20 minute read

5 – L’azione della polizia

costituisce una delle componenti sociali che interagiscono fra di loro in quel territorio e che possono dar vita a tensioni o conflitti fra i diversi gruppi. Riuscire a relazionarsi nella misura più corretta e soddisfacente con questi gruppi può, quindi, facilitare il compito delle forze di polizia a più livelli: accresce il livello di fiducia reciproca, legittima e stabilizza i rapporti di collaborazione con i rappresentanti riconosciuti di tali gruppi, aumenta il numero e la qualità di informazioni a disposizione della polizia per conoscere le dinamiche sociali e le potenziali fonti di attrito sul territorio, rende più semplici e socialmente “accettati” gli eventuali interventi di tipo repressivo necessari al mantenimento dell’ordine sociale. Una situazione, a ben vedere, radicalmente differente da quella attuale, in cui i compiti di controllo e di reperimento delle informazioni vengono espletati attraverso pratiche selettive di stop and search che semmai alimentano l’ostilità reciproca, rendono praticamente inattuabili forme di collaborazione spontanea ed arrecano ulteriore disagio ed esclusione sociale ai soggetti di origine etnica minoritaria. Sarà, pertanto, fondamentale per le forze dell’ordine italiane intendere nella maniera più corretta quel concetto di “polizia di prossimità” ripreso dalle forze dell’ordine di altri Paesi. Fare in modo, cioè, che questo avvicinamento alle esigenze ed alle istanze della cittadinanza non si rivolga esclusivamente all’ala forte di questa cittadinanza, alla categoria degli “inclusi”, ai loro valori ed alle loro richieste e che, di conseguenza, l’attività stessa della polizia non finisca per convergere sempre più con le aspettative di questi cittadini, a scapito degli appartenenti agli altri gruppi sociali (immigrati ed altri soggetti marginali). Una polizia al servizio di una parte soltanto della popolazione svelerebbe il volto più odiosamente repressivo della propria funzione, acuirebbe le tensioni e gli squilibri già esistenti nella nostra società, fallirebbe nel proprio compito di mantenere (o ristabilire) la pace sociale. Ecco spiegato, quindi, il motivo per cui noi riteniamo di primaria importanza che le forze dell’ordine cerchino di reimpostare in maniera più corretta ed equilibrata le proprie relazioni con i soggetti di origine etnica minoritaria ed i loro rappresentanti, combattendo quei pregiudizi e stereotipi diffusi che possono condizionare e compromettere fin dall’inizio tali rapporti. Su queste basi si mette in gioco l’obiettivo di una reale pacificazione sociale, grazie al contributo attivo (e dall’interno della società stessa) di una polizia moderna ed al servizio dei cittadini. Perché, se la stra-

da di un maggiore avvicinamento fra polizie e cittadini è stata tracciata, un’altra questione è, invece, il come percorrerla e il dove tale strada ci può portare.

Advertisement

Come indicavamo nella parte introduttiva di questo capitolo, il primo obiettivo da porsi è quello di sviluppare, all’interno degli operatori di polizia chiamati a contrastare i fenomeni di microcriminalità urbana, uno “spirito critico” nei confronti dei facili luoghi comuni che tendono ad individuare nel soggetto di origine etnica minoritaria il principale responsabile di tali fatti. Così come per gli altri stereotipi presenti nell’opinione pubblica, si tratta di convincimenti difficili da estirpare, proprio perché quotidianamente essi ricevono conferme più o meno autorevoli da diverse fonti (l’osservazione diretta degli agenti, i commenti di uomini politici, le proteste dei comitati di cittadini e di altri rappresentanti più o meno accreditati della cittadinanza) e vengono amplificati attraverso le notizie selezionate dai mass-media (cfr. cap. 3, § 4). Peraltro, come abbiamo visto, si tratta di pregiudizi che un agente di polizia non può permettersi di avere, poiché essi possono condizionare pesantemente l’operato delle forze dell’ordine (ad esempio, nella selezione degli individui sospetti da fermare e controllare nei casi in cui tali valutazioni siano rimesse alla discrezionalità degli agenti), provocare un’indiretta ed ulteriore criminalizzazione dei soggetti immigrati e rendere sempre più conflittuali i rapporti fra comunità di origine etnica minoritaria e forze di polizia. In quest’ottica, la diffusione di informazioni all’interno del servizio di polizia sui diversi orientamenti criminologici che abbiamo riportato in questo capitolo sul tema del rapporto fra criminalità ed immigrazione, può sicuramente aiutare a mettere in discussione i luoghi comuni e gli stereotipi imperanti nella nostra società. Ma ancor più importante, per voi, funzionari e responsabili di uomini, sarebbe avere una precisa consapevolezza della “cultura” specifica (inclusa la cosiddetta “cultura della mensa”, quella che si sviluppa cioè nei luoghi sociali informali) sviluppata all’interno del vostro team:

> in che misura gli stereotipi anti-immigrati presenti nella società civile hanno attecchito anche fra gli agenti sotto la vostra responsabilità? > ed in che misura, eventualmente, tali luoghi comuni condizionano il loro operato? Avere il polso preciso della situazione, attraverso il monitoraggio e la valutazione delle performance di squadra, può indurre il funzionario responsabile a prendere le misure più opportune per assicurare l’espletamento di un servizio di polizia equo e non condizionato. Un secondo obiettivo da raggiungere dev’essere quello del progressivo avvicinamento delle forze di polizia alla cittadinanza in generale ed ai gruppi di origine etnica minoritaria in particolare, in modo da trasformare il ruolo degli agenti di pubblica sicurezza da temuti controllori che agiscono con strumenti prevalentemente repressivi ed in risposta ad input provenienti dall’alto (in maniera quasi avulsa dal contesto sociale su cui vanno ad influire) ad operatori umanizzati che utilizzano prevalentemente risorse di intelligence sviluppate grazie alla conoscenza profonda degli ambienti sociali in cui s’inseriscono e prevengono problemi di convivenza fra diversi gruppi e/o soggetti, allo scopo di mantenere (o di ristabilire) la pace sociale. A prescindere dall’istituzione di specifiche figure professionali (come i “poliziotti di quartiere”) incaricate di operare seguendo le regole e le procedure proprie della cosiddetta “polizia di prossimità”, l’obiettivo di un’umanizzazione delle forze dell’ordine e di un concreto avvicinamento ai problemi ed alle esigenze della popolazione dislocata sul territorio deve essere trasversale ai diversi corpi di polizia. Si tratta di considerare il lavoro di operatore di polizia in un’ottica “di servizio”, in cui gli interventi da effettuare e l’adozione delle specifiche misure da prendere devono necessariamente tenere conto anche dell’impatto sociale che essi provocheranno sul territorio. In determinati casi, ad esempio, a pratiche di tipo coercitivo-repressivo (che comportano elevati costi sociali per i loro destinatari e rischiano di acuire situazioni conflittuali) possono essere preferibili, laddove vi siano per l’operatore di polizia margini di discrezionalità, interventi più “morbidi”, in modo da non esasperare le tensioni esistenti e prevenire possibili scontri. In altri frangenti sarà, invece, necessario intervenire a prescindere dal fatto che siano state violate norme penali: la reazione ferma e pronta al verificarsi di semplici “atti di inciviltà” che però rischiano di mina-

re gli equilibri instauratisi in una determinata zona può prevenire la futura commissione di veri e propri reati, con tutto il carico di conflitti sociali che essi comportano. In quest’ottica occorre però che gli operatori di polizia sviluppino un’approfondita conoscenza del territorio nel quale essi sono chiamati ad operare; una conoscenza che va acquisita direttamente dall’interno e mediante un costante ed articolato rapporto con i diversi gruppi e le altre istituzioni ivi presenti. È necessario, in altre parole, che le forze di polizia diventino una fra le varie componenti sociali che animano stabilmente l’ambiente urbano di riferimento. Per raggiungere questo scopo sarà necessario innanzi tutto che gli agenti, compatibilmente con le limitazioni di organico, frequentino con maggiore assiduità il territorio, in modo da diventare una “presenza fissa” al suo interno e da poter sviluppare quei rapporti interpersonali con i membri dei diversi gruppi, che costituiscono il fulcro dell’azione di “prossimità”. Ma, ancora più importante, occorre anche che questo sforzo di avvicinamento a tutte le diverse componenti sociali presenti sul territorio di riferimento avvenga in maniera socialmente equa. Che sia aperto, cioè, anche a quei gruppi aventi consistenza numerica o importanza socio-economica minoritaria all’interno del contesto di riferimento. Infatti, come già sottolineato in precedenza, una polizia che si ponesse al servizio di una parte soltanto della popolazione, consacrandone di fatto la posizione di preminenza all’interno del corpus sociale, non farebbe altro che aggravare le tensioni e gli squilibri già esistenti nella nostra società, fallendo nel proprio compito di mantenere (o ristabilire) la pace sociale.

ESEMPIO

In una recente ricerca sui comitati di cittadini di Modena (Poletti, 2002) è emerso che in quella realtà locale lo sforzo di avvicinamento alla cittadinanza operato dalle forze di polizia sia coinciso con il rafforzamento in pianta stabile dei rapporti fra le forze dell’ordine ed i comitati attivi sul tema della sicurezza urbana, considerati espressioni sufficientemente rappresentative della collettività locale. Tali rapporti, oltre ad aver dato origine a forme di collaborazione innovative (per il panorama italiano) tra cittadini e polizie in vista della segnalazione di fenomeni di devianza che si verificavano all’interno dei diversi quartieri della città, aveva però di fatto influito anche sulla tipologia delle modalità di controllo del territorio concretamente praticate dalle forze dell’ordine. Si verificava infatti una sorta di corrispondenza fra lo spirito di mobilitazione battagliera che animava i membri dei comitati e l’azione di repressione dei fenomeni devianti esercitata dalla polizia. Tanto che le forze dell’ordine avevano in molti casi orientato la propria attività in funzione delle sollecitazioni e delle segnalazioni ricevute da questi comitati: attraverso frequenti operazioni di “bonifica del territorio” contro i fenomeni dello spaccio di stupefacenti e dell’immigrazione irregolare, una presenza più cospicua di pattuglie appiedate ed un ricorso massiccio ai centri di permanenza temporanea per l’identificazione e l’espulsione degli stranieri che non fossero risultati in regola. Tali circostanze, se vennero salutate positivamente dai rappresentanti dei comitati di cittadini e delle associazioni di commercianti come simbolo di un riavvicinamento fra polizie e cittadinanza, vennero invece accolte con rabbia dagli esponenti della locale Consulta dell’Immigrazione che sottolinearono l’assoluta disparità dell’operato delle forze dell’ordine (descritte come attente alle sollecitazioni delle categorie maggiormente influenti della popolazione, e sorde di fronte alle richieste provenienti dagli immigrati e dagli altri gruppi marginali) ed accusarono apertamente i comitati di aver alimentato situazioni di reciproca ostilità e di risentimento fra stranieri e cittadini modenesi.

per chi vuole approfondire

Le prime,pionieristiche,ricerche che cercano di far luce su quei due sopraccitati interrogativi (se e per quali motivi gli immigrati delinquono di più rispetto agli autoctoni) sono condotte all’inizio del XX secolo negli USA, più precisamente dagli studiosi dell’Università di Chicago.Era il periodo della cosiddetta “età progressiva”,in cui i fenomeni dell’urbanizzazione e dell’immigrazione selvaggia s’accompagnavano ad una serie di importanti rivendicazioni sociali (come quelle relative al diritto di sciopero e di associazione collettiva dei lavoratori nelle industrie del Paese) e ad un continuo ricorso alla violenza,da parte sia dei manifestanti che delle forze dell’ordine locali,durante il dispiegarsi di tali conflitti sociali. La giovane democrazia americana stava facendo i conti con la sua “bigness”,con quelle rapide trasformazioni sociali ed economiche che avevano reso smisuratamente grandi tanto le principali città del Paese quanto gli squilibri esistenti al loro interno. In questo quadro per molti versi esplosivo,il problema dell’integrazione o dell’assimilazione degli immigrati all’interno del tessuto sociale americano appariva di fondamentale importanza:pur essendo un Paese che aveva fondato la propria esistenza sul fenomeno della migrazione,negli USA dell’età progressiva il tradizionale atteggiamento di favore verso gli stranieri era sempre più spesso soppiantato dalla diffusione,in certi strati dell’opinione pubblica americana,di pregiudizi e convinzioni sulla pericolosità sociale delle nuove masse di immigrati che arrivavano nel Paese:essi erano considerati di cultura e razza inferiore rispetto all’americano medio e responsabili del dilagare della criminalità e della violenza. I ricercatori della Scuola di Chicago – città industriale al centro della rete ferroviaria e fluviale della East Coast,in rapidissima espansione urbanistica e demografica e popolata da migliaia di immigrati provenienti da ogni parte del mondo – contribuirono a sconfiggere gli stereotipi ed i luoghi comuni diffusi sull’immigrazione all’interno della società americana di quel periodo.Con una serie di ricerche – condotte dall’inizio degli anni Dieci fino alle soglie della seconda guerra mondiale – dimostrarono a più riprese che la criminalità degli immigrati giunti in America,così come i loro tassi di incarcerazione,erano complessivamente inferiori a quelli dei cittadini autoctoni,mentre solo per alcune categorie di reati – i reati di sangue e quelli contrari all’ordine pubblico – erano superiori.In particolare risultava evidente che la diversa provenienza nazionale e culturale degli immigrati era correlata alla commissione di diverse tipologie di delitti:gli irlandesi ed i finlandesi,ad esempio, avevano alti tassi di incarcerazione per ubriachezza ed alcoolismo; i tedeschi erano prevalentemente dediti al furto con scasso; gli italiani erano più frequentemente incarcerati per reati di sangue (omicidi e lesioni personali).

Se,quindi,tali ricerche avevano dimostrato che la convinzione che gli immigrati avessero una propensione a delinquere maggiore rispetto ai cittadini statunitensi fosse sostanzialmente errata, diverse furono, invece, le conclusioni relative ai tassi di criminalità della seconda generazione di immigrati,ossia dei figli di quegli immigrati,nati sul territorio americano e cresciuti all’interno della società USA.Numerose ricerche,infatti,erano concordi nell’affermare che gli immigrati della seconda generazione tendevano a commettere i delitti caratteristici della cultura ospitante,senza distinzioni di rilievo fra i diversi gruppi etnici di provenienza.E,soprattutto,tendevano a commettere quei delitti e ad essere incarcerati in misura proporzionalmente superiore a quella dei cittadini autoctoni di pari età e sesso. Per tentare di interpretare i risultati di quelle ricerche ed i comportamenti della popolazione immigrata,in ambito criminologico vennero elaborate diverse teorie,che ancor oggi costituiscono il principale fondamento teorico degli studi in materia.I primi studiosi della Scuola di Chicago,ad esempio,misero a punto la teoria ecologica della criminalità: per Shaw e McKay le cause della criminalità erano da ricercare nell’ambiente urbano,degradato o “disorganizzato”,piuttosto che nei singoli individui o gruppi sociali.Di conseguenza tali autori ipotizzavano che le varie generazioni di immigrati fossero propense a seguire il tipo ed il livello di criminalità caratteristico del luogo in cui erano cresciute:se la prima generazione di migranti (arrivata da poco nel Paese d’accoglienza) tendeva a riprodurre la criminalità del Paese d’origine,la seconda generazione si sarebbe “conformata”al tipo di devianza esistente nella zona di approdo.Per questo motivo,ad esempio,gli italiani emigrati in America ad inizio secolo tendevano inizialmente a commettere soprattutto reati contro la persona (crimini di natura passionale tipici,a quei tempi,delle zone dell’Italia meridionale da cui provenivano),mentre con la seconda generazione,nata negli USA, passavano a commettere soprattutto reati contro la proprietà (più usuali nella società americana dell’epoca).Peraltro la teoria ecologica,se spiegava alcune caratterizzazioni su base etnica nella criminalità degli stranieri,non aiutava a comprendere le diverse motivazioni individuali che stavano dietro il comportamento deviante di quegli immigrati;non spiegava,inoltre,la maggiore propensione a delinquere esistente nella seconda generazione di immigrati rispetto alla popolazione locale. Il sociologo americano Thorsten Sellin,alla fine degli anni Trenta,sposta l’attenzione dall’ambiente fisico che circonda le popolazioni immigrate all’ambiente culturale entro il quale sono inserite,elaborando così la teoria del conflitto culturale: secondo Sellin,ogni società ha proprie norme di condotta che indicano come devono comportarsi coloro che si trovano in determinate situazioni e che vengono trasmesse da una generazione all’altra. Ma in determinate situazioni,come ad esempio accade nel caso dell’immigrazione da un Paese all’altro,le norme di comportamento seguite all’interno di un gruppo sociale entrano in contrasto con le norme imposte dalla società di riferimento,ed avviene quindi un

conflitto fra la cultura di provenienza e quella ospitante.Questo conflitto fra norme e culture differenti può portare ad una situazione di “conflitto interiore”(o anomia) all’interno degli individui che si trovano in tale situazione,favorendone un comportamento deviante. In particolare tale conflitto culturale tenderebbe a manifestarsi non tanto negli immigrati di prima generazione (ancora orgogliosamente legati alla cultura ed ai valori della società d’origine) ma soprattutto nella seconda generazione,che vive il contrasto fra le norme di comportamento trasmesse dai genitori e proprie di una cultura ormai lontana e spesso disprezzata,e quelle trasmesse dalla società ospitante (attraverso il contatto con le istituzioni scolastiche e con i pari età),nella quale ancora non ci si sente perfettamente integrati.Per questo motivo i tassi di criminalità degli immigrati seguirebbero percorsi analoghi a quelli della cultura d’origine nella prima generazione,per poi crescere nella seconda generazione,uniformandosi alla tipologia di reati propria della società ospitante. Se le teorie viste finora,per spiegare la propensione criminale di certi settori della popolazione immigrata,enfatizzavano il ruolo dell’ambiente (fisico o culturale) in cui essi vivevano,la teoria della frustrazione strutturale di Robert K.Merton pone invece l’accento sull’individuo deviante e sui percorsi psicologici che possono condurlo a delinquere.Per Merton ogni uomo è essenzialmente un animale sociale che durante le fasi dell’infanzia e dell’adolescenza interiorizza le norme della società di riferimento e le fa proprie.In ogni società esistono delle mete culturali, ossia degli obiettivi generalmente condivisi dalla maggioranza degli appartenenti ad una formazione sociale (nelle società occidentali,ad esempio, tali mete possono essere rappresentate dal prestigio sociale o dalla ricchezza individuale,ecc.);ed esistono dei mezzi,ossia degli strumenti a disposizione di ciascun individuo per raggiungere tali mete (il lavoro,il risparmio,l’istruzione,ecc.).Tali mezzi, però,all’interno di ciascuna struttura sociale sono distribuiti in maniera squilibrata fra i suoi vari membri,che si ritrovano così ad avere opportunità diseguali di raggiungere le mete prefissate. Secondo questa teoria,quindi,l’individuo che commette un reato è spinto da una situazione di frustrazione strutturale,provocata dallo squilibrio esistente fra le norme culturali,che fissano le mete da raggiungere,e la struttura sociale,che nega pari opportunità a tutti i suoi membri: alcuni di questi membri, pur condividendo le mete fissate dalla società,rifiutano i mezzi leciti previsti per raggiungerle e cercano di arrivare all’obiettivo comune (il successo economico) attraverso mezzi illeciti (i crimini). In particolare gli immigrati sarebbero portati a delinquere perché farebbero propria la meta culturale del paese in cui sono entrati (il successo economico) senza,però,avere le reali opportunità di raggiungerla.Questa teoria è detta anche della “deprivazione relativa”perché secondo tali studiosi non sarebbe necessario appartenere alle classi sociali economicamente più disagiate per avvertire quella “frustrazione strutturale”idonea a spingere al comportamento

criminale:ogni individuo,infatti,adatta le mete che intende raggiungere (le proprie aspirazioni personali) al gruppo di riferimento in cui si trova inserito.Per questi motivi si parla di deprivazione “relativa”:un esponente delle classi agiate (i cosiddetti “colletti bianchi”) non commetterà reati per procurarsi i mezzi di sussistenza (che già possiede) ma per elevare ulteriormente il proprio livello economico e prestigio sociale;allo stesso modo,le seconde generazioni di immigrati saranno portate a delinquere in maggior misura,rispetto alle prime generazioni,per poter ambire ad obiettivi più elevati (e più difficilmente raggiungibili) rispetto a quelli dei loro genitori.La teoria di Merton si sofferma,quindi,sulla componente psicologica dell’individuo che sceglie di delinquere,all’interno di un contesto sociale che influenza tali scelte;peraltro,essa appare maggiormente adatta a spiegare i comportamenti devianti all’interno di società utilitaristiche e fortemente competitive come quella americana (in cui le mete sociali sono condivise da tutti,ma non da tutti raggiungibili) piuttosto che altrove.Inoltre essa fornisce chiavi di lettura convincenti per i reati di tipo predatorio o contro la proprietà,mentre risulta meno convincente per comprendere altri tipologie di delitti. Un’ulteriore teoria criminologica scaturita in seguito agli studi della scuola di Chicago è la teoria del controllo sociale, elaborata inizialmente dal filosofo americano George Herbert Mead,e poi sviluppata nel secondo dopoguerra da numerosi studiosi statunitensi meglio conosciuti come “neo-Chicagoans”.Secondo Mead l’uomo costruisce la propria personalità attraverso una ripetuta serie di interazioni con la società circostante e con i gruppi sociali presenti al suo interno.Questo processo comunicativo fra società da una parte ed individuo dall’altro determina una sorta di “controllo”che la società stessa esercita nei confronti di ogni individuo e che gli impedisce di compiere azioni considerate devianti o criminali dal gruppo sociale di riferimento.Questo controllo sociale può essere un controllo concreto,esercitato all’esterno dell’individuo stesso (per mezzo di svariate forme di sorveglianza esercitate dalle cerchie sociali frequentate da quel soggetto,per scoraggiare od impedire i suoi comportamenti devianti) oppure al suo interno (attraverso sentimenti di colpa o di vergogna che prova chi viola una norma o l’attaccamento psicologico ed emotivo provato per gli altri e il desiderio di non perdere la loro stima e il loro affetto). In quest’ottica è chiaro che le probabilità che una persona violi la legge sono tanto minori quanto più numerosi sono i vincoli che lo legano agli altri e più forte è il controllo sociale esercitato su quel soggetto.Per quanto riguarda,ad esempio,il fenomeno dell’immigrazione,è innegabile il fatto che i soggetti provenienti da Paesi lontani siano spesso poco integrati nella società di arrivo e manchino di legami forti con altre persone significative e cerchie sociali di riferimento.Inoltre tale teoria chiarisce ulteriormente le ragioni della maggiore propensione a delinquere presente nella seconda generazione di immigrati,che sarebbe dovuta al progressivo indebolimento di quei legami tra i figli ed i genitori che

costituiscono una delle primarie forme di controllo sociale esercitate su ogni individuo. Un secondo filone della teoria del controllo sociale,denominato interazionismo simbolico, prende invece le mosse dal controllo sociale di tipo simbolico che viene esercitato su ogni individuo attraverso il linguaggio e le altre interazioni di tipo discorsivo o comunicativo. Secondo Mead ed altri studiosi (come Herbert Blumer alla fine degli anni Sessanta) l’uomo progredisce e comprende la realtà che lo circonda grazie al linguaggio ed ai processi comunicativi.È attraverso queste interazioni linguistiche con la società circostante che ogni individuo arriva a definire ciò che lo circonda,a riempire di significati le azioni proprie e quelle degli altri membri della società.Questo insieme di definizioni convenzionalmente condivise all’interno della società guida le azioni di ogni individuo,e genera quindi controllo sociale:un controllo meno visibile di quelli a cui si faceva riferimento in precedenza ma forse più efficace,perché investe potenzialmente ogni comportamento dell’individuo stesso.Ad esempio,per quanto riguarda un comportamento criminale,ogni qual volta si definisce all’interno di un gruppo sociale una determinata azione come “illecita”, e tale definizione diventa condivisa da tutti gli appartenenti a quel gruppo,si genera un controllo sociale indiretto che guiderà il comportamento di ciascun individuo di quel gruppo,spingendolo a non commettere quella determinata azione. Dalla teoria dell’interazionismo simbolico trarranno ispirazione tutti quei filoni di “criminologia critica”che porranno in rilievo i possibili effetti distorsivi di tale tipo di controllo sociale all’interno delle società di massa contemporanee. In particolare, per tornare al tema della criminalità degli immigrati,da tali riflessioni scaturiscono le ricerche di tutti quegli autori denominati “teorici dell’etichettamento”,che hanno messo in luce i pericoli provenienti dall’etichettare come “deviante”o “particolarmente propenso a delinquere”un determinato gruppo sociale (come appunto gli immigrati,le bande giovanili o altre categorie di popolazione marginale),attraverso il proliferare di stereotipi e di definizioni simboliche contenute nei mezzi di comunicazione di massa.Attraverso la diffusione massmediologica di queste “etichette sociali”apposte su tali gruppi,si corre,infatti,un duplice rischio:da un lato,quello di diffondere tali stereotipi nell’opinione pubblica,trasformandoli in “definizioni socialmente condivise”e rendendo quindi tali gruppi “nemici pubblici” della società stessa;dall’altro lato,quello che i soggetti che fanno parte dei gruppi considerati devianti (demonizzati ed isolati dal resto della società) si identifichino ulteriormente con le definizioni e con il “ruolo”assegnato loro dalla società,finendo per amplificare ed incrementare il proprio livello di devianza in una sorta di “interazione simbolica”al contrario.

note

1 I dati statistici relativi ai tassi di criminalità degli immigrati stranieri in Italia sono presi da

M.Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002. 2 Cfr. M.Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002 3 Per fare un esempio concreto, fino ai rapporti sullo stato della sicurezza relativi all’anno 1998, si pensava che Modena fosse la capitale italiana relativamente al reato di truffa, poiché il tasso per centomila abitanti, calcolato sul totale dei reati registrati nel solo capoluogo, era all’incirca pari al triplo del valore medio regionale, ed era ben al di sopra degli stessi valori registrati nelle principali città italiane. Nell’anno seguente si scoprì che, nel periodo dal 1994 al 1997, si erano verificati in realtà dei “disguidi nella raccolta delle denunce per questo particolare tipo di reato”, che avevano reso totalmente inattendibili i dati in questione: si passò, così, dalle circa 1.500 denunce all’Autorità Giudiziaria registrate nel 1997 alle 101 truffe denunciate nel 1998, dato finalmente da ritenersi plausibile per una realtà socio-economica come quella modenese. 4 I dati relativi alle interviste effettuate con i cittadini residenti in Emilia-Romagna di nazionalità italiana e straniera sono, rispettivamente, tratti da M.E.Luciani, G.Sacchini (a cura di), La sicurezza dei cittadini in Emilia-Romagna. 1997-1998, Milano, Franco Angeli, 2000 e da D.Melossi, Multiculturalismo e sicurezza in Emilia-Romagna: prima parte, in Quaderni di Città Sicure n.15, Bologna, 1999. 5 Esempi assai interessanti di tali ricerche attengono alla pratica dello stop and search da parte della polizia britannica: già uno studio condotto a metà degli anni Novanta dalla

Polizia Metropolitana di Londra metteva in evidenza che la popolazione nera era fermata (stopped) circa tre volte di più di quella bianca e che esisteva una maggiore propensione degli agenti a procedere ad una perquisizione personale (search) quando si trattava di un fermato appartenente ad un gruppo etnico minoritario (il 25% dei fermi a danno di neri si traduceva in una perquisizione, contro il 18% per gli asiatici e meno del 10% per i bianchi).

Una più recente ricerca sui fermi e sulle perquisizioni personali effettuate dal nucleo speciale di polizia britannica attivo contro i ravers e gli hooligans negli stadi sottolineava come i neri fossero fermati circa 27 volte di più dei bianchi; e tutto ciò nonostante gli appartenenti alle due categorie “incriminate” fossero in netta prevalenza bianchi. 6 I principi teorici della polizia di prossimità, già sperimentati con successo in numerosi altri

Paesi europei, dovrebbero trovare piena attuazione pratica anche in Italia attraverso l’istituzione del servizio del “Poliziotto di Quartiere”, figura già presente, in via sperimentale, in diverse realtà urbane e pronta a diventare pienamente operativa nei prossimi mesi.

More articles from this publication: