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Qualche spicchio di "triestinità"

((Le lanterne dal bordo catramato delle barche si sfaldano in tante lamine d'oro -che dondolano. E non c'è !una, ma sopra i pinastri di M ira mare un piccolo brivido di conchiglia, e !a città pare l'ostrica polposa nella conca di madreperla serrata tra i due tendini bianchi."

versi di Giacomo Comandin i sembrano esprimere, più compiutamente di altri, quella b e ll ezza soffusamente malinconica che connotava la Trieste fra gli ultimi decenni dell800 ed i primi dcll900. Bell a, romantica c pragmatica ins ieme, quella Trieste, ch'era ricca e modesta, molta sostanza e poca parvenza. I suoi magazzini scminascosti straboccavano di merci, le gru idrauliche del vecchio "Punto Franco " non avevano braccia sufficienti per scaricare dai piroscafi nei vagoni c negli hangars sacchi, balle e cassette; nei disadorni locali del Tergesteo si contrattavano affari con i mercanti di ogni parte del mondo; i cantieri impostavano silenziosamente navi che dovevano destare l'ammirazione di tutti i paesi navigatori, i capitani di lungo corso si preparavano a sostenere difficili gare ed a vincere ambiti premi sugli oceani; le società assicuratrici tesse vano alacri una fitta rete di interessi in tutta Europa e l ' Oriente; il teatro lirico allestiva senza grancassa spettacoli degni dei maggiori centri europei, la culru ra si affinava negli studi tappezzati di vo lumi di alcuni intell ettuali schivi e solitari; un pittore come Bolaffio dipin geva sconosciuto in una soffitta, un poeta come Saba stava molte ore del giorno dietro il banco della sua piccola libreria antiquaria , un romanz iere come Svevo curava la sua azienda industriale di colori so ttomarini.

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Era la Trieste del Ginnasio Comunale D ante Alighieri, il vivaio della classe intellettuale dirigent e del la città, nato nel 1863 e che avrebbe sempre rappresentato una pietra miliare nella sua struttura culturale.

Ed e ra la Trieste delle sue donne, con quella loro bellezza sciolta che senza essere morbida e ra calda, e sobria senza esse re arida, quegli occhi marini in carnagione rosea o quella cera bruciata sorto lo sguardo umido, impersonificata al meglio nella Lina Ji Trieste e una donna del Canzoniere di a ba, nell'Angiolina di Senilità, nell' Augusta e nella Carla della Coscienza di Zeno, nell'Edda Marty di Un anno di scuola

Donne di un temperamento particolare, non infia cchito né dal confessionale né dai timori trascendenti, che l'a ccostava piuttosto alla materia li tà, una materialità sana e vibrante. La "sartorel a" e l a "sessolota" rappresentavano un tempo due figure sola ri della vita triestina: univano i quartieri plebei a quelli borghesi, il porto al sobborgo, l'artigiano all'artista ed i l ricco commerciante al facchino. La loro stagione fiorente era il carnevale, con le mascherette dei grandi balli popolareschi, dei cosiddetti "cassoni"; perché il to- no della vita triestina era dato in gran parte dalla mancanza di vere barriere fra popolo e borghesi.

E poi c'erano l e g ite domenicali sul Carso, a quell 'epoca ancora terra natural e, poco o quasi p er nulla modificata dalla mano d e ll ' uomo. Qualch e ca mpo di patate nelle sue doline, qualch e frutteto e qualche v igna intorno ai suoi rari villaggi, qualche chiesa in cima ai poggi più dolci; per il resto era selvagg io, lande di pi etra con ciuffi di ginepro, monti rivestiti di pinete, d'intricati faggeti, di piccole querce contorte. Valli silenziose e deserte, le stagioni decise, il clima rigido, la flora molto simile a quell a d e ll 'a lta montagna.

La gita su l Carso di domenica era per molte famigli e triestine un'abitudine. Tre quarti d'ora di como da salita e si era su. Poi istituirono il "t ram di Opicina ", e in venti minuti si poteva ra ggiungere l'altopiano. Ma tutte le strade che portavano ai vali chi, que lla di Contovello, quella di Tri estenico, la cala Santa, la strada di Banne , quella della Vede tta Alice, quella di Monte Spacc ato, di Basovizza erano battute la domenica da allegre comitive tra le quali non era raro vedere qualche padre col figlioletto a cavalcioni su ll e sp alle. E' pur vero ch e la maggior parte di queste comitive, raggiunto il ciglio s'avviava a poco lontane mete gastronom iche , le famose osterie campagnol e

Oppure si andava, più semp li cemente, a passeggiare a San Giusto Narr a la leggenda che Giu sto fosse un triestino autentico. un giovanottone ancora così giovane che le donne del popolo, quando guardavano l a sua immagine in Du omo dipinta da Be n e d et t o Carpaccio, dicevano fra loro ({Eljera un bel mulo" . Il giovane soffrì il martirio che m eg li o accendeva la fantasia dci triestini: fu annegato in mare. Ferito , mazzolato, sanguinante, più lo buttavano in acqua c più Giusto veniva a ga ll a . Così i crudeli so ld ati romani do veuero legargli molte pietre al collo, e finalmenre con molti macigni del Carso addosso il pe rsonagg io sco mparve nelle acque. n giorno dopo la sa lma di Giusto , con tutt e le pietre intorn o al collo, si trovò a ga ll eggiare lungo una dell e rive della città, la riva di Grùmula. Così San G iu sto entrò nel martirologio portandovi come ins egna nobiliare i s uoi sassi.

Sare bb ero dovuto essere autentici macigni del Carso, maxegni, taglienti e aguzze pietracce di calcare tagliate alla diavola , così come vengono g iù a un colpo di mart e llo , sb il enche , lun g he e strette come lame. Ma purtroppo l 'a raldica sfugge alle leggi della verità. Il realismo dei grèbani del Carso, di quelle autentiche scaglie g rev i e storte di un bel co lo re argenteo che ferirono con i loro spigoli l e spa lle e il volto di Giusto, trovò impermeabile la mente dei disegnatori di stemmi, ed il suo sasso (ridotta la corona di pietre ad una sola) fu stilizzato nella forma di un grosso ovoide, ornato di scannellature regolari, che lo faceva assomigliare indiscutibilmente ad un melone . Ed ecco là, in mezzo al piazzale di San Giusto, la colonna di pietra bianca dell ' Istria e r alabarda Ji ferro diventato nero nella pioggia e nel vento; ed in cima alla colonna , a reggere l'alabarda protervamente confitta a sfidare il mondo, c'è sempre lui , il melone , il sasso di San Giusto . I triestini più anziani, f orse, ricordano ancora un ritorne ll o che diceva cos]:

A Roma i g'ha San Pietro, a Ven ezia i g'ha elleon,per noi ghe xe San Giusto col vecio suo melon.

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