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4 – Per una polizia al servizio – anche – del cittadino immigrato

ancora superiore prendendo in considerazione l’ulteriore discriminante del sesso: il 14% dei maschi di origine immigrata erano fermati a piedi, contro l’1,4% dei maschi di origine italiana, con un rapporto di dieci ad uno. Si noti, infine, che il campione di immigrati intervistati era composto esclusivamente da immigrati residenti e quindi regolarizzatisi ormai da tempo nel nostro Paese; è del tutto ipotizzabile che il dato sul “fermo a piedi” di tutti gli stranieri (comprendendo al loro interno quelli irregolari, da poco arrivati in Italia) comporterebbe una sproporzione ancora superiore, a scapito dei soggetti stranieri. Mettendo in luce questi dati non si vuole certo accusare le forze dell’ordine italiane di adottare intenzionalmente pratiche di comportamento discriminatorie e criminalizzanti nei confronti degli immigrati: è indiscutibile, infatti, che le sproporzioni esistenti fra italiani e stranieri per quanto riguarda, ad esempio, i “fermi a piedi” siano in buona parte dovute alle normative vigenti in materia d’immigrazione (la “Turco-Napolitano” all’epoca delle interviste emiliano-romagnole; la “Bossi-Fini” attualmente), che assegnano alle forze dell’ordine il compito di controllare il rispetto degli obblighi e delle formalità previste dalla legge da parte degli immigrati presenti sul territorio italiano. Peraltro, è altrettanto indubbio che tali ricorrenti pratiche di “fermo selettivo” adottate nei confronti degli stranieri facilitano la diffusione di stereotipi e tipizzazioni negative anti-immigrati all’interno dei corpi stessi di polizia (inevitabilmente portati a considerare “sospetti” e quindi “da fermare e controllare” i soggetti che maggiormente presentino tratti somatici distintivi della loro diversità e della loro potenziale “irregolarità”), alimentano un effetto indiretto di “selezione criminale” negativa nei loro confronti (con ciò che può conseguire a livello di statistiche ufficiali della criminalità) e provocano una risentita reazione degli immigrati stessi, che diventano sempre più propensi a considerare l’agente di polizia come un mero “controllore-persecutore”, chiamato a svolgere le sue funzioni esclusivamente contro gli stranieri e non (anche) al loro servizio. Il fatto che i controlli di tipo discrezionale operati dalle forze dell’ordine vengano esercitati in maniera selettiva a seconda della diversa nazionalità degli interessati o del colore della loro pelle e si risolvano in evidenti svantaggi per gli appartenenti ai gruppi etnici minoritari riceve, inoltre, autorevoli conferme da una fitta serie di ricerche svolte in questi ultimi anni in altri Paesi europei sull’operato delle locali forze di polizia5; nono-

stante le evidenti differenze di procedure e normative che si incontrano da Paese a Paese, tali ricerche convergono in maniera pressocché uniforme su questo aspetto, tanto che alcuni autori parlano, a questo proposito, di razzismo istituzionale delle forze dell’ordine, provocato, cioè, non tanto dalle convinzioni personali dei singoli agenti, ma dal concreto funzionamento dell’apparato repressivo e dalle pratiche poliziesche in uso.

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Occorre, quindi, che le forze di polizia maturino un’evoluzione dei propri atteggiamenti nei confronti dei soggetti di origine etnica minoritaria, evitando – ove possibile – il ricorso sistematico a pratiche invasive di controllo e/o perquisizione che indirettamente comportano una disumanizzazione dei rapporti con i soggetti di origine etnica minoritaria ed amplificano, all’interno della popolazione immigrata, la diffusione di un generale sentimento di diffidenza e di ostilità nei confronti delle forze dell’ordine. Occorrerebbe, al contrario, sforzarsi di mantenere la “dimensione umana” al centro delle interazioni fra agenti ed immigrati e di concepire lo svolgimento della propria funzione in un’ottica di “servizio”. Un servizio rivolto non solo ai tradizionali referenti dell’attività del poliziotto (i cittadini italiani) ma anche ai nuovi arrivati, nel quadro di una società sempre più diversificata e multiculturale. Proprio per rispondere ai cambiamenti della nostra società, anche il servizio offerto dalle forze di polizia dovrà necessariamente mutare, avvicinandosi maggiormente alle esigenze concrete della cittadinanza. In quest’ottica appare centrale il tentativo, avviato in questi ultimi anni dalla Polizia di Stato, di intraprendere un dialogo costante e costruttivo con i principali rappresentanti delle istanze della popolazione civile. Uno sforzo che può essere sufficientemente riassunto all’interno del concetto di polizia di prossimità, una nuova filosofia d’azione nel lavoro di poliziotto che, pur continuando a porre in primo piano i tradizionali settori della sicurezza pubblica e del rispetto della legge, muta i consueti moduli operativi ed amplia gli obiettivi di fondo del proprio agire.

Con l’avvento della polizia di prossimità6, la posta in gioco non è più limitata alla repressione dei fenomeni criminosi in una determinata zona ed al controllo dell’ordine pubblico ma, più in generale, diventa la salvaguardia della pace sociale (o il ripristino di apprezzabili condizioni di pacificazione sociale, laddove tali presupposti fossero venuti meno). Un traguardo che, pur passando necessariamente attraverso l’affermazione di una situazione di legalità diffusa, richiede altresì di affrontare tutta una serie di circostanze non direttamente riconducibili alla sfera penale (conflitti di vicinato, atti di “inciviltà”, infrazioni scolastiche, problemi di degrado, ecc.) ma che rientrano all’interno della categoria dei “comportamenti antisociali” e sono suscettibili di minare alle fondamenta la situazione di pace sociale esistente in un determinato territorio. Tali comportamenti, pur non essendo sanzionati dalle leggi penali, possono, infatti, rivelare un disprezzo per le regole di condotta generalmente condivise o per le autorità vigenti nelle diverse istituzioni della società civile, se non una mancanza totale di rispetto nei confronti degli altri: se ignorati, essi possono dar vita a disagio sociale, creare insicurezza, provocare atti delittuosi in senso stretto e mettere a repentaglio gli equilibri e la pace sociale della zona. Si accentua quindi l’agire preventivo della polizia in un’ottica quasieducativa che parte da una conoscenza approfondita delle specificità esistenti sul territorio e punta ad anticipare i problemi sociali cercando di allontanare o di far scemare le tensioni direttamente dall’interno. È chiaro, però, che questo obiettivo richiede al poliziotto un lavoro svolto più in profondità, costantemente a contatto ed in relazione con il territorio e con le diverse componenti sociali che lo animano. La polizia deve, così, diventare una delle componenti stabili che sono presenti ed interagiscono sul territorio, conquistandosi il riconoscimento e l’appoggio delle altre: solo attraverso questo appoggio fiduciario e queste relazioni durature essa può costruire un sistema di intelligence collettiva che porta ad una più agevole comprensione delle dinamiche sociali esistenti ed alla tempestiva conoscenza di ogni episodio suscettibile di minacciare la pace sociale. Nel quadro di questo sforzo di avvicinamento alle altre componenti presenti sul territorio, le relazioni della polizia con i gruppi di origine etnica minoritaria andranno a rivestire un’importanza sempre più decisiva per il successo dell’azione delle forze dell’ordine, proporzionalmente alla crescita della consistenza numerica e della visibilità sociale di tali gruppi. Ciascun gruppo di immigrati stanziati stabilmente in una determinata zona

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