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DISCIPLINA INNANZITUTTO

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MISTER CLUTCH

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“La disciplina è un dovere”. Il motto appartiene a Mark Hall, capo allenatore della Cape Henry Collegiate, una scuola di Virginia Beach, situata a sette chilometri dalle rive dell’Oceano Atlantico. Coach Hall allena rispettando questa filosofia di lavoro e di vita. Devon Hall, il secondo figlio, la onora ogni giorno. Ci sono molti modi per definire Devon Hall: versatile sicuramente calza a pennello; sottovalutato probabilmente sarebbe una definizione transitoria; completo è perfetta. Disciplinato però racchiude tutto. Hall è disciplinato nel modo di allenarsi, di prepararsi, di giocare. Disciplinato nel senso di solido, concreto, adattabile a ogni ruolo, visto che da due anni copre ogni buco, ogni infortunio, ogni ne- cessità. Playmaker, difensore, twoway player. “La mia versatilità, saper fare tante cose è ciò che alla fine mi permette di stare di più in campo, c’è sempre un motivo per giocare”, dice. Lo scorso anno in EuroLeague era un rookie, ma ha giocato tutte le partite 36 su 36 con oltre 27 minuti di media in campo. C’è stato un solo giocatore con una media minuti più alta della sua: Shavon Shields. Quest’anno è salito oltre i 30 di media, leader di squadra. Solo nove giocatori in EuroLeague stanno in campo più di 30 minuti a partita, quattro sono guardie. Vasa Micic, Lorenzo Brown, Mike James e Devon Hall. Giocare 30 minuti tutte le partite, a questi livelli, richiede forza fisica, mentale, durezza. Perché in EuroLeague non puoi riposarti in attacco e non puoi certo farlo in difesa. È un tipo di basket duro, nel quale Hall si trova alla perfezione.

Tutti volevano Devon Hall quando aveva l’età per andare al college. Ad esempio, Maryland. Lui disse no a tutti, perché a casa sua si presentò Tony Bennett con una borsa di studio dall’università di casa, quella della Virginia. Il fratello Mark giocava lì a football. Fu una scelta facile. Poi un giorno, prima di giocare una sola partita, Bennett sedette Devon e gli diede la brutta notizia. Gli spiegò che non era pronto e avrebbe dovuto stare fermo un anno, indossare la cosiddetta “red shirt” per non perdere una stagione di eleggibilità. “Altrimenti non avrai spazio, non giocherai”, argomentò il coach. “Lo spazio me lo conquisterò lavorando”, rispose Devon. Ma poi accettò il consiglio dell’allenatore. Gente che valeva meno di lui, in altre università, giocava. Lui si allenava. Tiro. Fisico. Comprensione del gioco. I Cavaliers vinsero il titolo della ACC, ma lui non era nel roster.

Dei primi 25 giocatori di EuroLeague per minuti in campo, nessuno segna meno di Devon Hall. È sbagliato cercare nelle cifre la conferma del suo valore. Come per altri giocatori dell’Olimpia, sono altri i parametri che ne descrivono l’impatto. Hall, nel suo ruolo, è come Kyle Hines o Nicolò Melli nelle rispettive posizioni. Hall può marcare chiunque, fare a sportellate contro un lungo su un cambio difensivo, vincere un corpo a corpo a rimbalzo, tuffarsi su una palla vagante e farla propria. Può segnare, può tirare da tre (lo scorso anno fu decisiva la sua tripla contro Villeurbanne in casa, quest’anno lo è stata quella di Brindisi), può fare il regista, girare la palla nel momento giusto. Hall può. Può fare tante cose, appunto, cambiare mano all’ultimo istante per sfuggire, penetrando, ai tentacoli del difensore o trovare un miglior angolo di tiro. E tutto questo per vincere una partita in più. O anche più di una.

La cultura di Devon Hall è questa. Inculcata dal padre (che non è più l’unico coach della famiglia, Mark Hall III, il fratello maggiore di Devon, da quest’anno è capo allenatore alla Salem High School di football), fortificata a Virginia con Tony Bennett, in uno dei migliori programmi cestistici d’America. Nel 2018, i Cavaliers, nell’ultimo anno di Devon, tornarono alla finale del Torneo della Atlantic Coast che avevano vinto per la seconda volta nella storia nell’anno in cui Hall era lì, ma non giocava. In finale trovarono la superpotenza North Carolina. L’unico futuro giocatore

NBA stabile di Virginia era DeAndre Hunter (Atlanta) che allora partiva dalla panchina. I giocatori chiave erano il tiratore Kyle Guy, che ora è in Spagna, e appunto Devon Hall. Quel giorno contro North Carolina, al Barclays Center di Brooklyn, Devon giocò la sua solita partita totale, 15 punti, cinque rimbalzi, quattro assist portando Virginia alla vittoria. Fu una specie di rivincita. Cinque anni dopo l’ultima vittoria della ACC, quando Devon era ai margini, Virginia aveva vinto per la terza volta e Devon era stato protagonista.

Dopo cinque stagioni a Virginia, dove ha giocato con Malcolm Brogdon (Boston Celtics), Anthony Gill (Washington Wizards) e Mike Tobey (Barcellona), con quel tipo di pedigree, quella vittoria (la sua squadra nell’ultimo anno ha chiuso l’annata con 31-3 di record) e poi la chiamata al secondo giro dei draft da parte di Oklahoma City (dopo aver svolto provini per squadre NBA su 30), l’esperienza in un ambiente solido come quello di Bamberg in Germania, il successo di Hall all’arrivo a Milano forse non avrebbe dovuto sorprendere. Ma la sua capacità di adattamento è stata straordinaria e oggi è diventato una pedina inamovibile della squadra. Una delle pietre angolari dell’Olimpia. Che parta dalla panchina o in quintetto, che giochi da playmaker o da guardia. O da terzo piccolo in un quintetto “small”. Questo è Devon Hall, la wild card, il giocatore che dove lo metti rende al meglio.

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