35 minute read

B – I diritti umani

ve legate alla propria tradizione musulmana, in materia di religione e di vita familiare. Contro la proposta occidentale furono schierati i Paesi dell’Europa socialista. La Dichiarazione Universale, concepita all’interno delle dinamiche della guerra fredda, fu alla fine un compromesso fra posizioni diverse, che tuttavia trovarono un punto d’incontro. Lo scontro che si ebbe, dunque, nell’elaborazione della Dichiarazione vide una contrapposizione tra le grandi democrazie occidentali e i Paesi dell’Europa socialista. All’interno delle Nazioni Unite era allora assai minoritaria la presenza dei Paesi in via di sviluppo, che vivevano ancora spesso in regime coloniale. Cassese individua tre fonti ideali che concorsero all’elaborazione del testo finale: il giusnaturalismo della tradizione occidentale, lo statalismo dei Paesi socialisti, il nazionalismo5 . Gli occidentali proponevano la loro concezione “giusnaturalista”, secondo la quale gli uomini erano dotati in natura di alcuni diritti della persona che lo Stato era tenuto a rispettare. Si trattava dei diritti civili e politici, i soli che gli occidentali intendevano proclamare a livello mondiale. Come si legge nell’articolo 1, “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”, ovvero i diritti umani sono preesistenti allo Stato, il quale basava il proprio consenso su di un “patto sociale” che aveva proprio lo scopo di proteggere gli uomini e non certo di assoggettarli ad esso. Dall’altro lato i Paesi socialisti sottolinearono la centralità dei diritti economici e sociali, in base alla loro concezione “giuspositivista”, secondo la quale lo Stato poteva concedere per sua scelta una serie di garanzie sociali ed economiche, sotto forma di organizzazione generale della collettività. Nell’articolo 22 si afferma infatti che l’individuo non vive isolato, ma inserito nella società, per cui è compito dello Stato garantire a ciascuno la sicurezza personale e il godimento dei diritti. Inoltre i Paesi socialisti chiesero l’inserimento del principio di eguaglianza (ossia il divieto di discriminazioni basate su razza, sesso, colore, lingua, religione, opinioni politiche, nazionalità o altro status), il “diritto di ribellione” contro autorità oppressive, il diritto delle minoranze nazionali a veder riconosciuti e rispettati i loro diritti di gruppo e il diritto all’autodeterminazione dei popoli coloniali. Si trattava cioè di estendere la fascia dei diritti civili e politici in una direzione forte su cui gli occidentali non erano però disposti a dare l’assenso. Infatti gli emendamenti vennero tutti respinti.

Un fattore importante di dissenso riguardava il fatto che per i Paesi socialisti i diritti umani non avrebbero dovuto ledere la sovranità nazionale degli Stati, nel senso che si doveva concepirli in modo da renderli compatibili con il sistema statale. Il ruolo della comunità internazionale avrebbe dovuto essere quello di stabilire dei parametri e direttive sui diritti umani, lasciando poi allo Stato il compito di precisare nel dettaglio quei parametri generali, senza ulteriori controlli. I Paesi occidentali ritenevano ci dovesse essere un continuum tra l’azione internazionale e quella nazionale, per il semplice fatto che gli organi internazionali dovevano avere la possibilità di controllare il rispetto delle norme internazionali da parte dei singoli Stati, i quali spesso le accettavano solo formalmente. Questa questione rimase sempre aperta e ancor oggi viene talvolta riproposta. Una terza matrice, infine, quella nazionalista, era ispirata alla salvaguardia della sovranità nazionale e si rese evidente nella rinuncia ai diritti di ribellione, di petizione contro gli abusi e di protezione delle minoranze nazionali. Un aspetto fondamentale fu poi la decisione di non attribuire valore giuridico vincolante alla Dichiarazione, che rimaneva un impegno di carattere etico-politico, in attesa di norme attuative che comportassero obblighi giuridici per gli Stati. I limiti più evidenti della nuova carta erano senz’altro il fatto che essa non proclamava il diritto dei popoli all’autodeterminazione (per il riconoscimento del quale bisognava aspettare i Patti Internazionali del 1966), non accordava il diritto di petizione alle vittime delle violazioni dei diritti umani (diritto in parte riconosciuto dal Protocollo facoltativo annesso al Patto sui diritti civili e politici del 1966), non riconosceva il diritto dei popoli oppressi a ribellarsi contro un regime dispotico. Si dovette attendere fino al 1966 perché fossero approvati dalle Nazioni Unite i due “Patti Internazionali”, ovvero il “Patto Internazionale sui diritti civili e politici” (con annesso un Protocollo facoltativo) e il “Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali”, che dovevano tradurre in norme vincolanti per gli Stati ratificanti i principi fondamentali enunciati nella Dichiarazione. Tutti assieme, con l’aggiunta dei “Protocolli” opzionali ai Patti, formarono la “Carta Internazionale dei Diritti Umani”. Aperti alle ratifiche da parte degli Stati, il Patto sui diritti civili e politici entrò in vigore nel 1973, mentre l’altro entrò in vigore nel 1976. Al 7 luglio 2003 il primo risulta ratificato da 149 stati, il secondo da 147. L’Italia ratificò entrambi nel 1978.

Advertisement

Innanzitutto il fatto che i Patti fossero due sta ad indicare la cristallizzazione in seno alla comunità internazionale della divisione nel modo di intendere i diritti umani da parte dei due blocchi geopolitici. La prima importante novità fu che entrambi i Patti iniziavano con due disposizioni, agli articoli 1 e 2, in cui si affermava il “diritto all’autodeterminazione dei popoli” e in cui vi era una clausola intesa a vietare ogni discriminazione, nel godimento dei diritti enunciati, “fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica o qualsiasi altra condizione”. L’affermazione che i popoli “decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”, per il quale fine “possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali” (articolo 1), colmava dunque una grave lacuna della Dichiarazione Universale, che non aveva parlato di “diritti dei popoli”, per non contrastare con le potenze occidentali coloniali. Qualcosa era però cambiato nel frattempo: il diritto internazionale recepiva i mutamenti storici legati al processo di “decolonizzazione” degli anni Cinquanta e Sessanta. Al Patto sui diritti civili e politici, per l’impossibilità di trovare un accordo diverso, fu aggiunto un “Protocollo opzionale”, che conferisce al Comitato dei diritti dell’uomo, istituito per vigilare sull’applicazione delle norme, il potere di ricevere e di esaminare “comunicazioni provenienti da individui, i quali pretendano essere vittime di violazioni di un qualsiasi diritto enunciato nel Patto”. Questa possibilità di ricorsi individuali, peraltro molto contrastata a livello internazionale, era una manifestazione evidente dei progressi fatti nel campo della tutela dei diritti umani (anche se ancora oggi non esiste un’analoga facoltà nell’ambito dell’altro Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali). Tale protocollo al 7 luglio 2003 risulta ratificato da 104 Stati (tra cui l’Italia dal 1978, ma non gli U.S.A.). Il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali estendeva la sfera dei diritti inclusi nella Dichiarazione, dove mancava il diritto alla parità di remunerazione tra uomini e donne, quello al miglioramento delle proprie condizioni di vita, la tutela delle lavoratrici madri, la protezione dei bambini dallo sfruttamento economico e sociale. Accanto al processo di “internazionalizzazione” della tutela dei diritti umani, grazie al rafforzarsi delle Nazioni Unite e delle loro agenzie, si

verificava anche un processo parallelo di “regionalizzazione” della protezione, ovvero i vari Paesi e continenti realizzavano propri strumenti di attuazione della Dichiarazione Universale. In accordo con quanto stabilito nella Carta delle Nazioni Unite, sono diversi gli organi che all’interno dell’ONU si occupano della realizzazione dei diritti umani. Tra questi svolgono una funzione centrale l’Assemblea Generale, il Consiglio economico e sociale, la Commissione dei diritti dell’uomo. Ad essi si aggiungono diverse agenzie specializzate delle Nazioni Unite, che svolgono un ruolo di rilievo nella realizzazione pratica dei diritti. Tra queste ricordiamo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS - WHO). Accanto al sistema internazionale di protezione dei diritti umani si svilupparono sistemi di protezione a livello regionale, tra cui il più articolato è certamente quello della comunità europea. Innanzitutto a livello europeo, in seno al Consiglio d’Europa, fu elaborata la “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore il 3 novembre 1953. La ratifica italiana venne con la legge n. 848 del 1955. Ad integrazione della stessa furono elaborati alcuni Protocolli aggiuntivi, tra cui il Sesto nel 1983 prevede l’abolizione della pena di morte. La Convenzione, dopo aver enunciato i diritti fondamentali, istituì due organi, la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo e la Corte europea per i diritti dell’uomo che, assieme al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, avevano il compito di garantire il rispetto dei diritti sanciti. La Commissione è competente ad esaminare, oltre ai ricorsi di uno Stato parte contro un altro parte, anche ricorsi individuali o di gruppi di individui o di organizzazioni non governative; promuove, inoltre, la conciliazione tra le parti in causa e, se questa non si verifica, può ricorrere alla Corte europea per i diritti umani o al Comitato dei Ministri, al quale trasmette un rapporto. Possono ricorrere alla Corte, le cui sentenze hanno forza vincolante per gli Stati, oltre alla Commissione, anche lo Stato accusato oppure lo Stato di cui l’individuo leso è cittadino. Per quanto riguarda nello specifico i diritti economici, sociali e culturali nel sistema di protezione europeo, occorre ricordare la “Carta sociale europea”, redatta dal Consiglio d’Europa e sottoscritta dagli Stati a Torino il 18 ottobre 1961. In

base ad essa gli Stati hanno l’obbligo di presentare rapporti che ne valutano l’attuazione, i quali vengono analizzati da un Comitato di sei esperti indipendenti, eletti dal Comitato dei Ministri. Il 18 dicembre 2000 la Commissione Europea ha approvato la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, che riunisce in un testo unico i diritti enunciati in fonti diverse e aggiorna la precedente Convenzione Europea. Nel preambolo si afferma che i popoli europei hanno deciso di condividere un futuro di pace, fondato sui “valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà”, nonché sui principi di democrazia e dello stato di diritto. Oltre ai tradizionali diritti, si inseriscono il diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali (art. 8), il diritto degli anziani a condurre una vita dignitosa e indipendente (art. 25), la protezione dei consumatori (art.38), la tutela dell’infanzia (art. 24), la piena integrazione dei disabili. Si vietano la pena di morte e la tortura o maltrattamenti (art. 4), la schiavitù (art.5), le espulsioni collettive (art. 18). Si riconoscono il diritto di sciopero e il diritto di asilo. Resta da vedere se questa carta avrà valore vincolante sugli ordinamenti interni degli Stati, in quanto costituisce un passo avanti notevole sulle politiche sociali, sull’immigrazione, sul diritto di asilo e sulla democrazia. All’esperienza europea, la prima e la più evoluta, si ispirò nel quadro dell’“Organizzazione degli Stati Americani” (OSA) la “Convenzione interamericana sui diritti dell’uomo”, firmata a San Josè de Costarica il 22 novembre 1969 ed entrata in vigore il 18 luglio 1978. Più recentemente fu adottata nel quadro dell’ “Organizzazione per l’Unità Africana” (OUA) la “Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli”, siglata a Banjul il 10 gennaio 1981, per un sistema africano di protezione dei diritti umani, entrata in vigore nel 1986. Un’esperienza importante è quella svolta dalla comunità degli Stati arabi, per le specificità culturali che la distinguono dall’esperienza dei Paesi europei. Da un lato, infatti, c’è il giusnaturalismo e la libertà della persona, dall’altro la legge islamica, in cui l’individuo è sottomesso ad Allah, da cui ogni cosa dipende. All’interno della Lega degli Stati Arabi nel 1966 fu istituita una Commissione Permanente Araba per i Diritti Umani, che cominciò l’elaborazione di una Carta Araba dei Diritti Umani. Dei progetti furono presentati nel 1971, nel 1985 e infine nel 1993, quando finalmente si arrivò all’adozione della Carta, il 15 settembre 1994.

Tale documento, aperto alla ratifica degli Stati, garantisce i diritti di libertà della Dichiarazione Universale, i diritti dei popoli a disporre delle proprie ricchezze e a determinare da sé il proprio sviluppo. Viene limitata la pena di morte, escludendola per i minori di anni 18, per le donne incinte e per i prigionieri politici. L’articolo 29 riconosce il diritto di sciopero e di costituire sindacati, nonostante l’opposizione di alcuni Stati arabi. L’articolo 34 obbliga gli Stati a combattere contro l’analfabetismo; l’articolo 39 riconosce il diritto dei giovani a sviluppare la propria capacità intellettuale e fisica. L’articolo 37 riconosce alle minoranze il diritto a manifestarsi e alla libertà di culto. Tale Carta è un passo avanti verso la piena accettazione della Dichiarazione Universale e dei Patti da parte della comunità dei paesi Arabi. Tuttavia il meccanismo giuridico per l’applicazione della Carta è primitivo, se rapportato a quello dell’Unione Europea (un “Comitato di esperti arabi”, sette in tutto, che deve esaminare i rapporti periodici da parte degli Stati membri, ma senza raccogliere denunce degli individui od organismi della società civile). L’emanazione della Carta fu preceduta da alcune dichiarazioni, tra cui la Dichiarazione di Decca sui Diritti Umani nell’Islam del 1983 e la Dichiarazione del Cairo, adottata il 2 agosto 1990 dalla Conferenza dei Ministri degli Affari Esteri della Organizzazione della Conferenza Islamica (O.C.I.). Esse proclamano il rispetto della Sharia come motivo principale per dare uguaglianza agli uomini e sradicare gli egoismi, nel tentativo di fare ascrivere i diritti umani all’interno della tradizione islamica come parte integrante e intrinseca all’Islam. Si riconosce che gli uomini hanno gli stessi diritti e responsabilità, senza distinzioni di razza, colore, lingua, religione, sesso, opinione politica e status sociale. Tuttavia non si fa esplicito riferimento alla Dichiarazione Universale. Una volta gettate le basi del diritto internazionale dei diritti umani, l’evoluzione successiva vide un progressivo processo di “specializzazione”, attraverso la stipula di convenzioni e accordi internazionali su singoli diritti, preceduti spesso da dichiarazioni delle Nazioni Unite. Tra le altre, ricordiamo la “Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale” (in vigore dal 1969, con 168 Stati aderenti al 7 luglio 2003, tra cui l’Italia dal 1975); la “Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”, adottata il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987, che ha istituito il Comitato contro la tortura (133 ratifiche al 7 luglio 2003); la

“Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna”, adottata il 18 dicembre 1979 ed entrata in vigore il 3 settembre 1981 (ratificata da 173 Stati al 7 luglio 2003, in Italia dal 1985); la “Convenzione sullo status di rifugiato”, sottoscritta a Ginevra il 25 luglio 1951; la “Convenzione sui diritti dell’Infanzia” (entrata in vigore il 2 settembre 1990, con 192 Stati parte al 7 luglio 2003, ratificata e resa esecutiva in Italia con Legge 27 maggio 1991). Il 15 dicembre 1989 vi fu l’adozione del “Secondo Protocollo opzionale” annesso al Patto internazionale sui diritti civili e politici, finalizzato all’abolizione della pena di morte, che i Paesi aderenti si impegnavano ad eliminare totalmente (49 al 7 luglio 2003). Nel corso degli anni ‘60 e ‘70, anche per il contributo dei Paesi in via di sviluppo, si vennero affermando sulla scena internazionale una nuova serie di diritti umani, detti “diritti di solidarietà” o “diritti di terza generazione”. L’espressione fu usata per la prima volta a metà anni Settanta da Wasak, direttore dell’Istituto internazionale dei diritti umani di Strasburgo. Essi comprendevano il diritto all’ambiente, il diritto alla pace, il diritto al patrimonio comune all’umanità, il diritto allo sviluppo. Il diritto alla pace venne proclamato dall’Assemblea Generale il 12 novembre 1984, quando si affermò che “i popoli del nostro pianeta hanno il sacro diritto alla pace e di conseguenza la salvaguardia del diritto dei popoli alla pace e la promozione della sua realizzazione costituiscono un fondamentale obbligo di ogni Stato”. Il diritto allo sviluppo fu formalmente riconosciuto in una dichiarazione delle Nazioni Unite del 1986, certamente in ritardo. L’ampliarsi e storicizzarsi della legislazione in materia di diritti umani nel tempo ha reso meno attuale il tema della pretesa “universalità” di norme che in pratica, sostenevano molti critici, provenivano da un’unica matrice culturale. A tal proposito si possono distinguere almeno due scuole di pensiero. Da un lato ci sono gli “universalisti”, fautori della tesi della rivoluzionarietà dei diritti umani in quanto portatori di una nuova etica globale; dall’altro ci sono i “relativisti”, che in ambito filosofico e antropologico sostengono la tesi dell’egemonia politico-diplomatica e culturale dell’Occidente nell’elaborazione dei diritti umani. Recentemente sta prevalendo una linea di mediazione tra l’impianto teorico e politico dei diritti e la sua realtà locale di applicazione. Infatti le culture non occidentali hanno prodotto delle proprie carte dei diritti, come emanazione della Dichiarazione Universale. Gli antropologi vedono una conflittualità aperta tra Occidente, che fonda i diritti sull’esclusività dell’individuo, slegandolo

da appartenenze culturali ed etniche, e altre culture che esaltano proprio tali appartenenze. Secondo Antonio Papisca, il fatto che i diritti umani siano innati e connaturati alla persona, dunque inalienabili e inviolabili come nella tradizione liberale, è un baluardo in difesa degli stessi e della persona contro ogni mutamento storico o politico che possa rimetterli in discussione, riportando la sovranità statale al di sopra della sovranità della persona. Non a caso tra i maggiori critici della universalità dei diritti umani ci sono alcuni Stati autoritari (come Malaysia, Singapore, Emirati Arabi, Cina). Dall’altro lato un numero crescente di organizzazioni per i diritti umani, anche in Asia e Africa, asseriscono la loro universalità. Se inizialmente la piattaforma dei diritti fu il frutto del lavoro di pochi Stati occidentali, tuttavia dagli anni ‘60 in poi gli Stati del Sud del mondo sono stati protagonisti dell’evoluzione dei diritti umani. Anche la dicotomia della guerra fredda tra diritti civili e politici contro diritti sociali ed economici si è venuta ricucendo tra gli anni ‘80 e ‘90, quando in varie dichiarazioni si è affermata l’indivisibilità dei diritti umani. In altre parole, non era vero che per raggiungere un certo grado di ‘sviluppo’ economico certi Stati erano legittimati ad ignorare o trascurare diritti politici o sociali di libertà e democrazia. Solennemente ciò fu affermato nella Dichiarazione conclusiva della Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna nel 1993. Un problema, denunciato da Papisca, è quello della tendenza in atto a legare i diritti umani a quelli di cittadinanza, in questo tradendo i dettami della Dichiarazione Universale. Infatti, se i diritti spettano alla persona in quanto tale, in quanto avente una dignità umana, non si potrà vincolare il godimento dei diritti al fatto di avere o no una cittadinanza, come ad esempio quella europea. I diritti sono della persona prima che del cittadino. Su questi temi è acceso un forte dibattito interno alle istituzioni europee.

La legislazione italiana nel campo della discriminazione “razziale”, etnica, religiosa e nazionale

La materia degli atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e delle relative azioni civili e penali, è regolata essenzialmente dagli articoli 43 e 44 del decreto legislativo n.286/1998 (Testo

Unico sull’immigrazione) e dalle disposizioni contenute nella legge n.654 del 1975 – di ratifica della convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale – nonché nel decreto-legge 26.4.1993, n.122, convertito con modificazioni nella legge n.205 del 1933 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale etnica e religiosa). Accanto a questi provvedimenti di fondamentale importanza, le due direttive europee (n.43/2000 e n.78/2000) recentemente recepite nell’ordinamento italiano. Riportiamo di seguito gli articoli citati (43 e 44) che la nuova Legge Bossi-Fini (n. 189/2002) sull’immigrazione non ha abrogato, perché di fondamentale importanza per la tutela dei diritti delle persone a rischio di discriminazione. “1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica (…)”. Questa definizione riprende a sua volta letteralmente la definizione di discriminazione che si ritrova nella convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale di New York (1966). L’Articolo prosegue identificando gli autori degli atti di discriminazione: “2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l’esercizio di un’attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità; e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Il presente articolo e l’articolo 44 si applicano anche agli atti xenofobi, razzisti o discriminatori compiuti nei confronti dei cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea presenti in Italia. Art. 44. Azione civile contro la discriminazione (L. 6-3-1998, n. 40, art.42). 1. Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni

altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. 2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell’istante. 3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto. 4. Il pretore provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto della domanda. Se accoglie la domanda, emette i provvedimenti richiesti che sono immediatamente esecutivi. 5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato, assunte, ove occorra, sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni, assegnando all’istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza il pretore, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati nel decreto. 6. Contro i provvedimenti del pretore é ammesso reclamo al tribunale nei termini di cui all’articolo 739, secondo comma, del codice di procedura civile. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di procedura civile. 7. Con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale. 8. Chiunque elude l’esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi 4 e 5 e dei provvedimenti del tribunale di cui al comma 6 é punito ai sensi dell’articolo 388, primo comma, del codice penale. 9. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del comportamento discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o linguistico, della provenienza geografica, della confessione religiosa o della cittadinanza può dedurre elementi di fatto anche a carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti dell’azienda

interessata. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all’articolo 2729, primo comma, del codice civile. 10. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche in casi in cui non siano individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere presentato dalle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del presente articolo, ordina al datore di lavoro di definire, sentiti i predetti soggetti e organismi, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. 11. Ogni accertamento di atti o comportamenti discriminatori ai sensi dell’articolo 43 posti in essere da imprese alle quali siano stati accordati benefici ai sensi delle leggi vigenti dello Stato o delle

Regioni, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, di servizi o di forniture, é immediatamente comunicato dal pretore, secondo le modalità previste dal regolamento di attuazione, alle amministrazioni pubbliche o enti pubblici che abbiano disposto la concessione del beneficio, incluse le agevolazioni finanziarie o creditizie, o dell’appalto. Tali amministrazioni o enti revocano il beneficio e, nei casi più gravi, dispongono l’esclusione del responsabile per due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie, ovvero da qualsiasi appalto. 12. Le regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, con le associazioni di immigrati e del volontariato sociale, ai fini dell’applicazione delle norme del presente articolo e dello studio del fenomeno, predispongono centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale per gli stranieri, vittime delle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.”

Di seguito si riporta integralmente il testo del decreto legislativo con cui il Governo italiano ha recepito la direttiva 2000/43/CE, per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

DECRETO LEGISLATIVO 9 luglio 2003, n. 215 Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. (GU n. 186 del 12-8-2003) Testo in vigore dal: 27-8-2003

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione; Vista la direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, sull’attuazione del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica; Visto l’articolo 29 della legge 1° marzo 2002, n. 39, ed in particolare l’allegato B; Visto il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni; Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 28 marzo 2003; Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 3 luglio 2003; Sulla proposta del Ministro per le politiche comunitarie, del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro degli affari esteri, con il Ministro della giustizia e con il Ministro dell’economia e delle finanze;

Emana il seguente decreto legislativo:

Art. 1. - Oggetto 1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, disponendo le misure necessarie affinché le differenze di razza o di origine etnica non siano causa di discriminazione, anche in un’ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini, nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

Art. 2. - Nozione di discriminazione 1. Ai fini del presente decreto, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite: a) discriminazione diretta quando, per la razza o l’origine etnica, una persona è

trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. 2. È fatto salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, di seguito denominato: «testo unico». 3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo. 4. L’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine etnica è considerato una discriminazione ai sensi del comma 1.

Art. 3. - Ambito di applicazione 1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale, secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree: a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; d) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni; e) protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale; f) assistenza sanitaria; g) prestazioni sociali; h) istruzione; i) accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio. 2. Il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all’ingresso, al soggiorno, all’accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, né qualsiasi trattamento, adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti.

3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all’origine etnica di una persona, qualora, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima. 4. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.

Art. 4. - Tutela giurisdizionale dei diritti 1. La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all’articolo 2 si svolge nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico. 2. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una delle discriminazioni di cui all’articolo 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile o, nell’ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite le associazioni di cui all’articolo 5, comma 1. 3. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dell’articolo 2729, primo comma, del codice civile. 4. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. 5. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 4, che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. 6. Il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza di cui ai commi 4 e 5, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale. 7. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

Art. 5. - Legittimazione ad agire 1. Sono legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 4, in forza di delega, rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, in nome e per

conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione. 2. Nell’elenco di cui al comma 1 possono essere inseriti le associazioni e gli enti iscritti nel registro di cui all’articolo 52, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, nonché le associazioni e gli enti iscritti nel registro di cui all’articolo 6. 3. Le associazioni e gli enti inseriti nell’elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 4 nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.

Art. 6. - Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni 1. Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunità è istituito il registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni e della promozione della parità di trattamento. 2. L’iscrizione nel registro e’ subordinata al possesso dei seguenti requisiti: a) avvenuta costituzione, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, da almeno un anno e possesso di uno statuto che sancisca un ordinamento a base democratica e preveda come scopo esclusivo o preminente il contrasto ai fenomeni di discriminazione e la promozione della parità di trattamento, senza fine di lucro; b) tenuta di un elenco degli iscritti, aggiornato annualmente con l’indicazione delle quote versate direttamente all’associazione per gli scopi statutari; c) elaborazione di un bilancio annuale delle entrate e delle uscite con indicazione delle quote versate dagli associati e tenuta dei libri contabili, conformemente alle norme vigenti in materia di contabilità delle associazioni non riconosciute; d) svolgimento di un’attività continuativa nell’anno precedente; e) non avere i suoi rappresentanti legali subito alcuna condanna, passata in giudicato, in relazione all’attività dell’associazione medesima, e non rivestire i medesimi rappresentanti la qualifica di imprenditori o di amministratori di imprese di produzione e servizi in qualsiasi forma costituite, per gli stessi settori in cui opera l’associazione. 3. La Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le pari opportunità provvede annualmente all’aggiornamento del registro.

Art. 7. - Ufficio per il contrasto delle discriminazioni 1. È istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le pari opportunità un ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica, con funzioni di

controllo e garanzia delle parità di trattamento e dell’operatività degli strumenti di tutela, avente il compito di svolgere, in modo autonomo e imparziale, attività di promozione della parità e di rimozione di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla razza o sull’origine etnica, anche in un’ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini, nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso. 2. In particolare, i compiti dell’ufficio di cui al comma 1 sono i seguenti: a) fornire assistenza, nei procedimenti giurisdizionali o amministrativi intrapresi, alle persone che si ritengono lese da comportamenti discriminatori, anche secondo le forme di cui all’articolo 425 del codice di procedura civile; b) svolgere, nel rispetto delle prerogative e delle funzioni dell’autorità giudiziaria, inchieste al fine di verificare l’esistenza di fenomeni discriminatori; c) promuovere l’adozione, da parte di soggetti pubblici e privati, in particolare da parte delle associazioni e degli enti di cui all’articolo 6, di misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni positive, dirette a evitare o compensare le situazioni di svantaggio connesse alla razza o all’origine etnica; d) diffondere la massima conoscenza possibile degli strumenti di tutela vigenti anche mediante azioni di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul principio della parità di trattamento e la realizzazione di campagne di informazione e comunicazione; e) formulare raccomandazioni e pareri su questioni connesse alle discriminazioni per razza e origine etnica, nonché proposte di modifica della normativa vigente; f) redigere una relazione annuale per il Parlamento sull’effettiva applicazione del principio di parità di trattamento e sull’efficacia dei meccanismi di tutela, nonché una relazione annuale al Presidente del Consiglio dei Ministri sull’attività svolta; g) promuovere studi, ricerche, corsi di formazione e scambi di esperienze, in collaborazione anche con le associazioni e gli enti di cui all’articolo 6, con le altre organizzazioni non governative operanti nel settore e con gli istituti specializzati di rilevazione statistica, anche al fine di elaborare linee guida in materia di lotta alle discriminazioni. 3. L’ufficio ha facoltà di richiedere ad enti, persone ed imprese che ne siano in possesso, di fornire le informazioni e di esibire i documenti utili ai fini dell’espletamento dei compiti di cui al comma 2. 4. L’ufficio, diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei

Ministri o da un Ministro da lui delegato, si articola secondo le modalità organizzative fissate con successivo decreto del Presidente del consiglio dei Ministri, con cui si provvede ad apportare le opportune modifiche al decreto del Presidente del

Consiglio dei Ministri in data 23 luglio 2002, recante ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, pubblicato nella Gazzetta

Ufficiale n. 207 del 4 settembre 2002. 5. L’ufficio può avvalersi anche di personale di altre amministrazioni pubbliche, ivi compresi magistrati e avvocati e procuratori dello Stato, in posizione di comando,

aspettativa o fuori ruolo, nonché di esperti e consulenti esterni. Si applica l’articolo 17, commi 14 e 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127. 6. Il numero dei soggetti di cui al comma 5 e’ determinato con il decreto di cui al comma 4, secondo quanto previsto dall’articolo 29 della legge 23 agosto 1988, n. 400 e dall’articolo 9 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 303. 7. Gli esperti di cui al comma 5 sono scelti tra soggetti, anche estranei alla pubblica amministrazione, dotati di elevata professionalità nelle materie giuridiche, nonché nei settori della lotta alle discriminazioni, dell’assistenza materiale e psicologica ai soggetti in condizioni disagiate, del recupero sociale, dei servizi di pubblica utilità, della comunicazione sociale e dell’analisi delle politiche pubbliche. 8. Sono fatte salve le competenze delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano.

Art. 8. - Copertura finanziaria 1. Agli oneri finanziari derivanti dall’istituzione e funzionamento dell’ufficio di cui all’articolo 7, nel limite massimo di spesa di 2.035.357 euro annui a decorrere dal 2003, si provvede ai sensi dell’articolo 29, comma 2, della legge 1° marzo 2002, n. 39. 2. Fatto salvo quanto previo dal comma 1, dall’attuazione del presente decreto non derivano oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato.

Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Dato a Roma, addì 9 luglio 2003 CIAMPI Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri Buttiglione, Ministro per le politiche comunitarie Maroni, Ministro del lavoro e delle politiche sociali Prestigiacomo, Ministro per le pari opportunita’ Frattini, Ministro degli affari esteri Castelli, Ministro della giustizia Tremonti, Ministro dell’economia e delle finanze Visto, il Guardasigilli: Castelli

C - La comunicazione interculturale

Suggerimenti per un corretto uso e la corretta interpretazione delle schede sulle religioni

Per la corretta interpretazione delle schede che seguono è bene leggere i capitoli 3 e 4 del manuale, oltre alle precisazioni che seguono, avendo chiaro che ridurre religioni millenarie, diffuse in tanti Paesi diversi e che uniscono miliardi di credenti nel mondo a poche, misere pagine, può apparire un’operazione “presuntuosa” se non se ne comprendono gli scopi e i limiti che gli stessi autori del manuale e di questi testi denunciano. Le schede sono state scritte per fornire agli operatori di polizia un modello per la raccolta delle informazioni che hanno rilevanza per il lavoro quotidiano sul territorio. Per esempio, se un poliziotto dovesse organizzare la perquisizione di una casa di persone di religione musulmana, dovrebbe sapere che ci possono essere principi o usanze particolari da rispettare, forse il non introdurre cani nell’abitazione o togliersi le scarpe prima di entrare. Cercare di entrare con le scarpe e con un cane potrebbe creare una resistenza causata da un profondo sentimento di offesa all’imposizione di tanta impurezza e sporcizia dentro la casa. Il poliziotto che non è consapevole del motivo di una reazione ostile alla perquisizione (un’esperienza probabilmente spiacevole per chiunque) rischia di interpretarla come il tentativo di nascondere qualcosa di illecito – interpretazione che potrebbe portare ad un’enorme perdita di tempo per tutti quanti e un alto livello di stress e conflitto. Conflitti forse evitabili se il poliziotto – consapevole - spiegasse, con comprensione per l’offesa che sarebbe procurata, la necessità di usare il cane, oppure potrebbe togliere le scarpe o promettere di pulirle molto bene o anche soltanto spiegare il proprio rammarico di non poterle togliere perché in servizio. È bene sapere poi che non in tutte le famiglie queste usanze sono rispettate con rigore. Va detto per chiarezza che se è necessario perquisire una casa con l’ausilio di un cane, allora la casa deve essere perquisita. Capire – e dimostrare di capire - il disagio delle persone che ci abitano non significa necessariamente scusarsi per il lavoro che si deve svolgere ma ridurre la tensio-