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Il cratere di Eracle ed Anteo

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Paolo e Francesca

Paolo e Francesca

di Pasquale Bruno

Probabilmente fu la guancia intirizzita dal freddo che mi fece rinvenire: qualcuno mi aveva sfilato il passamontagna. Avevo la bocca impastata dal sapore metallico del sangue, il collo indolenzito ed un senso di oppressione tra le scapole. Sputai alla mia destra il grumo nero. La testa mi pulsava da morire. Alzai lo sguardo: ero caduto ai piedi del basamento del David che con le sopracciglia aggrottate ed una leggera smorfia di disprezzo mi guardava dall’alto, come se ridesse di me… I ruoli si erano invertiti ed adesso Davide giganteggia uno che voleva fare il "Golia". “Vaffanculo” pensai e facendomi forza sulle braccia indolenzite feci un primo tentativo per sollevarmi ma il senso di oppressione sulle scapole aumentò fino a spingermi di nuovo a terra, ansante. Faticavo a concentrarmi, cercando di ricordare cosa fosse successo e mi irrigidii quando, dietro al collo, dove ero stato colpito prima, avvertii una punta di freddo, metallico anche questo: mi avevano puntato una pistola dietro la nuca. Qualcuno mi aveva bloccato al pavimento, spingendomi verso terra con un ginocchio puntellato dietro la schiena e mi stava minacciando con un’arma. Non era come avevamo pianificato, per niente. “Buongiorno principessa” Trasalii.

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Per almeno tre mesi abbiamo pensato, pianificato e programmato quel colpo: non eravamo professionisti ma abbiamo imparato in fretta, o almeno lo pensavo. Erano state spostate, in via del tutto eccezionale, alcune opere dai più svariati musei del mondo, andate poi a confluire nel MOWA, durante una settimana speciale, mi sembra l’anniversario della fine di una vecchia epidemia, ma onestamente non ricordo. Per un’intera settimana molte opere dei più grandi artisti che il mondo aveva conosciuto erano state racchiuse in un unico scrigno: un’occasione troppo ghiotta per farsela scappare. I miei due futuri complici ci misero un po' a convincermi della fattibilità del piano, ma alla fine ci riuscirono, era troppo semplice per fallire. Fatti tutti i preparativi del caso io e Paolo ci trovammo di fronte al Museo due ore dopo la chiusura: avevamo 30 minuti per sbrigare tutto, il tempo che Alberto, che ci avrebbe raggiunto direttamente con il furgone all’orario stabilito, tenesse disattivati gli allarmi senza destare sospetti. Era questione di precisione. La collezione si articolava in due padiglioni distinti, in una era concentrata l’arte pittorica, nell’altra quella scultorea, più un vaso, un cratere del 500 a.C. (Cosa ci facesse poi un singolo vaso in mezzo a tante statue non mi è chiaro, ma non sono domande che mi interessano). Ovviamente tentare di trafugare le sculture era una impresa dispendiosa, difficile e rumorosa: quindi impraticabile e per questo motivo decidemmo di dividerci; mentre Paolo avrebbe iniziato a smontare i supporti dei dipinti io avrei trafugato il vaso, l’unico pezzo possibile da prendere, e una volta sistemato lo avrei aiutato nel trasporto dei quadri fino al furgone. Mezz’ora di tempo in cui prendere più opere possibile. Si poteva fare. Studiammo la pianta del MOWA fin nei minimi dettagli, decidendo di sfruttare il padiglione ancora in costruzione per intrufolarci all’interno della struttura; ci dividemmo davanti le scale che portavano alla sala delle sculture, Paolo andò a sinistra, varcando la porta, verso la pinacoteca, con in mano la valigia con gli attrezzi per smontare le cornici, io rimasi lì, a cercare la mia preda.

Era tutto buio, ed aiutato dalla torcia che portavo legata con un laccio alla fronte, sopra il passamontagna, mi orientavo a tentoni nello stanzone per capire l’esatta ubicazione del vaso e finalmente lo trovai (secondo alcuni giri di perlustrazione che avevamo fatto nei giorni precedenti sarebbe dovuto essere nell’angolo in alto a destra, in linea d’aria con il Paolo e Francesca di Puttinati, ma qualcuno doveva averlo spostato quella stessa notte al centro della stanza).

Mi apprestavo a prenderlo quando sentì un forte tonfo dalla pinacoteca: “PAOLO” gridai, poi mi morsi la lingua per la cazzata che avevo appena fatto; “professionisti un corno” pensai digrignando i denti, e subito mi precipitai per vedere cosa fosse successo. Il tempo di fare uno, due, tre passi, poi ricevetti un colpo sulla nuca e caddi a terra, la torcia si spaccò e divenne tutto buio.

Grugnii nello sforzo di girare la testa per vedere chi fosse l’uomo che mi teneva faccia a terra, ma vanificò il mio sforzo spingendo ancora più a fondo il ginocchio per tenermi fermo. Di fronte a me si ergeva maestoso quel maledetto vaso del cazzo. Avevamo fatto le dovute ricerche prima di tentare il colpo quindi ero abbastanza sicuro che quel ginocchio appartenesse alla guardia notturna del museo, un vecchio pensionato che evidentemente trovava le partite a briscola troppo noiose e aveva fatto domanda per lavorare come assistente dell’effettiva guardia notturna che tuttavia in quei giorni si trovava in ferie.

Decidemmo quindi di sfruttare l’occasione: in fondo quanto può essere difficile sopraffare un vecchio? La pressione del ginocchio aumentava mentre il nonno si sistemava meglio su di me che nel frattempo pensavo, pensavo veloce su come uscire da quella situazione scomoda, troppo scomoda. “Se solo riuscissi a strappargli la pistola dalla mano…” decisi quindi di puntare sulla paura, tre uomini sulla trentina contro un ottantenne non avrebbero avuto nessuna difficoltà, anche se bisognava ammettere che il nonno picchiava forte (la bocca si stava riempiendo di nuovo di sangue, forse avevo perso un paio di denti nella caduta). “Faresti meglio a lasciarmi vecchio, ormai i miei colleghi saranno già qui e ti prenderanno alle spalle” dissi alla fine con voce strozzata; “Te la potresti giocare anche meglio, sono già scappati ragazzo, ormai non c’è più onore nemmeno tra i ladri” rispose sarcasticamente. “Pezzi di merda, come faccio adesso?” pensai… Volevo fare un ultimo tentativo di liberarmi, magari prendendolo di sorpresa, quindi mi rilassai completamente e dopo quella che mi era sembrata una eternità appena sentii che la pressione sulle scapole si faceva meno opprimente scattai all’improvviso e rotolammo tutti e due: io che mi avventavo, cercando a tentoni la pistola per strappargliela di mano, e lui che cercava di riaggrapparsi per ritornare in quella posizione di vantaggio che aveva perso, il tutto sperando in cuor mio che non mi sparasse.

Lottammo frenetici per qualche minuto, graffiando e mordendo come animali inferociti, rotolando l’uno sull’altro nel tentativo di allontanarci per prendere fiato e contemporaneamente di afferrare l’avversario fino a quando non andammo a cadere sotto il piedistallo della Pietà di Michelangelo, che ci guardava di sottecchi, ignorando nella sua magnanimità il figlio morto per dedicare a noi il suo sguardo mesto (mi sento poetico stasera) e continuammo a riempirci di pugni e gomitate fino a quando quel vecchio bastardo, che Dio lo abbia in gloria, non mi sferrò un poderoso calcio scaraventandomi lontano da lui. Scivolai sul pavimento, respirando a fatica con i polmoni affamati d’aria, mi andai a rannicchiare contro il piedistallo di quel maledetto vaso mentre lui si rialzava in piedi, la pistola ancora in pugno: decisi di giocarmi il tutto per tutto e afferrando a due mani il cratere dipinto lo sollevai, pronto a farlo cadere al minimo accenno di pericolo.

Eravamo ancora immersi nell’oscurità, ma ormai i miei occhi si erano abituati, e posso giurare che lo vidi sbiancare completamente diventando un fantasma nel giro di una frazione di secondo “O abbassi quella cazzo di pistola o lo sfracello questo vaso di merda!” mi sentivo dannatamente euforico (respiravo ancora a stento ma non volevo lo notasse), sotto sotto non ci speravo nemmeno che potesse funzionare, poteva spararmi subito non avrebbe perso nulla, eppure si chinò, con una mano alzata e gli occhi sgranati “Va bene, va bene, calmiamoci però” e mise la pistola a terra; ero soddisfatto e feroce al tempo stesso, ora il momentum era dalla mia parte “Dalle un calcio e spingila lontano, muoviti!” ed il vecchio eseguì. Più tardi quella sera scoprii che il vecchio si chiamava Cosimo, ed io mi presentai, avendo perso il passamontagna non aveva più senso nascondersi; la situazione di stallo durò a lungo, e stare a descrivervi tutto punto per punto sarebbe noioso, in fondo non è la parte più importante della mia storia (sarebbe troppo lungo da spiegare in poche pagine), ma il punto è che dopo un bel po' di insulti, un'altra scazzotatta ed un paio di domande scomode finimmo entrambi a parlare del più e del meno, spalla contro spalla come due vecchi amici, mentre lo aiutavo a ripulire il casino nella sala dei dipinti (quell’imbecille di Paolo aveva fatto cadere la cassetta, ecco cos’era stato il rumore) e sistemare i vari quadri, rimettendo a posto le cornici. “Spiegami una cosa Cosimo” dissi, mentre stringevo le ultime viti del “Colosso” di Goya, fatto arrivare direttamente da Madrid, “mentre ci stavamo pestando, e per inteso stavo vincendo io…” “Come no, crediamoci” ribatté subito il vecchio, ridendo, “siamo andati a sbattere più di una volta contro le statue e non hai detto assolutamente nulla, e già questo è strano, ma appena ho minacciato di far cadere quel vaso sei subito impallidito, perché? Cosa ha di più rispetto ad una scultura di quelle, che credo siano anche più preziose?” Sospirò: “Non è una questione di valore ragazzo, vieni con me dai, ti faccio vedere” Rientrammo nella sala delle sculture (lui zoppicava leggermente, aveva preso una storta mentre ci azzuffavamo) e ci dirigemmo verso il vaso che dopo la nostra “““discussione””” aveva ripreso, pacificatamene, la sua posizione. “Bene Dario, iniziamo dalle basi: sai dirmi cosa c’è sulla decorazione?” Mi avvicinai meglio e finalmente misi a fuoco la decorazione di quel vaso che sì, ho guardato tante volte in quei giorni, ma mai osservato. Vidi due uomini che lottavano tra di loro, uno leggermente più grande dell’altro, con una folta barba bianca, con accanto delle donne che facevano il tifo per loro, almen credo, il tutto racchiuso da fasce di fiori. Dovrebbe essere la lotta tra Ercole ed Anteo, un gigante, se non mi sbaglio” “Bravo Da, vedo che hai studiato prima di venirtelo a rubare” rispose ridendo il vecchio “vedi, questo vaso non è la prima volta che viene qui, c’è già stato, il museo lo ospitò per una mostra già molti, molti anni fa, quando io ero ancora un ragazzino; Dicevo, il museo lo ospitò già tanti anni fa, e quando andai a vederlo, me lo ricordo ancora bene nonostante tutto il tempo passato, era l’ultimo di novembre, un bel pomeriggio assolato nonostante fosse praticamente inverno, e mi ci accompagnò mia mamma, che era professoressa di Storia dell’Arte al liceo della mia città, quindi di queste cose un poco se ne intendeva. Ora non ricordo quasi nulla di tutte le altre opere che vidi, solo nebbia sfocata, ma mi ricordo che…” “Che ti piacque molto?” azzardai “Che annoiai molto, avevo tredici anni, cosa credi possa importare ad un ragazzino di una statua? Non essere poetico, non ti si addice dopo che ti sei intrufolato in un museo, comunque, ritorniamo a noi…

Ecco, è tutto un ricordo nebuloso che però diventa più nitido quando mamma mi portò a vedere questo vaso, l’ultima attrazione, diciamo, relegato in un angolino in fondo alla stanza (dove volevano metterlo anche quest’anno, ma onestamente non mi piaceva, merita una posizione migliore, e così stanotte prima che tu, Diabolik dei poveri, entrassi, l’avevo spostato qui al centro, con piedistallo e tutto, per questo quando l’hai preso non è scattato l’allarme, l’avevo disattivato io per spostarlo), e incominciò a parlarmi di questo vaso, ma non accennò a date, guerre e artisti che soffrivano di depressione e pazzie, ma mi parlò di cose grandi, di miti e di eroi, che sono le cose che fanno sognare i ragazzini, e mi parlò del leggendario Eracle (perché è questo il suo vero nome, la versione latina tarocca) figlio di Zeus, ed era l’uomo più forte del mondo, il semidio che compì grandiose imprese tra cui quella di uccidere il gigante Anteo, “il tizio barbuto del vaso” come mi spiegò mia madre, indicandomelo, un uomo feroce, re delle Libia, figlio di Poseidone e di Gea; lui era praticamente invincibile finché rimaneva a contatto con la terra, cioè sua madre, che gli restituiva le forze ogni volta che la toccava, e passava il tempo ad uccidere tutti i viandanti che passavano quella terra fino a quando Eracle, grazie all’ingegno e all’astuzia, riuscì a capire il trucco della sua immensa forza, lo sollevò in aria e poi con la sua clava lo colpì a morte (infatti se vedi bene noti che sul vaso i loro volti sono contratti per lo sforzo). Mi potrai dire, come è giusto, che questa è solo una storia, e sicuramente hai ragione, ma in verità è anche molto di più, e immagina che presa poteva avere su un bambino; come mi diceva mamma, Eracle era particolarmente amato dagli antichi perché era “l’uccisore di mostri”, colui che aveva liberato gli uomini dalla paura grazie alla sua forza, alla sua intelligenza e soprattutto alla sua tenacia: Eracle era il baluardo dell’umanità che non si arrende alla bruttezza, alle barbarie, ma che lotta fino allo stremo per la civiltà, il Bene ed il Bello, il primo e l’ultimo dei grandi eroi. Eracle era l’Eroe. Da quel giorno per me questo vaso divenne un simbolo ed un punto di riferimento, ne comprai addirittura una gigantografia al negozio di souvenir del museo e lo portai a casa (ce l’ho ancora oggi) e ogni volta che ne ho bisogno, lo guardo e penso a questa ed a tante altre storie. Vedi, ho più di ottantaquattro anni, e ne ho passate davvero tante nella vita, ho dovuto affrontare molte difficoltà, nello studio e nel lavoro, ho subito, come tutti, molte ingiustizie, ho dovuto crescere tre figli, ho superato molte crisi quando ero giovane ed acquistando in età mi è toccato perdere la posizione che avevo raggiunto, ho perso mia moglie, perché purtroppo il tempo non è mai clemente, ed ho perso i miei ragazzi, a cui ho dovuto dire addio perché è giusto che anche loro abbiano la possibilità di farsi una vita, fosse anche all’estero, lontani dal padre, e ad ogni mazzata che ricevevo, chiudevo gli occhi, stringevo i pugni, aprivo il cassetto, guardavo questo vaso e mi ricordavo di questa storia e andavo avanti, ma a testa alta, perché nella vita o si lotta o si soccombe, non ci sono alternative. Cerbero, l’Idra, Anteo, Gerione non sono morti, tremila anni fa, sono ancora vivi, e camminano tra di noi, loro si annidano tra le pieghe della società, vivono e si nutrono voraci nel nostro cuore, muoiono e si rigenerano, mortali ed immortali al tempo stesso, solo per essere sconfitti ancora ed ancora. Per dare all’uomo quella spinta per migliorarsi, senza la quale non sarebbe uomo. Tutto questo io lo trovo in un vaso. Un cratere, per la precisione, un cratere dipinto che mi ha dato la forza di vivere per tutti questi anni, e per questo io sono grato con tutto il cuore a quell’antico vasaio che lo realizzò tanti, tanti anni fa. Se ci hai fatto caso, l’ho chiamato cratere, che in effetti è quello che è. Sai cos’è un cratere Dario?” “No”, ammisi “E’ una stoviglia Dario, niente di speciale, l’equivalente di una nostra bacinella, veniva usato nell’antichità per mescolare il vino e l’acqua da bere durante i pranzi e le cene degli uomini antichi, nobili o borghesi che siano, che amavano talmente l’arte da fare in modo di circondarsene anche nella loro vita quotidiana, un vizio che purtroppo si è perso nel tempo, come se l’arte fosse solo una cosa per ricchi spocchiosi, bah. Comunque, stavo dicendo” indicò il cratere con un gesto plateale “è una bacinella, praticamente, e cosa ci fa, secondo te una bacinella, seppur dipinta, in mezzo a statue e quadri?” “Perché è antica?”

“Ni, un po' sì un po' no, ovviamente perché è servita a tanti validi studiosi per scoprire qualcosa di più sul nostro passato, ma anche perché comunica Dario, comunica, e secondo me è questo che riesce a differenziare un’opera d’arte da un disegno, il riuscire ad esprimere ciò che tutti sentono ma non riescono a dire, ecco cosa fa l’artista. Poco importa se usi il marmo, o una tela e qualche schizzo colorato o un bicchiere graffiato, se tu riesci a comunicare quello che senti, allora sei artista, allora la tua arte serve a qualcosa, allora hai almeno una possibilità di rendere, anche solo un poco, migliore chi guarda la tu creazione, chi la ammira, ed alla fine della mia vita posso affermare che l’ho vissuta bene, nonostante tutto, grazie a questo cratere, grazie alla storia di Eracle e di Anteo, insieme a tante storie a dire la verità, ed è per questo che appena ho sentito che cercavano volontari ho fatto domanda, per cercare, in un modo o nell’altro, di ringraziare questo pezzo di coccio dipinto che mi ha fatto sentire, in tutta una vita, meno solo.” “…non so che dire…” “Non c’è molto da dire Dario, ma guarda, è quasi l’alba” Ed era vero, vedevamo dalle grandi vetrate filtrare la luce del Sole, era passata un’intera notte ed io cominciavo a sentirmi stanco, erano 48 ore che non chiudevo occhio. “L’aurora dalle dita rosate…anche se…mi ricorda più la luce arancione del tramonto…” “In che senso?” “Niente, sciocchezze, ora però è meglio che vai, prima che arrivi qualcuno” “Davvero?” esclamai sorpreso, in un certo senso mi ero quasi dimenticato che ero entrato in quel museo in qualità di ladro, mansione non così onorevole. “Davvero, in fondo non hai rubato niente, no? Ora vai adesso, dai” E mi diressi verso l’uscita, senza dimenticare di invitare il vecchio a trovarmi di tanto in tanto, passando per il cantiere nell’ala est. Solo un paio di giorni dopo seppi che lo trovarono morto nella sala delle sculture: infarto, dicevano i giornali, il suo vecchio cuore non aveva più retto, lo trovarono proprio ai piedi del cratere di Eracle e Anteo, ma nessuno sembrò trovarci un collegamento. Io ho trovato lavoro invece, qualcosa di piccolo, part-time, giusto per ricominciare: stasera è il mio primo turno come guardia notturna, assistente, ad essere sinceri, l’altro si è preso una settimana di ferie.

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