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dello stereotipo anti-immigrato

4- Il ruolo dei mass-media nella diffusione dello stereotipo anti-immigrato

Viviamo in una società dominata dai mezzi di comunicazione di massa che influenzano i nostri atteggiamenti, i nostri pregiudizi e persino condizionano i nostri comportamenti. Le immagini che irrompono quotidianamente nelle nostre case, le notizie e i commenti che i giornali riportano danno forma alla comprensione che abbiamo della società nella quale viviamo. La capacità di influenzarci che hanno i mass media cresce via via che aumenta la rapidità con la quale avvengono le comunicazioni e con il nascere e sovrapporsi di sempre nuovi media, ieri la televisione, oggi internet. Con l’uso accorto e competente dei mass media si influenzano le opinioni politiche degli elettori fino al punto che il confronto democratico dei programmi elettorali è diventato un faccia a faccia televisivo e decisivo tra i due candidati delle opposte forze politiche in campo, si conducono battaglie giudiziarie, si influenzano il comportamento e le aspirazioni di milioni di adolescenti e i consumi di milioni di famiglie. Come si potrebbe pensare che l’immagine che noi abbiamo di una società multietnica e multiculturale non faccia parte delle rappresentazioni che, influenzate dai mass media, danno forma alle nostre opinioni e ai nostri comportamenti nei confronti dei migranti e delle persone di origine etnica minoritaria? Un esempio illuminante dell’importanza dei media nella diffusione di stereotipi e pregiudizi e nell’orientamento del dibattito pubblico sul tema dell’immigrazione è sicuramente attinente al ruolo dei mezzi di comunicazione nella diffusione delle notizie sulla criminalità degli immigrati (tematica su cui ci siamo già diffusamente soffermati nel corso del secondo capitolo). L’inizio degli anni Novanta è il periodo nel quale si comincia a parlare (sia sulle pagine dei giornali che nelle agende degli uomini politici) di un’ “emergenza sicurezza” a livello nazionale e la presenza dei migranti di origine extracomunitaria è sempre più messa in relazione con il verificarsi di crimini più o meno gravi nelle nostre città. Nel settore dell’informazione mediatica il tema diventa, così, oggetto di frequenti e martellanti campagne di stampa e ciò viene caratterizzato, nei giornali di allora, da un’evidente selezione delle notizie fornite al pubblico, sia di tipo quantitativo che di tipo qualitativo.

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Sotto il primo versante, svariate ricerche concordano nel rilevare che in quegli anni il numero di articoli che trattano l’argomento immigrazionecriminalità cresce in misura esponenziale (secondo Maneri arriverebbero a coprire il 56% dell’informazione sull’immigrazione nel suo complesso), a scapito degli articoli che invece parlavano di diversi aspetti collegati ai fenomeni migratori (il tema del razzismo, delle condizioni disagiate dei migranti, delle specificità culturali di tali soggetti, ecc.). Ma l’aspetto maggiormente significativo è quello attinente alla qualità di queste variazioni. In una società della comunicazione di massa che tende a rendere attraenti ed a spettacolarizzare sempre più le notizie che diffonde, la ricerca dello shock emotivo prevale sullo sforzo di approfondimento e di comprensione del fenomeno descritto, soprattutto quando i media si occupano di crimine e di devianza. Ecco quindi che i mezzi di informazione, nella tematica immigrazione-criminalità, iniziano a far ricorso ad un linguaggio di tipo simbolico, capace di generare reazioni emozionali forti nei loro fruitori (attingendo, per esempio, a piene mani dal linguaggio di tipo bellico per descrivere le “invasioni” dei migranti, le città in “stato d’assedio”, la “battaglia” contro la criminalità degli immigrati, ecc.); un linguaggio che fa, dunque, un uso massiccio di immagini stereotipe, che spesso riprende (senza verificarli) le denunce confuse e vagamente razziste dell’“uomo della strada” e che tende a ritrarre i fenomeni devianti che descrive come fatti vieppiù incontrollabili, pericolosi per l’ordine sociale e per la vita stessa dei cittadini (cfr. Maneri, 1998; Quirico, 1992). Il problema è che, trattandosi di informazioni che entrano in un complesso meccanismo comunicativo di massa, i mass-media non si limitano a fornire ai propri lettori informazioni più o meno distorte ed amplificate sul fenomeno descritto. Essi danno vita ad un duplice meccanismo di risposta (o feed-back) a tali notizie: quello dei soggetti di origine etnica minoritaria descritti nelle cronache – che possono arrivare ad identificarsi nell’etichetta pubblicamente attribuita loro, radicalizzando i loro comportamenti devianti (cfr. le teorie dell’etichettamento esposte nel secondo capitolo) –e quella degli altri attori sociali presenti sulla scena pubblica. Queste vere e proprie campagne di “panico diffuso” vengono così sfruttate da taluni rappresentanti del mondo politico, degli ambienti intellettuali e dei comitati di cittadini per legittimare la sempre più pressante richiesta di misure legislative o repressive ad hoc nei confronti dei soggetti additati come potenzialmente pericolosi per la nostra società o per mobilitare l’opinione

ESEMPIO

pubblica in occasione di nuove emergenze. Con il probabile esito di un’ulteriore criminalizzazione degli immigrati (e degli altri soggetti marginali della nostra società) e, quindi, di una giustificazione a posteriori della fondatezza degli allarmi sociali già innescati. Viene così a prodursi (ed a riprodursi) un perverso circolo vizioso (o “corto circuito sicuritario”), in cui i mass-media giocano un ruolo decisivo per quell’operazione di manipolazione emotiva che è alla base dell’insorgere delle paure e delle ossessioni sicuritarie nella collettività e della colpevolizzazione pubblica della figura dell’immigrato di origine extracomunitaria nel nostro Paese.

Un esempio interessante sul ruolo dei mass-media nel processo di diffusione di determinati messaggi e/o stereotipi e sulle modalità attraverso le quali i mezzi di comunicazione selezionano le notizie da “dare in pasto” ai loro lettori ci proviene da una recente ricerca sui comitati di cittadini attivi nella città di Modena e sui loro rapporti con i mass-media locali (cfr. Poletti, 2002). Secondo i vari leader dei comitati intervistati, la visibilità sui giornali e sulle televisioni locali delle proteste messe in pratica dai comitati modenesi contro lo spaccio di droga e contro la prostituzione esistenti nelle zone del centro storico ebbe un’importanza fondamentale per dare maggiore peso a tali organizzazioni e per indurre le autorità politiche e le forze dell’ordine locali ad intervenire pesantemente contro i fenomeni denunciati. Grazie a tale visibilità i comitati di Modena sono riusciti, in poco tempo, a diventare uno stabile interlocutore sia delle autorità comunali (con cui collaborano nell’organizzazione e nella concertazione delle locali politiche di sicurezza), sia delle forze dell’ordine di cui sono diventati, a detta della capo-ufficio di gabinetto della locale Questura “l’occhio della polizia laddove noi non riusciamo ad arrivare”. La cosa particolarmente interessante è il rapporto diretto che molti di questi comitati erano riusciti ad instaurare con i media locali, tanto che in molti casi si può dire che il punto di vista dei comitati abbia rappresentato la principale fonte d’informazione utilizzata dai giornali nel descrivere la situazione della sicurezza urbana nella città modenese. Questi rapporti diretti, favoriti in alcuni casi dalle specifiche e smaliziate conoscenze di alcuni membri dei comitati (che prima di occuparsi di sicurezza dei quartieri avevano lavorato nelle radio o nei giornali locali), facevano sì che i rappresentanti di questi gruppi contattassero le testate locali nei momenti più adatti al raggiungimento del loro scopo, e cioè soprattutto

nei cosiddetti “periodi di stanca” delle notizie (così che i mezzi d’informazione potessero concentrare le loro energie in campagne di stampa martellanti sul tema della sicurezza) oppure nelle fasi immediatamente precedenti le elezioni locali (in modo da esercitare una particolare pressione sui rappresentanti politici locali). Veniva così a realizzarsi una sorta di “patto di reciproco interesse” fra media e comitati: i primi disponevano di una produzione relativamente continua di notizie che suscitavano l’interesse (e l’allarme) dei loro lettori, mentre i secondi accrescevano la propria visibilità ed importanza, incarnando di fatto il punto di vista del “cittadino comune” (o dell’uomo della strada) che confermava i luoghi comuni sul “dilagare” di determinati fenomeni criminosi e richiedeva l’adozione di urgenti provvedimenti di natura repressiva. Poco importava ai mezzi di comunicazione locali che le notizie diffuse fossero anche veridiche o perlomeno realistiche: nel corso della ricerca gli stessi leader dei comitati confermavano che spesso fornivano ai giornalisti notizie gonfiate esageratamente o vecchie di qualche mese, purché fossero notizie “pubblicabili” nei momenti giusti, in modo da dare risonanza alla loro voce. Fin troppo facile, poi, prevedere il bersaglio delle proteste di tali gruppi: gli immigrati extracomunitari, accusati di aver provocato un aumento dei fenomeni di microcriminalità nella città modenese da quando la loro presenza s’era fatta più consistente (malgrado le statistiche ufficiali smentissero in buona parte tale tesi). E altrettanto immaginabile, una volta che i comitati riuscirono ad imporre il loro punto di vista alle autorità locali, il tipo di risposta adottato dalle forze dell’ordine locali: una serie di puntuali “retate” che prendevano di mira principalmente gli immigrati irregolari presenti sul territorio, e la loro “detenzione” all’interno del locale centro di permanenza temporanea, fatto costruire appositamente per rispondere alle esigenze di sicurezza della popolazione locale.

ESEMPIO

Una recente ricerca condotta da CENSIS e COSPE nell’ambito del progetto europeo Tuning in to Diversity9 si è soffermata sulla rappresentazione dell’immigrato nella televisione e nella stampa quotidiana e periodica italiana. Ne è risultata un’immagine razzista e quasi sempre confinata nella cronaca nera. L’immagine negativa degli immigrati rappresenta complessivamente per il mezzo televisivo l’83% delle notizie e delle immagini proposte dalle televisioni sia pubbliche che private. Le trasmissioni nelle quali si parla maggiormente degli immigrati sono i telegiornali (95,4%) e quasi sempre per fatti di cronaca nera, dove l’argomento prevalentemente trattato è la criminalità e l’illegalità. L’analisi della stampa non fa che confermare le conclusioni dell’indagine sulle televisioni. Un’indagine commissionata dall’Osservatorio di Vienna sul Razzismo e la Xenofobia (EUMC) conclusasi nel 200010 ha messo in evidenza che il focus negativo (problema, crimine, conflitti) nelle notizie sulle minoranze etniche, culturali e religiose è un fenomeno che non risparmia nessun Paese dell’Unione. Ciò che si rileva ovunque è una tendenza generalizzata ad enfatizzare e ad esagerare la qualità e la quantità di crimini commessi da persone di origine etnica minoritaria. Specie nei sommari e nei titoli si stabilisce un collegamento tra l’origine etnica e il comportamento criminale o deviante. È questo, come abbiamo visto, ciò che costituisce la base per le generalizzazioni che associano i migranti con il crimine. Al punto che in alcuni paesi (Spagna e Gran Bretagna, per esempio) simili associazioni tra i migranti e la criminalità sono state proibite e denunciate dall’ordine dei giornalisti o sono oggetto di una severa autoregolamentazione da parte delle stesse emittenti televisive e testate giornalistiche. Anche in Italia molti giornalisti e associazioni hanno segnalato la scorrettezza di questo modo di riportare le notizie e proposto più di una carta di autoregolamentazione che sono rimaste, purtroppo, inascoltate. Le ricerche mostrano anche che altre forme di servizi o articoli sugli aspetti meno visibili dell’immigrazione, o le cause di esclusione sociale che vi soggiacciono, così come le ostilità e le forme di razzismo, sono quasi del tutto inesistenti. La società che viene presentata nelle fiction, nei programmi d’intrattenimento e di approfondimento è, con rarissime eccezioni, una società monoculturale di fatto inesistente. È chiaro che questo non solo rafforza nella popolazione autoctona la sensazione che ci siano degli “altri”, degli “intrusi” ma aliena ancor più le persone immigrate che non si vedono rappresentate e non possono riconoscersi nella società nella quale vivono e che i media riflettono.

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