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3 – Alcune perplessità sull’uso delle statistiche ufficiali

stesso gruppo (atti ingroup). Si tratta di due generalizzazioni ricorrenti, che partono dal medesimo presupposto: quello che tende ad interpretare motivazioni e relazioni fra autoctoni ed immigrati sulla base di un modello di conflitto. Così gli stranieri provenienti da Paesi in via di sviluppo sono, in linea di massima, descritti come persone povere che cercherebbero di procurarsi i mezzi di sussistenza sottraendoli illecitamente ai cittadini italiani ricchi; oppure sono rappresentati come persone insofferenti per una condizione di subalternità all’interno della nostra società, che cercherebbero di sfogare questi risentimenti aggredendo elementi della popolazione autoctona (specie nei reati di natura violenta). Le reazioni ostili o violente della popolazione italiana alla minaccia costituita dagli immigrati sarebbero, a loro volta, inquadrabili all’interno dello stesso schema conflittuale. Eppure, le ultime ricerche criminologiche condotte in Italia (le stesse a cui abbiamo fatto riferimento in materia di dati statistici aggiornati sulla criminalità commessa da immigrati2) indicano chiaramente che questo modello conflittuale riesce a spiegare, in realtà, solo una minima parte dei reati commessi; inoltre queste ricerche dimostrano che quelle due generalizzazioni che abbiamo citato in precedenza si rivelano assolutamente infondate alla prova dei fatti. È vero che il rischio di rimanere vittima di un reato nel nostro Paese varia fortemente in ragione della diversa nazionalità ma non è assolutamente vero che i cittadini italiani sono più frequentemente vittima di reato rispetto a quelli stranieri. Se si tiene conto (come, in una corretta analisi di tipo statistico, occorre fare) delle diverse dimensioni dei gruppi analizzati, si scopre in realtà che tale affermazione è vera solo per i reati di “furto di auto”, “furto in appartamento” e “furto in negozio” (svantaggi giustificati soprattutto dal più elevato valore dei beni posseduti dai cittadini italiani rispetto a quelli di origine straniera). Mentre per le altre categorie di reato considerate (omicidi, rapine, scippi, borseggi, lesioni dolose e violenze carnali) sono invece gli immigrati a risultare vittime di tali reati più facilmente dei cittadini italiani: oltre cinque volte di più per rapine e borseggi; oltre tre volte di più per omicidi, lesioni e violenze sessuali. È poi assolutamente falso l’assunto secondo cui i reati avvengono in maggior parte con autore e vittima appartenenti a diversi gruppi nazionali (atti intergroup). Dai dati statistici di questa ricerca emerge, semmai, che è vero l’opposto, e cioè che i reati sono commessi soprattutto all’interno

del medesimo gruppo nazionale (ingroup) e che ciò avviene soprattutto quando l’autore di reato appartiene ad un gruppo di origine etnica minoritaria. Tale tendenza è particolarmente accentuata nei delitti di natura violenta: l’omicidio è il reato nel quale gli stranieri colpiscono più spesso un connazionale, ed è seguito dalle lesioni e dalla violenza carnale. Infine le statistiche ufficiali rivelano un terzo dato che va controcorrente rispetto alle opinioni diffuse, e cioè che – in proporzione alla diversa consistenza numerica dei gruppi considerati – quando l’autore del reato appartiene ad un gruppo nazionale diverso rispetto alla sua vittima, sono più numerosi i casi in cui l’autore è italiano e la vittima è straniera rispetto a quelli in cui chi delinque è straniero e chi subisce il reato è di nazionalità italiana. E tutto ciò pur in assenza di specifiche pratiche poliziesche di catalogazione e di indagine sui cosiddetti hate crimes (o “reati d’odio”), che permetterebbero una raccolta di dati maggiormente significativa sull’incidenza dei reati e degli altri casi a sfondo “razziale” a danno della popolazione immigrata (cfr., a questo proposito, il capitolo 5).

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Abbiamo segnalato in precedenza l’uso spesso disinvolto che i rappresentanti del mondo politico ed informativo fanno delle statistiche ufficiali sulla criminalità degli immigrati, spesso citate come autorevole ed indiscutibile conferma delle tesi dominanti nell’opinione pubblica sulla “pericolosità sociale” degli immigrati e sulla loro propensione a delinquere in misura maggiore rispetto alla popolazione autoctona. Abbiamo anche visto che, in realtà, nel dibattito criminologico attualmente esistente in Italia, sono stati sollevati dubbi sulla veridicità ed attendibilità di tali statistiche (che noi stessi abbiamo sommariamente illustrato in precedenza). Vediamo ora, in particolare, quali sono le principali obiezioni che vengono sollevate in merito all’attendibilità ed all’utilità di questi dati. Diciamo subito che, a nostro giudizio, le statistiche ufficiali sulla criminalità (e, quindi, anche quelle inerenti alla criminalità degli immigrati) non

possono essere considerate perfettamente illustrative della situazione realmente esistente nel nostro Paese. In primo luogo, infatti, queste cifre rappresentano solamente i delitti di cui le forze dell’ordine vengono a conoscenza nell’espletamento delle loro funzioni e non di tutti i reati che effettivamente sono stati realizzati in un determinato lasso di tempo: esiste, perciò, il problema della cifra oscura della criminalità, costituita dal numero degli eventi delittuosi che si sono realmente verificati ma che non sono stati denunciati o scoperti e sono così rimasti esclusi dal computo delle statistiche criminali. L’esistenza di questa cifra oscura, difficilmente quantificabile per molti dei reati considerati, ci impedisce di considerare pienamente attendibili questi dati ufficiali sulla criminalità registrata, in assenza di approfondite ricerche volte a far emergere il livello di criminalità nascosta (ad esempio attraverso inchieste di vittimizzazione puntuali e sistematicamente organizzate). Una seconda difficoltà in merito alle statistiche ufficiali sulla criminalità è attinente alla validità scientifica di queste cifre: ossia, il grado di costanza e di coerenza con cui le procedure di rilevazione sono state applicate, rispetto ai criteri prestabiliti, da parte delle agenzie preposte alla produzione dei dati (forze dell’ordine ed Autorità Giudiziaria) e di quelle deputate alla loro raccolta (ISTAT). Non sempre, infatti, queste fonti si sono rivelate attendibili in passato, proprio a causa di errori commessi nella classificazione e/o raccolta dei dati3. Questi problemi, peraltro, sono ora in via di risoluzione, grazie al nuovo sistema informatizzato di registrazione delle denunce, imposto dal Ministero dell’Interno dal 1999; questo nuovo metodo di raccolta dei dati, se inizialmente può aver provocato qualche ulteriore scompenso, ha l’indubbio merito di aver reso finalmente omogenei i criteri di rilevazione statistica adottati dalle diverse forze dell’ordine in tutte le città italiane. Vi è, poi, un ultimo ordine di considerazioni da fare, ancora più importante rispetto ai due precedenti, ed è quello relativo all’interpretazione di questi dati ufficiali sulla criminalità: dal momento che essi non misurano direttamente la realtà effettiva, ma quella identificata, segnalata e denunciata del fenomeno, c’è il rischio tangibile che queste cifre siano molto più indicative dell’attività concretamente messa in pratica dalle forze dell’ordine che non del livello di devianza realmente esistente sul territorio. Che, in altre parole, questi dati – anche quando siano corretti ed attendibili – siano comunque condizionati dalle scelte operative attuate

dalle polizie, dalla scala di priorità adottata nei loro interventi, dalle modalità concrete con cui pongono in essere la loro attività investigativa e di controllo del territorio e, quindi, anche dai luoghi comuni e dalle convinzioni personali dei singoli operatori di polizia, nonché dalle pressioni che essi ricevono ad opera dei mass-media e della locale cittadinanza. Un esempio abbastanza interessante di queste pratiche di polizia che possono produrre oggettive discriminazioni a danno degli stranieri nella produzione delle statistiche ufficiali può essere fornito dalle risultanze di una serie di interviste effettuate alla fine degli anni Novanta nella regione Emilia-Romagna, aventi ad oggetto la sicurezza dei cittadini ed i controlli subiti da parte delle forze dell’ordine4. In particolare venne sottoposta a due differenti campioni rappresentativi, rispettivamente, della popolazione autoctona e di quella immigrata residenti nella regione emiliano-romagnola, la medesima domanda: “Nel corso degli ultimi dodici mesi le è capitato di essere fermato per la strada mentre era in automobile o a piedi, anche per un semplice controllo dei documenti, dalla Polizia Stradale, Carabinieri o Guardia di Finanza?”. La risposta a quella domanda metteva in evidenza forti differenze a seconda della provenienza nazionale dell’interpellato. Infatti, se ad una prima sommaria analisi poteva quasi sembrare che vi fossero disparità di trattamento a danno della popolazione autoctona (il 38,5% del campione “italiano” affermava di essere stato fermato nel corso dell’ultimo anno, contro il 31% del corrispondente campione di immigrati), la situazione cambiava radicalmente prendendo in considerazione la discriminante “fermi in auto / fermi a piedi”. In questo caso risultava che, mentre il 37,4% del campione di residenti autoctoni (pari al 97,3% dei cittadini di nazionalità italiana che avevano ammesso di essere stati fermati) era stato controllato dalle forze dell’ordine mentre si trovava all’interno della propria automobile e solo l’1,1% del campione mentre era a piedi, nel caso degli stranieri residenti in Emilia-Romagna il 22% del campione era stato fermato mentre era in macchina ed il 9% mentre era a piedi. Il che significa che gli stranieri erano fermati quasi nove volte di più degli italiani attraverso il “fermo a piedi”, che ben più del “fermo in auto” (che è dovuto perlopiù a ragioni di traffico automobilistico e raramente si basa sui tratti fisionomici del guidatore) esprime un’intenzione di controllare una persona sulla base del suo aspetto esteriore e per motivi collegati ad una potenziale criminalizzazione del soggetto. E questa sproporzione era

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