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L’Italia e l’Europa centro-orientale nel contesto internazionale e il problema delle nazionalità (1917-1918
Rita Tolomeo L’Italia e l’Europa centro-orientale nel contesto internazionale e il problema delle nazionalità (1917-1918)
Allo scoppio della prima guerra mondiale era previsione dif fusa negli ambienti politici e diplomatici che il conlitto, qualunque fosse stato il suo esito, avrebbe avuto importanti ripercussioni sull’assetto europeo e balcanico. Da parte dei governi dell’Intesa, comunque, non vi era alcun impegno per il disfacimento dell’Austria-Ungheria, ma anzi erano stati compiuti svariati tentativi per staccarla dalla Germania con la promessa di futuri vantaggi. Una mentalità austroila d’altronde sopravviveva per secolare tradizione in diversi ambienti francesi e inglesi e perino negli Stati Uniti ancora neutrali, dove la duplice monarchia raccoglieva simpatie per una sorta di analogia che veniva ravvisata tra l’insieme delle realtà riunite sotto lo scettro degli Asburgo e la federazione nordamericana. Se per Francia e Inghilterra il nemico era la Germania, per l’Italia l’avversario era la duplice monarchia. Tra Roma e Vienna esistevano diversi motivi di attrito, che pur nella cornice della Triplice Alleanza, avevano reso dificile la collaborazione diplomatica: il controllo dell’Adriatico, la gara per af fermare ciascuna la propria inluenza nell’Albania ancora ottomana, la questione dei territori sotto il dominio degli Asburgo abitati da genti di etnia e lingua italiane che aspiravano ad unirsi al Regno. Così quando nell’aprile del 1915, rompendo gli indugi, l’Italia sottoscrisse il Patto di Londra, le richieste avanzate da Roma rispondevano a precise esigenze di completamento dello Stato, di ricerca di un conine naturale e strategico, di riunione con le comunità di lingua italiana d’oltre conine. Il completamento dello Stato unitario veniva quindi presentato come rispondente al principio di nazionalità, quella degli italiani sudditi austriaci. Nei mesi della neutralità, la situazione dell’Italia si presentava complessa. «Esclusa per l’assoluta renitenza del Paese ogni possibilità di collaborazione con gli Imperi Centrali»1, rimanevano solo due alternative: la neutralità o l’intervento a ianco dell’Intesa, ipotesi quest’ultima subordinata all’impegno da parte di Francia, Inghilterra e Russia che avrebbero «seriamente garantito la realizzazione, nella massima misura possibile, delle aspirazioni nazionali [del Regno] verso il Trentino e verso l’Istria»2. Neutralisti o interventisti che fossero, tutti comunque in quei mesi erano d’accordo sul fatto che il conlitto dovesse essere l’occasione tanto attesa per ottenere le terre italiane ancora sotto l’Austria-Ungheria, ma se i primi speravano di poter giocare la carta dei compensi in caso di ingrandimenti territoriali dell’Austria, quelli che spingevano per l’entrata in guerra afidavano alle armi il compimento dell’unità. Non tutti gli interventisti, tuttavia, auspicavano la dissoluzione della monarchia danubiana. Non ne erano fautori i “moderati” che af fondavano le loro radici nel pensiero di quanti nell’Ottocento con i loro scritti avevano sostenuto l’estromissione dell’Austria dai territori italiani ancora in suo possesso, senza tuttavia mettere in discussione la sopravvivenza dell’État du centre di cui si sottolineava l’importante funzione storica quale baluardo contro l’espansione panslava sotto l’egida russa. Era questa un’opinione dif fusa tra molti uomini politici tra cui il ministro degli Esteri Sonnino, irmatario del Patto di Londra, convinto assertore della necessità di completare il processo di uniicazione dell’Italia garantendole la
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1 Memoriale del 30 settembre 1914 del presidente del consiglio Antonio Salandra al re Vittorio Emanuele III citato da Augusto Torre , Il primo conlitto mondiale (1914-1918). La neutralità e l’intervento, la guerra e la vittoria, in Augusto Torre, Rodolfo Mosca, Ruggero Moscati, Renato Grispo, Renato Mori, Mario Toscano.
Gianluca André, Pietro Pastorelli, La Politica estera italiana dal 1914 al 1943, ERI, Torino, 1963, p. 9. 2 Ibidem, p. 27
sicurezza strategica a nord come in Adriatico. Preoccupato per la possibile formazione di un Regno jugoslavo a est che potesse esercitare la sua pressione sul conine orientale e sul mare, Sonnino per tutto il conlitto sarebbe rimasto sordo alle aspirazioni nazionali delle diverse componenti slave della duplice monarchia. Dall’altro lato vi erano coloro che agivano nella prospettiva di un inevitabile cambiamento nella sistemazione dell’Europa centro-orientale e balcanica. Due gli schieramenti: i nazionalisti che, in quanto fautori di un futuro “imperialismo” politico ed economico dell’Italia a est, erano animati da sentimenti ostili ai vicini slavi; e i democratici che, legati alle idealità mazziniane e alla tradizione risorgimentale che a quelle faceva riferimento, ritenevano al contrario che non vi potessero essere alternative alla collaborazione italo-slava se si voleva af fermare la grandezza del Regno in ambito internazionale3. «In Italia – scrive Stefano Santoro – i circoli mazziniani guardarono con interesse ai polacchi, ai cechi, agli slavi del Sud, ai magiari, ai rumeni, dando nuovi contenuti politici al vecchio paradigma della ‘latinità’: i popoli dell’Est avrebbero dovuto spezzare i vincoli delle catene degli Imperi, lottando per la libertà sotto l’ispirazione e la guida dei patrioti italiani»4 . All’interno della duplice monarchia lo scoppio del conlitto trovava la maggior parte dei sudditi su posizioni lealiste. Limitati gruppi appartenenti alle élites nazionali formulavano richieste di autonomia o sollecitavano riforme dell’Impero asburgico che avevano radici in progetti di integrazione politica e culturale tra le diverse comunità etniche dell’Europa danubiana e balcanica di matrice risorgimentale. A partire però dal 1916 si può dire che l’idea di un distacco da Vienna avesse ormai preso piede. Alla ine di giugno di quell’anno le aspirazioni a dar vita a Stati nazionali da parte di cechi, slovacchi, polacchi, slavi meridionali emersero decise alle III Conferenza delle Nazionalità tenutasi a Losanna, espressione evidente della volontà di inliggere un colpo mortale alla vecchia signora e ridisegnare la carta europea dal Baltico all’Egeo. Fiduciosi nella vittoria dell’Intesa, gli esponenti più in vista dei diversi movimenti nazionali avevano scelto la via dell’esilio per sollecitare i governi occidentali ad occuparsi dei problemi dei popoli “oppressi” e dar loro un futuro di libertà e indipendenza. Spostandosi tra Londra, Parigi, Roma e gli Stati Uniti, essi fondarono diversi comitati che da centri di propaganda si sarebbero trasformati nel corso del conlitto in governi in esilio capaci di agire con sempre maggiore autorità sui governi dell’Intesa e sulle formazioni militari del campo avverso. Nell’aprile del 1915 era nato a Parigi un Comitato jugoslavo (la cui sede era poi stata issata a Londra) presieduto dal croato Ante Trumbić favorevole alla nascita di uno Stato slavo meridionale su basi federalistiche progetto condiviso anche da parecchi dirigenti politici sloveni che operavano all’estero5. Le idealità di questi croati e sloveni af fondavano le loro radici nel pensiero e nell’azione di colui che nel corso dell’Ottocento era stato uno dei più convinti fautori dello jugoslavismo: il vescovo di Djakovo, in Slavonia, Josip Juraj Strossmayer6. Presso i serbi, che in dalla costituzione del principato autonomo nel 1830 avevano orientato la loro politica verso i territori del vicino dell’Impero ottomano, l’idea di un compromesso con le altre componenti slave del mondo danubiano balcanico era piuttosto recente. Scoppiato il conlitto, la posizione espressa dal capo del governo in esilio Nikola Pašić era sì quella della creazione di uno Stato slavomeridionale, di tipo centralistico, risultato dell’allargamento del Regno dei Karadjordjević a tutti i territori abitati dai serbi con l’inclusione di croati e sloveni già
3 Francesco Leoncini, Un fugace ritorno delle idealità mazziniane: “Il Congresso delle Nazionalità oppresse dall’Impero austro-ungarico” (Roma, aprile 1918) e la nascita della legione cecoslovacca, in Il Patto di Roma e la Legione Ceco-Slovacca. Tra Grande Guerra e Nuova Europa, a cura di Francesco Leoncini, Kellermann,
Vittorio Veneto (Treviso) 2014, p. 25. 4 Stefano Santoro, L’Italia e l’Europa orientale: diplomazia culturale e propaganda 1918-1943, FrancoAngeli,
Milano 2005, p. 28. 5 Allo scoppio del conlitto mondiale il movimento nazionale sloveno si divise tra clericali conservatori, sostenitori di Vienna e della dichiarazione di guerra alla Serbia, e nazional-liberali che, pur condannando l’attentato, riiutavano lo scontro bellico e accusavano i clericali di aver rinnegato l’idea di unità degli slavi meridionali. Joachim Hösler, Slovenia, Beit, Trieste 2008, p. 150. 6 Egidio Ivetic, Jugoslavia sognata. Lo Jugoslavismo delle origini, FrancoAngeli, Milano 2012, pp. 115-131.
facenti parte della duplice monarchia. All’interno dei sostenitori dello jugoslavismo esistevano quindi inalità diverse e posizioni contrastanti riguardo al sistema di governo del futuro Stato comune che portarono il governo serbo e il Comitato Jugoslavo ad operare a lungo separatamente. La caduta dello zarismo, tradizionale sostenitore di Belgrado, e le voci insistenti di una possibile pace separata dell’Austria-Ungheria inirono però col persuadere serbi e croati dell’opportunità di superare le diversità di vedute rivolgendo gli sforzi verso la costituzione di uno Stato indipendente slavo meridionale con la irma del patto di Corfù del luglio 1917. Quanto agli ambienti uficiali dell’Intesa in Inghilterra come in Francia, questi inizialmente sembravano non attribuire grande interesse all’impatto che il principio di nazionalità avrebbe potuto avere sull’andamento della guerra e sulla futura sistemazione di pace nel continente. Un’importante funzione di orientamento a favore delle nazionalità fu svolta dagli ambienti culturali. In Inghilterra, ad esempio, fu soprattutto lo storico Robert Seton-Watson, che nella sua veste di corrispondente del «Times» da Vienna aveva avuto modo di approfondire lo studio dei problemi nazionali della monarchia, a tessere i contatti tra gli ambienti della politica britannica e gli esponenti dei movimenti nazionali dell’Europa centro-orientale che operavano a Londra. Seton-Watson, insieme al giornalista Henry Wickham Steed e ad altri sostenitori della causa delle nazionalità dell’est Europa, diede vita alla Serbian Society of Great Britain per orientare la politica inglese e lavorare per un «accordo amichevole fra slavi del Sud, l’Italia e la Romania»7. Il governo Sonnino, tuttavia, restava fermo sulle sue posizioni nella convinzione che un’adesione da parte italiana a progetti di dissoluzione dell’Impero asburgico, estranei ai programmi del governo all’inizio del conlitto, avrebbe potuto essere vista come un’implicita approvazione della formazione di un futuro Stato slavo meridionale e dato maggior peso politico ai contendenti dell’Italia sull’Adriatico rendendo più dificile il trionfo delle rivendicazioni italiane8 . Mentre tali preoccupazioni condizionavano l’adesione dei circoli uficiali del Regno alla politica di liberazione delle nazionalità “oppresse” dall’Austria-Ungheria, alcuni esponenti dell’interventismo di sinistra ancora inluenti sulla politica italiana da Leonida Bissolati a Gaetano Salvemini, da Luigi Albertini a Ugo Ojetti ad Andrea Torre si adoperavano per dare una soluzione alla questione adriatica in accordo con gli jugoslavi. Bisognava sensibilizzare l’opinione pubblica e il governo sulla questione sostenendo che, di fronte a un processo ormai avviato di dissoluzione del vicino Impero sovranazionale, l’Italia avrebbe ottenuto risultati maggiori se si fosse messa a capo dei movimenti di liberazione nazionale conquistando le simpatie e la riconoscenza delle giovani nazioni. Se gli uomini politici non avessero scelto di volgere quella che era ormai una sicura modiica dell’equilibrio europeo a proprio vantaggio, intraprendendo una politica diversa, sarebbero certamente andati incontro all’isolamento internazionale e alla perdita di prestigio. «E proprio per tali motivi– scrive lo storico Angelo Tamborra - questi italiani sono i più sensibili di fronte al problema della ricerca di un limite che sia il più aderente possibile alla situazione nazionale adriatica»9. Molti di questi politici e giornalisti ebbero contatti con un importante igura del gruppo dei fondatori del Comitato jugoslavo il dalmata Frano Supilo che nel corso del conlitto aveva raggiunto l’Italia per caldeggiare un’intesa tra italiani e jugoslavi che portasse alla deinizione del conine comune su base etnica, riuscendo a conquistando simpatie e consensi10 .
7 Santoro, L’Italia e l’Europa orientale, p. 3. 8 In realtà il patto di Londra non ignorava l’ipotesi dello smembramento dell’Austria-Ungheria basta leggere le clausole che ad esempio prevedevano il litorale diviso in tre Croazia, Italia Serbia. Pietro Pastorelli. Dalla prima alla seconda guerra mondiale. Momenti e problemi della politica estera italiana, Led, Milano 1997, p. 209-210. 9 Angelo Tamborra, L’idea di nazionalità e la guerra 1914-1918, 1973, in «Atti del XLI Congresso di Storia del
Risorgimento italiano» (Trento 9-13 ottobre 1963), Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma 1965, p. 255. 10 Risale a questi anni la sua amicizia con Guglielmo Ferrero, studioso già di notorietà internazionale ed esponente dell’interventismo “democratico”, e la moglie di questi Gina Lombroso con i quali mantenne un interessante scambio epistolare. Leoncini, Un fugace ritorno delle idealità mazziniane, p. 29.
La possibile disgregazione della duplice monarchia non riguardava certo solo i suoi territori meridionali: la guerra aveva subito assunto i caratteri di un conlitto di tipo risorgimentale dando voce alle aspirazioni all’emancipazione di tutte le nazionalità “oppresse”. Al momento dello scoppio del conlitto anche i cechi e gli slovacchi si erano posti il problema del loro avvenire e se la maggioranza era orientata per la conservazione della duplice monarchia seppure riorganizzata su basi federalistiche per dare spazio a tutte le componenti nazionali, alcuni intellettuali e politici si orientavano per la nascita di uno Stato ceco-slovacco indipendente, certi della vittoria dell’Intesa. La dichiarazione di guerra alla Serbia li aveva deinitivamente convinti che il destino della nazione ceca dovesse essere disgiunto da quello degli Asburgo i quali riiutando la scelta trialistica a favore del dualismo avevano af fermato il predominio dell’elemento tedesco e magiaro su quello slavo. Tra questi intellettuali, la cui azione si svolse nelle ile dell’emigrazione, vi era Tomáš Garrigue Masaryk già professore e deputato al Reichsrat. Questi fu il principale propagatore della reciprocità cecoslovacca, deinito da Gaetano Salvemini «il Mazzini dei Czechi» per i parallelismi che il direttore de «L’Unità» coglieva tra le due igure nell’attenzione che riservavano ai «cosiddetti ‘risvegliatori’ della coscienza nazionale slava»11. Accanto a lui avrebbero operato un altro ceco Edvard Beneš, considerato il suo migliore allievo, abile nel costruire la rete di contatti con quanti rimasti nei territori cechi e slovacchi operavano rischiando l’accusa e la condanna a morte per tradimento, e lo slovacco Milan Rastislav Štefánik, un astronomo, che trasferitosi in Francia ne aveva assunto la cittadinanza nel 191212. Questi, arruolatosi volontario nell’aviazione francese allo scoppio della guerra, svolse numerose e importanti missioni che gli valsero il grado di generale. Dalla loro collaborazione nacque nel 1916 a Parigi il Conseil National des Pays Tchèques (poi trasferito a Londra e trasformato prima della ine del conlitto in governo provvisorio13), nel quale Masaryk rivestì la carica di presidente, Štefánik di vicepresidente e Beneš di segretario. Nell’autunno del 1917 fu proprio quest’ultimo a creare un Comitato di coordinamento dei diversi gruppi nazionali attivi nell’emigrazione per dar vita a una grande manifestazione in cui potessero avere voce le loro rivendicazioni. Proprio in quegli stessi mesi la disfatta subita a Caporetto impresse una svolta alla politica italiana che rideinì il proprio atteggiamento verso gli slavi della monarchia, riscoprendo quella politica delle nazionalità che aveva caratterizzato il Regno all’indomani della sua nascita e l’importanza della propaganda nei confronti dei popoli dell’est europeo. Se, come già detto, la ine dell’Impero asburgico non era rientrata negli scopi iniziali dell’Intesa, i fermenti nazionali vennero via via considerati una valida arma per mettere in dificoltà il nemico. Non sfuggiva l’importanza di far leva sui sentimenti di nazionalità presso i prigionieri di guerra per costituire unità militari nazionali in collegamento con gli organismi politici delle diverse nazionalità cechi, romeni, polacchi, serbi (poi jugoslavi) e sul fronte austro-russo anche italiani delle cosiddette terre irredente. Un’opera sottile di disintegrazione dell’esercito austro-ungarico sarebbe stata così messa in atto in Russia, dove non si valutò appieno come la virulenza dei fermenti nazionali avrebbero potuto essere letali anche per l’Impero zarista, in Francia sul cui fronte combatterono unità regolari polacche, con bandiera propria e rispondenti al Comitato nazionale polacco con sede a Parigi, e un corpo autonomo ceco militarmente alle dipendenze del Comando supremo francese, ma con bandiera propria e dal punto di vista politico sotto la direzione del Consiglio nazionale di Parigi. Negli Stati Uniti entrati
11 Pasquale Fornaro, Tomáš G. Masaryk interprete di Mazzini: alcuni parallelismi intorno ai concetti di “nazione”,
“democrazia”, umanità”, in Id., L’“altra” Europa. Temi e problemi di Storia dell’Europa orientale, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2008, pp. 87-99. 12 Su Štefánik si veda il recente Francesco Caccamo, L’ultima missione di Milan Rastislav Štefánik alla luce delle nuove fonti, in Per Rita Tolomeo, scritti di amici sulla Dalmazia e l’Europa orientale, a cura di Ester Capuzzo,
Bruno Crevato-Selvaggi, Francesco Guida, La Musa Talia editrice, Venezia 2014, pp. 208-228. 13 All’interno del Consiglio non tutti approvarono tale decisione. Tra questi l’ormai generale Štefánik. F.
Caccamo, L’ultima missione di Milan Rastislav Štefánik alla luce delle nuove fonti, in Per Rita Tolomeo scritti di amici sulla Dalmazia e l’Europa centro-orientale, a cura di E. Capuzzo, B. Crevato-Selvaggi, F. Guida, la
Musa Talìa editrice, Venezia 2014, p. 208.
in guerra nel 1917, solo nel luglio del 1918 fu prevista la formazione di una non meglio deinita «Legione slava». In Italia l’utilizzo dello strumento della propaganda nazionale per minare le forze avversarie era ben visto dal Comando supremo indipendentemente da qualsiasi disegno o pressione degli ambienti politici. Data la posizione del fronte italiano era evidente l’impatto che la propaganda nei confronti delle nazionalità dell’Europa centro-orientale avrebbe potuto avere per le sorti del conlitto. I prigionieri divisi per nazionalità e distribuiti in campo diversi sul territorio della penisola, venivano posti in contatto con i rispettivi organismi nazionali così da creare legioni nazionali. Se nessuna dificoltà sorse per la formazioni di legioni ceche, polacche e romene, più complessa fu la costituzione di unità jugoslave per i già ricordati rilessi che la loro creazione avrebbe avuto sulla questione adriatica sia per i non facili rapporti tra elementi serbi e croati. Sul piano politico l’azione di propaganda da parte italiana aveva ino a quel momento avuto lo scopo di convincere l’opinione pubblica, soprattutto dei paesi alleati, della validità delle aspirazioni del Regno e guadagnare simpatie e appoggi alla causa italiana. Un primo importante apporto a una azione diretta a est venne dagli ambienti irridentisti liberal-nazionali che ruotavano intorno alla igura del iumano Enrico Scodnik, uno dei fondatori del Comitato italiano per l’indipendenza czeco-slovacca, e membro del consiglio centrale della “Dante Alighieri”. La propaganda afidata inizialmente alla Società, fu poi trasferita con il governo Boselli all’Uficio di propaganda di guerra all’estero costituito nel 1916 e posto sotto la direzione del ministro senza portafogli Vittorio Scialoja. Dopo il disastro di Caporetto il nuovo presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando preferì istituire il Sottosegretariato per la Propaganda all’estero afidandolo a Romeo Adriano Gallenga Stuart che aveva già al suo attivo numerosi viaggi all’estero per conto dell’Uficio di propaganda di guerra. Fu a Londra dove, grazie ai suoi legami familiari, riuscì a incontrare politici e industriali inglesi ottenendo il loro sostegno agli obiettivi italiani. Nel corso della missione ebbe modo di stabilire diversi contatti anche con i principali esponenti dell’emigrazione polacca, ceca, romena e con il Comitato jugoslavo, le cui ragioni trovavano benevola accoglienza negli ambienti inglesi. Gallenga si era così convinto che la “questione adriatica” avrebbero potuto essere risolta in nome dell’unità e dell’indipendenza nazionali solo trovando un accordo tra le aspirazioni italiane e quelle jugoslave che avrebbe consentito di sconiggere quanti si opponevano allo smembramento della duplice monarchia. Convinto che «insistendo con tatto, il movimento jugoslavo [avrebbe inito] per rassegnarsi alle pretese italiane sulla Dalmazia»14, si era così posto su posizioni vicine a quelle di altri uomini politici sensibili alla questione delle nazionalità15 . Tra quanti facevano appello alle solidarietà create dalla lotta nazionale e of frivano appoggio a tutti i movimenti di rinascita nazionale vi erano gli eredi degli ideali mazziniani e democratici come Leonida Bissolati, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, Andrea Torre. É proprio in questi ambienti che prese corpo un’importante iniziativa: il Congresso delle Nazionalità oppresse dall’Austria-Ungheria che si tenne a Roma dall’8 al 10 aprile 1918 in Campidoglio che rappresentò secondo alcuni storici il momento più importante«il punto più alto della politica italiana di appoggio alle nazionalità dell’impero asburgico»16. Il Comitato per l’accordo tra le Nazionalità oppresse dall’Austria-Ungheria promotore della manifestazione si fece carico di raccogliere l’adesione dei rappresentanti delle diverse componenti nazionali facenti parte dell’Impero asburgico al ine di sostenere una vigorosa politica delle nazionalità che potesse costituire un impegno morale per il futuro. Numerosi gli uomini politici che parteciparono ai lavori tra loro il ceco Edvard Beneš, lo slovacco Milan Rastislav Štefánik, il croato Ante Trumbić, i polacchi Konstanty Skirmunt, Maciej Loret, Jan Zamorski, i
14 Roma, Archivio Centrale dello Stato, Carte Orlando, b. 5, f. 236, Romeo Gallenga Stuart. a Vittorio Emanuele
Orlando, 13 agosto 1917. 15 Santoro, L’Italia e l’Europa orientale, p. 34. 16 Ibidem, p. 35
rumeni Minai Sturdza e Simion Mandreşcu17. Il Congresso si chiuse il 10 aprile dopo aver raggiunto alcuni punti di intesa per un’azione comune: la duplice monarchia era indicata come l’«ostacolo fondamentale» alla realizzazione delle aspirazioni dei popoli a lei soggetti; veniva af fermato il diritto delle diverse nazionalità «a costituire la propria nazionalità ed unità statale e a completarla ed a raggiungere la piena indipendenza politica ed economica»; e pertanto veniva riconosciuta «la necessità della lotta comune contro i comuni oppressori» per raggiungere «la totale liberazione e la completa unità nazionale». Al momento veniva lasciata da parte qualsiasi controversia territoriale; anzi veniva chiesto ai governi dell’Intesa di evitare qualsiasi azione politica che potesse contribuire ad accrescere le rivalità nazionali e di proclamare che la liberazione delle nazionalità oppresse rientrava negli scopi di guerra dell’Intesa. Si chiedeva inine di accordare alle unità formate dagli ex prigionieri di guerra e volontari delle diverse nazionalità lo status di soldati alleati. Il Congresso di Roma segnò di fatto la dissoluzione della duplice monarchia ancor prima della sua deinitiva sconitta. Per gli Alleati e in particolare per l’Italia rappresentò un ulteriore strumento per esercitare pressione sulle nazionalità asburgiche e piegare inalmente l’Austria-Ungheria contro la quale la sola forza militare non riusciva ad ottenere l’agognata vittoria. Si era trattato di una iniziativa in linea con l’azione politica avviata a metà dell’Ottocento che aveva collegato lo sforzo risorgimentale italiano ai movimenti centro-europei e balcanici. Cospirazioni insurrezionali, azioni diplomatiche e militari in stretta connessione con la politica uficiale del Regno, sapientemente diretta da Cavour, o con le gesta di Garibaldi e dei suoi garibaldini nelle varie rivoluzioni nazionali dai Baltici all’Egeo, o con il messaggio mazziniano rimasto vivo ino alla prima guerra mondiale. Il Congresso aveva visto af fermarsi la linea di quanti in Italia erano sostenitori della politica delle nazionalità ed auspicavano una sempre più stretta collaborazione in funzione anti-asburgica con i popoli dell’Impero. Con la conclusione delle ostilità il problema investì direttamente il governo al cui interno il ministro per gli approvvigionamenti militari Bissolati si schierava per l’abbandono di quegli aspetti del patto di Londra in contraddizione con il principio di nazionalità. Prevalse la linea del ministro degli Esteri Sonnino contrario a preventive rinunce e favorevole al mantenimento del Patto come base contrattuale per i negoziati di pace. L’Italia avrebbe così inito per assumere una posizione eccentrica all’interno della coalizione vincitrice che le avrebbe alienato molte di quelle simpatie che il suo processo risorgimentale aveva suscitato nei popoli dell’Europa centro-orientale ormai divenuti indipendenti. I vari movimenti nazionali af facciatisi nel corso dell’Ottocento avrebbero così trovato una prima risposta, non sempre soddisfacente, alle loro aspettative alla ine del conlitto nella conferenza di pace, per poi riproporsi nella seconda guerra mondiale e ancora dopo nella dificile ricerca di una soluzione del problema dei limiti tra una nazione e l’altra. Come scrive ancora lo storico Angelo Tamborra «Sarà proprio esso [cioè il problema dei limiti territoriali], nelle sue origini risorgimentali e nella sua esplosione durante la guerra, a determinare una situazione di crisi endemica nella convivenza europea e mediterranea, sino ai giorni nostri»18 .
17 Francesco Guida, Lo Stato nazionale rumeno e l’Italia. Opinione pubblica e iniziative diplomatiche, «Rassegna
Storica del Risorgimento», a., 1983, pp. 425-462. 18 Tamborra, L’idea di nazionalità e la guerra, p. 255.