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1.1 – Applicare le leggi

vostro accento straniero a infastidire l’altro, sarebbe quasi impossibile rimediare: voi potete fingere di fare un altro lavoro ma un africano non può negare di essere nero e non può nemmeno tenere un corso di anti-razzismo nel bel mezzo della festa nella speranza di guadagnarsi un nuovo amico. Se dall’esempio di discriminazione diretta come quello appena illustrato passiamo a contesti istituzionali, come è il caso della selezione per un posto di lavoro o per una promozione, è ben possibile che non avrete mai un contatto diretto con la persona che prende la decisione discriminatoria e non potreste mai sapere su che base è stata presa la decisione. Infine, gli episodi di razzismo possono avere un effetto negativo su una comunità intera: le vittime possono essere tante e l’effetto può costituire un danno per tutta la società. Un gruppo di persone considerato pregiudizialmente inaffidabile, per esempio, può avere più difficoltà nel trovare impieghi con alte responsabilità e alti stipendi e tutto il gruppo può risultare segregato in una povertà inaccettabile. A quel punto il gruppo può ribellarsi, come i neri in Sud Africa o i cattolici in Irlanda del Nord. Il gruppo può avere ragione da vendere sull’inaccettabilità della situazione ma resta il fatto che le conseguenze per la società possono essere anni di tensione e di violenza e a poco servirà ribadire che la violenza o il terrorismo sono anch’essi inaccettabili, l’esperienza storica dimostra che essi sono purtroppo fenomeni reali ed inevitabili quando si producono nel tempo gravi ingiustizie. C’è anche un alto rischio che gli incidenti di razzismo si ripetano e che ogni incidente costituisca parte di un problema più ampio, a volte organizzato, per esempio nella creazione di ronde anti-immigrati. Ricapitolando, la discriminazione e la lotta alla discriminazione sono dunque fatti che riguardano la polizia perché: • la discriminazione è vietata dalla legge e la polizia deve applicare le leggi; • la discriminazione è in primo luogo un’offesa alle vittime ma è anche un costo per la società. L’emarginazione ingiustificata di qualsiasi gruppo o categoria di cittadini porta alla disgregazione della società e impedisce la collaborazione che è necessaria per qualsiasi gruppo di persone che voglia vivere insieme (o sia costretto a farlo) in sicurezza e tranquillità; • l’odio razziale, etnico e religioso non colpisce solo le vittime per quello che esse sono ma per ciò che esse rappresentano. Il primo punto merita un’attenzione particolare.

I compiti che la Polizia di Stato è chiamata a svolgere al servizio delle istituzioni democratiche e dei cittadini sono: > tutelare l’esercizio delle libertà e dei diritti di ogni individuo; > vigilare sull’osservanza delle leggi, dei regolamenti e dei provvedimenti della pubblica autorità; > tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica; > provvedere alla prevenzione e alla repressione dei reati; > prestare soccorso in caso di calamità ed infortuni; > offrire ogni altra forma di assistenza e di servizio al pubblico. Uno dei compiti primari della polizia è dunque quello di fare rispettare la legge. L’impegno della polizia nella lotta alla discriminazione, in particolare su base razziale, etnica, religiosa e nazionale di cui ci occupiamo in questo manuale, è un impegno affermato in primo luogo nella Costituzione italiana all’articolo 3:

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“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Nel 1975, con la Legge n. 645, l’Italia ratifica la Convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale la cui definizione è stata successivamente ripresa in modo letterale dall’Art. 43 del Decreto Legislativo n. 286/1998 (Testo Unico sull’immigrazione, noto come Legge Turco-Napolitano) che, proprio agli articoli 43 e 44, regola la materia degli atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e delle relative azioni civili e penali:

“1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di

parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. 2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità”; (in appendice il testo completo degli Artt. citati).

Tali articoli sono rimasti in vigore anche dopo le modifiche apportate al Testo Unico dalla più recente legge sull’immigrazione (n. 189/2002), detta Legge Bossi-Fini. Benché la definizione di “atto discriminatorio” contenuta nell’Art. 43 abbia specifico rilievo con riguardo all’azione civile, la circolare ministeriale 11/98 del 20 marzo 1998 precisa che “gli stessi fatti potrebbero anche rilevare ai fini disciplinari e, nei casi più gravi, assumere valenza penale o giustificare l’adozione di una misura di prevenzione”. Infine, per completare il panorama delle leggi attualmente in vigore in Italia, il Decreto-Legge 26.4.1993, n. 122, convertito con modificazioni nella Legge n. 205 del 1993, tratta delle misure urgenti in materia di discriminazione razziale etnica e religiosa (in appendice il testo degli articoli rilevanti). Anche l’Unione Europea ha legiferato in materia e di particolare rilievo e importanza sono le due Direttive emanate dal Consiglio dell’Unione Europea n. 43/2000 e n. 78/2000 (in appendice il testo completo delle direttive europee) che sono state recepite nell’ordinamento italiano rispettivamente dal Decreto Legislativo 9 luglio 2003 n. 2152 e dal Decreto Legislativo 9 luglio 2003 n. 2163. In particolare, la Direttiva n. 43 fissa gli standard minimi ai quali ogni Stato dell’Unione deve adeguarsi in materia di “parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica”. I decreti attuativi del governo italiano purtroppo hanno recepito le Direttive in un’accezione limitativa in punti diversi e sostanziali. Ad esempio, il rifiuto di procedere ad una revisione della legislazione vigente alla luce della Direttiva stessa e all’integrazione delle nuove disposizioni con la legislazione preesistente in materia di discriminazioni. In alcune parti, il Decreto Legislativo ha operato delle modifiche sostanziali, come nel caso degli “organismi per la promozione della parità

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