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2 – Come agisce la discriminazione

Siamo convinti che anche la Polizia italiana, così come hanno fatto molte polizie europee, debba procedere ad una riflessione approfondita e ad una revisione degli standard di servizio, delle modalità di erogazione e dei criteri e indicatori di verifica. In attesa di una più ampia riforma, si può pensare che alcuni elementi di novità possano essere gradualmente inseriti a livello locale con esperienze pilota da valutare e, possibilmente, ripetere altrove. Come sempre, prima di illustrare i nostri suggerimenti per l’azione della polizia, vogliamo proporvi alcune informazione e riflessioni su cos’è la discriminazione e come essa agisce.

Discriminare significa identificare differenze e ciò può essere sia negativo, sia positivo: se stiamo guidando è importante essere in grado di discriminare tra le varie corsie del traffico. C’è però un altro livello di significato, connotato negativamente, che diventa un’etichetta negativa attribuita a persone, gruppi o entità diverse e questa “discriminazione contro” non è casuale ma segue dei modelli precisi di classe, genere, “razza” o appartenenza etnica, disabilità, orientamento sessuale, età. Quando questa discriminazione esiste essa diventa un’esperienza di oppressione perché agita da soggetti in un rapporto di potere diseguale, o due gruppi sociali, di cui uno più potente e l’altro meno potente. L’oppressione così intesa implica calpestare i diritti di un individuo o di un gruppo e creare così uno svantaggio. Le disparità sono mantenute attraverso processi di discriminazione che hanno l’effetto di distribuire le opportunità della vita, il potere e le risorse in un modo che rafforza le relazioni di potere già esistenti. È proprio attraverso questo processo interattivo tra discriminazione e disparità che lo status quo è mantenuto. La discriminazione agisce a tre livelli2: personale, culturale e istituzionale (o strutturale) e tutti e tre interagiscono tra di loro.

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Personale o individuale I pensieri, i sentimenti ma soprattutto gli atteggiamenti e le azioni di un individuo, specie se in posizione di potere. La manifestazione più evi-

dente di un pregiudizio è l’espressione di un’opinione (un giudizio) e il rifiuto di cambiarla o abbandonarla anche di fronte ad un’evidente prova contraria. Può essere consapevole o inconsapevole ma l’effetto non cambia. È importante riconoscere che il pregiudizio (e la discriminazione che ne può seguire) non è unidimensionale e coinvolge persone diverse in situazioni diverse: una donna nera può essere vittima di razzismo e sessismo e tuttavia discriminare gli anziani e i disabili. Un’azione discriminatoria è personale quando l’attore la fa in nome suo; per esempio, rifiutare di sedersi accanto ad una persona nera o scegliere di non invitare un ebreo a cena a casa propria perché non si “sopportano” gli ebrei. Anche quando una persona fa un’azione discriminatoria nell’ambito del proprio lavoro, l’azione può costituire una discriminazione individuale (e non istituzionale). Se, per esempio, l’autista di un autobus non si ferma ad una fermata dove l’unica persona in attesa è nera, e se l’autista sa che il suo compito è di fermarsi per chiunque aspetti l’autobus alla fermata, allora fa questo atto di sua propria volontà e responsabilità3 .

Culturale Sebbene ogni individuo sia unico, dobbiamo riconoscere che i suoi valori e le sue azioni sono molto legati alle aspettative e norme prevalenti nella società in cui vive. È anche a livello culturale che gruppi e individui possono essere esclusi ed emarginati nella creazione di un “noi” e di un “loro”. È chiaro che il senso di appartenenza, il dare per scontate una serie di cose, ha anche un aspetto positivo, di sentirsi sicuri e integrati, di avere radici e ci permette di affrontare il quotidiano senza dovere mettere in dubbio qualsiasi cosa facciamo, è insomma uno strumento necessario per non avere un corto circuito informativo. Il pericolo in agguato è però l’etnocentrismo, cioè la tendenza a vedere il mondo attraverso i limitati confini della propria cultura e a proiettare su altri gruppi il proprio insieme di valori e norme. L’etnocentrismo offre il maggiore contributo al razzismo perché non riconosce le differenze culturali e la loro importanza per le persone coinvolte e si basa sulla premessa errata che ci sono culture superiori alle altre. Ad esempio, sono manifestazioni di etnocentrismo le dichiarazioni di personaggi di spicco del mondo politico e culturale che affermano la superiorità della cultura occidentale nei confronti di quella orientale o dell’islam nei

confronti del cristianesimo o il riferimento nei giornali alle origini nazionali o etniche o all’appartenenza religiosa solo di certi gruppi di immigrati.

Strutturale (o istituzionale) I modelli culturali non esistono nel vuoto ma sono in costante interazione con fattori sociali, politici ed economici. L’elemento del potere (già presente anche nei livelli personale e culturale) appare qui evidente e si manifesta in norme, regole e prassi che hanno l’effetto di escludere alcuni gruppi dal godimento di certi diritti, per il solo fatto di appartenere a quei gruppi. Questo tipo di discriminazione si manifesta anche dove il potere di discriminare è agito da una persona ma in virtù di un’investitura istituzionale. Per esempio, un professore può discriminare alcuni suoi alunni in forza del suo ruolo istituzionale e non per sua individuale volontà. Molti autori contestano che il razzismo sia dovuto alle idee e ai pregiudizi delle persone. Secondo costoro, ciò che veramente importa sono le strutture di potere, le istituzioni e le pratiche sociali che producono l’oppressione razziale e gli effetti delle discriminazioni. Allo stesso modo, le idee sessiste non sorgono per caso ma per proteggere privilegi, in questo caso per mantenere gli uomini in posizione di potere e privilegio. La Polizia Metropolitana della Gran Bretagna ha adottato questa definizione di discriminazione nelle organizzazioni (detta anche “discriminazione istituzionale”): Il fallimento collettivo di un’organizzazione nel rappresentare pienamente, ed in ogni aspetto, la comunità che serve, a causa delle origini “razziali” o etniche, della religione o credo di alcuni membri di quella comunità. Può essere rilevata nelle procedure, negli atteggiamenti e nei comportamenti che portano alla discriminazione attraverso un pregiudizio involontario, ignoranza, incuranza e stereotipo che si traducono in svantaggi per i membri del pubblico e in un fallimento nell’assicurare l’uguaglianza di opportunità ai dipendenti di un’organizzazione o di un’organizzazione dipendente. Il fallimento delle procedure dell’organizzazione stessa nel rilevare la discriminazione, o nell’intraprendere azioni contro di essa, può essere visto come un indicatore di discriminazione nell’organizzazione (o “istituzione”). Sono state per prime le studiose femministe a mettere in dubbio l’ideologia che sottende ad una società patriarcale e sessista, basata su una

differenza biologica che confinerebbe “naturalmente” la donna nella casa e nell’allevamento dei figli. Allo stesso modo il razzismo si basa sull’idea che ci siano “razze” biologicamente diverse, alcune delle quali sono inferiori alle altre. Ed è proprio questo processo di attribuire un significato alle differenze e di assegnare ad ognuna livelli di valore diversi che sta alla base della discriminazione, dell’oppressione e dell’esclusione. Un fenomeno che è il risultato di una costruzione sociale e storica è trattato come un evento naturale o come l’inevitabile risultato di caratteristiche naturali cosicché, per esempio, la divisione sociale del lavoro tra uomini e donne è ritratta come il prodotto di caratteristiche e differenze fisiologiche tra i sessi. In altre parole, fenomeni storico-sociali sono privati del loro aspetto storico e descritti e considerati come eternamente ricorrenti e immutabili. Lo stesso processo di “naturalizzazione” interviene quando si considera la vecchiaia come “naturalmente” un periodo di ritiro e disimpegno dalla vita sociale, così come, all’altro capo dello spettro dell’età, sta la costruzione sociale dell’infanzia che, pur essendo cambiato nel corso dei secoli anche all’interno della nostra stessa società, viene ancora relegata a una posizione priva di potere e con scarsa enfasi sui diritti. Così come per le persone disabili è ancora presente un’immagine sociale che li vede prevalentemente come destinatari di cura ed assistenza, lontani quindi da un’esperienza di vita in cui la presenza di un deficit non neghi la possibilità di costruire e godere una qualità di vita globale. Gli stessi meccanismi hanno operato quando le donne cominciarono a lavorare in polizia o nell’edilizia o quando gli stranieri cominciarono a immigrare. L’arrivo di una minoranza in un’organizzazione inizialmente provoca incertezza nella maggioranza, la gente non si sente più tanto sicura sul comportamento da tenere (“posso ancora raccontare quella barzelletta? come mi devo comportare con una persona così?”), al punto che questa insicurezza fa dimenticare ai membri della maggioranza le tante differenze all’interno del loro gruppo (le persone sposate e quelle singole, chi ha figli e chi non ne ha, il ceto di appartenenza, ecc.). Ora essi hanno occhi solo per le differenze tra maschio e femmina, tra abile e disabile, tra autoctono e immigrato. E questa insicurezza, per difesa, porta ad un rafforzamento della cultura esistente e cioè della cultura dominante, la cultura del “qui si fa così”. L’esagerazione delle differenze ha anche un’altra seria conseguenza, quella di spianare la strada per l’esclusione delle minoranze, cosicché a

donne, anziani, gay e lesbiche, disabili, minoranze etniche sono date minori opportunità di lavoro e di carriera. Per questi outsider diventa quindi difficile penetrare nei circuiti informali dove si prendono veramente le decisioni. I gruppi dominanti usano tre diverse strategie per limitare l’influenza degli outsider che possono essere usate senza volere oppure deliberatamente. Essed4 propone tre concetti fondamentali per capire e descrivere le tre strategie che si riscontrano in tutte le società a maggioranza bianca e che possono essere applicati a qualunque gruppo subordinato: marginalizzazione (o emarginazione), problematizzazione e contenimento.

Emarginazione – una forma di esclusione > Ignorare le forme di discriminazione I lavoratori di un’organizzazione non si sentono responsabili per quelle relazioni che escludono gli altri. Razzismo, omofobia, sessismo, ecc. non sono messi in questione da nessuno e lo status quo permane. > Il pensiero gerarchico Il gruppo dominante è convinto della propria superiorità: gli uomini sono superiori alle donne, la cultura europea è la norma ed è superiore, ecc. > Ostacoli alle pari opportunità Ci sono molti modi per rendere l’ingresso difficile agli “altri” o la loro progressione in carriera. Ciò può avvenire in forme più o meno sottili: il non riconoscimento delle qualità, le tattiche di scoraggiamento, il sovraccaricarli di lavoro, il trattenere informazioni fondamentali, ecc.

bili. Problematizzazione – ideologie usate dal gruppo dominante per legittimarsi > Denigrare la personalità Le persone sono etichettate come inaffidabili o eccessivamente sensi-

> Denigrare la cultura Le differenze sono spiegate in termini di cultura: “loro sono indietro rispetto a noi” o addirittura gli altri sono considerati incivili. > Denigrare su base biologica

Le persone sono etichettate come “problematiche” attraverso un processo di criminalizzazione o ascrivendo loro, per esempio, aberrazioni sessuali.

Contenimento – una forma di repressione > Negazione della discriminazione Si può ignorare la discriminazione evitando di prendere posizione o con una posizione attiva di diniego in risposta a lamentele di razzismo, sessismo o altro. > Amplificare le differenze I responsabili e i dirigenti possono inavvertitamente amplificare le differenze riservando certi lavori alle minoranze o possono introdurre meccanismi di decisione che premiano la maggioranza. > Il paternalismo Il paternalismo può assumere molte forme, dalla protezione all’aspettativa della gratitudine, tutte cose che rafforzano la dipendenza. > Negazione della dignità Le persone possono essere sminuite o umiliate. > Intimidazione Molestie e intimidazioni possono assumere varie forme, dalla violenza fisica o sessuale, alle minacce verbali o a prepotenze per creare un’atmosfera ostile attraverso scherzi o forme di ridicolizzazione. > Ritorsioni L’assertività può essere punita, le promozioni provocano gelosia e si covano invidie, e si cercano modi per consumare una vendetta.

La Dichiarazione Internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1969) afferma che:

«Costituisce discriminazione razziale ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, sul colore, sulla nascita, sulle origini nazionali ed etniche che abbia lo scopo di modificare o limitare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio su un piano di parità dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o qualunque altro campo».

Nel 1978 l’UNESCO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, dichiarò che:

«Qualunque teoria che asserisca che gruppi “razziali” o etnici siano intrinsecamente superiori o inferiori - sottintendendo così che alcuni avrebbero il diritto di dominare o eliminare altri che sarebbero inferiori - o che attribuisce un giudizio di valore alle differenze razziali, non ha fondamento scientifico ed è contraria ai principi morali ed etici dell’umanità».

Innumerevoli conferenze e dichiarazioni in campo internazionale si sono susseguite negli anni fino al 2001 che fu dichiarato “Anno internazionale della mobilitazione contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza” e che ebbe il suo massimo evento nella Conferenza mondiale di Durban (31 agosto – 8 settembre 2001). Ciononostante il razzismo e le discriminazioni razziali, etniche e religiose sono un’esperienza purtroppo quotidiana per milioni di persone, comprese le persone di origine etnica minoritaria o di religione minoritaria che si trovano nel nostro Paese. Uno dei pochi documenti di ricerca svolta in Italia “Atti di violenza contro gli immigrati” (studio sulle notizie riportate dai giornali condotto dall’Osservatorio sulla Comunicazione Sociale e il Dipartimento Radio e Televisione dell’Università La Sapienza di Roma, che presenta i dati sui primi nove mesi del 2000) riporta nella presentazione le parole dell’allora capo del governo Giuliano Amato: “In Italia uno straniero è vittima di violenza ogni 25 ore”. Secondo questo rapporto, anche escludendo, peraltro in modo piuttosto arbitrario, gli assalti perpetrati da stranieri ai danni di stranieri, il 34,7% di tutti i casi di violenza contro stranieri ha una chiara matrice razzista.

per chi vuole approfondire

Il razzismo classico, quello che si fa risalire a Joseph-Arthur de Gobineau, imputa la diversità culturale ad un elemento naturale, assegna all’altro un valore negativo e spiega tutto individuando nell’elemento genetico-razziale la supposta inferiorità. Le teorie che stanno alla base di questo razzismo, come abbiamo detto, sono state confutate anche sul piano biologico e genetico. È facile inoltre dimostrare che una persona appartenente ad una “razza”, se sin da piccola viene cresciuta ed educata in un ambiente del tutto diverso da quello di appartenenza “razziale”, crescerà come persona socialmente “media” secondo gli standard della cultura nella quale è stata allevata. Oggi difficilmente si troverà qualcuno che si dichiari apertamente razzista, nel senso appena indicato. Ciò non significa che il razzismo, sia come ideologia, sia come pratica quotidiana, stia scomparendo. Tutt’altro. Esso si presenta piuttosto in forme più sottili e perciò più subdole e difficili da combattere: dalla nozione di “razza” si è passati a quella di “etnia” (vedi cap. 3, § 3) e gran parte del dibattito attuale sul razzismo riguarda in realtà non la “razza” biologica, bensì l’appartenenza etnica e la conflittualità interetnica. Ci sono persino rischi di razzismo in quelle teorie che, come il relativismo culturale, concetto caro a molti autori in campo antropologico ed etnografico, nel loro intento originario volevano arrivare ad un’idealizzazione della differenza, alla diversità vista come valore, come fonte di confronto e di arricchimento. È anche per questa via, estremizzandone i contenuti, che si arriva al “giustificazionismo culturalista”, la forma di razzismo oggi più diffusa che considera comunque e sempre valide e rispettabili tutte le manifestazioni di cultura (a meno che non siano palesemente contrarie ad alcuni principi etici basilari come il rispetto della vita, o della dignità umana) e considera ingiusta ogni pressione esterna finalizzata alla modifica di quei tratti. Essa é particolarmente insidiosa perché non necessariamente parte dalla superiorità della propria cultura ma piuttosto dall’irriducibile differenza tra le culture, ogni cultura avendo prodotto senso nel contesto in cui si è sviluppata e dove ha diritto di conservarsi, purché non esca da quel contesto o territorio e non minacci il diritto alla identità culturale degli altri. In

sostanza, il ragionamento è semplice: tutti gli esseri umani sono uguali ma sono legati a sistemi di significato che si sono differenziati, le “culture” appunto, che vanno rispettate nella loro diversità, e la conclusione è “ognuno a casa sua”. I sostenitori di questa posizione sono convinti che la decadenza comincia quando le culture interagiscono e creano fenomeni di sincretismo, in sostanza confusione, delle culture e dei suoi prodotti. Altrove, in questo testo, si riferisce invece di come tutti gli approcci antropologici, sociologici e di psicologia sociale riconoscano che quelli che appaiono come “risultati” di una cultura

«non sono mai stati prodotti da culture isolate, bensì da culture che, volontariamente o involontariamente, combinavano i loro giuochi rispettivi e realizzavano con vari mezzi (migrazioni, influenze, scambi commerciali e guerre) quelle coalizioni (necessarie a produrre quei risultati). (…) La possibilità che una cultura ha di totalizzare quel complesso insieme di invenzioni di ogni ordine che chiamiamo una civiltà, è funzione del numero e delle culture con cui essa partecipa all’elaborazione – il più delle volte involontaria – di una comune strategia».5

In Italia, secondo l’ultimo Rapporto Zincone sull’integrazione6 (2000), “è difficile comporre un quadro ragionevolmente esteso degli atti e delle pratiche discriminatorie a causa della mancanza di un rilevamento sistematico e con criteri condivisi sul territorio nazionale”. Questa situazione è a tutt’oggi immutata, sebbene non siano stati abrogati nemmeno dalla legge 189/02, detta legge Bossi-Fini sull’immigrazione, gli articoli della precedente Legge Turco-Napolitano sulla discriminazione i quali, oltre a definire la discriminazione e a identificarne i possibili autori, chiedevano alle Regioni di istituire dei centri regionali di osservazione e studio delle discriminazioni e di assistenza alle vittime. Queste norme, purtroppo, sono tutto sommato ancora inapplicate ma le ricerche svolte sul tema rilevano che le discriminazioni di stampo razziale ed etnico sono tante, sia nella forma diretta che nella forma indiretta. Esse per lo più avvengono nell’ambito della casa, sia nel mercato privato che nell’edilizia pubblica; nell’ambito dell’accesso ai servizi bancari, finanziari ed assicurativi dove esistono disparità di trattamento tra cittadini italiani e immigrati, nello sport e non solo nel razzismo negli stadi ma anche nell’accesso ai servizi sportivi; nella rappresentazione negativa che i media fanno del fenomeno e che ha contribuito a creare nell’immaginario collettivo un’immagine negativa delle persone immigrate.

osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo

Nel 1998 è stato creato l’Osservatorio Europeo dei fenomeni di razzismo e di xenofobia,con sede a Vienna.Gli scopi dell’Osservatorio sono di raccogliere ed analizzare dati e informazioni per impostare un sistema di monitoraggio e di prevenzione,aumentare la consapevolezza del pubblico e sviluppare strategie di lotta al razzismo.È creato come corpo indipendente dell’Unione,nel cui consiglio d’amministrazione sono rappresentati gli Stati membri,la Commissione Europea,il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa. Una delle prime attività dell’Osservatorio è stata la creazione di RAXEN – il network europeo d’informazione su razzismo e xenofobia:ha il compito di raccogliere,elaborare e valutare informazioni e dati provenienti da tutte le organizzazioni ed istituzioni coinvolte ed interessate.

Provare che sia avvenuta una discriminazione, d’altronde, è cosa estremamente difficile, a volte impossibile, per assenza di testimoni o perché spesso gli elementi di prova sono in possesso del soggetto che ha compiuto l’atto discriminatorio, individuo o istituzione che sia. Un cambiamento significativo sarebbe stato introdotto nella normativa italiana con l’”inversione dell’onere della prova” prevista dalle Direttive 43/2000 e 78/2000 emanate dal Consiglio dell’Unione Europea (si veda il cap. 1, § 1.1). L’inversione dell’onere della prova pone a carico dell’autore, o supposto tale, dell’episodio di discriminazione l’onere appunto di provare che quell’atto non è un atto di discriminazione. Il cambiamento che questo nuovo istituto avrebbe apportato nel sistema giuridico italiano (e non solo) sarebbe stato di enorme rilievo. Purtroppo, i decreti applicativi delle direttive europee hanno lasciato l’onere della prova a carico del ricorrente, utilizzando una formulazione diversa da quella usata nella legge 125 del 1991 sulla parità di genere nei luoghi di lavoro. In sostanza, il ricorrente è tenuto a dimostrare “in termini gravi, precisi e concordanti” che c’è stata discriminazione a proprio danno e viene “lasciato alla discrezione del giudice valutare tali prove”.

Può sembrare facile identificare i diversi possibili tipi di discriminazione. Chi non riconoscerebbe infatti come forma estrema,consapevole,dichiarata,intenzionale e cattiva l’aggressione violenta di un gruppo di naziskin ai danni di una persona nera? Ingannevoli invece sono i tanti modi di discriminare che si nascondono persino dietro le buone intenzioni e l’inconsapevolezza degli autori e che nondimeno producono degli effetti. La tabella che segue elenca alcuni tipi di discriminazione.Ti proponiamo di cercare esempi per ognuno dei tipi, specie per quelli riportati nella colonna Tipo 2.Scoprirai quanta discriminazione avviene quotidianamente,anche in situazioni insospettabili.

Alcuni esempi: > discriminazione passiva: tacere quando vengono raccontate barzellette offensive nei confronti delle persone nere,o delle donne,ecc. > discriminazione legale: fino a non molti anni fa in Italia non erano ammesse a concorsi pubblici le persone di età superiore ai 42 anni > discriminazione sottile e probabilmente non intenzionale:in un gruppo di lavoro tutti i partecipanti maschi sono presentati con il loro titolo professionale mentre l’unica donna è presentata come “signora”

Tipi di discriminazione

TIPO 1

consapevole dichiarato attivo estremo diretto intenzionale cattivo illegale

TIPO 2

inconsapevole nascosto passivo sottile indiretto non intenzionale ben intenzionato legale

suggerimenti per la formazione

per chi vuole approfondire

“Tutti uguali – tutti diversi”é lo slogan che in questi ultimi anni in Europa ha avuto grande diffusione anche grazie all’impegno della Commissione Europea nella lotta alla discriminazione razziale lanciata nel 1997,proclamato “Anno europeo contro il razzismo”.In quell’anno l’Unione Europea inseriva ad Amsterdam l’Art.13 nel Trattato dell’Unione.In base a questo articolo,l’Unione Europea ha acquisito maggiori poteri e autorità per intraprendere opportune misure di lotta contro le varie forme di discriminazione per motivi relativi a sesso,“razza”o origine etniche,religione,credo,disabilità,età e orientamento sessuale. Lo slogan “tutti uguali,tutti diversi”esprime la convinzione che ognuno è diverso dall’altro e tuttavia tutti siamo uguali.L’affermazione non è banale e sottintende un concetto forte:cose diverse hanno lo stesso valore.Si potrebbe dire che non è innovativo perché è assioma delle democrazie l’affermazione che “tutti sono uguali davanti alla legge”.Il problema è che in realtà non tutti hanno le stesse opportunità e le stesse risorse e gli individui non sono in condizione di parità. Genere, appartenenza etnica e religiosa, orientamento sessuale,età,abilità/disabilità sono seri ostacoli all’ottenimento della parità e questo non perché i giovani,gli anziani,le donne,le persone omosessuali o le persone di minoranza etnica siano meno capaci ma perché molte delle persone appartenenti a gruppi dominanti li considerano “inferiori”.

In Italia: 1 su 2 persone è uomo 1 su 2 persone è donna 1 su 25 persone ha un background etnico-culturale diverso da quello della maggioranza 1 su 6 persone ha più di 65 anni 1 su 7 persone ha meno di 14 anni 1 su 20 persone è omosessuale 1 su 20 persone è disabile

Il concetto di “parità”è complesso e può essere inteso in modi diversi.Certamente non si confonde con il concetto di “uniformità”perché,anzi,una buona comprensione delle differenze e della diversità è una parte importante del promuovere la parità. Il concetto di parità porta in sé il concetto di diritti,sul piano civile (garanzia delle libertà individuali e uguaglianza davanti alla legge),politico (diritto al voto e alle cariche politiche) e sociale (benessere sociale,sicurezza e appartenenza – nel senso contrario a emarginazione - secondo gli standard prevalenti in una data società).

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