N.13
M.O.W.A.
GIORDANO BRUNO
“NON SO QUANDO, MA SO CHE IN TANTI SIAMO VENUTI IN QUESTO SECOLO PER SVILUPPARE ARTI E SCIENZE, PORRE I SEMI DELLA NUOVA CULTURA CHE FIORIRÀ, INATTESA, IMPROVVISA, PROPRIO QUANDO IL POTERE SI ILLUDERÀ DI AVERE VINTO.” Fiat Lux – rivista letteraria ©Tutti i diritti riservati. Instagram: @fiatlux_rivistaletteraria Facebook: FiatLux_RivistaLetteraria Telegram: TEcum - IL SALOTTO
Il MoWA
Museum Of Written Art “Se la montagna non va da Maometto, Maometto va dalla montagna”
Ci avviciniamo lentamente alle battute finali di questa grande e terribile opera che è stato il 2020, e quando i tempi cambiano, cambiano anche le necessità ed insieme a loro cambiamo anche noi. Al di là di ogni discorso che è stato fatto (in materia sono stati vomitati fiumi di parole) sulla decisione, legittima o meno, dei mesi scorsi di chiudere i Musei e i teatri, senza nemmeno offrire alternative più o meno valide come è stato fatto con i ristoratori (li prendo ad esempio, ma il discorso si può facilmente estendere) appare chiara una cosa: la cultura e tutto il settore che le gira intorno, già debole di suo, già
abbastanza
bistrattato
dalla
politica,
ha
definitivamente
ceduto
sotto
i
colpi
del
Covid-19,
indebolita da anni di scelte sbagliate e disinteressate al problema. Tuttavia per questi discorsi c’è un momento ed un luogo che non è questo ed io, e con me la mia redazione, non credo nella lamentazione passiva (questa la lascio alle prefiche) e piuttosto che agitare i pugni nell’ aria rifilando la colpa alla prima minoranza che passa, ho deciso di fare qualcosa di più “concreto”, così ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo fatto quello che (si spera) sappiamo fare meglio: scrivere. Ma scrivere non basta perché i tempi cambiano e con loro dobbiamo farlo noi, e se i luoghi di cultura chiudono, noi ne apriamo altri. Puoi giurarci se li apriamo. E così abbiamo aperto il primo canale Telegram di Fiat Lux: TEcum, un salotto culturale virtuale dove poter discutere insieme di attualità, di arte, di poesia, di musica e di qualsiasi altra cosa si voglia
parlare
ma
ho
incentrare
il
redazione
(li
visto
che
tredicesimo sto
non
bastava
numero
trasformando
di in
e
Fiat
quindi, Lux,
esseri
dovendo
durante
notturni
le
decidere
solite
ormai)
su
cosa
riunioni
della
abbiamo
fatto
un
pensiero molto molto semplice: chiudono i musei? E noi lo apriamo un museo!
Ed eccoci qui, alla fine, a darvi il benvenuto nel nuovo Museo di Fiat Lux: il MOWA (ogni riferimento al MOMA è puramente casuale), il museo dell’arte scritta (o “of written art” per i più fighi, e poi così l’acronimo suonava meglio).
Abbiamo raccolto tramite permessi speciali alcune tra le più importanti opere d’arte del mondo per portarle direttamente e gratuitamente sui vostri schermi, accompagnate dai pensieri e dalle riflessioni dei miei redattori. Cambia il supporto (da una rivista siamo passati ad un museo) cambia anche l’organizzazione,
quindi
MOWA:
cominciare
potrete
permettetemi già
di
illustrarvi
varcando
uno
l’ingresso
dei
dove
tour ad
possibili attendervi
del ci
saranno le nostre critiche d’arte, pronte ad illustrarvi tutto quello che c’è dietro un museo, un mondo nascosto, che non si limita ad essere “del mattone con un po' di cemento” ma Arte che contiene Arte, in tutte le sue forme ed espressioni.
Passando stavolta
per
la
l’ingresso
biglietteria ve
lo
(davanti
offriremo
la
noi)
quale potrete
potrete entrare
anche nella
non
fermarmi,
prima
sala,
la
pinacoteca, l’ambiente più grande della nostra struttura, che raccoglie dipinti provenienti da tutto il mondo, alternando tra libri, foto e film, un luogo magico dove le arti visive e letterarie si incontrano, si mescolano e si separano le une dalle altre in un valzer guidato dalle penne dei nostri scrittori; quando avrete gli occhi sazi di questo spettacolo sarete liberi di avventurarvi nella stanza attigua, la seconda sala, dove sono custodite gli originali di tre famose statue (sta a voi scoprire quali) e un reperto archeologico del VI secolo, e vi perderete in un’altalena di emozioni, oscillando tra un racconto ed una poesia, un racconto ed una poesia, seguendo il tempo dell’orologio più sensibile e impreciso del mondo: il cuore umano; vi perderete tra riflessioni sulla natura dell’amore e dell’amore che nasce da quel desiderio ardente di conoscenza che due anime condividono, tra versi antichi ed al tempo stesso moderni, scoprirete la natura senza tempo dell’abbraccio di una madre e farete un vero e proprio viaggio nel tempo, quando si respirava nell’aria la polvere ed il fumo, ma fate attenzione! Si possono aggirare dei ladri in questa stanza, ma non preoccupatevi troppo, non si sa mai cosa si può imparare di nuovo da loro. Quando sarete stanchi potrete scendere comodamente le scale ed avviarvi all’uscita, alla vostra sinistra vedrete un padiglione chiuso dal nastro giallo, ma non fateci caso, è ancora in fase di costruzione, vi sarà svelato il prossimo mese, e non dimenticate di prendere un souvenir dal nostro bookshop, è sempre bello portarsi un ricordo a casa!
Che dire? Non mi resta che augurarvi una buona visita al MOWA, il museo di Fiat Lux la rivista culturale:
Vuoi essere il primo ad entrare?
caporedattore e curatore della mostra PASQUALE BRUNO
Benvenuti al MoWA! the Museum of Written Art
SALA DELLA
SALA DELLA
SCULTURA
PITTURA
Bookshop
VOI SIETE QUI
Ingresso
A I N
Q U E S T A
Uscita
S A L A :
"La dignità del contenere - apologia del museo" | a cura di Cristina Colace "Foyer. L' arte in ogni luogo" | a cura di Eliana Pardo
S P
A R C H I T E T T U R A
A
C U R A
D I :
Cristina Colace Eliana Pardo
Z I O
Carlo Scarpa, Museo civico di Castelvecchio | Verona 1957-64, 1973
La dignità del contenere apologia del museo di Cristina Colace La
sadica regia che c’è dietro l’anno 2020 d.C.
sembra aver scoperchiato un
2.0,
divertendosi
condensare
nostri incubi in dodici mesi. I massicci incendi
da concerto e biblioteche. Lo sconforto del settore
continentali
culturale
la
peggio
con il virus ma, a quanto pare, siamo
dei pessimi coinquilini. Chiudono teatri, cinema, sale
Australia,
il
convivenza”
“
dei
in
a
vaso di Pandora
Se ne fa un gran parlare, s’era auspicato ad una
crisi
sanitaria
si
manifesta
sit-in
politiche in Medioriente, passando per gli eventi
generale,
più
attentati
restano aperti i musei
centri
domando, dal momento che il turismo nelle città
terroristici Nizza
tra
che
e
gli
ultimi
hanno
i
due
insanguinato
Vienna.
i
di
Abbiamo
perduto
panorama
culturale
d’arte
è
ai
si
accorgono
minimi
e
le
storici?
A
Nel
silenziose
manifestazioni pochi
protesta.
e
globale scatenata dal Coronavirus, le tensioni
recenti,
di
in
di
malcontento
un
mostre.
particolare: Perché,
pensarci
bene,
mi
il
ed
distanziamento sociale nei musei non è possibile: è inevitabile. Pertanto, nonostante la crisi latente
Christo,
del settore museale, non certo legata alla recente
Emanuele Severino e Franca Valeri, per citarne
pandemia, il successivo D.P.CM., entrato in vigore il
alcuni.
per
6 novembre, sancisce la sospensione delle aperture
importanza, l’attore (che definirlo tale pare fin
di mostre e musei, nonché degli altri istituti e luoghi
troppo poco) Gigi Proietti.
della cultura.
Abbiamo recentemente imparato ad accettare
In realtà, curatori e funzionari del MiBACT avevano
una
giallo,
già predisposto, in occasione della chiusura della
arancio e rosso, assistendo, seppur brevemente,
scorsa primavera, che aveva impedito l’apertura al
alla
vivere
pubblico, tra le tante, della mostra dedicata ai 500
nuovo.
anni dalla morte di Raffaello Sanzio, una serie di
rappresentanti nazionale Ennio
ed
internazionale:
Morricone,
Ultimo
nuova
urbano,
geografia,
per
Impotenti,
Philippe
dei
Daverio
poi
e
con
luoghi
vederli
certamente
confusi
Ezio
cronologicamente,
riapertura
meno
del
uno
del
il
non
stivale
nostro
consapevoli, È
e
ma
chiudere
spaesati.
Bosso
di
ma
non
momento
di
orientarsi e mettere ordine: 24 ottobre 2020; il Presidente del Consiglio delinea il contenuto del nuovo decreto ministeriale.
iniziative
online
streaming virtuali.
sui
sui rispettivi siti web o in diretta
social
per
coinvolgere
i
visitatori
La questione è spinosa: “se l’italiano medio non va al museo, il museo andrà dall’italiano medio” è un valido ultimatum? Un incubo, piuttosto: se questa
condizione
di
fruizione
può
(e
sicuramente lo farà) condizionare il nostro già difficile rapporto con l’arte, che ne sarà del
contenitore? ed
Non mi riferisco alla collezione
esposizione
possano
opere
risentirne,
protagoniste inteso
di
che,
restano
delle
mostre,
per
le
quanto
indiscusse
bensì
al
museo
come spazio architettonico. Carlo Scarpa in Giappone | 1969
Difficilmente immersi
prestiamo
come
siamo
la
dovuta
nella
attenzione,
contemplazione,
dimenticandoci che quei pezzi inestimabili non galleggiano nell’etere dell’iperuranio, non sono lì per volontà del caso, sono invece avvolti da murature,
materia
solida,
concreta.
Troppo
poco spesso ci soffermiamo sullo scrigno che contiene
preziose
gemme
dell’arte
non è meno degno.
secolo e che
di
ogni
È solo, per
così dire, più discreto. O siamo forse noi, suoi distratti abitanti, a darlo per scontato?
lui
che
sto
pensando
di
cominciare.
Non
perché la sottoscritta sia romana d’adozione o, almeno, non solo per questo motivo. E neanche perché sia un’amante dei voli pindarici, anzi. Piuttosto
perché
le
vicende
biografiche
apologia del museo”
“
architettonico
mi
riporta
come
spazio
inevitabilmente
Movimento
Moderno, Le Corbusier, Mies van der Rohe e Frank Llyod
Wright,
Pensare
Carlo
che,
Scarpa
poco
più
di
non
era
laureato.
vent’anni
prima,
precisamente nel ’56, l’Ordine degli Architetti lo aveva citato in giudizio, accusandolo di esercitare illegalmente la professione. Non è buffo che i laureandi basino la loro formazione accademica sui
saggi
e
sulle
biografie
di
progettisti
mai
Insomma,
personaggio
borderline,
creativo
limitato e perseguitato dalla burocrazia in vita, celebrato
come
un
santo
protettore
e
un
inarrivabile poeta dello spazio nelle accademie, dopo. Nemo profeta in patria.
Ma, se non architetto, cos’era o, per meglio dire, chi era
Carlo Scarpa?
conflitto mondiale), si forma nella sua città natale, tra canali e campielli, studiando Belle Arti. Il suo
Carlo Scarpa muore.
maggior interesse è il disegno.
A Sendai, in Giappone: scivola giù per le scale e perde così la vita. Correva l’anno 1978
stata
conferita
laurea in Architettura: honoris causa.
Dal 1932 al 1946 lavora come direttore creativo presso
e, di lì a pochi mesi, Scarpa sarebbe tornato in sarebbe
del
non era una zoonosi epidemica, ma l’imminente
quasi paradossale, partire dalla fine.
gli
sacri
Nato a Venezia nel 1906 (quando a preoccupare
Mi piacerebbe, dunque, in modo antitetico e
dove
mostri
alle
rocambolesche commedie del maestro.
Italia,
i
e,
soprattutto, la morte del protagonista di questa breve
come
laureati?
Ma torniamo a Gigi Proietti, perché è proprio da
Proprio
la
una
vetreria
di
Murano
ed
inizia
a
muovere i primi passi nell’ambito dall’allestimento di mostre ed esposizioni.
Pare
che
il
sfuggito
suo
innato
all’occhio
quale,
in
uno
dei
non
attento
dell’architettura organica il
talento
fosse
del
guru
Frank Llyod Wright,
suoi
viaggi
oltreoceano,
apprezzò la sistemazione di alcuni vasi da lui progettati. La capacità poetica di Scarpa si esplica in modo commovente nella concezione di sistemazioni ad hoc, sempre originali e mai
plusvalore
ripetitive, che riuscivano a conferire
estetico persino La
sua
a manufatti spogli o mediocri.
sensibilità
progettuale
sottrasse
agli
oscuri e polverosi magazzini dei musei opere altrimenti dimenticate.
È il caso della statua equestre di Cangrande della
Scala,
protagonista
indiscussa
di
una
scenografia dal tocco berniniano, in un gioco di
chiaroscuri
museo
di
tra
l’interno
e
Castelvecchio.
l’esterno “Tutto
del
o invadere l’atrio. In
simbiosi
perfetta con le
leggi del cosmo.
Quando gli chiedevo che l’acqua alta restasse fuori dal palazzo lui, guardandomi negli occhi dopo una pausa di attesa: "dentro, dentro l’acqua alta, dentro come in tutta la città. Solo si tratta di contenerla, di governarla, di usarla come materiale luminoso e riflettente. Vedrai i giochi della luce sugli stucchi gialli e viola dei soffitti!"
falso!”
dichiarò Scarpa, introducendo il suo restauro durante una conferenza. Confessando
Giuseppe Mazzariol direttore della Fondazione Querini Stampalia
apertamente la “falsità” del suo progetto, di fatto, aggirò il paradosso del restauro in-stile, non
cadendo
nell’errore
dei
suoi
contemporanei.
È solo un trucco”,
“
avrebbe
esordito
Jep
Gambardella nella sceneggiatura di Paolo Sorrentino, apolidi,
qualche
provenienti
tempo da
dopo:
le
chiese
sculture distrutte,
levitano, sollevate dal terreno da un supporto centrale di colore scuro. Galleggianti in una dimensione assoluta, sono come spettri vaganti nel "limbo" delle sale.
Tornato in laguna, interviene sull’ingresso del cinquecentesco qui,
in
una
Palazzo Querini Stampalia:
concezione
tanto
primordiale
quanto filosofica, decide di non controllare l’acqua, piuttosto di assecondarla in un gioco
acqua
sapiente di ritrosie e piattaforme. L’
alta
invade il piano terra, placida e addomesticata perché libera di “esprimersi”, creando giochi di riflessi e trasparenze, senza mai violentare o Palazzo Querini Stampalia | Venezia, 1961-1963
In occasione del bicentenario
Antonio Canova,
dalla nascita di
nel 1955, il
genio di Scarpa concepisce l’ampliamento della
Gipsoteca canoviana
di
Possagno. In una metratura scarsa,
un
padiglione
Scarpa
riesce
ad
stretto
articolare
e
oblungo,
magistralmente
due volumi: uno verticale a pianta quadrata, l’altro trapezoidale, che segue la curva del terreno in pendenza, declinando il pavimento in gradoni. Mi commuove l’uso drammatico quanto sapiente della
luce,
materia partecipe di quel
miracolo sacro che è la scultura, che penetra dalle quattro finestre che tagliano gli angoli superiori dell’ambiente.
"Volevo ritagliare l'azzurro del cielo" Un anno dopo, verrà portato in tribunale con l’accusa
di
esercitare
illegalmente
la
professione di architetto: chapeau.
Sono
passati
Quando
più
di
torneremo
sessant’anni, alla
frenesia
da
allora.
del
nostro
vivere urbano, quando i nostri non-luoghi, strade,
piazze,
centri
commerciali,
metropolitane, stazioni, aeroporti torneranno a brulicare del fermento della contemporaneità, fermatevi: scrollatevi da dosso la pigrizia delle mostre
virtuali
tornate
ad abitare i musei,
con
i
vostri
e
dei
corpi,
cataloghi
a
farle
d'arte
online,
a riempire le sale risuonare
di
una
babele di lingue. Perché l'architettura è dimensione sensoriale, esperienza percettiva. E non può sopportare
il
silenzio. Se le mie parole non vi hanno convinto della dignitosa e silenziosa potenza di uno non importa. D’altronde… mai stato un architetto.
Carlo Scarpa, Gipsoteca Canoviana | Possagno, 1955
spazio,
Carlo Scarpa non è
Foyer
l'arte in ogni luogo di Eliana Pardo Ed
ecco
che
Spesso
di
immenso che ti appartiene da sempre. Una luce
anche
essere
intensa ti sovrasta da capo a piedi mentre ti
colonne e ornato da statue, dando accesso alle
incita a fare un altro passo; c’è silenzio, sì, ma tu
altre
lo
ospitale, sebbene non fosse al riparo.
senti
entri,
perdendoti
comunque
quel
in
un
luogo
chiacchiericcio
ora
ti
vedo:
conversare
tra
frattempo,
pari
pensi loro
che per
quasi
siano
le
opere
confonderti,
spaesato
stanze
rettangolare,
circondato
della
domus.
da
Un
l’atrium un
poteva
portico
luogo
caldo
a
e
Un luogo
pienamente vissuto.
impercettibile che rimbalza sulle pareti.
E
forma
e
mentre
a
nel
cerchi
risposte vagando con lo sguardo, sperando che siano,
invece,
rimbombare
unicamente
ovunque...
mai che sia proprio
i
tuoi
Eppure
l’atrio
pensieri
non
a
crederesti
a parlarti e incitarti.
Perché?
Inizialmente,
nell'architettura
romana,
l’atrium
rappresentava l’ingresso principale e la stanza del
focolare
domus,
domestico
(abitazione
patrizie),
camera
posta
delle
al
centro
ricche
oltretutto
della
famiglie
fondamentale
L'atrio delle
poiché vi si svolgeva la vita familiare. Ben presto
che
questa
ambiente
usanza
fu
abbandonata
a
causa
del
un
moderne costruzioni, invece, non è
ampio
ingresso,
che
eleva
si
su
generalmente più
piani
con
un una
precoce deterioramento delle pareti, ma restò
copertura trasparente, oppure, non molto meno
ugualmente
rialzata,
comune,
raccolta
anche
interna
una
piccola
impluvio
all’
dell’acqua
piovana),
piattaforma
(vasca a
per
la
simboleggiare
dinamico e vitale focolare: il cartibulum.
quel
in
del
tutto
questo
a
cielo
secondo
aperto.
caso,
Tuttavia,
l’atrio
dovrà
essere ben finestrato ai lati per consentire una buona illuminazione naturale da più parti.
foyer,
Conosciuto anche come
punto caldo,
dal francese,
esso non è altro che un luogo di
accoglienza, elegante e rassicurante, avvolto da un’aura quasi mistica che rapisce l’ospite già dal primo e fugace sguardo. Guide, quadri, cartelli,
panche
sembrano lungo
disposti
tutta
invitarti
e
la
nel
all’interno
piccoli tra
sala,
modo
della
loro con
più
l’unico
possibile
edifici
ha,
aprire
di
scopo
Negli
l’atrio
di
ritrovo
omogeneamente
struttura.
compito
di
caloroso
destinati alla cultura l’importante
luoghi
la
inoltre,
scena
a
molteplici strade percorribili e a sentieri artistici pressappoco noti, illudendo che vi sia una fine dietro
questi.
Può
condurre
nell’immediato
a
numerose e spaziose stanze ben arredate o, al contrario,
prolungare
l’attesa
della
scoperta
ponendo davanti alla nostra visuale differenti scale,
solitamente
poste
ai
lati
della
sala
d’ingresso.
utilizzati
iniziatico
della
visita
e
della
scoperta
artistica, ma anche il primo e l’ultimo ambiente vissuto appieno dal visitatore.
fine di un viaggio
È l’inizio e la
raccontato innanzitutto con
gli occhi, e se la prefazione non pare di fatto avvincente,
di
sicuro
non
saremo
disposti
a
intraprenderlo.
spazio
con
assistito
cultura siano soltanto i musei, le gallerie d’arte o i teatri, ma naturalmente non è affatto così, proprio no. Molte esempio,
università
utilizzano
i
in tutta Europa,
loro
atri
e
i
loro
verdissimi cortili per organizzare mostre di ogni tipo, dando opportunità non solo a noti artisti, ma anche e soprattutto agli studenti stessi. vengono
botteghe chiese nuova
in
mente
sconsacrate
concerti
per
di
più
vecchie
ricche di cultura e spettacolo, atri di
vita da
a
la
per
mostre
cantare
riempire
poesia di
aeroporti
di
più
quell’immenso
ognuno
vario
e,
di
genere
noi.
in
Ho
atri
di
luoghi impensabili ma ugualmente affascinanti. Punti caldi ovunque e foyer di ogni tipo, ma
Tra questi vi è
con
alle
pittura
condominio
quali e
è
stata
scultura
negli
data
moderna,
spiazzali
delle
proprie abitazioni in tempo di Coronavirus o,
l’Antico Mercato dell’isola di
Ortigia.
Collegata
Siracusa
mediante
alla il
città
Ponte
siciliana
Umbertino
e
di il
Ponte Santa Lucia, l’isola di Ortigia costituisce la parte più antica del territorio siracusano, un posto
visitato
spiagge,
Mercato
Mi
suonare,
semplicemente,
palpabile
Talvolta si pensa, banalmente, che i luoghi di
ad
per
e
mai banali. E con essi, semplicemente l’arte.
Il foyer non è solo un luogo di passaggio fisico e
ingressi di stazioni
ancora,
ma e di
non
solo
per
soprattutto visibile Ortigia
in è
le
per ogni
sue la
bellissime
sua
dove.
situtato
Troja
L’Antico
al
dell’isola e il progetto dell’ingegnere
storia,
centro
Edoardo
di tale struttura fu finalmente portato a
termine all’inizio del XX secolo, dopo qualche anno di fatica e incertezza.
Edoardo Troja, Antico Mercato di Ortigia | Ortigia (SR) 1900 circa
La fine dei lavori vide l'apertura di una struttura
essenziale e dinamico per l’intera popolazione
moderna
siracusana. Per essere ripetitiva, dirò: un luogo
e
signorile,
la
quale
concedeva
cortile interno
immediatamente spazio ad un
pienamente vissuto.
rettangolare, che avrebbe dato accoglienza a
Il mercato coperto, purtroppo, fu destinato a
carretti
chiudere,
e
bancarelle
di
ogni
genere,
obbligando
rappresentando la via d’accesso ma anche il
trasferirsi
fulcro
consapevolezza
di
atteso.
quel Per
dare
all’ambiente, centro
del
momento
mercato
fu
ancora
realizzata
cortile,
non
coperto
la
funse
più
tanto
vivacità
una fontana
quale in
così
in
realtà
un da
al
primo decoro
rifornimento per i fabbricanti stanchi e affaticati; la sua dell’ingresso,
bensì
da
da
venditori
tutt’altra
parte,
che
Mercato.
E
quel
luogo
costretto così ad anni di
L’edificio
si
composto
eleva
su
da
mercato.
un solo piano
trentasei
finestre
a
ed
è
persiane,
mentre invece sono ventiquattro e di
ordine
tutta
l’ispirazione
possibile
e
alla
fine
1997
e
conclusosi
colonne,
fu
per
attuato, tre
anni
dopo, previde un intervento di tipo conservativo della
struttura
soltanto
originaria,
pochi
aspetti
L’Antico
modificandone
e,
diventato il posto preferito di
delle
necessaria
restauro
cortile
base
magico
rispolvera tra i ricordi, la fantasia, bramando
materiali.
la
posto
non c’è qualcuno che passa di lì. Passa di lì e
tuscanico le arcate del portico che chiudono il interno;
la
lungo silenzio. Finché
iniziato
del
cuor
altro
tanto
primi
costruzione
in
a
sarebbe stato tanto caloroso quanto l’Antico
riportarlo in vita. Il sapiente
dalla
bottegai
con
nessun
elegante trasformazione avvenne nel corso dei mesi
e
soprattutto,
Mercato,
d’allora,
artisti
i è
di ogni
originariamente prevista in marmo, venne poi,
genere.
presumibilmente,
fotografia, e anche i giovanissimi hanno trovato
realizzata
struttura, che sorge vicino al ha
ospitato
fino
agli
anni
in
cemento.
La
Tempio di Apollo, ‘70
le
numerose
Sono
finalmente
nati
un
vari
luogo
club
di
adatto
lettura
dove
e
poter
sperimentare e confrontarsi con le loro uniche
botteghe di pescivendoli, fruttivendoli, macellai
idee.
e anche artigiani, rappresentando un luogo non
mercato
solo di guadagno ma anche un centro
poesie.
Le
urla si
e
sono
le
conversazioni
trasformate
allegre
così
del
in suoni,
I loro prodotti in arte di qualsiasi tipo, le
vecchie
bancarelle
in
mostre
di
qualsiasi genere e categoria. Eppure
non
crederesti
proprio
l’atrio
a
mai
parlarti
e
che
sia
incitarti.
Perché?
"Un uomo è stato colpito da quell’immenso cortile, e con una sola idea ha tentato di dare nuova luce ad un qualcosa che lentamente stava cessando di esistere." E ci è riuscito, oltretutto. Non
è
forse
questo
il
compito
che,
effettivamente, ha l’arte? L’atrio
t’invita ad essa,
scoperta,
la
sua
ma
la
sua
interpretazione,
è
tutt’altra roba. E non può sussistere se non vi è qualcuno disposto a coglierla.
Entriamo?
Inside MoWA
the Museum of Written Art
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SCULTURA
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Ingresso
P I N
Q U E S T A
Uscita
S A L A :
"Il pellegrino" di RenĂŠ Magritte | a cura di Matteo Balsamo "Finestre di notte" di Edward Hopper | a cura di Laura Colosi "La passeggiata" di Marc Chagall | a cura di Sara Picariello "Il Colosso" di Francisco Goya | a cura di Alessandra De Varti "Natura morta con Bibbia" di Vincent Van Gogh | a cura di Carmine Faiella "Violino e uva" di Pablo Picasso | a cura di Gabriele Maurizio
P I N A C O T E C A I A
T
C U R A
D I :
Matteo Balsamo Carmine Faiella
T U R A
Alessandra De Varti Laura Colosi
Gabriele Maurizio Sara Picariello
Il Pellegrino a cura di MATTEO BALSAMO
RenĂŠ Magritte, 1966, da collezione privata
Critica
Mi
aggiro per un museo: non presenta i contorni ben definiti
ma tutto è ondulante e mi sembra di star camminando su un tappeto di gomma. Avverto caldo, un caldo che mi offusca la mente
e
perdo
riferimento
la
solo
pavimentato
in
cognizione
questo
legno.
I
del
tempo,
stranissimo palmi
delle
avendo
spazio mani
come
scricchiolante
sono
imperlati
di
sudore. Barcollo, e cerco di distinguere delle figure su un muro. Serro gli occhi per vedere meglio. Non mi ricordavo di essere diventato miope. Tre figure col cappello sembrano guardarmi, ma non attraverso gli occhi. Sto diventando pazzo, penso, e nel frattempo mi asciugo la fronte. Mi avvicino a una di esse. Confermo
la
mia
ipotesi
precedente:
sto
sicuramente
diventando pazzo. La figura ha il viso spostato dal collo, a sinistra,
mentre
il
cappello
e
il
vestito
(giacca,
camicia
e
cravatta) si reggono da soli, per una sconosciuta legge della gravità. A indossare questo vestito e cappello è il nulla. Ma che cosa significa tutto questo? Quale inquietudine estrema mi pervada, non so spiegarlo a parole. Gli occhi della “testa spostata”
sono
vitrei,
immobili;
l’espressività
assente,
l’espressione è quella di una maschera di cera. Dietro, uno sfondo azzurro con striature più o meno visibili di rosa antico. La
figura
non
emette
suono,
ma
c’è
solo
un
silenzio
pesantissimo, profondo, che parla certo di più. Per un attimo è come se ritornasse in me la lucidità (ma durerà poco). Penso e ripenso e cerco di riavvolgere i fili della memoria: dove ho visto una figura simile? Dopo un attimo di esitazione, ecco il lampo: sul mio libro di storia dell’arte. L’opera aveva un autore, un titolo, una data e un genere: René Magritte, Il pellegrino, 1966, Surrealismo. Quando guardai per la prima volta quest’opera, però, non ero sgomento. Capii cosa volesse dire l’autore, ma non
avevo
viverla.
benché
Ora
mi
minima
ritrovo
in
idea
di
quella
cosa
volesse
condizione.
significare “Come
un
personaggio di Pirandello”, penso, “che ha perduto il volto e l’identità”. Mi sento all’improvviso Vitangelo Moscarda di “Uno, nessuno e centomila”. Credevo di essere uno, integro e uguale, ma davanti a questo specchio della verità capisco di essere nessuno. Girano nella mia testa queste parole del libro:
Critica
Mi si fissò invece il pensiero ch'io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m'ero figurato d'essere.
Mi tocco il volto e lo sento freddo e duro. Non avverto più la percezione guance.
dei
Piango,
polpastrelli ma
le
che
lacrime
sfiorano sono
la
pelle
imprigionate
delle da
un
blocco più grande. Le mie emozioni sono coperte da una rigida maschera, che poco prima non avevo.
Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m'avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.
Mi giro sulla sinistra e un uomo attempato mi guarda bonariamente, sorridendomi. Vorrei rispondere che non sono felice; vorrei mostrargli il tormento che ho dentro, ma tutto, tutto è coperto da questa maschera metallica e fredda. E’ una maschera che sorride. Eccolo qui, l’ultimo personaggio di Pirandello.
Centomila.
Il
signore
attempato
mi
crede
sereno
e
felice
e
allora
io
cerco
di
accontentarlo (devo farlo!), e alla fin fine mi convinco anche io di essere felice, e annullo me stesso. Lo faccio per alcuni minuti, ma ahimé non resisto più. Sto per soffocare. Mi giro a destra, sperando in una comprensione, e c’è una donna anziana che mi guarda. Immobile, parla solo con gli occhi. Stringe la mano a una bambina (forse sarà sua nipote),
che
mi
guarda
intensamente.
Credo
che lei abbia capito tutto. Lo vedo dal modo in cui mi guarda: sa leggermi dentro. Mi dimeno, salto, urlo per sprigionare il mio malessere. La nonna ride divertita, credendo sia un pagliaccio, o un’attrazione da circo. La bambina mi guarda fisso con i suoi occhi neri e non batte ciglio. Lievemente, sussurra una frase: “salva te stesso”. All’improvviso, tutto diventa nero. Avverto freddo alle mani. Apro gli occhi. Per fortuna era solo un brutto sogno.
Sono un uomo velato a me stesso, soltanto Dio sa il mio vero nome.
JORGE LUIS BORGES
natura morta con bibbia di Vincent van Gogh 1885
dal Van Gogh Museum di Amsterdam
cultura morta con bibbia di Carmine Faiella
Elementi simbolo di quando l'uomo si è perso: nel Cinema, nella comunità e sui social. La candela non illumina, è fine a se stessa. Una luce che ancora non ha illuminato il nostro cammino.
Francisco Goya (o Asensio JuliĂ ) 1808-1812 dal Museo del Prado di Madrid
Il Colosso
a cura di Alessandra de Varti
Critica
Sapete
cosa
ho
imparato
da
quest’ultima
quarantena? Che gli uomini amano le storie. No, davvero, penso sia qualcosa di innato, il fascino
per
il
fantastico
e
l’incredibile;
possediamo un immaginario vividissimo a cui basta un minimo suggerimento per creare mondi
meravigliosi
e
storie
appassionanti.
Pensate agli scrittori, oppure ai complottisti. Guardateli, come fieramente combattono le loro battaglie contro i malvagi signori delle Big Pharma, armati di striscioni di protesta e orecchie sorde, per evitare di cadere nelle illusioni e negli inganni degli incantatori in camice e mascherina che complottano con i Poteri Forti. C’è poco da fare, noi uomini abbiamo
sempre
amato
le
storie.
Soprattutto quelle maledette. Nel 2002, nei cinema,
esce
un
documentario
su
un
film
mai distribuito, la dissezione di un disastro. “Lost in La Mancha” è messo insieme con i retroscena di due anni di riprese, stralci di interviste a costumisti e assistenti di regia, pezzi di pellicola scartati.
E’ il naufragio di
un progetto ufficialmente iniziato nel 2000, ma
in
cantiere
letterale,
si
badi
dal
1993.
bene:
un
Un
naufragio
nubifragio
si
abbatte sul set delle campagne ispaniche,
modificando drasticamente il paesaggio. E poi l’attore protagonista, Jean Rochefort, si ammala. Nonostante i tentativi di imputare al fato il susseguirsi di catastrofi (sui documenti ufficiale si accenna ad “atti divini” avversi), le compagnie di assicurazione si impossessano della sceneggiatura.
Chiudiamo sull’immagine di un
uomo distrutto, sconfitto dal caso. Terry Gilliam, il membro americano dei Monty Python, ha puntato troppo in alto: un film su Don Chisciotte della Mancha. Sapete chi altro ci aveva provato, una quarantina di anni prima? Orson Wells. Si era trascinato dietro per tutta la vita bobine di girato che non era mai riuscito a montare, morendo con quel rimpianto nel cuore. Senza nulla togliere a Terry, ma, ehi, se non c’è riuscito Orson Wells, magari è il caso di rinunciare. E invece no. “Per aspera ad astra”, multa, multa aspera, “dopo 25 anni di fare…e disfare”, recita una scritta ad inizio film, nel 2018 i cinema ospitano Terry Gilliam per la seconda volta, in veste di vincitore, con la mastodontica pellicola di due ore e dieci “L’uomo che uccise Don Chisciotte”. Il film si apre con cori gregoriani e la fioca luce di una candela che illumina un libro aperto su una
litografia
alla
Gustave
Dorè,
una
raffigurazione
iconica
dell’Ingenioso
Hidalgo
Don
Quijote
de
la
Mancha e del suo fedele sparviero- ah, volevo dire scudiero, ma a questo ci arriveremo dopo. E mentre una
Critica
circo e rinchiuso in un capanno, al buio, a recitare di continuo le battute del film, che viene proiettato senza sosta su un lenzuolo appeso, ecco il Don Chisciotte di Adam, un ex calzolaio vittima del metodo Strasberg. Al sentir
parlare
Adam,
mentre
la
sua
immagine
si
sovrappone a quella del fido scudiero proiettata sul lenzuolo,
il
salvarmi!”. essere
la
vecchio
grida:
“Sancho!
E
Adam
scappa,
sua
cifra
peculiare,
cosa
Sei
che
causando
venuto
a
scopriremo un
piccolo
incendio ed è questo che segna l’inizio delle peripezie. Perché “L’uomo che uccise Don Chisciotte” è davvero
voce solenne ci narra che lui è “colui per il quale sono espressamente persino
gli
nell’assolata trasportare
riservati
eroici
i
pericoli,
fatti”,
in
campagna troppo
un
le
grandi
batter
spagnola.
dall’atmosfera
imprese
d’occhio
Ma
non
e
siamo
lasciatevi
cavalleresca,
perché,
dopo un mulino a vento inceppato e qualche imprecazione in
spagnolo,
scopriamo
cinematografico.
Adam
di
Driver
essere si
su
riconferma
un
set
l’erede
di
Johnny Depp, sia per quanto riguarda la sua straordinaria abilità
mimetica
che
gli
permette
di
interpretare
i
personaggi più disparati, sia perché va effettivamente a ricoprire il ruolo che nel 2000 sarebbe spettato a Depp. Adam veste i panni di un famoso regista che, a un occhio attento, ricorda moltissimo Terry Gilliam stesso, anche se porta
un
nome
deliberatamente
ispirato
sceneggiatore del film, Tony Grisoni.
a
quello
dello
Dejà-vu. Un regista in
crisi che tenta di realizzare un film su Don Chisciotte, dove l’abbiamo già sentita? “Metacinema” diranno subito i miei intellettuali lettori. Giustissimo, ma questo è solo il primo dei tanti voli pindarici del film, quindi state bene attenti e fate
attenzione
a
non
restare
indietro.
Terry
Gilliam
si
dimostra fine conoscitore delle radici del teatro, affidando il compito di rompere la situazione di quiete iniziale al personaggio
del
Gitano,
nei
titoli
di
coda
“Diaz
ex
machina”. Nel tentativo di trovare l’ispirazione, è proprio dalla valigetta di cianfrusaglie del Gitano che Adam pesca un vecchio film in bianco e nero, “L’uomo che uccise Don Chisciotte”, la pellicola che lui stesso aveva girato tempo addietro per la sua laurea, in un paesino spagnolo a poca distanza
dall’attuale
set.
Adam
decide
di
tornare
nella
cittadina spagnola, dal nome emblematico di Los Sueños, ma molte cose sono cambiate. Il passaggio di Adam ha sconvolto giovane
la
vita
Angelica,
del a
borgo, suo
a
partire
tempo
musa
da e
quella
della
Dulcinea
del
regista. Solo un uomo pare essere rimasto uguale a come Adam lo aveva lasciato. Un cartello sul ciglio della strada recita “QUIJOTE VIVE”. Trattato come un’attrazione da
un epos cavalleresco, o almeno si presenta come tale, dunque lascio a voi scoprire le mirabolanti avventure di Don Quijote della Mancha, prode cavalier, e del suo aiutante, Adam il pusillanime, suo fedele “sparviero”, come si ostina a dire Don Chisciotte che, da spagnolo, incappa in qualche errore nella lingua inglese. Terry Gilliam si rifà a quella geniale operazione che rese celebre Petronio Arbiter, prende un genere e ne ribalta i
contenuti,
preservandone
le
forme.
Don
Chisciotte
della Mancha è l’eroe impavido e senza macchia, ma il protagonista della storia è il suo secondo, Adam, un uomo
pavido,
egoista,
che
fugge
da
ogni
responsabilità e pensa solo al proprio tornaconto. La bellissima
Dulcinea-Angelica,
il
cui
nome
già
riecheggia imprese di coraggiosi cavalieri cristiani, è una principessa che non chiede di essere salvata da un re tirannico, ma si prostra servilmente- e letteralmenteai suoi piedi, lasciandosi picchiare e umiliare perché su un trono di velluto si sta più comodi, anche con la schiena ricoperta di lividi. E Adam, invece di salvarla, cerca di comprarla con oro spagnolo, trafugato da una
Critica
bisaccia morto.
E
balcone
trovata
accanto
ancora di
Romeo
una e
ad
un
asino
simil-scena
Giulietta
del
diventa
un “chi sei tu, fra le tante che mi sono portato a letto? Sally, Lucy? Ah, no, la mora della pubblicità dello shampoo?”. Terry
Gilliam
mette
in
atto
un’opera
straordinaria di destrutturazione, che caratterizzava l’umorismo dei bei tempi andati
dei
Monty
Python.
Nelle
ultime
sequenze del film, poi, mescola tocchi di
spy-movie
all’Orlando
americano furioso,
e
richiami
coreografie
grandiose da Cirque du Soleil e radure incantate da Signore degli Anelli. Ma
come
giungere
ispirazioni
e
allacciarvi
le
insieme
un
riferimenti? cinture,
tale
Signori,
perché
stiamo
caleidoscopio
di
siete
di
per
pregati
attraversare
i
tre piani di narrazione su cui la nostra pellicola piroetta senza
sosta
culminare
e
in
sempre
un
metacinema,
più
unico
di
vorticosamente,
punto.
come
ci
Abbiamo
già
ritroveremo
fino
a
farli
parlato
spesso
del
nelle
inquadrature luci, oggetti di scena, microfoni che sono parte della finzione del film. Poi abbiamo i flashback, a cui
siamo
abituati
cinematografia,
da
anni.
quella
Infine,
tecnica
la
chimera
narrativa
che
della ci
fa
uscire dal cinema col mal di testa e ci spinge a cercare immediatamente
su
internet
“significato
di
Donnie
Darko” o “Ma la Città incantata alla fine è vera o no?”: sogno fra
o
son
realtà
desto?
e
Ci
fantasia.
muoviamo
Sì,
è
un
sul
film
piano
su
Don
intermedio Chisciotte,
potevamo aspettarcelo che vedesse giganti al posto di pale eoliche, ma cosa succede quando anche il nostro protagonista, della
il
novello
razionalità,
inizia
Sancho, a
non
da
sempre
distinguere
baluardo
più
la
realtà
dall’illusione? L’ultima mezz’ora del film è un labirinto di specchi, una “Disneyland degli orrori”, complice anche l’aver
avuto
possibilità
Cristo”,
una
gotico,
romanico,
sforzosa
girare
straordinaria
polifonia
spettatore,
di
dando
stili.
“Convento
architettura
manuelino di
nel
e
Terry
inizialmente
che
mescola
rinascimentale, Gilliam
una
de
gioca
spiegazione
una
con
lo
logica
a tutto ciò che vediamo, ma Adam si trasformerà presto in un narratore inaffidabile senza che nessuno ci abbia avvertito. Siamo alla mercè di Terry, che, come un bravo illusionista-
come
il
perfido
Malabruno!-
ci
fa
vedere
solo quello che piace a lui, per poi sollevare il velo
Critica
lasciandoci smarriti e impotenti di fronte alla realtà. L’unico che pare muoversi senza incertezze in un mondo sempre diverso da come appare è Don Chisciotte. Jonathan Pryce è un gigante in mezzo a uomini piccoli, capricciosi, violenti, codardi. Vive in un’illusione, ma con straordinaria coerenza. Lui è, e guai a metterlo in discussione, Don Chisciotte cavalier servente, d’encomiabile forza d’animo, autentico nella finzione. Un grande monologo, di una spagnola, per giunta, si concludeva con queste parole: “perché una è più autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa”. Volgetelo al maschile ed ecco il nostro fiero cavaliere errante, tutt’altro che triste o patetico, con la sua rigida morale cavalleresca, il suo portamento fiero, si eleva al di sopra di tutte le cose meschine, fra cui, a volte, anche la realtà. “Non c’è niente da fare” scriveva Nazim Hikmet “quando si è presi da questa passione/ e il cuore ha un peso rispettabile […] ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati/tu continuerai a vivere come una fiamma”. Terry Gilliam insiste molto sul senso di responsabilità dell’artista nei confronti della sua creazione, di tutto quello che deriva dalla sua opera. L’arte non è avulsa dalla realtà. L’ideale femminile di Don Quijote, la giovanissima Angelica, bella e pura al punto da essere scelta per interpretare la Madonna nell’opera del giovane Adam, finirà per essere corrotta dal sogno del cinema. Ma anche per Adam è passato il tempo del neorealismo, è rimasto impigliato negli ingranaggi hollywoodiani. Obbligato dal fato, che veste i panni del Gitano, a scontarsi con le conseguenze delle sue azioni passate, Adam è costretto a prendersi le responsabilità della sua creazione, della sua creatura, dando prova di quello spirito folle e innamorato che si addice a un cavaliere di ventura, mostrandosi degno erede di Don Quijote in persona, nella sua follia e nella sua grandezza. Quando per la prima volta vidi il film, non ci feci caso. Neanche la seconda, ad essere sincera, ma durante la terza visione, in quell’incontro che poi obbligherà Adam a prendersi le sue responsabilità di creatore, di artista, nei confronti della sua opera e tutte le conseguenze che ne derivano, il muro a cui è appoggiato Don Chisciotte non è spoglio. All’inizio sembrano solo colori scuri e confusi, ma in realtà qualcosa di mirabile si nasconde dietro la schiena di Don Quijote. Una storia maledetta dentro una storia maledetta. Quijote, allontanandosi dal muro, svela magistralmente uno dei dipinti che è stato oggetto di accese diatribe relative alla sua paternità: opera originale del Goya o abile imitazione di un allievo? Don Chisciotte, nemico giurato di giganti immaginari, ha nel suo antro “Il colosso” di Goya a guardargli le spalle. Si dice che il quadro sia ispirato alla poesia di Juan Bautista Arriaza, in cui il colosso rappresenta la Spagna che combatte contro l’invasione napoleonica. In questa scena, fianco a fianco, due combattenti: da un lato, il gigante cieco, ad occhi chiusi, pronto a difendersi dall’invasore, dall’altro Don Chisciotte, accecato dalla sua fantasia, ma pronto a difendere i suoi ideali in un mondo che ha perduto i propri.
F I N E S T R E
DI NOTTE EDWARD HOPPER 1928
MoMANew York
A CURA DI
LAURA COLOSI
N el
6 dicembre 2016 Lawrence Block, scrittore e in
questo
particolare
compimento un’antologia quadri
del
un di
caso
anche
progetto
racconti
celebre
di
editore,
dal vari
artista
titolo generi
porta
a
Ombre: ispirati
americano
ai
Edward
Ci troviamo a New York ed ecco che attraverso gli occhi del protagonista vediamo la signora in rosa
chinarsi,
incorniciata
dal
vetro
di
una
finestra, ignara che qualcuno la stia osservando. Fin
dalle
prime
pagine
scopriamo
le
intenzioni
Hopper. Tredici autori sono chiamati a collaborare
della voce narrante, dopo averla a lungo spiata
e
e studiatone le mosse, tenterà di approcciare la
tutti,
nonostante
gli
impegni,
accettano
e
scrivono una storia per noi o meglio la svolgono. Il
donna
lettore avrà storto il naso -lo so- e si sarà chiesto
come
cosa intenda con “la svolgono”. Mi spiego meglio.
avevano abitato in quell’appartamento prima di
I
lei,
quadri
di
Hopper
hanno
un
valore
evocativo
o
per
spogliarne
aveva
fatto
almeno
in
con
così
seguito la
pensa
la
serie
di
dignità
così
donne
che
di
fare.
Una
sorta
di
impressionante ma questo non vuol dire che siano
Finestra sul cortile al contrario insomma, in cui a
narrativi,
essere
proprio
anzi
la
tutt’altro
catena
perché
narrativa.
Ci
a
mancare
troviamo
è
come
osservato
l’assassino
davanti a dei fermo immagine, momenti sospesi in
questo
cui manca la temporalità del prima e dopo. E qui
riferimento
intervengono
volta
prontamente
i
nostri
scrittori
da
e
ma
ad
la
altri
nel
da
una
presunta film
di
corso
finestra
vittima.
E
Hitchcock
del
non proprio
viene
racconto:
è a
fatto
la prima
quando troviamo il protagonista spiare la
Stephen King a Michael Connely (per citarne solo
ragazza
alcuni dei più noti) ad attuare il completamento
strizzare l’occhio come se stesse scattando una
immaginativo della mente, a svolgere [distendere,
fotografia,
disfare] ciò che era avvolto, il quadro prende vita
Stewart
che
e
finestra
su
diventa
titolo
storia.
omonimo
ispirazione,
al
Nel
racconto
quadro
Jonathan
di
Finestre
Hopper
Santlofer
da
di
notte,
cui
spalanca
finestra che Hopper aveva già aperto.
trae la
dalla
finestra
della
immaginandosi impugna cortile;
il
la
nei
suo
propria
panni
casa
di
teleobiettivo
seconda volta
e
Jimmy ne
La
quando
questi incontra la signora in rosa al ristorante e lei
gli
rivela
di
essere
di
Salina,
cittadina
Kansas che il protagonista dice di conoscere
del
perché
è
di
lì
anche
il
personaggio
interpretato
da Kim Novak ne La donna che visse due volte; e
la terza volta
infine
assistere per
la
due
insieme
doppia
volte
casuali
e
che
quando
alla
due
retrospettiva
proiezione Psyco.
i
de
La
donna
Riferimenti
immergono
il
non
lettore
in
mondo
di
che
ritengo
Hopper,
un
valga
mondo
anche
di
per
finestre
il
che
ad
mentre invita lo spettatore a guardare abbatte i
Hitchcock
muri della discrezione. Del resto la fotografia è il
che
mezzo
vanno
di
Dichiarazione
visse
puramente
un’atmosfera
che
mondo
ha
abolito
immagine
fotografiche
il
ed
che
privato
è
a
rendendo
delle
assomigliano
il
immagini
i
quadri
di
thriller e angosciante in pieno stile hitchcockiano,
Hopper, “momenti sospesi”, parole singole che i
nella
nostri
quale
arrivare
i
e
colpi
le
confondersi. racconto
di
vesti Per
la
fondamentale
scena
di
vittima
tutta
la
finestra come
non
del
esiteranno e
carnefice
durata ricopre
resto
ad
scrittori
di
questo
prima immagine fotografica della storia è Vista
un
ruolo
avviene
anche
in
dalla
finestra
realizzata
caratterizzato
railroad, Room sono
tratti
in
New
Ombre
come
Hotel
York e Eleven A.M
rispettivamente
i
racconti
di
by
da
a
cui
Jeffery
perfetto
così ricorrente nella poetica di Hopper? Di certo il
del tempo.
piacere
suo
che
rivelazione,
film
ruolo,
una
mostra
ciò
viceversa
un
finestra che
aperta
avviene
muro
ce
ne
in
è
gioca
una
una
casa
impedirebbe
la
il
luce
segnò di
in
Understandig
e
che
si
paesaggio
di
scarsissima
di
sovraesposizione
ore
che
racconto
ci
non
regala
un
intenzionale
Come si evince da questo episodio la
storia,
dai
quadri
costante
di
è
Hopper,
dai
nell’esistenza
umana
vista.
dalla finestra che si affaccia sul mondo. Da cosa
dei
Media
1826
quando E
la
entrambe.
canadese,
un
dalla
dieci
Hitchcock,
che
studioso
è
al
Quello
architetture
ben
esempio
siamo
McLuhan,
da
causato
per
proprio questa affermazione mi fa pensare a ciò Marshall
Niepce.
finestra
inconveniente
rappresenta la finestra dunque? Perché è un tema
guardare
risalente
nitidezza e in cui il sole batte da entrambi lati,
alla
del
Gras
francese
dalla
Deaver, Stephen King e Joyce C. Oates. Ma cosa
voyeuristico
a
dal
quali
in
catene
linguistiche. Affascinante e curioso notare che la
vede
anche
diventare
a
numerose opere pittoriche di Hopper, alcune delle presenti
faranno
media sostiene
riguardo la fotografia:
propensione
mossi,
a
osservare
perversione
In
questo
o
qualcosa
curiosità?
atto
di
Forse
osservazione
vengono in nostro soccorso tutti (e dico tutti) i tipi di Arte che risvegliano la nostra sensorialità, aprendo
i
nostri
occhi.
Lungi
da
me
infatti
concordare con le critiche dei formalisti russi a favore del cinema come linguaggio e contro la fotografia per il limite di essere singola parola.
Il mondo della
Una posizione di natura diametralmente opposta invece
fotografia è il mondo
è
proficuo
quella
di
sodalizio
Bernini,
tra
le
promotore
arti.
Questi
di
un
sosteneva,
al contrario del rivale Borromini, difensore di una
del bordello senza muri
visione artista arti
specialistica fosse
quello
figurative,
del
sapere,
capace
come
del
di
resto
che
fondere
il
vero
tutte
dimostra
il
le
suo
lavoro: sculture dal cromatismo pittorico, pitture dalla
plasticità
scultorea
e
architetture
teatralità propria di un palcoscenico.
dalla
Riflettendo
sul
soffermandoci sembra sua
una
racconto sulla
abbia
l’attività
artistica
rinomati
musei
Art
figura
coincidenza
carriera
(potete
che
trovare
quadri
Metropolitan
alcune
sul
delle
Notte
scrittura nostro lascio
così e
come
pittura
Bernini con
un
creano
sarebbe invito,
ci
durante
la
scrittura esposti
in
Museum
of
sue
opere
seguente
nell’intera
a
un
link In
Finestre
raccolta
connubio
fiero.
e
non
alla
http://jonathansantlofer.com/art/). di
esame
questi
realizzando il
in
dell’autore,
affiancato
come
cliccando
preso
Caro
testimonianza
Ombre
di
cui
lettore di
il ti
quanto
l’arte sia legata con la vita. Nelle prime pagine di Ombre si trova un dipinto di Hopper dal titolo Mattina a Cape Code privo di contributo scritto a
causa
di
un
contrattempo
avuto
dall’autore
che avrebbe dovuto realizzarlo. Se questa critica ti
ha
convinto
racconti mancante?
ad
perché
acquistare non
la
scrivere
raccolta tu
di
quello
L A C U L T U R A Ăˆ U N B E N E L ’ A C Q U A ; I T E A T R I L E S O N O
C O M U N E P R I M A R I O C O M E B I B L I O T E C H E I C I N E M A
C O M E T A N T I A C Q U E D O T T I . ( C L A U D I O A B B A D O )
G U A R D A T I
attorno
Violon et raisins Pablo Picasso 1912
DAL MoMA DI New York
Violoncello e melograni Gabriele Maurizio
Marc Chagall (1917-1918) dal Museo di Stato Russo di San Pietroburgo
LA PASSEGGIATA
a cura di Sara Picariello
Da
bambini,
Sdraiati
prima
nei
di
nostri
andare
lettini,
a
ci
dormire,
ci
lasciavamo
raccontavano cullare
da
delle
quegli
storie.
intrecci
fantasiosi ambientati in luoghi senza tempo e spazio e abitati da orchi, folletti,
principi,
tutto
per
e
principesse,
tutto
draghi,
caratteristiche
ma
anche
umane.
A
animali
poco
a
che
poco
i
avevano
nostri
in
occhi,
ricchi di meraviglia, si chiudevano. Il suono delle parole si affievoliva ma la storia poteva continuare in un altrove opalescente in cui quei luoghi e tempi indefiniti e quei personaggi bizzarri prendevano la forma dei nostri sogni.
I
erano
anche
infatti,
racconti la
invita
fiamme,
in
i
che
ascoltavamo
nostra
prima
bambini
quanto
ne
a
lezione
credere
sono
non
già
solo
conciliavano
morale
e
di
nell’esistenza
consapevoli:
le
vita. di
fiabe
il
sonno
Nessuna
un
drago
insegnano
ma
fiaba, sputa che
il
drago può essere sconfitto e che il bene può trionfare sul male. Lo stesso vale per le favole, in cui un cane fedele può tranquillamente confrontarsi con un lupo solitario e comprendere il valore della vera libertà. Ma non tutti gli “…e vissero felici e contenti” sono come sembrano, non è sempre il bene a trionfare sul male, spesso i cattivi non sono del tutto cattivi e i buoni del tutto buoni, altre volte la morale della favola nasconde delle verità
che
l’avidità
sono
più
dell’uomo,
difficili
pur
da
accettare,
mantenendo
una
come
i
struttura
e
vizi, un
la
malvagità,
linguaggio
che
potrebbero alleggerire i fatti narrati.
Si tratta di quella “sottrazione di peso” di cui parla Italo Calvino nella prima delle sue Lezioni Americane, dedicata proprio al tema della leggerezza. Per Calvino la leggerezza è un valore non un difetto, è l’antidoto contro la pesantezza, l’inerzia, l’opacità
del
rappresentare
mondo. quella
L’osservazione
stessa
realtà,
della
cercando
realtà di
circostante
farla
rivivere
aveva
nei
fatto
propri
emergere
racconti.
Si
nello
era,
scrittore
però,
reso
la
conto
necessità di
“una
di
lenta
pietrificazione delle persone e dei luoghi”, che non risparmiava nessun aspetto della vita. “Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa”. Da qui, il bisogno di leggerezza che riesce, non solo a sovvertire la gravità, ma anche a dominarla. Sin da quando l’uomo ha avvertito la necessità di raccontare storie, non ha potuto fare a meno di utilizzare il potere evocativo della leggerezza: nella fiabe, l’eroe può alzarsi in volo a bordo di una nave, su un tappeto volante o sotto forma di spirito, per poter superare le difficoltà; nelle favole, invece, il dramma dell’uomo poteva essere dissolto cinema
in ci
un
miscuglio
hanno
tra
regalato
malinconia
delle
favole
e in
ironia, cui
a
cioè
in
un
dominare
è
linguaggio proprio
privo
questo
di
pesantezza
senso
di
corporea.
leggerezza,
Sia
quella
la
pittura
spinta
verso
che
il
l’alto
contro la forza di gravità della realtà che tende a ricondurre inesorabilmente le cose verso la pietrificazione. Il contrappunto tra peso e leggerezza è, forse, uno degli aspetti più interessanti della produzione dell’artista russo Marc Chagall, il pittore delle fiabe, dei sentimenti, della passione d’amore e dei sogni. La critica lo ha sempre definito un’artista “leggero”, ma in realtà, dietro quell’alone fiabesco e d’incanto, si nasconde una vita di sofferenze e una cruda realtà che spesso lo ha privato delle cose che più amava. “Io sono nato morto” era solito dire, perché il giorno della sua nascita il suo villaggio fu attaccato dai cosacchi durante un pogrom, e la sinagoga venne data alle fiamme. Presto fu costretto a lasciare il suo paese natale, Vitebsk, nell’attuale Bielorussia, per studiare pittura a Parigi, ma lo scoppio della Rivoluzione d’ottobre e poi della guerra lo costrinsero a vagare molto tra Parigi e la Russia, fino all’ “esilio” negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali. Nonostante ciò, tutti i suoi dipinti riescono a comunicare felicità e ottimismo, attraverso l’uso di colori brillanti e vivaci, che ricreano atmosfere oniriche e mondi surreali. Il suo è un mondo poetico nutriti di fantasie infantili e dal folklore delle fiabe russe. I suoi occhi sono quelli di un bambino che vorrebbe vivere per sempre nei ricordi e nei sogni. Ma la storia più bella che Chagall ci ha raccontato, è quella con Bella Rosenfeld, la sua musa ispiratrice, nonché protagonista di molti dei suoi dipinti. Bella e Marc si amarono tantissimo, di un amore smisurato, la loro fu una passione spenta soltanto dalla morte prematura di lei che gettò il pittore in una profonda depressione. È lei la donna in volo nella “
Passeggiata ”:
in un mondo
privo di gravità le creature meravigliose possono librarsi nel cielo, come gli angeli. È l’amore a renderle leggere. Ma mentre lei può volare felice nel cielo, lui resta in basso, stringendo la mano della sua amata, come un ragazzo che segue il suo aquilone. Nell’unione delle due mani è nascosto quel contrappunto tra il cielo e la terra, tra la leggerezza e la pesantezza che ogni essere umano nasconde dentro di sé.
Il
rapporto
tra
cinema
e
favola
è
altrettanto
stretto.
L’immaginario
cinematografico, infatti, sin dalla sua genesi, si è nutrito di tutto un apparato
popolare,
tra
cui
anche
tutti
quei
racconti
fantastici,
espressione più profonda dell’esperienza umana collettiva. Sono tante le
favole
invece,
che
è
il
cinema
riuscito
a
ha
saputo
creare,
riscrivere,
immaginando
tante
nuovi
sono
mondi
quelle
che,
fantastici
e
senza tempo. Negli ultimi anni una favola del tutto originale ce l’ha raccontata quella
di
“
la
giovane
regista
Lazzaro felice ”.
italo-tedesca
Con
il
suo
Alice
terzo
Rohrwacher
film,
vincitore
ed
per
è la
migliore sceneggiatura al festival di Cannes nel 2018, la Rohrwacher si ricollega direttamente alla corrente neorealista di Vittorio de Sica ed
Ermanno
per
Olmi,
recuperare
cioè
le
a
quell’attenzione
dimensioni
agli
tradizionali
umili,
e
ai
dimenticati,
territoriali,
spesso
dimenticate. Quello di Lazzaro felice è, però, un realismo magico: alla visione realistica del mondo e della condizione umana, la regista ha aggiunto una componente favolistica, cercando con questa unione di togliere peso alla realtà. Una comunità di 54 braccianti, il cui unico compito è lavorare nelle piantagioni di tabacco, sotto la supervisione della marchesa Alfonsina de Luna (Nicoletta Braschi), vive nella tenuta dell’Inviolata, temporale
e
un
sociale,
esasperazione contadini
luogo
infatti,
della
ignora
fuori
dal non
sospensione
totalmente
cosa
tempo è
e
mai
dallo
definito,
temporale. siano
spazio.
un
vi
è
Il
una
Questo
contratto
e
cotesto totale
gruppo i
diritti
di dei
lavoratori.
Non hanno leggi, se non quella di lavorare dalla mattina alla sera, i bambini non possono studiare e ai giovani, per nessun motivo, è permesso di allontanarsi dalla tenuta. La loro esistenza è all’apparenza serena, come sostiene la marchesa “gli esseri umani sono come bestie, animali, liberarli vuol dire renderli consci della propria condizione di schiavitù
e
orchestrato
quindi proprio
destinarli dalla
De
alla
sofferenza”.
Luna
per
Essi
sfruttarli.
sono,
Questi
infatti,
vittime
contadini
non
inconsapevoli
sono
gli
umili
di
un
buoni
e
“grande panici
inganno” che
tanta
letteratura ci ha tramandato, ma sono cattivelli, dispettosi e non possono fare a meno di sfruttare a loro volta il povero
Lazzaro,
interpretato
dall’ipnotico
Adriano
Toniolo.
Lazzaro
è
il
protagonista
di
questa
storia,
un
giovane
contadino che si differenzia totalmente dagli altri. Lui è un buono, ma veramente buono, talmente buono da essere considerato uno stupido, è gentile, aiuta tutti e non si tira mai indietro perché non sa proprio cosa significa fare del male.
Per
religiosità
lui
tutto
è
preistorica,
potenzialmente non
quella
bene:
degli
è
ordini
dotato
di
gerarchici,
una dei
innocenza rituali
e
primigenia,
dell’opulenza,
quasi ma
mistica,
una
religiosa.
religione
del
Una
genere
umano, del volere il bene degli altri a prescindere da chi sono. Ed è per questo che Lazzaro è felice, è grato di essere al mondo per aiutare gli altri e la sua anima è talmente pura e leggera, tanto da elevarsi rispetto ad una società incattivita e senza scrupoli. Come ultimo degli ultimi, diventa quasi metafora della contraddizione dell’essere umano: Lazzaro è lo schiavo degli schiavi, di questo gruppo di contadini bloccato nel tempo. Eppure, non è mai stanco, non si lamenta mai e un sorriso innocente compare sempre sul suo volto.
Ad un certo punto, però, la narrazione della favola si interrompe: Lazzaro cade da un dirupo e “il grande inganno” viene svelato. La libertà irrompe dell’Inviolata, spalancando le finestre e gli occhi di chi prima non aveva potuto vedere. Di lì a poco, Lazzaro si rialza, il sospiro di un lupo stanco e affamato lo ha ridestato, ma in realtà sono passati tanti anni e l’Inviolata è ormai desolata e abbandonata: i contadini hanno deciso di sperimentare la libertà della città. Lazzaro si incammina alla loro ricerca e a quella di Tancredi, il “mezzo-fratello”, il figlio della marchesa che il giovane contadino aveva aiutato nella sua ribellione contro la madre.
Quando finalmente li ritrova, tutti sono
nell’aspetto diversi, sono più vecchi e mal ridotti, anche se nel profondo non sono cambiati. Continuano ad essere poveri, umili e a vivere in una baracca della periferia procurandosi il necessario con piccoli furti e anche Tancredi è ormai in rovina. Lazzaro, invece, è sempre uguale sia fuori che dentro, non ha tradito sé stesso ed infatti cercherà di compiere l’ultimo miracolo per poter migliorare la condizione dei suoi amici/sfruttatori, mettendo a rischio, in un finale che disumanizza sempre più la figura dell’uomo, la cosa che ha di più cara: la sua stessa vita. In questa favola in
bilico
nel
tempo,
tra
un
passato
che
non
è
del
tutto
passato
e
un
presente
che
non
è
del
tutto
presente,
la
Rohrwacher descrive gli italiani: quelli dell’Italia povera e contadina, ignorante e succube del potere padronale e quelli
dell’Italia
felice ”
moderna,
impoverita
non
solo
dal
punto
di
vista
economico,
ma
anche
etico
e
morale.
“
Lazzaro
è una tragedia comica che, nonostante l’infausto finale, non scade mai nel pessimismo cosmico; al contrario
l’atmosfera magica e quasi fiabesca e il limbo spazio-temporale in cui i personaggi si muovono rendono il tutto più leggero, privo di quella pesantezza che caratterizza molto cinema contemporaneo.
A rendere emblematica questa contrapposizione tra leggerezza e pesantezza è proprio il personaggio di Lazzaro. Egli è leggero, potrebbe librarsi nell’aria come la figura femminile della Passeggiata di Chagall, in virtù della sua ingenuità
e
del
totale
amore
verso
il
prossimo.
La
sua
leggerezza
è
però
gravata
da
un
mondo
che
tende
a
schiacciare al suolo quei lupi solitari, liberi, che non vogliono arrecare danno agli altri, ma al contrario cercano di preservare
in
tutti
i
modi
la
loro
condizione
originaria
di
purezza
e
libertà.
Chagall
e
quest’ultimo
film
della
Rohrwacher sono molto simili: divisi tra il mondo della fantasia, del sogno, della felicità e dell’amore e quello della guerra,
dello
sfruttamento,
insostenibile. Nella “
della
morte.
Passeggiata ”
Sia
nella
visione
del
pittore
sia
in
quella
della
regista,
la
leggerezza
è
l’uomo non riesce a librarsi in volo nell’impeto dell’amore perché la sofferenza
della vita lo ha legato alla realtà; nel film, invece, nell’inaspettato finale, la purezza non può che soccombere alla violenza. (inteso
In
nel
entrambi senso
però
la
etimologico
leggerezza del
è
termine:
necessaria da
per
stupor,
ritornare
stupore)
e
ad
essere
ritrovare,
semplici, quindi,
innocenti,
quella
quasi
capacità
di
“stupidi” sapersi
meravigliare delle cose e di stupirsi, come i bambini prima di addormentarsi, al suono o alla visione di una nuova favola.
L A C U L T U R A N O N È P R O F E S S I O N E P E R P O C H I : È U N A C O N D I Z I O N E P E R T U T T I , C H E C O M P L E T A L ’ E S I S T E N Z A D E L L ’ U O M O . ( E L I O V I T T O R I N I )
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Uscita
S A L A :
"Pietà Vaticana" di Michelangelo | a cura di Emmanuele Zottoli "David" di Michelangelo | a cura di Sara Paolella "Paolo e Francesca" di Alessandro Puttinati | a cura di Tania Ferrara "Cratere di Eracle e Anteo" di Euphronios | a cura di Pasquale Bruno
S A
C U R A
D I :
Emmanuele Zottoli Sara Paolella
Tania Ferrara Pasquale Bruno
C U L T U R
G A L L E R I A
DALLA BASILICA DI SAN PIETRO IN VATICANO (1947-1949)
PIETÀ VATICANA di MICHELANGELO BUONARROTI A
C U R A
D I
E M M A N U E L E
Z O T T O L I
Ora che sei andato via, a chi rimboccherò le coperte? A chi preparerò il latte caldo alle sette Poco prima della scuola? Chi mi chiederà come funziona Il sole, la luna e le altre stelle? Chi guarderò piangendo all’altare e, senza nipoti, a chi racconterò Quelle storielle che sempre Ti facevano imbarazzare? Chi mi terrà la mano nella mia ultima ora, cercando di strapparmi un sorriso con una vecchia battuta? Sai, mi dicono che non è finita, che c’è un’occasione, la possibilità inattesa d’un ritorno. Ma la speranza è ormai acqua da deserto e questo maledetto terzo giorno tarda a venire. Io quasi non la voglio questa speranza, non voglio soffrire ancora una volta se fosse falsa, voglio restare nell’ombra, conservare i tuoi mille gesti, non smarrire neanche un ricordo: non voglio ucciderti oltre, non voglio vederti morto due volte. Voglio solo riabbracciarti, come da bambino, e sentire quel tuo calore, prima che questo cuore mi diventi veleno. Intanto, a luglio, tra le foglie, Un vento leggero
A mia madre, a Giovanni, a Mario, a tutti gli altri…
C U L T U R A N O N È P O S S E D E R E U N M A G A Z Z I N O B E N F O R N I T O D I N O T I Z I E , M A È L A C A P A C I T À C H E L A N O S T R A M E N T E H A D I C O M P R E N D E R E L A V I T A , I L P O S T O C H E V I T E N I A M O , I N O S T R I R A P P O R T I C O N G L I A L T R I U O M I N I . H A C U L T U R A C H I H A C O S C I E N Z A D I S É E D E L T U T T O , C H I S E N T E L A R E L A Z I O N E C O N T U T T I G L I A L T R I E S S E R I ( A N T O N I O G R A M S C I )
PERDITI tra
le
statue ed
i
reperti
Il David MICHELANGELO BUONARROTI A CURA DI SARA PAOLELLA
1501-1504 dalla Galleria dell'Accademia
Andrea ha la voce che trema ogni volta che dice il suo nome, così come tremano le pareti che lo circondano, costringendolo ad alzare lo sguardo al cielo per assicurarsi che il soffitto regga ancora, e ad accarezzare con le dita affusolate il crocifisso che porta al collo, pregando che le cose restino ancora in piedi. Le cose in piedi ci restano, ma non più come prima, quando Andrea poteva camminare spensierato assieme a Lorenzo per le strade, correndo tra un vicolo e l’altro con il vento tra i capelli sudati, appiccicati in fronte. Le cose sono cambiate all’improvviso, nessuno se ne era accorto, e quei pochi che se ne erano accorti erano stati additati come pazzi, come seminatori di zizzania lieti di arrecare il malumore.
Giovanni era stato tra i primi a saperlo, aveva letto quella lettera misteriosa in fretta e furia, col cuore in gola, e poi l’aveva riletta ancora e ancora, altre dieci volte, come se ripetendole all’infinito quelle parole potessero perdere significato, privarsi del loro senso e scomparire, dissolversi sulla carta bianca e sbiadire dalla sua mente, dove continuavano a risuonare. Emergenza, tutelare, provvedimenti- Giovanni non capiva all’inizio, si sentiva soffocare, sentì il peso della responsabilità che aveva schiacciarlo, ridurlo in polvere, mentre camminava nervoso e confuso nel suo ufficio. Si fermò davanti al suo specchio, passandosi la mano sul viso liscio sul quale non era mai cresciuto un pelo degno di essere definito barba, e si aggiustò la cravatta facendosi coraggio, sapendo che non sarebbe stato facile, ma che doveva farcela.
Era stato più difficile del previsto convincere le persone che la guerra sarebbe arrivata, che era imminente, e che non sarebbe stata il trionfo che tutti si aspettavano: alla fine vincitori e vinti si specchiano l’uno nel dolore dell’altro. Giovanni non riusciva a farlo capire, a farsi ascoltare, aveva provato prendere le giuste
ad avvisare i suoi
precauzioni, di prepararsi a rivivere quello che era già
tutti sembravano essersi improvvisamente dimenticati. avanti: cancellare. Si allena alla resistenza
vicini dicendogli di
accaduto anni prima, e del quale
La mente umana ha un modo divertente di
andare
con l’esercizio della dimenticanza, rimuovendo i morti che
c’erano stati tempo fa, assieme alla fame, alle urla, alle macerie, rintanandosi nella negazione e nella speranza di un mondo migliore che sembra essere a portata di mano. L’uomo si sente invincibile da sempre, ma Giovanni non si è mai sentito così, e ora che sono passati due anni da
quando ha aperto quella lettera continua a ringraziare Dio per ogni respiro che esala, consapevole che
potrebbe essere l’ultimo da un momento all’altro e che non importa quanti sacchi di sabbia abbiano portato, quanti mattoni stiano usando, le cose potrebbero non reggersi più in piedi ad ogni istante e trema anche lui assieme alle pareti ogni volta che un aereo li sorvola.
Ora non può fare altro che camminare in sale aperte a tutti e devastate, piene di travi, di sudore, di legna: sembrano le trincee degli anni scorsi, sembra che la guerra sia arrivata anche qui, infiltrandosi nel museo dove ha sempre regnato solo e soltanto la pace, adesso spezzata dalle urla di operai stanchi, provati, che per qualche soldo seguono le direzioni di Giovanni. Li guida con occhi vigili e speranzosi, spaventato dalle mani callose ed inesperte di coloro che non l’hanno mai maneggiata l’arte, ma che dinanzi ad essa non possono che restare altrettanto stupiti e meravigliati, come era successo a Sandro, che aveva sbarrato gli occhi cristallini quando si era ritrovato davanti al David. Assieme a lui, tutti gli altri erano increduli, incapaci di credere che mani uguali alle loro avessero creato una cosa simile, sconvolti dalla consapevolezza che Michelangelo era uomo proprio come loro, con gli stessi occhi stanchi, gli stessi denti storti, le gambe forti e i capelli folti.
C’era solo un ragazzo, Andrea, che restava impassibile, lavorando serio e accigliato, martellando rabbioso i chiodi nelle travi di legno che avrebbero fatto da base per l’ogiva in muratura che da lì a poco avrebbe totalmente ricoperto il David. Lo aveva osservato spesso, incuriosito da quel giovane rachitico che sembrava scomparire nei pantaloni sbiaditi e nella camicia sudata, arrotolata di fretta e furia fino ai gomiti ruvidi, come le mani che sembravano non aver fatto altro che portare pesi nella vita. L’occhio di Giovanni, esercitato dalle innumerevoli tele che aveva esaminato, non si sbagliava mai: Andrea aveva le mani rovinate ma che si muovevano con esperienza sia quando lavoravano che quando si sedeva stanco assieme agli altri per una breve pausa, e rollava il tabacco con perizia, accarezzando la cartina e chiudendola con precisione chirurgica, passandola a Sandro, che la accendeva svelto, fumando con lui. Li aveva visti spesso uscire fuori, stendersi sulla scalinata esterna per fumare e parlottare, captando qualche parola sporadica da lontano, mentre ignorava l’ingegnere che continuava a ripetergli che non avrebbero mai salvato tutto, che non ce l’avrebbero mai fatta.
“Pisa è stata bombardata. Li sente anche lei gli aerei che ci passano sulla testa, non c’è più tempo. A breve toccherà a noi” gli dice anche oggi, tentando di riportarlo alla realtà. Ad ogni sillaba Giovanni trema, consapevole che sarebbe successo anche questa volta, ben cosciente che qualche tela sarebbe andata inevitabilmente persa, che non sarebbero riusciti a portare ogni statua nelle campagne toscane e che avrebbe dovuto scegliere ancora cosa salvare e cosa abbandonare.
Andrea aspira avidamente, tenendo la sigaretta ben strettatra le labbra sottili, mentre con la mano sinistra continua ad accarezzare il crocifisso che si intravede dalla sua camicia, cercando di non pensare alla conversazione che arriva alle sue orecchie stanche di sentire il rumore del martello, e che recepivano con gioia qualsiasi suono non fosse il rombo di un aereo.
“Non so quanto resisterò ancora” Sandro lo guarda alzando un sopracciglio, confuso. “La gente muore. Muoiono in guerra, muoiono di fame nelle strade e noi cosa facciamo piuttosto che aiutarli? Niente. Come può tutto questo servire a qualcosa?” Andrea gesticola affannato, incapace di contenere la rabbia che cercava di reprimere martellando ogni giorno “A che servirà? Coprire queste statue non ci ridarà i morti, portare questi quadri al sicuro non salverà nessuno.” Sandro lo guarda con i suoi occhi chiari e prova a fargli cenno di smettere, ma Andrea continua a parlare, frustrato, sentendosi colpevole di essere vivo e di star passando le sue giornate lì, e non in guerra. “Perché non aiutiamo loro? Io davvero non capisco, senza queste cianfrusaglie il sole continuerà a sorgere.”
“Ricominciamo subito!”
I due ragazzi sobbalzano al richiamo di Giovanni, che incita tutti a tornare all’interno della Galleria e a riprendere i lavori: bisogna sbrigarsi. Stanchi e obbedienti camminano veloci nel corridoio, tornando davanti all’imponente figura del David, iniziando a ricoprire finalmente con i mattoni la statua.
Andrea ne stringe uno tra le mani sporche, domandandosi ancora che senso abbia salvare una pietra come tante, piuttosto che qualcuno dei loro concittadini che ormai faticano a trovare l’acqua pulita, che girano per le strade con gli occhi scavati, consapevoli che il prossimo aereo potrebbe non essere di passaggio e diretto altrove, ma che sia lì per colpire proprio loro, ancora incapaci di spiegarsi come fosse cambiato tutto da un momento all’altro, con questa velocità, con questa violenza.
Gli occhi di Andrea sono concentrati sui mattoni, li inserisce uno con perizia accanto all’altro, con un preciso strato di calce a tenerli assieme, ma non può fare a meno di alzare lo sguardo verso il marmo bianco del David, che guarda accigliato e concentrato il vuoto che è davanti a lui, mentre stringe la pietra nella mano così simile a quella di Andrea che adesso regge il mattone, e con lo stesso sguardo accigliato vorrebbe colpirlo, vorrebbe spingerlo a terra e vederlo ridursi in polvere così come le altre città diventano niente nell’arco di pochi istanti. I suoi occhi marroni scrutano il corpo della statua con attenzione, odiandone
ogni solco inciso con perfezione,
che non fa altro che ricordargli il motivo per il quale lui è lì, e non in guerra.
Sandro fa un cenno ad Andrea e lo saluta, lasciandolo solo, seduto sulle solite scale a fumare pensoso, a mandare occhiate furtive al cielo ormai scuro e ad accarezzarsi il crocifisso. Aveva sempre avuto paura del buio all’inizio, ma adesso si è reso conto che non c’è niente che lo spaventi tanto quanto il silenzio, e rabbrividisce al pensiero della sua amata città priva di rumore, delle voci delle donne al mercato, delle grida dei bambini che tirano le pietre alle cagne, degli sfottò di Lorenzo che lo rincorre nei vicoli prima di andare al lavoro.
“Hai da accendere?” Andrea ancora pensieroso estrae una scatola di fiammiferi dalla tasca dei suoi pantaloni usurati, passandola alla mano che sbuca nella notte, rischiarata dal guizzo improvviso della luce che illumina il viso che gli sta di fronte. Andrea scatta in piedi mormorando un “buonasera signor Poggi”, passandosi automaticamente una mano tra i capelli castani tentando di aggiustarli, facendo sorridere Giovanni che con un cenno della mano gli fa segno di calmarsi, di non aver bisogno di queste smancerie. Si siede affianco ad Andrea, sentendosi quasi sollevato nel percepire la giacca di lui strusciare contro la sua, avendo quasi ritrovato un contatto più umano e sincero rispetto a quello dei suoi colleghi. “Credevo che quelli come lei fumassero solo la pipa” commenta Andrea accennando alla sigaretta tra le dita mangiucchiate di Giovanni, che sorride aspirando con calma, scuotendo il capo e rispondendo di preferire le sigarette mentre caccia un filo di fumo. “Mi fanno sentire ancora giovane” aggiunge. “Non c’è niente che vorresti dirmi?” chiede Giovanni all’improvviso. Forse Andrea in questo caso avrebbe preferito il silenzio.
“Ti ho sentito stamattina” continua Giovanni, portandosi la sigaretta alle labbra “ti ho anche osservato mentre lavori. Vi osservo tutti, forse guardare è l’unica cosa che mi è sempre riuscita bene” aspira ridendo con un tocco di malinconia nella voce, ben consapevole di non essere mai stato portato per qualsiasi altro tipo di attività che non fosse perdersi nelle pennellate precise delle tele, nei solchi lasciati da uno scalpello nel marmo candido.
“Non trovo un senso a quello che stiamo facendo”
"È la guerra ad essere senza senso. Io l’ho già visto. L’avevamo già visto, ma nessuno si è mosso in tempo. Siamo stati qui a poltrire, aspettando che la vita ci ricadesse addosso, sperando che il corso delle cose prendesse da solo una piega diversa, la strada giusta. Ma non c’è mai una strada giusta. La dobbiamo creare da soli” spiega Giovanni, con gli occhi stanchi fissi nel vuoto, che continua a sentire il peso di una responsabilità che non sa ancora come ben portare addosso, mentre Andrea lo guarda senza sapere più con chi ha a che fare, perché quell’uomo assertivo e preciso, dal viso da bambino ma dagli occhi da vecchio, gli sembra solo un uomo senza certezze, mentre aveva sperato -anche solo per un’istante- che qualcuno potesse dargli una risposta.
“Non dovremmo essere qui, dovremmo essere lì. Sul campo. Dovremmo impugnare un fucile, dovremmo combattere, non spostare disegni” “Che ti hanno diagnosticato per non farti partire?” gli domanda Giovanni girandosi verso di lui, mettendo Andrea allo scoperto, facendogli strabuzzare gli occhi e costringendolo a tastare il suolo, avendo sentito la terra scomparire sotto di lui. Giovanni lo incita a parlare, curioso. “È il mio cuore” ammette Andrea, vergognandosi del suo essere piccolo ed insignificante, del suo essere al sicuro, seduto sulle scale della Galleria, e non sporco di fango e sangue “Il mio migliore amico è lì però. Non so bene dove sia questo lì, Alice, sua madre, non ha notizie da tanto tempo. Se dovesse essergli successo qualcosa mentre io sono qui, a sovrapporre quei mattoni” Andrea lascia la frase a metà, stringe i pugni e trattiene le lacrime, ha la voce che trema, ma questa volta non ci sono aerei sopra la sua testa.
“Quando” continua facendosi coraggio, fissando Giovanni negli occhi “quando saremo morti, quando non ci sarà più niente, a che sarà servito salvare tutto questo?” “A dimostrare che siamo stati qui” gli risponde. Aspira dalla sigaretta, che ormai sta per finire, si prende il tempo necessario, poi continua a parlare.
“Serve a combattere la morte. Ad ingannarla. L’arte è l’unico pezzo di noi che possiamo lasciare su questo modo che può ambire all’infinito. Sono passati quasi 400 anni, e il David è ancora qui. Forte, risoluto, impassibile. È il nostro simbolo, ci ha ispirati per tutto questo tempo e continuerà a farlo. Ci dà speranza. Senza speranza la gente muore Andrea. Cosa credi che tenga in vita queste persone? Non sarebbe più facile allora arrendersi e lasciar perdere? Spalanchiamo le porte al nemico, non fa alcuna differenza, gli italiani sono abituati ad essere guidati da mano straniera. Eppure siamo ancora qui, noi resistiamo. Che sia sul campo di battaglia, che sia alla Galleria dell’Accademia. Non è la guerra quello che ti rende uomo, quello che ti fa uomo è qui, in ogni opera. La tristezza, la gioia, la forza, la bellezza: è tutto qui dentro Andrea. La guerra sanno farsela anche gli animali, persino in modi più misericordiosi dei nostri. L’arte è un’invenzione tutta umana. Non l’ha fatta nemmeno Dio, la fanno mani come le nostre.”
Giovanni estrae un’altra sigaretta facendo cenno ad Andrea di passargli i fiammiferi, mentre il ragazzo lo ascolta, sentendosi per la prima volta assolto dalla colpa di essere vivo. “Quanto tempo resterà lì dentro secondo lei?” “Non lo so” ammette Giovanni “spero il minor tempo possibile” “Avrà paura del buio?”
Giovanni ride leggermente, pensando che forse avrebbero dovuto davvero lasciarlo un foro nella muratura, sarà anche stato il David, ma infondo era solo un ragazzino con una buona mira.
“Per trovare la luce bisogna attraversare il buio, anche per lui sarà così” gli risponde, aspirando ancora una volta intensamente, pensando per un attimo a tutte le volte che gli hanno detto di fumare troppo “anche per noi sarà così” continua fissando avanti, facendosi cadere per distrazione un po’ di cenere sui pantaloni. “Bisogna
ricordare
i
morti,
ma
custodire
i
vivi.
E
cosa
è
che
ci
rende
vivi
se
non
questo?
Se
non
la
consapevolezza, la prova tangibile di sapere che siamo capaci tutti di fare qualcosa di bellissimo, che dopo aver creato tanta distruzione, dalle macerie si può sempre rinascere. Il David è nato da un blocco di marmo che volevano buttare” gli spiega ridendo amaramente, mentre Andrea lo ascolta con attenzione “Sai perché è perfetto? Perché non ha pretese, è solo sé stesso. Sta lì, a scrutarci attento con le sue sopracciglia aggrottate, facendoci dubitare delle nostre azioni. Tu sei contento delle tue azioni Andrea?” gli chiede, cercando i suoi occhi scuri nella notte, ricevendo solo il silenzio come risposta.
“Io sì, perché anche se oggi ponendo l’ultimo mattone lo abbiamo rilegato all’oscurità, immagina la gioia che proverà quando verrà liberato della sua muratura, la sorpresa nel riscoprirlo diverso ed identico a prima, l’emozione
nel
liberarlo
e
nel
farlo
ritornare
a
respirare.
Quando
lui
rivedrà
la
luce,
anche
i
fiorentini
respireranno ancora. Quando lui sarà spogliato dall’ogiva che lo abbraccia e lo protegge, noi saremo salvi con lui. Il tuo amico…” si ferma un attimo, incerto sul nome, che gli viene suggerito da Andrea con un filo di voce. “Sì, Lorenzo. Non credi che voglia trovare il simbolo della sua città sano e salvo? Noi stiamo lavorando per preservare l’eternità, stiamo proteggendo il simbolo della speranza. Se non ci fosse qualcosa in cui credere a che servirebbe vivere?”
Giovanni spegne la sigaretta con il piede destro, mentre Andrea si alza, aggiustandosi i pantaloni che come al solito sembrano cadergli di dosso ed essere troppo grandi per la sua figura. “Quindi domani ci vediamo qui?” domanda incerto, toccandosi il collo con la mano, le cui dita sembrano sorprese al contatto con la pelle, così diversa dal solito crocifisso che portava al collo. Ma ora che Andrea sa che quello che sta facendo servirà a Lorenzo, a tutti gli altri, si sente più pronto a lasciarlo andare, a far sì che le sue mani smettano di chiedere scusa alla croce per aver impugnato un martello, e non un fucile.
“Domani controlliamo l’ogiva, per essere sicuri che regga e che i mattoni siano ben saldi tra loro. Poi ci occuperemo di tutto il resto. Posso contare ancora su di te?” Andrea annuisce e Giovanni sorride. I due si fanno un cenno con la mano, procedendo in direzioni opposte, entrambi contenti di rivedersi il giorno dopo, impazienti di procedere con il loro lavoro.
La notte è buia e silenziosa, c’è solo un aereo che sorvola il cielo.
Paolo e Francesca di Alessandro Puttinati
1863
DALLA GALLERIA D'ARTE MODERNA DI MILANO
a cura di Tania Ferrara
Il cratere di Eracle ed Anteo EUPHRONIOS A CURA DI PASQUALE BRUNO
515-510 a.C.
dal Museo del Louvre
Probabilmente
fu
la
guancia
intirizzita
dal
freddo
che
mi
fece
rinvenire:
qualcuno
mi
aveva
sfilato
il
passamontagna. Avevo la bocca impastata dal sapore metallico del sangue, il collo indolenzito ed un senso di oppressione tra le scapole. Sputai alla mia destra il grumo nero. La testa mi pulsava da morire. Alzai lo sguardo: ero caduto ai piedi del basamento del David che con le sopracciglia aggrottate ed una leggera smorfia di disprezzo mi guardava dall’alto, come se ridesse di me… I ruoli si erano invertiti ed adesso Davide giganteggia uno che voleva fare il "Golia". “Vaffanculo” pensai e facendomi forza sulle braccia indolenzite feci un primo tentativo per sollevarmi ma il senso
di
oppressione
sulle
scapole
aumentò
fino
a
spingermi
di
nuovo
a
terra,
ansante.
Faticavo
a
concentrarmi, cercando di ricordare cosa fosse successo e mi irrigidii quando, dietro al collo, dove ero stato colpito prima, avvertii una punta di freddo, metallico anche questo: mi avevano puntato una pistola dietro la nuca. Qualcuno mi aveva bloccato al pavimento, spingendomi verso terra con un ginocchio puntellato dietro la schiena e mi stava minacciando con un’arma. Non era come avevamo pianificato, per niente. “Buongiorno principessa” Trasalii.
Per almeno tre mesi abbiamo pensato, pianificato e programmato quel colpo: non eravamo professionisti ma abbiamo imparato in fretta, o almeno lo pensavo. Erano state spostate, in via del tutto eccezionale, alcune opere dai più svariati musei del mondo, andate poi a confluire nel MOWA, durante una settimana speciale, mi sembra l’anniversario della fine di una vecchia epidemia, ma onestamente non ricordo. Per un’intera settimana molte opere dei più grandi artisti che il mondo aveva conosciuto erano state racchiuse in un unico scrigno: un’occasione troppo ghiotta per farsela scappare. I miei due futuri complici ci misero un po' a convincermi della fattibilità del piano, ma alla fine ci riuscirono, era troppo semplice per fallire. Fatti tutti i preparativi del caso io e Paolo ci trovammo di fronte al Museo due ore dopo la chiusura: avevamo 30 minuti per sbrigare tutto, il tempo che Alberto, che ci avrebbe raggiunto direttamente con il furgone all’orario stabilito, tenesse disattivati gli allarmi senza destare sospetti. Era questione di precisione. La collezione si articolava in due padiglioni distinti, in una era concentrata l’arte pittorica, nell’altra quella scultorea, più un vaso, un cratere del 500 a.C. (Cosa ci facesse poi un singolo vaso in mezzo a tante statue non mi è chiaro, ma non sono domande che mi interessano). Ovviamente
tentare
di
trafugare
le
sculture
era
una
impresa
dispendiosa,
difficile
e
rumorosa:
quindi
impraticabile e per questo motivo decidemmo di dividerci; mentre Paolo avrebbe iniziato a smontare i supporti dei dipinti io avrei trafugato il vaso, l’unico pezzo possibile da prendere, e una volta sistemato lo avrei aiutato nel trasporto dei quadri fino al furgone. Mezz’ora di tempo in cui prendere più opere possibile. Si poteva fare. Studiammo la pianta del MOWA fin nei minimi dettagli, decidendo di sfruttare il padiglione ancora in costruzione per intrufolarci all’interno della struttura; ci dividemmo davanti le scale che portavano alla sala delle sculture, Paolo andò a sinistra, varcando la porta, verso la pinacoteca, con in mano la valigia con gli attrezzi per smontare le cornici, io rimasi lì, a cercare la mia preda.
Era tutto buio, ed aiutato dalla torcia che portavo legata con un laccio alla fronte, sopra il passamontagna, mi orientavo a tentoni nello stanzone per capire l’esatta ubicazione del vaso e finalmente lo trovai (secondo alcuni giri di perlustrazione che avevamo fatto nei giorni precedenti sarebbe dovuto essere nell’angolo in alto a destra, in linea d’aria con il Paolo e Francesca di Puttinati, ma qualcuno doveva averlo spostato quella stessa notte al centro della stanza).
Mi apprestavo a prenderlo quando sentì un forte tonfo dalla pinacoteca: “PAOLO” gridai, poi mi morsi la lingua per la cazzata che avevo appena fatto; “professionisti un corno” pensai digrignando i denti, e subito mi precipitai per vedere cosa fosse successo. Il tempo di fare uno, due, tre passi, poi ricevetti un colpo sulla nuca e caddi a terra, la torcia si spaccò e divenne tutto buio.
Grugnii nello sforzo di girare la testa per vedere chi fosse l’uomo che mi teneva faccia a terra, ma vanificò il mio sforzo spingendo ancora più a fondo il ginocchio per tenermi fermo. Di fronte a me si ergeva maestoso quel maledetto vaso del cazzo. Avevamo fatto le dovute ricerche prima di tentare il colpo quindi ero abbastanza sicuro che quel ginocchio appartenesse alla guardia notturna del museo, un vecchio pensionato che evidentemente trovava le partite a briscola troppo noiose e aveva fatto domanda per lavorare come assistente dell’effettiva guardia notturna che tuttavia in quei giorni si trovava in ferie.
Decidemmo quindi di sfruttare l’occasione: in fondo quanto può essere difficile sopraffare un vecchio? La pressione del ginocchio aumentava mentre il nonno si sistemava meglio su di me che nel frattempo pensavo, pensavo veloce su come uscire da quella situazione scomoda, troppo scomoda. “Se solo riuscissi a strappargli la pistola dalla mano…” decisi quindi di puntare sulla paura, tre uomini sulla trentina contro un ottantenne non avrebbero avuto nessuna difficoltà, anche se bisognava ammettere che il nonno picchiava forte (la bocca si stava riempiendo di nuovo di sangue, forse avevo perso un paio di denti nella caduta). “Faresti meglio a lasciarmi vecchio, ormai i miei colleghi saranno già qui e ti prenderanno alle spalle” dissi alla fine con voce strozzata; “Te la potresti giocare anche meglio, sono già scappati ragazzo, ormai non c’è più onore nemmeno tra i ladri” rispose sarcasticamente. “Pezzi di merda, come faccio adesso?” pensai… Volevo fare un ultimo tentativo di liberarmi, magari prendendolo di sorpresa, quindi mi rilassai completamente e dopo quella che mi era sembrata una eternità appena sentii che la pressione sulle scapole si faceva meno opprimente scattai all’improvviso e rotolammo tutti e due: io che mi avventavo, cercando a tentoni la pistola per strappargliela di mano, e lui che cercava di riaggrapparsi per ritornare in quella posizione di vantaggio che aveva perso, il tutto sperando in cuor mio che non mi sparasse.
Lottammo frenetici per qualche minuto, graffiando e mordendo come animali inferociti, rotolando l’uno sull’altro nel tentativo di allontanarci per prendere fiato e contemporaneamente di afferrare l’avversario fino a quando non andammo a cadere sotto il piedistallo della Pietà di Michelangelo, che ci guardava di sottecchi, ignorando nella sua magnanimità il figlio morto per dedicare a noi il suo sguardo mesto (mi sento poetico stasera) e continuammo a riempirci di pugni e gomitate fino a quando quel vecchio bastardo, che Dio lo abbia in gloria, non mi sferrò un poderoso calcio scaraventandomi lontano da lui. Scivolai sul pavimento, respirando a fatica con i polmoni affamati d’aria, mi andai a rannicchiare contro il piedistallo di quel maledetto vaso mentre lui si rialzava in piedi, la pistola ancora in pugno: decisi di giocarmi il tutto per tutto e afferrando a due mani il cratere dipinto lo sollevai, pronto a farlo cadere al minimo accenno di pericolo.
Eravamo ancora immersi nell’oscurità, ma ormai i miei occhi si erano abituati, e posso giurare che lo vidi sbiancare completamente diventando un fantasma nel giro di una frazione di secondo “O abbassi quella cazzo di pistola o lo sfracello questo vaso di merda!” mi sentivo dannatamente euforico (respiravo ancora a stento ma non volevo lo notasse), sotto sotto non ci speravo nemmeno che potesse funzionare, poteva spararmi subito non avrebbe perso nulla, eppure si chinò, con una mano alzata e gli occhi sgranati
“Va bene,
va bene, calmiamoci però” e mise la pistola a terra; ero soddisfatto e feroce al tempo stesso, ora il momentum era dalla mia parte “Dalle un calcio e spingila lontano, muoviti!” ed il vecchio eseguì. Più
tardi
quella
sera
scoprii
che
il
vecchio
si
chiamava
Cosimo,
ed
io
mi
presentai,
avendo
perso
il
passamontagna non aveva più senso nascondersi; la situazione di stallo durò a lungo, e stare a descrivervi tutto punto per punto sarebbe noioso, in fondo non è la parte più importante della mia storia (sarebbe troppo lungo da spiegare in poche pagine), ma il punto è che
dopo un bel po' di insulti, un'altra scazzotatta ed un
paio di domande scomode finimmo entrambi a parlare del più e del meno, spalla contro spalla come due vecchi amici, mentre lo aiutavo a ripulire il casino nella sala dei dipinti (quell’imbecille di Paolo aveva fatto cadere la cassetta, ecco cos’era stato il rumore) e sistemare i vari quadri, rimettendo a posto le cornici. “Spiegami una cosa Cosimo” dissi, mentre stringevo le ultime viti del “Colosso” di Goya, fatto arrivare direttamente da Madrid, “mentre ci stavamo pestando, e per inteso stavo vincendo io…” “Come no, crediamoci” ribatté subito il vecchio, ridendo, “siamo andati a sbattere più di una volta contro le statue e non hai detto assolutamente nulla, e già questo è strano, ma appena ho minacciato di far cadere quel vaso sei subito impallidito, perché? Cosa ha di più rispetto ad una scultura di quelle, che credo siano anche più preziose?” Sospirò: “Non è una questione di valore ragazzo, vieni con me dai, ti faccio vedere” Rientrammo
nella
sala
delle
sculture
(lui
zoppicava
leggermente,
aveva
preso
una
storta
mentre
ci
azzuffavamo) e ci dirigemmo verso il vaso che dopo la nostra “““discussione””” aveva ripreso, pacificatamene, la sua posizione. “Bene Dario, iniziamo dalle basi: sai dirmi cosa c’è sulla decorazione?” Mi avvicinai meglio e finalmente misi a fuoco la decorazione di quel vaso che sì, ho guardato tante volte in quei giorni, ma mai osservato. Vidi due uomini che lottavano tra di loro, uno leggermente più grande dell’altro, con una folta barba bianca, con accanto delle donne che facevano il tifo per loro, almen credo, il tutto racchiuso da fasce di fiori. Dovrebbe essere la lotta tra Ercole ed Anteo, un gigante, se non mi sbaglio” “Bravo Da, vedo che hai studiato prima di venirtelo a rubare” rispose ridendo il vecchio “vedi, questo vaso non è la prima volta che viene qui, c’è già stato, il museo lo ospitò per una mostra già molti, molti anni fa, quando io ero ancora un ragazzino; Dicevo, il museo lo ospitò già tanti anni fa, e quando andai a vederlo, me lo ricordo ancora bene nonostante tutto il tempo passato, era l’ultimo di novembre, un bel pomeriggio assolato nonostante fosse praticamente inverno, e mi ci accompagnò mia mamma, che era professoressa di Storia dell’Arte al liceo della mia città, quindi di queste cose un poco se ne intendeva. Ora non ricordo quasi nulla di tutte le altre opere che vidi, solo nebbia sfocata, ma mi ricordo che…” “Che ti piacque molto?” azzardai “Che annoiai molto, avevo tredici anni, cosa credi possa importare ad un ragazzino di una statua? Non essere poetico, non ti si addice dopo che ti sei intrufolato in un museo, comunque, ritorniamo a noi…
Ecco, è tutto un ricordo nebuloso che però diventa più nitido quando mamma mi portò a vedere questo vaso, l’ultima attrazione, diciamo, relegato in un angolino in fondo alla stanza (dove volevano metterlo anche quest’anno, ma onestamente non mi piaceva, merita una posizione migliore, e così stanotte prima che tu, Diabolik dei poveri, entrassi, l’avevo spostato qui al centro, con piedistallo e tutto, per questo quando l’hai preso non è scattato l’allarme, l’avevo disattivato io per spostarlo), e incominciò a parlarmi di questo vaso, ma non accennò a date, guerre e artisti che soffrivano di depressione e pazzie, ma mi parlò di cose grandi, di miti e di eroi, che sono le cose che fanno sognare i ragazzini, e mi parlò del leggendario Eracle (perché è questo il suo vero nome, la versione latina tarocca) figlio di Zeus, ed era l’uomo più forte del mondo, il semidio che compì grandiose imprese tra cui quella di uccidere il gigante Anteo, “il tizio barbuto del vaso” come mi spiegò mia madre, indicandomelo, un uomo feroce, re delle Libia, figlio di Poseidone e di Gea; lui era praticamente invincibile finché rimaneva a contatto con la terra, cioè sua madre, che gli restituiva le forze ogni volta che la toccava, e passava il tempo ad uccidere tutti i viandanti che passavano quella terra fino a quando Eracle, grazie all’ingegno e all’astuzia, riuscì a capire il trucco della sua immensa forza, lo sollevò in aria e poi con la sua clava lo colpì a morte (infatti se vedi bene noti che sul vaso i loro volti sono contratti per lo sforzo). Mi potrai dire, come è giusto, che questa è solo una storia, e sicuramente hai ragione, ma in verità è anche molto di più, e immagina che presa poteva avere su un bambino; come mi diceva mamma, Eracle era particolarmente amato dagli antichi perché era “l’uccisore di mostri”, colui che aveva liberato gli uomini dalla paura grazie alla sua forza, alla sua intelligenza e soprattutto alla sua tenacia: Eracle era il baluardo dell’umanità che non si arrende alla bruttezza, alle barbarie, ma che lotta fino allo stremo per la
civiltà, il
Bene ed il Bello, il primo e l’ultimo dei grandi eroi. Eracle era l’Eroe. Da quel giorno per me questo vaso divenne un simbolo ed un punto di riferimento, ne comprai addirittura una gigantografia al negozio di souvenir del museo e lo portai a casa (ce l’ho ancora oggi) e ogni volta che ne ho bisogno, lo guardo e penso a questa ed a tante altre storie.
Vedi, ho più di ottantaquattro anni, e ne ho passate davvero tante nella vita, ho
dovuto affrontare molte difficoltà, nello studio e nel lavoro, ho subito, come tutti, molte ingiustizie, ho dovuto crescere tre figli, ho superato molte crisi quando ero giovane ed acquistando in età mi è toccato perdere la posizione che avevo raggiunto, ho perso mia moglie, perché purtroppo il tempo non è mai clemente, ed ho perso i miei ragazzi, a cui ho dovuto dire addio perché è giusto che anche loro abbiano la possibilità di farsi una vita, fosse anche all’estero, lontani dal padre, e ad ogni mazzata che ricevevo, chiudevo gli occhi, stringevo i pugni, aprivo il cassetto, guardavo questo vaso e mi ricordavo di questa storia e andavo avanti, ma a testa alta, perché nella vita o si lotta o si soccombe, non ci sono alternative. Cerbero, l’Idra, Anteo, Gerione non sono morti, tremila anni fa, sono ancora vivi, e camminano tra di noi, loro si annidano tra le pieghe della società, vivono e si nutrono voraci nel nostro cuore, muoiono e si rigenerano, mortali ed immortali al tempo stesso, solo per essere sconfitti ancora ed ancora. Per dare all’uomo quella spinta per migliorarsi, senza la quale non sarebbe uomo. Tutto questo io lo trovo in un vaso. Un cratere, per la precisione, un cratere dipinto che mi ha dato la forza di vivere per tutti questi anni, e per questo io sono grato con tutto il cuore a quell’antico vasaio che lo realizzò tanti, tanti anni fa. Se ci hai fatto caso, l’ho chiamato cratere, che in effetti è quello che è. Sai cos’è un cratere Dario?” “No”, ammisi “E’ una stoviglia Dario, niente di speciale, l’equivalente di una nostra bacinella, veniva usato nell’antichità per mescolare il vino e l’acqua da bere durante i pranzi e le cene degli uomini antichi, nobili o borghesi che siano, che amavano talmente l’arte da fare in modo di circondarsene anche nella loro vita quotidiana, un vizio che purtroppo si è perso nel tempo, come se l’arte fosse solo una cosa per ricchi spocchiosi, bah. Comunque, stavo dicendo” indicò il cratere con un gesto plateale “è una bacinella, praticamente, e cosa ci fa, secondo te una bacinella, seppur dipinta, in mezzo a statue e quadri?” “Perché è antica?”
“Ni, un po' sì un po' no, ovviamente perché è servita a tanti validi studiosi per scoprire qualcosa di più sul nostro
passato,
ma
anche
perché
comunica
Dario,
comunica,
e
secondo
me
è
questo
che
riesce
a
differenziare un’opera d’arte da un disegno, il riuscire ad esprimere ciò che tutti sentono ma non riescono a dire, ecco cosa fa l’artista. Poco importa se usi il marmo, o una tela e qualche schizzo colorato o un bicchiere graffiato, se tu riesci a comunicare quello che senti, allora sei artista, allora la tua arte serve a qualcosa, allora hai almeno una possibilità di rendere, anche solo un poco, migliore chi guarda la tu creazione, chi la ammira, ed alla fine della mia vita posso affermare che l’ho vissuta bene, nonostante tutto, grazie a questo cratere, grazie alla storia di Eracle e di Anteo, insieme a tante storie a dire la verità, ed è per questo che appena ho sentito che cercavano volontari ho fatto domanda, per cercare, in un modo o nell’altro, di ringraziare questo pezzo di coccio dipinto che mi ha fatto sentire, in tutta una vita, meno solo.” “…non so che dire…” “Non c’è molto da dire Dario, ma guarda, è quasi l’alba” Ed era vero, vedevamo dalle grandi vetrate filtrare la luce del Sole, era passata un’intera notte ed io cominciavo a sentirmi stanco, erano 48 ore che non chiudevo occhio. “L’aurora dalle dita rosate…anche se…mi ricorda più la luce arancione del tramonto…” “In che senso?” “Niente, sciocchezze, ora però è meglio che vai, prima che arrivi qualcuno” “Davvero?” esclamai sorpreso, in un certo senso mi ero quasi dimenticato che ero entrato in quel museo in qualità di ladro, mansione non così onorevole. “Davvero, in fondo non hai rubato niente, no? Ora vai adesso, dai” E mi diressi verso l’uscita, senza dimenticare di invitare il vecchio a trovarmi di tanto in tanto, passando per il cantiere nell’ala est. Solo un paio di giorni dopo seppi che lo trovarono morto nella sala delle sculture: infarto, dicevano i giornali, il suo vecchio cuore non aveva più retto, lo trovarono proprio ai piedi del cratere di Eracle e Anteo, ma nessuno sembrò trovarci un collegamento. Io ho trovato lavoro invece, qualcosa di piccolo, part-time, giusto per ricominciare: stasera è il mio primo turno come guardia notturna, assistente, ad essere sinceri, l’altro si è preso una settimana di ferie.
VI VA DI PORTARE A CASA UN RICORDO?
L A
C U L T U R A C O N S I S T E D I C O N N E S S I O N I , N O N S E P A R A Z I O N I : S P E C I A L I Z Z A R S I È I S O L A R E . ( C A R L O S F U E N T E S )
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