naturalmente il problema della guerra, i quarantacinqu e giorni che seguono il ritorno dell'Italia ad un regime non-fascista non rappresentano la logica premessa organizzativa di quello che fin dalla caduta di Mussolini sembra essere l'obiettivo primo del regime di Badoglio, cioè la ricerca della pace.
Portare l'Italia fuori dalla gu erra non appare agli occhi dei dirigenti del nuovo governo italiano un'impresa facile, soprattutto perchè la loro premessa è quella di salvare l'assetto politicosociale del paese e specialmente l'istituto mon archico eroso dal ventennio fascista. Con simili esigenze appariva diffi cile «negoziare» un accordo con i rappresentanti degli alleati angloamericani che non suonasse solamente quale «resa se nza condizioni» e quindi come conclusione unilaterale della presenza dell'Italia nella seconda guerra mondiale. La grande speranza, nata un pò dovunque in Italia dopo il 25 luglio, di un recupero anche su l piano mondiale con la denuncia dell'alleanza con la Germania e con l'adesione attiva della «nuova Italia » al campo democratico, anche sul piano militare, appariva un sogno irrealizzabile, confinata com'era la posizione alleata nei riguardi dell'Italia ad una mera debellatio che l'armistizio di Cass ibil e del 3 settembr e, il cosiddetto «ar mi stiz io br eve», puntualmente confermò.
Su queste premesse e non su quelle sperate e volute da mol ti ambienti in Italia, la giornata dell'8 settembre rappresenta la conclusione tragica dell'equivoco che, ancora una volta, sottolineava il ruolo ambiguo di una monarchia, che era sì riuscita a sganciarsi dal fascismo e dal suo duce, ma non era riuscita ad organizzare la seconda fase dell'operazione politica istituzionale del salvataggio dell'Italia, coordinando con istruzioni chiare e impegnative le attese che i militari, dislocati dalla Francia ai Balcani, dall'Italia del Nord alla capitale, attendevano, cioè nell'organizzazione di quella resistenza ai tedeschi, premessa necessaria all'agognata cobelligeranza che, per diffidenza e spesso anche per ignoranza, molte autorità alleate non vollero o non seppero assecondare.
Lo stesso messaggio del maresciallo Badoglio nella sua equivoca brevità non la evoca, e, se sancisce la fine dell ostilità con le forze anglo-americane, non fa cenno ai rapporti con le for ze germaniche, se non nella sibillina affermazione di reagire «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Poco, troppo poco, per or dinar e in modo chiaro ciò che i contatti con i massimi esponenti alleati richiedevano, cioè lo sga nciamento e quindi l'attacco alle forze germaniche in tutti i settori.
Fatalmente lo sfascio e l'intero capitolo degli eroismi singoli e collettivi nella lotta contro i tedeschi non parevano trovare quella cornice politica ufficiale che avrebbero certo meritato. Le decisioni successive al messaggio di Roosevelt e Churchill a Badoglio del 1O settembre sulla lotta contro i tedeschi e il proclama di Badoglio, in fuga, di combattere contro le forze armate tedesche, non poterono certo riparare ai crolli ed alle tragedie che 1'8 settembre aveva provocato e continuava a provocare, disgiunto co m'era stato l'annuncio dell'armistizio da qual si asi coordinamento politico e strategi co a livello dei comandi militari.
In un sim ile quadro il superamento della lettera dell'armistizio nella sua prima stesura si rivelò necessario e il nuovo testo, l' «armistizio lungo » di Malta del 29 settembre, rivela un netto riorientamento anche degli alleati: se l'armistizio di Cass ibile aveva sign ifica to solo la capitolazione, quello di Malta indicava la via della redenzione e della cobelligeranza, quindi l'avvenire di un'Italia che aveva toccato il punto più triste della sua stor ia e che ne aveva soffe rto le drammatiche conseguenze, e la tragica cecità di molte de lle sue massime autorità.
Sul piano esterno, quello internazionale, un'analoga situazione si presentava con un efficiente se rvizio del Ministero degli Esteri e con uno stuolo di ambasciatori di grande levatura ancora presenti in molte sedi, ma senza direttive lasciati tutti in balia al caso ed ai rimedi occasionali.
Rimaneva l'equivoco militare, che non fu certo risolto a tavo lino, nè a Malta, nè altrove; rimaneva la tragedia di un popolo, che si ritro vava so lo di fro nte al proprio dramma e che, senza strutture, ne inventerà alcune e che, quasi senza esercito, ne formerà uno nuovo e che inserirà con orgoglio e sacrificio la propria forza nella battaglia che per l'Italia non doveva certo concludersi con quel drammatico settembre. Un settembre che, a quarant'anni di distanza, tutti ancora ricordano.
ROMAIN H. RAINERO