BILLY BARON

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Era il soprannome del grande Jerry West. Ma in questa stagione Billy Baron ha segnato abbastanza canestri decisivi da meritarsi l’appellativo. Analizziamo i più importanti e memorabili
Mister Clutch era il soprannome di Jerry West, il grande fuoriclasse dei Lakers degli anni ’60 e ’70. Aveva la fama di emergere nei momenti decisivi di una partita. Qualche volta segnare quando conta è una questione di fortuna, di casualità, spesso per non dire sempre si tratta di far emergere nel momento decisivo una qualità già riconosciuta, quella di tiratore o realizzatore. Billy Baron ha fatto questo in tante partite dell’Olimpia in questa stagione. Se c’è un Mister Clutch in squadra non può che essere Billy Baron, il tiratore scelto, l’uomo da cui andare
quando serve davvero. In una sequenza di quattro gare di EuroLeague ha segnato 18, 19, 23 e 24 punti, 21.0 punti di media con 18 triple complessive. Nelle sei gare vinte dall’Olimpia ha 17.2 punti di media, incluso il season-high di 24 contro Valencia in cui ha prodotto anche un gioco da quattro punti.
1:36 dalla fine, ASVEL avanti di un punto, 62-61, rimessa laterale per l’Olimpia. Devon Hall passa la palla a Baron praticamente ad un vertice della metà cam-
po, senza pressione. Lo marca Yves Pons, giocatore atletico e alto quasi due metri. Evidente l’intenzione di oscurare la vista al giocatore di Milano. Solo che Pons commette un errore, quello di aspettare Baron un passo oltre la linea dei tre punti e addirittura di indietreggiare mentre lui, in palleggio, riduce le distanze. Quando Pons mette i piedi dentro l’arco, Baron ha lo spazio per caricare il suo tiro in sospensione dal palleggio. Non servono palleggi incrociati o cambi di direzione. Baron deve solo affidarsi alla sua precisione. Canestro e Olimpia avanti di due. Il sorpasso è definitivo.
1:26 dalla fine del terzo, Partizan avanti di un punto, 59-58, pos-
sesso Olimpia. La squadra gioca larga con quattro uomini sul perimetro e Brandon Davies in post basso, marcato da un’ala, Danilo Andjusic. Kevin Pangos vuole il passaggio interno. La difesa non è accoppiata bene. James Nunnally è sotto il canestro a coprire Shavon Shields nell’angolo opposto. Con Dante Exum a marcare Pangos, il centro Matthias Lessort si trova scomodamente “alto” a controllare a distanza Baron. Quando la palla va a Davies, Nicolò Melli esegue un taglio verticale portandosi dietro Zach LeDay. L’ errore di comunicazione del Partizan è chiaro: Nunnally abbandona l’area per raddoppiare Davies, LeDay correttamente resta con Melli, ma anche Lessort va a riempire l’area, così Billy resta tutto solo in punta. Davies lo vede e scarica il passaggio. Lessort tenta un disperato tentativo di sporcare il tiro, ma è in ritardo e gli porta via un braccio quando la palla è già partita. Classi-
co gioco da 4 punti. A differenza degli altri canestri questo non si verifica nel quarto periodo o nel finale di gara, ma è una sorta di “momentum changing”, ribaltamento dell’inerzia.
Caso 3: Monaco di Baviera
00:23 dalla fine, Bayern avanti di due, 81-79, possesso Olimpia. Kevin Pangos si muove in palleggio verso Billy Baron. Nicolò Melli si muove anche lui verso Baron per portargli un blocco, ma un attimo prima, inverte la direzione e si butta verso il canestro, classico movimento chiamato “slip”. È il movimento che inganna la difesa. Il suo difensore Zipser lo segue, mentre il difensore di Baron, Andreas Obst, ha un attimo di indecisione: seguire Melli o seguire Baron? Baron fugge verso l’angolo dove riceve il passaggio di Pangos. Obst arriva tardi, Baron carica la sua sospensione per il sorpasso Olimpia che diventerà anche quello definitivo.
avanti di due, 66-64 e possesso palla. La Stella Rossa non è accoppiata bene. Su di lui, incaricato di portare palla, c’è il centro Filip Petrusev, mentre Brandon Davies, spalle a canestro, è marcato dalla guardia Branko Lazic. Quest’ultimo difende di anticipo. Devon Hall, che nel frattempo ha ricevuto palla esternamente, non vede il passaggio e serve Melli. Dall’angolo il capitano si è mosso in lunetta inseguito da Lazarevic. Petrusev volta le spalle a Baron, così quando Melli riceve palla in lunetta, Billy è già “scappato” dal difensore. Un breve taglio che permette a Melli di passargli la palla in sicurezza mentre Lazarevic è troppo distante per prevenire il tiro. Olimpia a più cinque. È il tiro del “Keep Calm” che indispettisce l’arena.
Caso 5: Mediolanum Forum
Caso 4: Belgrado, Asa Nikolic Hall
01:04 alla fine, Olimpia ancora
02:03 da giocare, Monaco avanti 70-67, possesso Olimpia. Palla nelle mani di Billy Baron davanti alla panchina avversaria, Nicolò Melli va a bloccare su Mike James mentre Billy lavora in palleggio. Melli ritarda il movimento di James, ma il suo difen-
sore Donatas Motejunas non lo segue, resta con Baron e lo costringe a fare un movimento in allontanamento portandolo fuori dal range di tiro. In pratica, Billy tocca il cerchio di metà campo. Qui il centro del Monaco torna da Melli temendo un passaggio per il lungo, James resta con Baron. Un palleggio incrociato permette a Billy di cambiare direzione, poi un altro per ritornare verso destra. Il secondo palleggio disorienta James perché subito dopo Baron si alza in sospensione anticipando l’attimo. L’avversario arriva tardi. 1:58
dalla fine, 70-70, con sospetto fallo di James sulla ricaduta.
Kobe Bryant i Lakers lo chiamavano il “What the F… Play”. Tutti via a tenere impegnati i difensori scambiandosi blocchi più o meno finti, mentre tutti sanno che sarà l’uomo con la palla a prendersi il tiro. Billy Baron. A marcarlo è Jaron Blossongame, che è un difensore. Ma anche lui commette l’errore di aspettare Baron a distanza “normale”
00:47 alla fine, questa volta
Olimpia avanti di due, 72-70.
Palla nelle mani di Billy
Baron in una situazione classica di isolamento. Gli altri quattro giocatori sono distribuiti su tutto il perimetro. Ai tempi di
dal canestro. Invece Billy carica il tiro quasi due metri prima. Solo rete. 75-70. Game over. La differenza tra i due canestri segnati contro il Monaco nel finale e gli altri è che questi sono stati creati dal palleggio. I precedenti erano stati il frutto di letture o errori difensivi che avevano permesso a Baron di ricevere e tirare. E anche questa è un’evoluzione del suo gioco.
“La disciplina è un dovere”. Il motto appartiene a Mark Hall, capo allenatore della Cape Henry Collegiate, una scuola di Virginia Beach, situata a sette chilometri dalle rive dell’Oceano Atlantico. Coach Hall allena rispettando questa filosofia di lavoro e di vita. Devon Hall, il secondo figlio, la onora ogni giorno. Ci sono molti modi per definire Devon Hall: versatile sicuramente calza a pennello; sottovalutato probabilmente sarebbe una definizione transitoria; completo è perfetta. Disciplinato però racchiude tutto. Hall è disciplinato nel modo di allenarsi, di prepararsi, di giocare. Disciplinato nel senso di solido, concreto, adattabile a ogni ruolo, visto che da due anni copre ogni buco, ogni infortunio, ogni ne-
cessità. Playmaker, difensore, twoway player. “La mia versatilità, saper fare tante cose è ciò che alla fine mi permette di stare di più in campo, c’è sempre un motivo per giocare”, dice. Lo scorso anno in EuroLeague era un rookie, ma ha giocato tutte le partite 36 su 36 con oltre 27 minuti di media in campo. C’è stato un solo giocatore con una media minuti più alta della sua: Shavon Shields. Quest’anno è salito oltre i 30 di media, leader di squadra. Solo nove giocatori in EuroLeague stanno in campo più di 30 minuti a partita, quattro sono guardie. Vasa Micic, Lorenzo Brown, Mike James e Devon Hall. Giocare 30 minuti tutte le partite, a questi livelli, richiede forza fisica, mentale, durezza. Perché in EuroLeague
“La disciplina è un dovere”. È il motto di Coach Mark Hall. Il figlio Devon lo onora ogni giorno. Può essere descritto in tanti modi il suo gioco, ma disciplinato li racchiude tutti, significa concretezza e solidità
non puoi riposarti in attacco e non puoi certo farlo in difesa. È un tipo di basket duro, nel quale Hall si trova alla perfezione.
Tutti volevano Devon Hall quando aveva l’età per andare al college. Ad esempio, Maryland. Lui disse no a tutti, perché a casa sua si presentò Tony Bennett con una borsa di studio dall’università di casa, quella della Virginia. Il fratello Mark giocava lì a football. Fu una scelta facile. Poi un giorno, prima di giocare una sola partita, Bennett sedette Devon e gli diede la brutta notizia. Gli spiegò che non era pronto e avrebbe dovuto stare fermo un anno, indossare la cosiddetta “red shirt” per non perdere una stagione di eleggibilità. “Altrimenti non avrai spazio, non giocherai”, argomentò il coach. “Lo spazio me lo conquisterò lavorando”, rispose Devon. Ma poi accettò il consiglio dell’allenatore. Gente che valeva meno di lui, in altre università, giocava. Lui si allenava. Tiro. Fisico. Comprensione del gioco. I Cavaliers vinsero il titolo della ACC, ma lui non
era nel roster.
Dei primi 25 giocatori di EuroLeague per minuti in campo, nessuno segna meno di Devon Hall. È sbagliato cercare nelle cifre la conferma del suo valore. Come per altri giocatori dell’Olimpia, sono altri i parametri che ne descrivono l’impatto. Hall, nel suo ruolo, è come Kyle Hines o Nicolò Melli nelle rispettive posizioni. Hall può marcare chiunque, fare a sportellate contro un lungo su un cambio difensivo, vincere un corpo a corpo a rimbalzo, tuffarsi su una palla vagante e farla propria. Può segnare, può tirare da tre (lo scorso anno fu decisiva la sua tripla contro Villeurbanne in casa, quest’anno lo è stata quella di Brindisi), può fare il regista, girare la palla nel momento giusto. Hall può. Può fare tante cose, appunto, cambiare mano all’ultimo istante per sfuggire, penetrando, ai tentacoli del difensore o trovare un miglior angolo di tiro. E tutto questo per vincere una partita in più. O anche più di una.
Devon Hall a VirginiaLa cultura di Devon Hall è questa. Inculcata dal padre (che non è più l’unico coach della famiglia, Mark Hall III, il fratello maggiore di Devon, da quest’anno è capo allenatore alla Salem High School di football), fortificata a Virginia con Tony Bennett, in uno dei migliori programmi cestistici d’America. Nel 2018, i Cavaliers, nell’ultimo anno di Devon, tornarono alla finale del Torneo della Atlantic Coast che avevano vinto per la seconda volta nella storia nell’anno in cui Hall era lì, ma non giocava. In finale trovarono la superpotenza North Carolina. L’unico futuro giocatore
NBA stabile di Virginia era DeAndre Hunter (Atlanta) che allora partiva dalla panchina. I giocatori chiave erano il tiratore Kyle Guy, che ora è in Spagna, e appunto Devon Hall. Quel giorno contro North Carolina, al Barclays Center di Brooklyn, Devon giocò la sua solita partita totale, 15 punti, cinque rimbalzi, quattro assist portando Virginia alla vittoria. Fu una specie di rivincita. Cinque anni dopo l’ultima vittoria della ACC, quando Devon era ai margini, Virginia aveva
vinto per la terza volta e Devon era stato protagonista.
Dopo cinque stagioni a Virginia, dove ha giocato con Malcolm Brogdon (Boston Celtics), Anthony Gill (Washington Wizards) e Mike Tobey (Barcellona), con quel tipo di pedigree, quella vittoria (la sua squadra nell’ultimo anno ha chiuso l’annata con 31-3 di record) e poi la chiamata al secondo giro dei draft da parte di Oklahoma City (dopo aver svolto provini per squadre NBA su 30), l’esperienza in un ambiente solido come quello di Bamberg in Germania, il successo di Hall all’arrivo a Milano forse non avrebbe dovuto sorprendere. Ma la sua capacità di adattamento è stata straordinaria e oggi è diventato una pedina inamovibile della squadra. Una delle pietre angolari dell’Olimpia. Che parta dalla panchina o in quintetto, che giochi da playmaker o da guardia. O da terzo piccolo in un quintetto “small”. Questo è Devon Hall, la wild card, il giocatore che dove lo metti rende al meglio.
Hall ai tempi dei ThunderSulla ricezione di Devon Hall molto lontano dal canestro, Brandon Davies esegue un taglio in allontanamento dal canestro destinato a creare la classica situazione di pick and roll. Ma nel momento in cui arriva in prossimità del compagno, contando sul fattore sorpresa e sulla posizione dell’avversario (in questo caso Bojan Dubljevic di Valencia), Davies “scappa” via prima di eseguire il blocco. Hall lo serve con un passaggio preciso. Ma Davies è temuto dalla difesa avversaria, come da qualsiasi altra difesa. Non appena riceve palla un ulteriore difensore esegue un movimento energico per opporre un corpo tra il centro dell’Olimpia e il canestro. La lettura di Davies è perfetta: si arresta e comprende imme-
diatamente che se la sua presenza sta occupando due giocatori avversari incluso Dubljevic, ci sarà necessariamente un compagno libero. In questo caso è Tim Luwawu-Cabarrot che taglia verso il canestro. Dal gomito della lunetta, la sua posizione di tiro preferita, Davies lo serve in modo da mandarlo a segnare con estrema facilità. Il più classico degli assist.
La nuova evoluzione del gioco di Brandon Davies, rispetto alle aspettative, è nel suo ruolo di “point center”, ovvero di centro che sa passare la palla e innescare i compagni, quando tradizionalmente questa è sempre stata una posizione riservata ai finalizzatori. Davies lo è, come
Brandon Davies era noto per le qualità offensive, di realizzatore. Ma nel corso di questa stagione, la sua evoluzione l’ha trasformato in un eccellente passatore, in modi e situazioni differenti
dimostra il suo gioco in post basso e la sua abilità nel tirare soprattutto dalla media. Ma la sua stagione all’Olimpia è cambiata quando ha ampliato il proprio repertorio usando il passaggio.
Prima di questa stagione il suo record era di 67 assist in 34 gare a Kaunas. Nell’ultima stagione di EuroLeague, a Barcellona, aveva accumulato 56 assist in 36 apparizioni. Quest’anno, sta viaggiando oltre i due assist per gara. Tra i centri, è il primo nella speciale classifica. Non poco se pensiamo che tra i primi 25 l’unico giocatore che non sia perimetrale (playmaker, guardia o ala piccola) è Luke Sikma, l’ala forte dell’Alba Berlino. E tra i primi 100 figurano tre ali che però generalmente operano sul perimetro come Dzanan Musa del Real Madrid, Marcel Ponitka del Panathinaikos e Will Clyburn dell’Efes. Davies, che staziona attorno alla cinquantesima posizione, è l’unico centro presente.
Anche osservando le statistiche storiche non si trovano, per ovvie ragioni, molti “big men” tra i primi 200 della storia. Il primo è Ante Tomic, croato che ha giocato nel Real Madrid e nel Barcellona (ora in attività a Badalona), il secondo è il nostro Kyle Hines, che ha sempre fatto di palleggio e passaggio qualità inusuali in un centro ma vitali nel suo percorso di giocatore, e infine il lituano Paulius Jankunas, che ha sem-
pre avuto grande sensibilità nelle mani. Hines vanta 457 assist in 373 gare disputate. L’Olimpia ha un altro lungo dotato di qualità di passaggio, Nicolò Melli, 371 assist in 255 presenze in EuroLeague. È trasparente il desiderio a Milano di schierare lunghi che sappiano trattare la palla.
Di Brandon Davies, che a Belgrado contro la Stella Rossa, ha stabilito il proprio record personale di assist in una gara, con sette, colpisce la capacità di suggerire in tante situazioni e modalità differenti. Ad esempio, nella menzionata gara di Belgrado, cinque dei suoi sette assist sono stati scarichi verso l’esterno e hanno fruttato 16 punti, incluso un gioco da quattro punti. Giocando nel centro del campo, ed essendo dotato di naturale pericolosità con la palla in mano, ha approfittato dell’atteggiamento conservativo della difesa, portata a riempire l’area, per imbeccare gli esterni, sia dalla posizione di post alto (lunetta) che da quella classica di post basso. I cinque assist hanno beneficiato quattro giocatori differenti, Billy Baron (due volte), Pippo Ricci, Tim Luwawu-Cabarrot e Devon Hall.
In quella gara uno dei sei assist è stato un suggerimento per Luwawu-Cabarrot in una classica situazione di contropiede in cui Davies ha agito da autentico playmaker, percorrendo il campo dal palleggio nella fascia centrale per poi scaricare su
una corsia laterale. Anche contro Monaco (a beneficio di Kyle Hines) e contro Valencia (per Luwawu-Cabarrot) sono arrivati due assist simili. Ma contro Valencia, che difensivamente si preoccupava di presidiare il perimetro, Davies ha potuto agire da autentico “Point-Center” vecchio stile, ovvero con passaggi dal post alto verso il canestro a beneficio dei taglianti. Sono stati quattro gli assist eseguiti dalla lunetta, due per i tagli di Luwawu-Cabarrot, uno per il taglio di Baron e un quarto con un lob con cui ha servito Deshaun Thomas sfruttando un mismatch. Lo stesso tipo di passaggio, che ne denota la capacità di leggere e interpretare le situazioni, è stata sfoderata due volte ad Atene a favore di Nicolò Melli.
Un ultimo tipo di passaggio esibito da Davies dal post basso è quello lungolinea per pescare in angolo, sul ribaltamento di lato, l’uomo libero. Il “target” preferito in queste situazioni è Billy Baron (è successo contro Monaco e ha determinato un gioco da quattro punti). Se confermato nel corso della stagione, o addirittura della carriera, questo talento di Davies nel muovere la palla mettendo pressione sulla difesa sui due lati del campo, rappresenterà il passo finale per completare la sua evoluzione di giocatore completo.
Belgrado. Avversaria la Stella Rossa. Giocando da ala forte, Davies
cerca di sfruttare un mismatch ricevendo molto profondo in posizione di post basso. Kyle Hines dalla lunetta lo serve con un preciso passaggio schiacciato a terra. Davies entra in possesso di palla e accenna un movimento da sinistra verso il centro. Non appena mette palla in terra, dal lato opposto arriva un ulteriore difensore a riempire l’area invitandolo ad andare a sbattere contro il raddoppio. Ma con quattro difensori dentro l’area (il quinto anticipa il tiratore più pericoloso, in questo caso Billy Baron), Davies riconosce la situazione e con un passaggio tutt’altro che banale con la mano sinistra taglia il campo e mette in ritmo nell’angolo opposto Pippo Ricci. Ricezione e canestro.
Undici anni dopo le Final Eight di Coppa Italia tornano a Torino. In realtà è la terza volta che la Coppa Italia viene assegnata sotto la Mole Antonelliana: se nel 2012 ad imporsi fu Siena dopo una contestata vittoria in semifinale proprio contro l’Olimpia, nel 1972 al Parco Ruffini fu l’allora Simmenthal a conquistare il primo di otto trofei. L’Olimpia arriva a questa competizione sull’onda dei successi conquistati nel 2021 e 2022, a caccia di un inedito “Three-peat”. Tra presente e passato, ecco dieci storie da ricordare sulla competizione.
Il Re di Coppa – Ettore Messina ha vinto il trofeo otto volte. Si tratta del primato per un allenatore, un dato che assume ancora maggior rilevanza pensando che da solo l’allenatore dell’Olimpia ha vinto tante coppe quante la stessa Olimpia, la Virtus Bologna e Treviso ne hanno vinte
nella loro storia. Sono tre i club che hanno conquistato il trofeo otto volte. Siena l’ha vinto cinque volte, Varese quattro volte. Coach Messina l’ha conquistato nel 1990 all’esordio da capo allenatore. Poi si è imposto altre tre volte con Bologna e tre volte di fila con Treviso prima di conquistarlo negli ultimi due anni con l’Olimpia Milano. Il suo bilancio in Coppa Italia è di 56-12, pari ad un astronomico 82.3% di successi.
Il Three-Peat – Coach Messina ha vinto la Coppa Italia tre volte consecutive con la Benetton Treviso, ma dal punto di vista personale ha vinto il trofeo cinque volte perché prima di trasferirsi in Veneto aveva trionfato nei suoi ultimi due anni alla Virtus Bologna. Il “Three-peat” a livello di club è riuscito a Varese (1969, 1970, 1971), a Treviso (1993, 1994, 1995), di nuovo a Treviso (2003, 2004, 2005) e in-
fine a Siena (2009, 2010, 2011 più 2012 e 2013, due titoli successivamente revocati ma conquistati sul campo). L’Olimpia non ha mai vinto la Coppa tre volte consecutive: dopo aver vinto nel 1986 e nel 1987, nel 1988 venne eliminata in gara secca da Cantù negli ottavi di finale; dopo aver vinto nel 2016 e nel 2017 invece perse nel 2018 nei quarti di finale ancora contro Cantù. Questa di Torino sarà la terza chance.
Il ritorno a Torino – Nel 1972 l’Olimpia realizzò quello che all’epoca era noto come “Piccolo Slam”, ovvero vinse tutte le competizioni cui era stata ammessa inclusa la Coppa Italia che all’epoca si disputava a fine stagione. L’Olimpia aveva già vinto la Coppa delle Coppe e lo scudetto. A Torino completò una stagione memorabile battendo in finale l’Ignis Varese che nello stesso anno aveva vinto la Coppa dei Campioni, un risultato eccezionale.
I sopravvissuti – Quanti giocatori dell’Olimpia attuale erano in campo in ambedue i successi delle ultime due stagioni? In termini di presenza in campo solo due, ovvero Gigi Datome e Paul Biligha. Ma Shavon Shields faceva parte di ambedue le squadre, solo che un anno fa era infortunato e non in grado di giocare. Datome nel 2021 a Milano venne nominato MVP di una competizione che l’Olimpia riuscì a dominare, imponendosi con grandi scarti. Lo scorso anno non fu MVP, ma risultò decisivo sia in finale contro Tortona che nella durissima semifinale con Brescia in cui ebbe 12 punti in 21 minuti.
La media scarti – Generalmente le Finale Eight denunciano equilibrio diffuso e partite tirate. Ma l’Olimpia ha vinto due delle sue più recenti Coppa imponendosi in
modo energico: nel 2021 a Milano vinse le tre gare con uno scarto complessivo di 87 punti, 29.0 di media; nel 2016 sempre a Milano lo fece con 67 punti di scarto globale. Più “regolari” le affermazioni delle stagioni successive a Rimini nel 2017 e a Pesaro nel 2022.
Il buzzer-beater di Macvan – Normalmente ogni torneo ad eliminazione diretta passa attraverso episodi rocamboleschi o discussi. A Rimini nel 2017, l’Olimpia ha rischiato tantissimo nel proprio quarto di finale contro Brindisi. Una gara tirata con un finale folle: Milano sbagliò due coppie di tiri liberi, una con Rakim Sanders e un’altra con Milan Macvan. Il giocatore serbo poco prima aveva segnato la tripla del sorpasso, ma i due liberi sbagliati avevano permesso a Durand Scott di pareggiare la gara a quattro secondi dalla fine. Coach Jasmin Repesa aveva però un time-out e mise la palla nelle mani di Sanders. L’ala dell’Olimpia, MVP della Coppa Italia 2016, attaccò l’area dei tre secondi trovando però un muro di uomini così scaricò nell’angolo per Jamel McLean. Era un buon tiro, ma McLean non vedeva il cronometro e affrettò la conclusione, ricevendo e tirando in un solo movimento. In realtà aveva ancora un secondo e mezzo. Il suo jumper però risultò lunghissimo e dall’altra parte, con grande presenza, Macvan lo ribadì nel canestro. Servirono però molti secondi di instant-replay per convalidarlo.
La battaglia di Rimini – Due giorni dopo sempre a Rimini nel 2017, l’Olimpia affrontò in semifinale Reggio Emilia. Era una gara significativa perché le due squadre si erano affrontate nella finale scudetto del 2016 e anche nella finale di Supercoppa nel 2015. Fu una gara rocambolesca, con la Reggiana avanti di
dieci nel primo tempo, acciuffata proprio sulla sirena dell’intervallo. Ma in quell’intervallo il Coach dell’Olimpia, Jasmin Repesa venne espulso e la squadra diretta da Massimo Cancellieri con Mario Fioretti. Di nuovo, Milano andò sotto nella ripresa, poi mise la testa avanti e infine sull’81 pari arrivarono due triple consecutive che decisero la partita, la prima di Andrea Cinciarini e la seconda di Milan Macvan. Il giorno seguente, l’Olimpia conquistò la Coppa battendo Sassari in finale e vendicando la sconfitta di Desio nel 2015.
La resurrezione di Cerella – Il 20 febbraio 2016, dopo il quarto di finale vinto con Venezia, l’Olimpia annunciò l’intervento in artroscopia al ginocchio destro per una lesione del menisco mediale di Bruno Cerella. La nota rinviava ai giorni seguenti la ripresa della fase riabilitativa. Che sarebbe durata… un giorno. Infatti, Cerella dopo l’intervento concordò un piano per rientrare non in semifinale, vinta contro Cremona, ma la domenica contro Avellino. Un atto di eroismo e sacrificio che avrebbe incrementato lo status di giocatore amato dalla tifoseria del combattente di Bahia Blanca. “Se volevi un kamikaze da mandare in campo ce l’hai”, disse a Repesa presentandosi al Forum per la finale. Giocò sei minuti senza segnare, ma il gesto valse molto di più.
Big Ro – L’Olimpia vinse la Coppa Italia a Milano nel 1996, a Milano, battendo in volata la Virtus Bologna nella semifinale e poi dominando la partita con Verona prendendosi la rivincita della finale persa contro la stessa squadra a Bologna nel 1991, quando l’allenatore era Mike D’Antoni. Nel 1996 la squadra era gui-
data da Boscia Tanjevic e avviò nelle Final Four di Coppa Italia uno sprint finale che l’avrebbe condotta anche allo scudetto. Protagonista assoluto fu Rolando Blackman, la guardia di origini panamensi, cresciuto a New York e arrivato all’allora Stefanel dopo una lunga carriera nella NBA. Blackman segnò 28 punti nella finale contro Verona. E’ stato uno degli stranieri dell’Olimpia che sono riusciti a lasciare il segno anche rimanendo un solo anno, come Joe Barry Carroll o Kenny Barlow.
Pesaro – L’Olimpia ha vinto la Coppa Italia battendo in finale Pesaro tre volte. Se la gara del 2021 non ebbe storia, nel 1986 e nel 1987 andò ben diversamente. Nel 1986, a Bologna l’allora Simac vinse 102-92. Era la squadra di Russ Schoene e Cedric Henderson che fallì l’obiettivo europeo inseguito da anni, ma vinse tutto in Italia. Fu una finale ad alto tasso di spettacolarità, con tre uomini a quota venti o più punti, Cedric Henderson ne fece 28, Russ Schoene 21 e Roberto Premier 20. L’anno dopo contro la stessa avversaria e sullo stesso campo vinse per 95-93, un altro show. Era l’anno del Grande Slam di Dan Peterson, nel primo anno di Bob McAdoo a Milano. Bob segnò 29 punti, Ken Barlow, allora un rookie, ne aggiunse 20, Roberto Premier segnò 15 punti. L’Olimpia giocò un primo tempo mostruoso comandando 60-43, poi subì la rimonta di Pesaro in un secondo tempo di livello agonistico altissimo. McAdoo firmò dalla lunetta il più nove che pareva risolutivo, invece Pesaro chiuse la partita con un parziale di 7-0 che fece correre un brivido ai giocatori di Milano (Charles Davis segnò 34 punti per la Scavolini).
Nel DNA dell’Olimpia ci sono sempre state le grandi rimonte, soprattutto sul campo di casa, quando magicamente un canestro genera una difesa, una difesa genera un contropiede, il pubblico si accende e il parziale spietato. Quest’anno la rimonta più eclatante si è verificata contro l’AS Monaco, quando un parziale di 19-0 ha ribaltato la gara consegnando all’Olimpia la vittoria. A rendere speciale quella rimonta è il fatto che sia maturata sostanzialmente nei quattro minuti e mezzo conclusivi.
Ma nella storia dell’EuroLeague moderna si è trattato appena della quinta miglior rimonta di sempre. L’Olimpia, a 4:58 dalla fine del terzo quarto, era sotto di 17, 56-39. Negli ultimi 15 minuti di partita, il parziale è stato di 40-15 e ha generato il 79-71 finale. La rimonta assume connotati più significativi pensando al meno 12 di metà quarto quarto quando è scattato il 19-0 che ha dato all’Olimpia sette punti di margine con meno di trenta secondi da giocare. In ogni caso, statisticamente, è stata la quinta rimonta di sempre. La più ampia risale alla stagione 2016/17, gara interna con il Darussafaka: l’Olimpia in quella partita è stata sotto di 25 a metà del terzo periodo, 68-43. Da quel momento, ha piazzato un parziale di 56-18 surre-
ale in così poco tempo a disposizione. Al terzo posto figura la rimonta da meno 20 nel terzo periodo con il Bayern Monaco, stagione 2019/20. L’Olimpia prevalse 79-78, canestro decisivo di Kaleb Tarczewski su un passaggio alley-oop di Sergio Rodriguez. Il parziale fu 3716. La terza rimonta risale alla stagione 2008/09: a metà del secondo quarto, l’Olimpia era sotto 34-14 contro il CSKA Mosca. Ma finì per vincere di un punto, 80-79, trascinata nel quarto conclusivo da Marco Mordente. Al quarto posto ancora una partita giocata contro il Bayern Monaco, ancora più importante perché di playoff. Stagione 2020/21, Gara 1, al Mediolanum Forum: l’Olimpia si ritrova sotto 44-25 con sei secondi da giocare nel secondo quarto, ma capovolge la partita e prevale 79-78 con il canestro sulla sirena di Zach LeDay. Parziale di 54-34.
Il meno 17 ribaltato contro l’AS Monaco sopravanza al quinto posto l’analogo meno 17 rimediato nella stagione 2017/18 a Valencia dove l’Olimpia si ritrovò sotto 62-45 con 4:58 da giocare nel terzo periodo. Milano vinse quella gara 103-98 ma dopo un tempo supplementare.