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5 – L’azione della polizia

I mezzi di comunicazione di massa possono essere una brutale arma di discriminazione dei gruppi etnici minoritari, oppure possono rappresentare un ponte di comunicazione fra culture differenti. Dipende dal modo con cui essi vengono utilizzati. Un esempio di tipo negativo. Qualche anno fa, il figlio del presidente di un’associazione cinese di Firenze morì tragicamente; ai suoi funerali parteciparono centinaia di persone, fra parenti ed amici della famiglia. Il giorno dopo un giornale locale presentò un articolo sul funerale, intitolato “MUORE IL FIGLIO DI UN BOSS CINESE. CENTINAIA AL FUNERALE”. Il contenuto dell’articolo descrisse quel funerale come se si fosse trattato della scena del film “L’anno del dragone”, in cui si svolgeva il funerale di un boss della mafia cinese a New York. Ciò provocò, ovviamente, un forte sentimento di rabbia ed irritazione nella comunità cinese di Firenze che protestò con quel giornale e perse la fiducia nei mezzi di comunicazione italiani. Un esempio positivo. Il mensile bilingue “Zhong Yi Bao”, edito dal Cospe, già da diversi anni costituisce una preziosa fonte di informazioni utili per la comunità cinese di Firenze e fornisce un utile servizio ai comuni ed alle province di Firenze e di Prato, ponendosi come vero e proprio ponte di comunicazione fra enti pubblici ed immigrati. Inoltre tale organo d’informazione riesce a far arrivare alle autorità locali un quadro realistico delle condizioni e delle opinioni della comunità cinese stanziata sul territorio. In questo modo, esso è riuscito a guadagnarsi la fiducia degli immigrati come fonte di riferimento della comunità cinese stanziata in quella zona.

L’erogazione di un servizio di polizia equo e professionalmente valido ricade sulla polizia stessa, la responsabilità per la sicurezza e la tranquillità pubblica è però della società intera. Senza la cooperazione del pubblico la polizia non può fare molto, in una società democratica. I rapporti fra polizia e le comunità di etnie minoritarie non si discostano da questo principio ma, poiché questi rapporti sono relativamente nuovi rispetto ai rapporti con altre categorie sociali, sarà necessario avere una strategia coe-

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ESEMPIO

rente per assicurare che i rapporti continuino buoni laddove già lo sono e che migliorino laddove ancora non sono sufficientemente buoni. Il primo passo è quello di stabilire qual è lo stato dei rapporti attuali, procedere ad un’analisi e adottare le strategie e le azioni più appropriate: > La prima domanda da porsi è: chi avrà la responsabilità di fare un’analisi della situazione? Una possibilità è di nominare un responsabile o forse creare un apposito ufficio per le relazioni con le comunità etniche minoritarie. Mentre questa soluzione ha il notevole vantaggio di garantire che il tema sarà affrontato, essa comporta però il rischio che l’argomento diventi responsabilità unicamente di quell’ufficio e che non diventi mai una parte normale del lavoro della polizia, elemento che potrebbe contrastare proprio con il principio di mainstreaming11 . > È necessario insomma aprire un dialogo. Per evitare che le strategie e le azioni intraprese dalla polizia siano totalmente autoreferenziali, e cioè basate sull’idea che la polizia può decidere da sola se i rapporti vanno bene o no, é bene adottare sin dall’inizio un approccio di partenariato fra la polizia e le comunità in questione, promuovendo relazioni continue tra le due parti. Ciò può avvenire a tre livelli, due di tipo formale ed uno informale: a) il livello formale dei tavoli di lavoro da tenere a cadenze regolari, con ordini del giorno precisi, su temi individuati da entrambe le parti o su proposta di uno dei due gruppi (é questa una realtà già presente in molte città; ne possono essere un esempio i “gruppi di contatto” di cui si parla al paragrafo successivo, oppure gli incontri periodici fra rappresentanti delle Questure e dei gruppi minoritari presenti in un determinato territorio); b) il livello ancora formale di partecipazione di operatori di polizia (qualora siano invitati) ad eventi organizzati dalle comunità di origine etnica minoritaria, come feste e convegni e, viceversa, l’invito esteso ai rappresentanti delle comunità a partecipare a eventi pubblici organizzati dalla Polizia; c) infine il livello informale dei contatti personali e quotidiani, in base ai quali diventa normale e bene accetto, per esempio, che un operatore di polizia entri in una moschea per un rapido saluto alle persone che vi si trovano in quel momento, senza che questo atto

venga necessariamente percepito come un controllo di polizia. Va da sé che questo tipo di comportamenti non può essere adottato da un giorno all’altro, senza un’adeguata preparazione e senza che si sia instaurata una base di fiducia reciproca sulla quale costruire importanti passi futuri. In questa direzione va certamente il ruolo del poliziotto di quartiere e la filosofia d’approccio della polizia di prossimità (vedi cap. 2, § 4). D’altra parte, quello delle buone relazioni e del partenariato con le comunità di origine etnica minoritaria è uno dei mezzi a disposizione della polizia per non ricorrere sistematicamente ed unicamente ai posti di controllo per la prevenzione e la repressione dei crimini, incoraggiando al contempo la segnalazione di casi di discriminazione e molestie (per approfondimenti sulle mancate segnalazioni di casi di discriminazione si veda il cap. 6, § 3). > La leadership, cioè le cariche più alte nella polizia, sia al livello nazionale che locale, deve dare il buon esempio. Questa regola si applica anche a voi stessi, perché la responsabilità di avviare e mantenere un dialogo non può essere limitata ai gradi più bassi. Toccherà a voi, e agli altri funzionari, assicurare che esista una politica chiara e ben pubblicizzata, sia all’interno della polizia che al pubblico, per affrontare la situazione. L’inizio del dialogo può essere facilitato se le comunità stesse sono coinvolte nella ricerca da svolgere per stabilire la natura dei rapporti esistenti fra le due parti e se il dialogo è ufficialmente e personalmente offerto e proposto da un dirigente della Polizia. > Serviranno statistiche sull’operato della polizia, soprattutto su attività altamente visibili come il controllo e perquisizione per strada o gli interventi sullo spaccio di droga o la prostituzione. Chi viene controllato per strada? Chi è arrestato per attività connesse alla droga? L’attività della polizia riesce a colpire la criminalità in modo significativo? Il lavoro di polizia del quartiere migliora la sicurezza e la tranquillità di tutti o solo delle persone più influenti o numerose, mentre quelle innocenti ma appartenenti alle etnie minoritarie vivono in uno stato di sicurezza minore, sicure solo della maggiore probabilità che corrono di essere controllati dalla polizia? Queste, ad esempio, alcune delle domande da porsi. Vogliamo richiamare l’importanza, per la polizia ancor più che per altre organizzazioni, di procedere sulla base d’ipotesi di lavoro invece che

sulla base di stereotipi, una differenziazione che produce effetti sostanziali sull’agire della polizia. Infatti mentre, come abbiamo spiegato, gli stereotipi resistono anche di fronte alla prova del contrario, le ipotesi di lavoro sono soggette alla disconferma. Si ricorderà il caso della moglie che, in una regione del Nord-Est, sorpresa dal marito con l’amante nel salotto di casa, con l’aiuto dello stesso amante colpì il coniuge e, credendolo morto, chiamò i carabinieri per denunciare un’aggressione da parte di albanesi. Prima ancora che fossero svolte delle indagini, si diffuse la notizia che coincideva perfettamente con l’immagine dell’albanese criminale e la conseguenza immediata fu che gruppi di cittadini organizzarono nella zona ronde anti-immigrati. Quel modo di operare senza sottoporre a verifica ciò che, a quello stadio, è solo un’ipotesi, è una modalità che non può essere riconosciuta come professionale, mentre trattare il caso come un caso da investigare avrebbe permesso di non diffondere notizie le cui conseguenze sono disastrose per la società nel suo complesso ma in particolare per le comunità di albanesi e per tutti gli stranieri. Indagini successive stabilirono poi la verità dei fatti: a distanza di qualche tempo, la donna ammise che non si trattava di albanesi ma del suo amante le cui effusioni in tarda notte avevano svegliato il marito. Sarà ancora più facile capire le conseguenze dell’uso di stereotipi, se pensiamo ai fatti di Genova e della Uno bianca, al grave danno d’immagine subito dalla Polizia e a come la Polizia stessa abbia faticato a recuperare la stima e la fiducia di un gran numero di cittadini italiani. In questo caso, al contrario dell’episodio della donna e del suo amante, si trattava di fatti veri che tuttavia gettavano un discredito pesante, nefasto e in parte ingiustificato su tutto l’operato della Polizia. > Sarà necessaria una profonda riflessione sulla cultura della polizia stessa, soprattutto la cultura dei gruppi o squadre che hanno maggiore contatto con le persone di etnie minoritarie come l’Ufficio Immigrazione e la Squadra Mobile. Che linguaggio usano quando parlano di persone o comunità di etnie minoritarie? Quali stereotipi prevalgono? Come giudicano la loro attività nei confronti delle comunità e delle persone di origine etnica minoritaria? > Nello stesso modo, è necessario ascoltare gli altri. Cosa pensano le comunità della polizia? Cosa dicono? Come giudicano l’operato della polizia? Può essere spiacevole ascoltare certe opinioni o stereotipi sulla polizia ma costituisce un passo importante nel creare un dialogo sincero e aperto.

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