N.11 N.12
"ALL YOU CAN EAT" "SCINTILLE"
LUCIO ANNEO SENECA
L'ANIMO PORTA IN SÉ I GERMI DI TUTTE LE VIRTÙ CHE, IN SEGUITO AD UN CONSIGLIO, SI RIDESTANO, COME A UN LIEVE SOFFIO, DA UNA SCINTILLA SI SVILUPPA IL FUOCO. Fiat Lux – rivista letteraria ©Tutti i diritti riservati. Instagram: @fiatlux_rivistaletteraria Facebook: FiatLux_RivistaLetteraria
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54 58 61
E C I D N I
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Introduzione al numero: a cura del fondatore e caporedattore Pasquale Bruno P R O S A
Alessia Perito Claudio Ippolito Elena Iannone Fabio Iuliano Ludovica Pilia Norberto Lupo Raffaele Trerotola Silvia Argento Simone Roca
8 13 17 19 23 25 30 33 39
P O E S I A
Alessia Matroberardino Alessandra Vitale Andrea D'Amico Beatrice del Re Davide Di Gioia Francesco Giuseppe Piemonte Francesco Catino Marco Carbone Luca Celentano Sara Manganelli
C R I T I C A
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L E T T E R A R I A
Erica Iannaccone
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F O T O G R A F I A
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Andrea Gerardo Russo Francesco Testa
F I N A L I S T I
W E
W A N T
Angela de Angelis Francesco Catino Francesco Giuseppe Piemonte Maria Baldassarre Sydney Foce
Y O U
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CONTENUTI
I E D
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E D I T O R I A L E
editoriale fiat lux
“Siamo arrivati a dodici ragazzi! Fiat Lux compie un anno! STAPPIAMO!” Grida di gioia scomposte, coriandoli, festoni, applausi, il tappo della bottiglia colpisce qualcuno nell’occhio. Mi sarebbe piaciuto, non lo nego, organizzare qualche evento tutti quanti insieme, noi e voi, perché se abbiamo raggiunto questo primo traguardo è stato merito non solo mio e della mia redazione che asseconda e sopporta ogni mio capriccio ed iniziativa e che non finirò mai di ringraziare ma soprattutto vostro, che ci seguite, ci leggete, ci pubblicizzate (perché ci pubblicizzate vero?) e che avete partecipato ATTIVAMENTE nella stesura di questo nuovo numero che rappresenta un po' il nostro primo giro di boa. Mi sarebbe piaciuto organizzare qualcosa ma Conte, De Luca, ed il Covid-19 la pensavano diversamente e riconoscendo l’attuale stato di pericolo abbiamo preferito fare un passo indietro nel nome della sicurezza e del rispetto per chi sta male, affidandoci nuovamente ai mezzi digitali che ci permettono giornalmente di far arrivare a voi il nostro lavoro. “Scintille” prima di essere un contest è stata la conferma di quanto la nostra generazione brami la possibilità di esprimersi, di scrivere e di mettersi in gioco. È stata un po' la cartina tornasole che mi ha dimostrato che mettere in campo questo progetto non è stata né una perdita di tempo né un mezzo per dare spazio a manie di protagonismo. Come recita il terzo obiettivo della mia rivista: “Fiat Lux nasce con lo scopo di mettere in luce nuovi scrittori e giovani penne: nasce per dare ai ragazzi la possibilità di esprimersi, di essere letti, di avere un laboratorio attraverso il quale sperimentare e crescere insieme” e se questo era già vero prima, con “Scintille” assume una sfumatura
ancora più concreta. Ci sono arrivati 26 lavori, segno che il fuoco della nostra lanterna si è propagato accendendo altrettanti cuori, e questo non può fare altro che riempirmi di orgoglio nel vedere che tutto questo sforzo, alla fine, non è stato vano; se l’amore, sia esso felice, rimpianto o desiderato, in questo numero la fa da padrone non mancano esperimenti divertenti, spunti di carattere più universale, come la ricerca della “propria” scintilla di vita, o civile, come lo zoom che è stato fatto, nella sezione di poesia, sul grave e sempre scottante problema della terra dei fuochi, un male che non si riesce, né si vuole (fino in fondo), estirpare definitivamente dal nostro territorio, già fin troppo martoriato. Nel complesso è venuto fuori un numero dolceamaro (per riprendere l’espressione usata dalla mia cara dolce e ridente Saffo) che è forse, anzi lo è di sicuro, la cosa migliore che mi potessi aspettare perché se c’è una cosa indiscutibilmente vera è che la vita è fatta di sfumature, e voi siete riusciti a renderle tutte, facendomi piangere, ridere e riflettere; per questo volevo dirvi grazie. Grazie per averci scritto, grazie per aver risposto in tanti al nostro appello, grazie per esservi messi in gioco, grazie per aver soffiato sul vostro fuoco; ma sopratutto... Grazie per aver trovato il coraggio splendere. Buona lettura.
Pasquale Bruno FONDATORE E CAPOREDATTORE
PROSA A CURA DI
Alessia Perito Claudio Ippolito Elena Iannone Fabio Iuliano Ludovica Pilia Norberto Lupo Raffaele Trerotola Silvia Argento Simone Roca
Hanabi
di Alessia Perito
S
tanno per iniziare!» La voce di Mai era carica di un’eccitazione rara per il suo carattere intransigente. Stringeva Satowa per un polso e se la trascinava dietro, incurante della fanghiglia ancora fresca dopo l’ultima pioggia, delle erbacce e dei ciottoli che minacciavano di farla inciampare. Satowa faceva del suo meglio per starle dietro, ma l’obi era troppo stretto e ad ogni passo si sentiva mancare il respiro. Fece per dirlo alla sorella, ma lei, troppo presa dalle fantasticherie sull’incontro segreto che la aspettava, non aveva nessun desiderio di starla a sentire. «Su, sbrigati!» Ci misero poco a riconoscere le prime avvisaglie del festival: nastri colorati e lanterne di carta. La vista della folla vestita a festa che si accalcava a comprare dolcetti o maschere tradizionali le lasciò per un’istante disorientate. Stringendo la mano della sorella maggiore, Satowa già rimpiangeva di essersi lasciata convincere a seguirla. «Resta con me» le disse, sperando di farlo suonare come un ordine anche se era poco più di una supplica.Lei fece una smorfia e continuò a guardarsi attorno finché non intravide la sagoma del suo amante, Yukimura Masao, in piedi accanto a una delle bancarelle. Il suo abbigliamento all’occidentale era inconfondibile persino per Satowa, che sapeva già cosa sarebbe successo appena lui le notò e si avviò per raggiungerle di gran carriera, sfoggiando la sua bombetta e tutta la sua aria da signorotto di città.Mai le lasciò la mano, nonostante Satowa avesse fatto del suo meglio per serrare la stretta, e le fece le ultime raccomandazioni senza guardarla. Il suo viso, che non faceva mistero della propria allegria, era già rivolto a Masao. «Sta’ buona. Non ci metto tanto, poi torno e ti compro tutti i dango che vuoi».Era, ovviamente, l’ennesima promessa che non avrebbe mai mantenuto.Con una spinta sulla spalla le fece capire che doveva sparire, che non poteva restare lì, bruttina e mezza cieca, a farla sfigurare. Satowa, che aveva dovuto accompagnarla solo per darle una scusa per uscire, lo trovò ingiusto ma non replicò. Non poteva di certo darle torto. Indietreggiò e stette a guardarli mentre si riunivano e Masao si toglieva il capello a metà dell’inchino alla maniera stravagante dei russi. Con un sorriso quieto Mai gli porse una mano e usò l’altra per indicargli il punto migliore da cui godersi il volo delle lanterne e i fuochi d’artificio. Subito entrambi furono inghiottiti dalla confusione.Satowa rimase sola in un viavai di persone di cui non riusciva a riconoscere né fattezze né volti, un po’ incerta sul da farsi. La paura iniziale era stata sostituita da una stanchezza immane che sembrava vibrarle dentro tutte le ossa. Si lasciò guidare dall’udito e dalla vista confusa per tirarsi fuori dalla folla, inciampando più volte in quello yukata troppo lungo che Mai aveva insistito per prestarle. Le sarebbe piaciutosapere se il suo aspetto era davvero sgraziato e ridicolo come credeva, ma quando prima di uscire si era specchiata nella toeletta della sorella aveva intravisto soltanto una sagoma nebbiosa fasciata di verde, con un viso irriconoscibile, sformato, e capelli che si addossavano sulle spalle con la consistenza densa e pesante di un miasma. Non era riuscita a vedere nulla, come al solito. Non era riuscita a vedere Satowa.Si sedette su un ceppo di legno a lato del viale. La festa le scivolava accanto e lei non poteva far altro che starsene buona e ferma lì, a guardare senza vedere.Il motivo per cui aveva accettato di accompagnare Mai erano i fuochi d’artificio.
Per la festa del raccolto, per il matrimonio di un dio fluviale o -come in quel caso- per la festeggiare la notte degli spiriti: ogni motivo era buono perché gli abitanti di Kagoshima decidessero di lanciare in aria i loro sfavillanti fiori di fuoco. Satowa li guardava di rado, perché anche in quello la vista aveva smesso da tempo di assisterla e ormai quelle che sua sorella le descriveva come danze di luci e colori le sembravano soltanto punti informi, confusi, che si appropriavano di un pezzetto di notte e poi si disperdevano senza lasciare traccia. Non c’era nulla di memorabile in uno spettacolo simile. Eppure Satowa li sentiva: sentiva lo sfrigolio del fuoco, lo stridio della carta accartocciata che si spegneva in un piccolo incendio e veniva inghiottita dalla notte. Quel rumore -suono, forse- la riempiva di una gioia segreta.Quale altro scopo aveva la carta se non bruciare?Quando si poneva questa domanda, si guardava le mani. Erano rugose come quella di una vecchia, piene di calli e bruciature sbiadite che poco si addicevano a una donna che non era più giovane, certo, ma che con i suoi vent’anni si poteva considerare ancora in età da marito. Quelle mani però sembravano dirle che il marito non sarebbe arrivato: nessun uomo si sarebbe interessato a una contadina mezza cieca, inutile nei campi quanto sprovvista di dote. Non avrebbe potuto sperare nella compassione di un concittadino né ambire a sedurre uno studente di ritorno dall’estero come aveva fatto Mai. A qualcuno insignificante come lei non sarebbe nemmeno stato concesso il lusso di brillare una volta sola prima di spegnersi.Per questo, un po’ invidiava i fuochi d’artificio.A un certo punto, con un unico movimento collettivo, la folla si fermò: tutti quelli che fino ad allora si erano affaccendati a godersi il festival inchiodarono i piedi e alzarono la testa, con le bocce aperte in sorrisi o ovali di meraviglia.Satowa non ebbe bisogno di alzare la testa per capire che i fuochi erano cominciati e non lo fece: rimase con lo sguardo fisso davanti a sé, testarda e un po’ rassegnata, nella speranza di cogliere quel rumore di carta incendiata che il chiacchiericcio rendeva indistinto e indistinguibile. Ovviamente, non funzionò. La festa inghiottiva ogni rumore, pure in quell’attimo in cui gli spettatori parevano essersi cristallizzati con gli occhi al cielo. A nessuno interessava il muto grido della carta che moriva, davanti aquello spettacolo di luci e fiori di fuoco. La bellezza bastava a cancellare il ricordo di ciò che era stato sacrificato per ottenerla.Satowa si guardò di nuovo le mani. Se avesse saputo scrivere le sarebbe piaciuto avvicinarsi al fiume e scrivere un messaggio sulle lanterne fluttuanti nella speranza che arrivasse a sua madre nell’aldilà. Purtroppo non aveva mai imparato e avrebbe dovuto tenersi il suo desiderio per sé. «Voglio morire» lo sillabò a bassa voce, stupendosi di come suonasse bene in quel chiasso che si portava via le sue parole appena pronunciate. «Voglio morire. Vienimi a prendere» ripeté, resa più coraggiosa dal fatto che nessuno la stesse a sentire.«Prego». Un pezzo di corda le cadde in mano e Satowa sobbalzò a quell’inaspettata voce maschile dietro di lei. I lineamenti indistinti non le permettevano di afferrarne con sicurezza l’età, ma qualcosa nella sua postura dritta le lasciava intendere che fosse un ragazzo poco più anziano di lei, abituato ai lavori di forza.
Se ne stava seduto sul fragile ramo di un ginko, con le gambe penzoloni e uno yukata bianco a fasciargli il corpo. Le maniche, troppo larghe, gli coprivano le mani e restavano perfettamente immobili nonostante il lieve fruscio di vento che agitava le foglie.. Colpevole del muto sbigottimento di Satowa, lui le indicò la corda che le aveva lanciato. «Ha detto che vuole morire e le ho dato un modo di farlo». Invece di mostrarsi indispettita come avrebbe dovuto, lei soppesò la corda con uno sconcerto che lasciava ben intuire quanto il suo bel desiderio si fosse già incrinato al contatto con la realtà. Davanti a quella corda -così concreta, così fredda- Satowa sì sentì stupida. Estremamente stupida. Quasi avesse indovinato i suoi pensieri, lo sconosciuto rise a denti stretti. «Non si prenda gioco del suicidio durante la festa degli spiriti. Potrebbe succedere qualcosa di sgradevole». Tirò fuori una scatolina nera dalla manica dello yukata e se la rigirò tra le dita. «I morti suicidi potrebbero prendersela con lei per la sua leggerezza, sa? Morire è più difficile di quanto sembra. Dicono tutti che sia una cosa da codardi, ma la verità è che i veri codardi non ci riuscirebbero mai». Cacciò qualcosa dalla scatola, una specie di bastoncino. «Ad ammazzarsi, intendo». Satowa sapeva che avrebbe dovuto andarsene, ma si sentiva troppo stanca per farlo. Le membra pesavano e il suo corpo si era indurito come se fosse diventato tutt’uno con il ceppo di legno.Lo sconosciuto le lanciò il bastoncino allo stesso modo in cui le aveva lanciato la corda. Satowa cercò di afferrarlo, ma quando le sembrò che fosse caduto nell’erba, le bastò guardarsi le gambe per ritrovarselo poggiato sulla gonna. Era un fiammifero. Ebbe un brivido che però lui parve non notare, impegnato com’era con la sua parlantina quieta e affilata: «Ci si intende tra codardi, non crede? Se potesse dar fuoco a questo codardo qui» la sua mano fasciata di bianco bussò sul tronco del ginko «glienesaremmo entrambi molto grati. Lei avrebbe la sua carta bruciata e noi il nostro momento di gloria». Vedendo che i suoi pensieri più profondi erano stati esposti a quel modo, Satowa non poteva più avere dubbi sulla natura dell’essere che le stava parlando. «Non le faremo del male» continuò lui. «Vogliamo solo fare un’uscita di scena per bene. Ci dia fuoco e può tornarsene da sua sorella, si mangerà i suoi dolcetti e vedrà che vivere è più bello di morire. Anche più stupido, credo, ma questa è solo la nostra umilissima opinione». Diede di nuovo un colpetto sulla corteccia dell’albero e il rumore sordo che ne venne suonava quasi come una risata smorzata, viva. Satowa lo fece. Non avrebbe saputo dire neppure lei perché, ma lo fece. Si mise in piedi con le gambe molli che minacciavano di cedere a ogni passo e si avvicinò al ginko. Lo sfiorò e lo sentì caldo, quasi nascondesse davvero un cuore pulsante. Provò il doloroso senso di colpa di chi si accinge a compiere un omicidio mentre le mani, impacciate, cercavano di accendere il fiammifero contro la superficie rugosa dell’albero. Una fiammella minuscola, più un puntino che una vera luce, le guizzò tra le dita.«Brava, così» la incoraggiava lo spirito da sopra il suo ramo. «Lei ci uccide, noi moriamo. Strano come chi non ha il coraggio di ammazzarsi riesca ad uccidere qualcos’altro, non trova?».
Satowa avrebbe fatto di tutto per far tacere quella voce molesta. Avvicinò il fiammifero al ginko: il legno secco e flaccido prese fuoco in fretta, in una vampata irreale, portandosi via con sé la risata dell’albero e quella del suo sfrontato abitante. Lo yukata bianco sfavillò solo un istante prima di svanire nel nulla. «Vedrà che vivere è più bello di morire» aveva detto lo spirito, ma guardando le fiamme Satowa continuava a pensare che la morte sapesse essere decisamente più bella nel suo retrogusto di tragedia.Quando rientrò nella festa, quella strana mollezza continuava a pesarle addosso. I fuochi d’artificio erano finiti da un pezzo, il festival si stava avviando alla sua mogia conclusione e la vita stava tornando ad essere la stessa di sempre. Sua sorella le stava venendo incontro, accaldata e con l’obi allacciato alla buona. «Dov’eri finita? È tardi, dobbiamo tornare a casa!» Mentre veniva trascinata via da Mai -che come previsto si era dimenticata dei dolcetti promessi- Satowa si voltò indietro, ma l’albero e le sue alte fiammate non si vedevano più. Forse non erano mai esistite. L’odore del legno carbonizzato e lo sfrigolio delle fiamme, però, riusciva ancora a sentirli.
Prosa
Ignazio
di Claudio Ippolito Icon made by Vitaly Gorbachev
Prosa
"C
he Palle" gridò Ignazio e se ne uscì sbattendo la porta dell'aula nel momento
in cui il suo professore di Filosofia entrò in classe proclamando la lezione sul "fuoco" di quell'ora; al ragazzo infatti non fregava nulla di Anassimandro e della sua colonna infuocata rotante o di tutte quelle scemenze. Lui odiava quell'elemento, anche se portava il nome del fuoco, lo odiava con tutto il cuore, da quando quel fatidico giorno della sua infanzia un Incendio aveva portato via sua madre e gli aveva lasciato un segno indelebile sulla faccia. Quel giorno però qualcosa cambiò, quando uscì fuori dalla classe, infatti, notò nei corridoi una ragazza mai vista prima, che colpì subito il giovane ragazzo, aveva gli occhi di un azzurro cielo che non aveva mai visto prima un sorriso tale da poter disarmare gli eserciti, e dei capelli rossi che tanto gli ricordavano il fuoco, ma non ne aveva paura, anzi ne era attratto. Intimorito si fiondò dal bidello, suo caro compagno delle ore buche passate in giro per la scuola, a chiedere chi fosse quella Ninfa la risposta fu semplice e immediata, quella ragazza si chiamava Shula, una giovane donna trasferitasi in quella scuola e in quella città da un paesino lontano e sperduto nelle montagne, e ironia della sorte, era proprio nella classe di fianco a quella di Ignazio; così il ragazzo prese per la prima volta una delle decisioni più importanti della sua vita, doveva conoscere Shula, ne aveva bisogno. Secondo un antico libro shintoista chiamato Kojiki il dio del fuoco Kagutsuchi durante il parto uccise la madre Izanami con le sue fiamme, poiché rappresentavano tutto ciò che c'è di maligno nel fuoco; il giovane Ignazio tendeva ad impersonificarsi in quel Dio dopo l'incidente avuto da bambino, poiché era stato proprio lui, senza volerlo, ad incendiare la sua vecchia casa lasciando il gas acceso. Il nostro giovane "Kagutsuchi" odiava sé stesso quasi quanto l'elemento da cui derivava il suo nome.
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Prosa
Passarono i giorni ed Ignazio cercava un modo per attaccare bottone con la ragazza che le stava inceppando i pensieri, ma aveva paura, paura di come lei avrebbe reagito guardando ciò che era, erano infatti diventati fin troppi i momenti in cui tornava a casa si chiudeva in camera ed iniziava a piangere toccandosi quella scottatura che era segno di tutti i suoi errori. Con il padre non ci parlava, era solo una figura scura che lo incolpava della morte della moglie e che manteneva ancora il figlio solo perché non aveva ancora raggiunto l'età per poter essere sbattuto fuori casa. "La vita non è altro che un brutto quarto d'ora composto da momenti squisiti" o almeno, questo è quello che diceva Oscar Wilde, perché il povero Ignazio ne aveva passati più di un paio di brutti quarti d'ora, ma qualcosa iniziò pian piano a cambiare, e uno di quegli attimi di felicità avvenne quel giorno in cui il giovane prese coraggio e andò a presentarsi alla ragazza che aveva fatto accendere qualcosa dentro di lui. "C-c-cciao ssono Ignazio della classe accanto alla tua, piacere di conoscerti" questo fu tutto quello che il ragazzino riuscì a dire mentre nascondeva con le mani ed i capelli quello sfregio sul volto che tanto odiava. "Io sono Shula, il piacere è mio" così disse lei accarezzando la mano di Ignazio per spostarla dalla bruciatura, "Vedi di non nasconderti più quando parli con me" al suono di queste parole quella piccola scintilla che stava illuminando il cuore del giovane divenne un tizzone ardente, alimentato dal solo pensiero di Shula, da quel momento in poi qualsiasi cosa che Ignazio faceva, la faceva per piacere a lei, ogni piccolo passo che lo portava più vicino a lei lo rendeva felice. I giorni passavano e la loro amicizia cresceva e con lei cresceva anche la sicurezza del ragazzino, era totalmente cambiato, non odiava più sé stesso aveva un motivo per essere felice, quando passava le giornate con Shula infatti le cose prendevano un altro colore, i suoni anche erano diversi, ogni cosa si estraniava, erano solo loro due contro il mondo intero, e lui passava ore intere ad ascoltarla, ogni singola cosa che usciva dalle bocca di quella dea erano momenti di puro piacere per lui, persino il fuoco non lo spaventava se era lei a parlarne, ricorda infatti quel giorno in cui durante un’uscita lei si era messa a parlare di come Prometeo per rendere gli uomini più felici gli donò il fuoco, rendendoli intelligenti e capaci di provare emozioni, beh molto probabilmente Shula non era altro che il Prometeo del nostro giovane Ignazio tornato alla luce soltanto grazie a lei.
Ma, come tutti sanno più ti avvicini al fuoco e più rischi di bruciarti, il tempo per i due ragazzi passava, ma forse troppo velocemente, un giorno infatti a distanza di un anno dal loro primo incontro Shula corse piangendo verso Ignazio dicendo che da lì a poco sarebbe dovuta trasferirsi in un altro stato, il ragazzo crollò, era sconvolto non aveva idea di cosa fare, cadde a terra poiché le gambe non lo reggevano, scoppiò in lacrime, passato lo shock per tale avvenimento però riprese coraggio, si avvicinò alla sua amata Shula e la baciò. Spaventato e imbarazzato da ciò che aveva fatto andò via, in quei pochi giorni rimasti non riusciva a trovare le parole da dire alla ragazza e per questo restava chiuso in camera come se fosse tornato a quei tempi bui di quando ancora non conosceva Shula. Il fatidico giorno della partenza arrivò, ed arrivò anche un messaggio a riaccendere lo spirito del giovane Ignazio "Io non ti dimentico, continuiamo a parlarci da qui". Il fuoco nei cuori di ognuno di noi è una gemma rara, qualcosa di prezioso, il Fuoco è potenza grezza della natura, l'emblema del vero potere, è ambivalente è pura potenza, non esiste bene o male, il Fuoco è cangiante, è variabile si piega al volere di chi lo rispetta. Ignazio è il fuoco, Shula è il fuoco. Tutti noi siamo Fuoco.
Prosa
A
veva difficoltà a calarsi completamente in quello che gli era successo. O forse vi era dentro sin troppo? La confusione lo perseguitava. Si sentiva come perso, o forse no. Forse si era solo e finalmente ritrovato e si stupiva di non essersi mai veramente saputo. Aveva ritrovato una parte di sé, quella più profonda, più vera che mai e che però aveva dimenticato, che persino non conosceva. Cos’era successo? Era incapace, interdetto, inciampava nei suoi stessi pensieri. Non credeva che la vita potesse sconvolgerlo così. Era abituato ad avere tutto sotto controllo, era abituato a quella sua noiosa e pedante monotonia. Si guardava intorno ed aveva accanto a sé la folla, monotona come lui, fin quasi alla volgarità e, improvvisamente, non gli sembrava normale, anzi, gli era ripugnante. Era stato intrappolato: aveva per anni vissuto come spaventato, schiavo dell’ombra, senza neppure saperlo e soltanto ora lo sorprendevano pensieri del genere. Era sempre stato un uomo razionale, aveva una risposta logica per ogni cosa. Studiava la vita quasi fosse un fenomeno. Sempre un’idea precisa in testa, era riuscito tante volte per questo. Faceva un progetto e poi lo realizzava. Desiderava un qualcosa e l’otteneva. Si sentiva un uomo di successo e questo di certo non lo si
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Prosa
poteva negare. Il punto, infatti, stavolta, non era in quel che possedeva o in ciò che non aveva ottenuto, ma in ciò che aveva creduto di essere. Non aveva quasi mai distinto le due cose eppure, pensò, probabilmente, tutto ciò che un uomo può realmente possedere sta proprio in questo: in quello che uno è. Si era accontentato dell’ordine che aveva la sua esistenza, aveva trovato un equilibrio. Evitava le illusioni, gli inganni. Credeva solo nella realtà. Ora invece barcollava. Aveva ricominciato a cercarsi. “Chi sono io?” Si chiedeva. Il confine tra il vero ed il falso sfumava ed in lui si erano accese sensazioni giovani. I suoi alibi stavano cedendo miseramente e si sentiva colpevole di non aver vissuto abbastanza. “Non c’è attenuante che tenga”, pensò. Bisogna vivere ad ogni costo, senza reti. Accogliere il dolore e la meraviglia, la luce e l’ombra. Accogliere la vita e la sua bellezza. Aveva solo bisogno di liberarsi, di evadere. Sentiva bruciare dentro di sé qualcosa e ritrovava la stessa voglia negli occhi di lei. Un desiderio forte, irrazionale. Non poteva e non voleva farne a meno. Tutto quello che aveva fatto, tutte le corse, le fermate, le trappole e i passi che aveva mosso nella sua vita avevano un senso anche solo per il fatto che ora si trovava così, accanto a lei. Nel silenzio poteva sentire i suoi respiri e nient’altro. In certi momenti dimenticava quel che aveva intorno, non percepiva lo spazio che lo circondava. Si voltò alla sua sinistra, e così poté notare appena l’orologio che era appeso alla parete, in mezzo ai quadri. Riuscì a sentire il ticchettio delle sue lancette che scandiva il tempo, i minuti, i secondi, come un assassino. Quella sua convinzione assurda per cui la realtà è nient’altro che ciò che si vede, gli sembrava ridicola. Si era sentito un buffone, un pagliaccio, e tutto ciò per cui aveva sempre mostrato un certo disinteresse, ora, lo aveva disarmato. Era riuscita a fargli scorgere la bellezza, a spingerlo al di là del limite degli occhi suoi. E quel che vedeva gli sembrava più vero che mai. Aveva sempre soffocato quegli interrogativi a cui non avrebbe saputo rispondere, quelle domande che ora stava pian piano imparando a vivere. Aveva sempre cercato di sfuggire alle sue stesse ombre, cercava la luce. Ma nella sola luce, sempre, qualcosa va perdendosi e le ombre erano una parte di sé a cui non sapeva più rinunciare. Senza, non si sarebbe mai potuto nemmeno riconoscere. Aveva bisogno di scoprire lei e di scoprire anche sé stesso. Era un’arte la sua: aveva il coraggio di accompagnarlo lungo la frontiera tra logica e follia. Lo aveva risvegliato da una perenne anestesia, lo aveva tirato fuori dal torpore, dal gelo che lo aveva paralizzato. Erano entrate tante persone nella sua vita ma nessuna lo aveva toccato davvero. Lei lo aveva attraversato. Quell’arte poteva renderlo migliore. La bellezza poteva renderlo migliore, e forse sì, poteva davvero salvarlo. Fino ad allora era sempre stato in vita senza vivere davvero. Possibile? Si sentiva leggero. Oltre le incertezze, il senso di vuoto: non poteva far altro che accogliere la sua imprevedibilità, la sua umanità e la sua voglia di vivere. Per lei si era sentito disposto a fare una sorta di atto di fede: voleva credere in ciò che sentiva. Si stava abbandonando all’amore. Gli si era improvvisamente spalancata una via. Voleva spingersi lungo quella strada, percorrerla, anche se non aveva un’idea chiara di quale fosse la meta. In ogni caso, non sapeva opporsi. L’amore, pensò, è forse l’unico dio innanzi al quale lui potesse piegare le proprie gambe. Gli tornarono in mente “Le notti bianche”, le sue letture giovanili. E se tutto questo fosse un sogno? Si sentiva come ubriaco. Se questa speranza si fosse esaurita, spezzata in frammenti, in cenere? Forse sarebbe impazzito davvero e come un folle, come il Sognatore, persino uno come lui, avrebbe cercato tra le ceneri di quel sogno, una scintilla, per poter riaccendere quel fuoco e riscaldare la sua anima.
di Elena Iannone
Prosa
Fuoco
di Fabio Iuliano Icon made by Darius Dan
Prosa
S
i assopì. Erano solo le diciassette ma la giornata era già stata piena e decise che per il momento poteva bastare. Si risvegliò alle tre di notte, in preda a spasmi e convulsioni: quel sogno lo aveva terrorizzato e non riusciva a capacitarsi del fatto che fosse accaduto. "Perché proprio tu?" - si domandava - e ancora "Perché questo sogno?". Francesco era un ragazzo come tanti: nato e cresciuto a Genova in una buona famiglia, frequentava la facoltà di Lettere nella sua città e conduceva una vita abituale, uscendo con gli amici e nutrendosi delle sue passioni. Amava l’arte, la musica, il cinema, la letteratura. Qualsiasi cosa celasse il fremito di un animo passionale era per lui oggetto di brama e di desiderio, e di esso si cibava per il solo gusto di farlo. All'età di tredici anni aveva perso suo fratello gemello Angelo, un evento che lo devastò visceralmente e che creò in lui il bisogno di colmare la mancanza con il ricordo assiduo di ogni momento trascorso insieme e di ogni frammento della memoria contenente un'espressione del viso, un atteggiamento o una frase che il fratello ripeteva spesso, e che a lui era rimasta cara. Nonostante la giovane età, Angelo aveva già deciso cosa fare da grande: cambiare il mondo. "Sia benedetta la genuinità della giovinezza" - potrebbe pensare il lettore - ma Angelo, grazie a uo padre, aveva scoperto intorno ai dieci anni una certa propensione per il mondo della politica ed era determinato a diventare "uno di quei tizi che la gente critica sempre, ma che per una volta sia apprezzato", come ripeteva a chi gli domandasse del suo futuro. La sua mente era fervida e ricca di idee, e il suo obbiettivo era quello di migliorare le condizioni del suo paese e far sì che tutti - e ripeteva "tutti" stessero bene. La vita queste speranze se le era prese, ma Francesco le aveva ben presenti, e dopo tanti anni ancora ammirava le nobili intenzioni di suo fratello, serbando in cuor suo la convinzione che, se il fato fosse stato più clemente, Angelo sarebbe riuscito a fare tutto ciò che voleva.
Era ottobre e Francesco doveva sbrigare alcune faccende che procrastinava da un po', quindi decise di non seguire lezioni in università e di iniziare sin dalla mattina. Come prima cosa andò in libreria per comprare dei libri di cui aveva bisogno per preparare un esame: li scelse uno ad uno dopo averne confrontato le edizioni e si recò alla cassa per pagare. Lì il suo occhio cadde su uno strano volume impolverato che sembrava venire da un’altra epoca, "Noi e il Fuoco" era il titolo.
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Prosa
s"Mai sentito" - pensò Francesco fra sé e sé - e fece per domandare al commesso di che si trattasse, ma questi lo interruppe ancor prima che aprisse bocca: "Già lo sai". "Già lo so? Io non le ho chiesto ancora nulla. Di che sta parlando?". Ma non ricevette risposta e gli fu indicata l'uscita. Probabilmente l'immaginazione gli aveva giocato un brutto scherzo, o quel tizio stava dando di matto. Non se ne curò più di tanto, anche perché aveva ancora molto da fare, a cominciare dal riparare il suo computer, che da alcuni giorni stava dando problemi. Nel dirigersi verso un centro riparazioni la sua testa iniziò a scoppiare: sentiva urla fortissime e il rumore di fiamme che ardevano intensamente, tanto che dovette accasciarsi a terra, attirando l'attenzione dei passanti, che non capivano cosa stesse succedendo. Uno di loro cercò di aiutarlo. "Ragazzo, tutto bene?", ma Francesco era in preda al dolore, che diventava sempre più fitto: "Non sente niente? Da dove viene questo calore insopportabile?". La gente intorno era sconvolta. "Senti, oggi fa un freddo assurdo, se hai voglia di scherzare ok, divertente; se sei sotto effetto di qualcosa forse è meglio chiamare i tuoi genitori" - gli rispose quell'uomo, che intanto prendeva il cellulare e cercava di farsi dare un numero utile. Di colpo svanì tutto. Preso dallo smarrimento, Francesco scappò. Prima quel commesso, ora questo: che stava succedendo? Non riusciva in alcun modo a darsi una risposta. Forse era un sogno, o meglio un incubo, forse altro. Di certo sperava che non capitasse più, così da dimenticarlo in fretta. La mattina proseguì: la riparazione del computer impiegò tempo, così ebbe giusto il tempo per una spesa veloce, quello che gli serviva per fare un pranzo decente. Alle 3 del pomeriggio iniziò a lavorare sui libri che aveva comprato, ma dopo quasi due ore accusò un po' di stanchezza e data la giornata che aveva passato decise di riposarsi alcuni minuti. Quello che avvenne dopo non è facile da raccontare, non se trascende i limiti delle domande a cui possiamo rispondere. Fu il frutto di quello che era successo quel giorno. Fu il frutto di quello che era successo negli ultimi sette anni. Era tutto buio. Offuscato. Francesco era in uno spazio ristretto, ristrettissimo. D'un tratto si aprì un varco sotto di lui e cadde per un tempo indefinito, non misurabile. All'impatto uno scoppio e una distesa di fiamme intorno a lui, dentro le quali si udivano delle urla incessanti, come in mattinata. In lontananza si vedeva una sagoma, la quale si avvicinò repentinamente, in modalità e tempi che non erano plausibili per un essere umano. Francesco non credeva ai suoi occhi: quella sorta di entità soprannaturale aveva le fattezze di suo fratello, ma non quelle di quando se ne era andato, bensì quelle che avrebbe avuto se fosse cresciuto accanto a lui. Come lo sapeva non riusciva a spiegarselo neanche lui, ma lo sentiva chiaramente: era Angelo. Stava per scoppiare in lacrime, mille emozioni lo percorrevano, avrebbe voluto dirgli tante di quelle cose, ma non poteva. Era come se qualcuno gli stesse tenendo la bocca chiusa, sigillata. Angelo parlò: "È tutto così veloce, tutto così incomprensibile. Lo so. Ma se ora accade ciò, è per un motivo. Vedi tutte queste fiamme? Senti tutte queste urla? Sono le anime di chi non si è compiuto.
Prosa
Di chi ha voltato le spalle al suo destino. Di chi ha detto no di fronte allo splendore e alla virtù. Tu credi che la tua vita stia andando per il verso giusto. Che tu stia facendo quello che devi. Sbagli. Sbagli tremendamente. NON SPRECARE LA TUA VITA COSÌ!". Intorno tremava tutto. "In cuor tuo vorresti che io non me fossi mai andato. Vorresti che quel maledetto incidente non fosse mai avvenuto. Eppure, è andata così. Eppure, io sono qui, che cerco di far sì che la mia morte non sia migliore della tua vita. Serbi dentro di te l'ammirazione per quanto io volevo fare ma ti senti travolto perché non potrò realizzarlo. Realizzalo tu! In modi diversi, in forme diverse, in tempi diversi, ma fallo! Anche tu hai sempre voluto fare del bene al prossimo e non puoi far finta che non sia così soltanto perché credi che avrei dovuto farlo io. Hai un dono. Hai la forza. Hai il cuore. Vai." Di colpo l'immagine di Angelo divenne quella di una gigantesca fenice infuocata, che si alzò in volo quasi volesse andare a sbattere contro il cielo. Lo fece davvero, e come se al posto del cielo ci fosse uno specchio, questo si ruppe in mille pezzi. Francesco, che era rimasto immobile per tutto quel tempo, fu improvvisamente scaraventato verso la fenice, ma prima che potesse raggiungerla si svegliò. Fu qualcosa di tremendamente reale, tanto che ci vollero giorni per elaborarlo. Francesco era come morto e poi tornato in vita. Si sentiva perso e ritrovato allo stesso tempo e non riusciva a capire qual era il suo stato d'animo. Passarono molti giorni vuoti prima che potesse capire. Mesi, addirittura. Arrivò così gennaio. Francesco si trovava a un bivio. L'esperienza che aveva vissuto ad ottobre lo aveva segnato e la riviveva costantemente. Si domandava ogni giorno del suo futuro, finché, passeggiando lungo una strada, vide un manifesto che invitava a partecipare a un evento volto a sensibilizzare alla vita comunitaria. Pensò a suo fratello e decise di andare. Una volta lì, cambiò tutto. Aveva capito. O forse aveva solo intuito. Angelo si era manifestato a lui per fargli comprendere quale fosse la strada da seguire. Un moto dentro di lui lo spingeva in quella direzione. Scegliere o no? Contrastava con quanto fatto fino a quel momento, ma adesso gli sembrava essere tutto quello che voleva. Era come se in quelle fredde giornate d'inverno avesse trovato dentro di sé il modo per riscaldarsi: nella sua anima ardeva un fuoco sacro, animato dalle più nobili intenzioni e dall'ambizione di essere migliore. Proprio come suo fratello avrebbe voluto per sé. Proprio come lui avrebbe voluto per sé. Da una piccola scintilla iniziava così a propagarsi un grande incendio.
Cenere, cedere di Ludovica Pilia
V
oi vi siete fatti ingannare da degli asciugamani monografati, da delle linee ricamate da chissà quale donna sottopagata cinese, di un colore che non piaceva a nessuno dei due, ma risaltava, anzi stonava e rendeva impossibile evitare di guardarli. Ti sei fatta fottere da un rasoio da uomo lasciato sul lavandino, dalla schiuma da barba ancora nel mobiletto bianco, che poi magari l’ultima volta non li aveva neanche usati lui, ma in un momento di mollezza l’avevi usata tu quella roba per poi semplicemente abituarti alla vista, al riempimento dell’incavo affianco al rubinetto. Oggetti da uomo lasciati lì per sbaglio, giusto perché Fabio li aveva dimenticati. E tu, tu mica l’avevi tolta quella roba, per pigrizia o per abitudine, ma cosa ti costava? Forse ti sarebbe sembrato definitivo, credevi che fosse troppo presto per riempire di nuovo il bagno di shampoo alla pesca e creme depilatorie, segno che in quella casa viveva una donna sola ma piena di speranze. È bastato uno sguardo, se quei colori non avessero cozzato tra loro, se lei si fosse ricordata di pulire il bagno prima di invitare Mattia a casa, se le fosse davvero importato. Il resto della casa gridava, strideva, esattamente come quella stanza con la luce al neon, era come se il tempo si fosse fermato e nel fermarsi avesse prodotto come effetto collaterale uno strato di polvere che ingrigiva ogni cosa, ogni colore si era spento di un tono. Si potevano capire le abitudini di quella ragazza: le poche cose lucide erano una tazza, una forchetta e la maniglia del frigo. Il giorno in cui andò via Fabio sentì la stessa fitta allo stomaco che sentiva da bambina quando i genitori la costringevano a mangiare, lo stesso disprezzo ed odio, svuotò il frigorifero che gli era sempre stato nemico e lo riempì di rucola in busta, forse per vendicarsi più con i suoi genitori che con il suo ex marito, per ribellarsi, anche lui l’aveva sempre costretta ad ingurgitare cibo.
Giuseppe c’era sempre stato per lei, non le aveva mai detto cosa fare, anche perché non avrebbe saputo come, l’aveva sempre pensata migliore di se stesso, più capace ed adulta. Quel giorno aveva preso coraggio, sarebbe andato da lei e l’avrebbe aiutata a ricomporsi, a decidere la cameriera più adatta a far riprendere il ticchettio degli orologi in quell’appartamento. Ci fu solo un problema, lui ha sempre avuto l’occhio per i dettagli. In un secondo tutto ciò che aveva programmato è evaporato, proprio come le goccioline d’acqua salata sulle guance al sole. Vi siete rassegnati alla vostra vita, al peso dei giorni.
Il Rossetto D I
N O R B E R T O
L U P O
Poche erano le certezze di Giulia, una fra queste era la consapevolezza di essere carina. Nel suo lavoro le veniva spesso rinnovato questo complimento, anzi a volte qualcuno la definiva anche “bellissima” o “stupenda”. Sfortunatamente però, da quando i suoi genitori avevano scoperto che lavorava, nessuno più le aveva detto di essere carina. Fu durante quella mattina, mentre una pallida luce entrava timidamente dalla finestra, che Giulia constatò questo fatto specchiandosi in bagno. Lei era ancora carina e nessuno poteva metterlo in dubbio. Quanti apprezzamenti sui suoi capelli - nessuno oltre lei sapeva fossero tinti- aveva ricevuto durante le ore di lavoro! E neanche i suoi occhi non erano stati estranei ai complimenti. Evidentemente l’azzurro delle iridi aveva riscosso molto successo fra i suoi clienti. Per non parlare della bocca! Una componente fondamentale del suo lavoro. Da quando era stata scoperta, tutto era terminato. Appena trapelata la notizia, era riuscita ad arrivare anche ai telegiornali. Uno scandalo! Così Giulia aveva dovuto dire addio sia al suo lavoro, sia alla sua reputazione. Perché era “anormale”, termine che le era stato ripetuto da molte persone, che una ragazzina potesse fare certe cose. A scuola le ragazze la guardavano male, in giro chi la riconosceva cambiava strada e persino i suoi parenti si erano rifiutati di ospitare lei e la sua famiglia per il Natale. La sua posizione era molto più compromettente, a differenza delle colleghe che aveva avuto modo di incontrare ad una festa o in una serata negli hotel, perché lei era minorenne. Truccata sembrava più grande, ma mostrandosi per com’era realmente non c’erano dubbi che quella ragazza potesse dimostrare non più di sedici anni. Sua madre, non appena scoperto tutto, le aveva rivolto una domanda a cui Giulia non aveva ancora trovato risposta. “Perché l’hai fatto?”. Guardando la sua immagine riflessa ritornò a porsi questo quesito. Perché l’aveva fatto? Per i soldi? I vestiti? O forse perché quel lavoro era stato l’unico modo per evadere da una vita che le stava ormai troppo stretta? Ciò che Giulia comprese, mentre manteneva lo sguardo fisso su di sé chissà da quanto tempo, era il fatto che lei non aveva mai sentito nessuna emozione vera. La madre le aveva organizzato la vita sin da piccola. Quante volte era stata trasportata da un impegno all’altro, da una lezione di danza ad una di pianoforte, da un parente all’altro, da una visita ad un’altra. Non era mai successo che qualcosa la sorprendesse realmente o che svolgesse un’attività solo perché mossa da una passione innata. Tutto ciò che le accadeva era perché la mamma aveva deciso così. Suo padre non decideva più nulla. Da quando lo aveva sorpreso nell’ascensore del palazzo in cui vivevano mentre stringeva una sconosciuta fra le sue braccia, il suo affetto per lui si era dissolto come nebbia al sole. Quella donna si era sentita male e lui l’aveva afferrata prima che cadesse a terra, le disse una volta. Era soltanto la segretaria, una seconda. Era l’amante, ammise infine con una certa punta di nichilismo. Troppo insicuro e troppo disinteressato alla figlia, aveva smesso di curarsene e, nonostante vivessero a casa tutti e tre insieme, aveva deciso di vivere la propria vita nel modo che preferiva. Perché per i problemi di famiglia c’era sempre sua moglie ad occuparsene.
Ciò che Giulia vedeva era il volto di una figlia delusa, amareggiata dal fatto che non si era mai ribellata alle pressioni della madre e non aveva mai avuto il coraggio di perdonare suo padre. Capiva che loro erano l’origine della sua apatia. L’insicurezza, nata dal non poter decidere sempre per conto suo, in quanto c’era il rischio di andare contro l’approvazione della madre, e la fiducia spezzata nei confronti del padre avevano contribuito a rendere la sua natura più remissiva e scettica verso il mondo. Perciò col passare del tempo era diventata sempre più algida, fredda nelle risposte e gelida nel comportamento. Per quanto l’adolescenza sia caratterizzata da inesperienza e ingenuità, qualità che si confacevano all’indole di Giulia, c’è un tempo in cui subentra la crudezza della vita reale. Accadde in un pomeriggio in cui Giulia era seduta su una panchina del parco nel suo quartiere. Fra quegli alberi e quei sentieri passeggiavano sempre le stesse persone ovvero gli abitanti dei palazzi circostanti. La ragazza ne conosceva la maggior parte, soprattutto perché molti erano amici di famiglia. Quel giorno, se avesse evitato di andare a leggere un libro nel parco, dato che l’atmosfera di casa sua le sembrava sempre troppo pesante, non avrebbe mai incontrato colui che sarebbe diventato il suo futuro datore di lavoro. Era iniziato tutto per caso. Lui si era seduto sulla stessa panchina della ragazza, le aveva chiesto se avesse un accendino e lei gli aveva risposto che non fumava. Nonostante fosse caduto fra loro un silenzio imbarazzante, l’uomo aveva continuato a fissarla con insistenza e a scrutarla in ogni dettaglio. Perciò gli era balenata l’idea che Giulia sarebbe stata perfetta per quel lavoro che era solito proporre alle minorenni. D’altronde quella ragazza era veramente bella, bionda, pura. Era perfetta! “Ti andrebbe di lavorare per me?” Aveva esordito l’uomo con la sua voce profonda. Giulia, la quale stava per alzarsi e tornarsene a casa, dato che quell’uomo la faceva sentire a disagio, si era girata di scatto: “Come?” “Hai sentito bene. Voglio offrirti un lavoro. Ti va?” “Non ne ho bisogno. Buona giornata.” Aveva risposto alzandosi. “Aspetta!”, afferrandola per un braccio l’aveva fermata, “Se mai ci dovessi ripensare, ritorna domani pomeriggio qui. È un lavoro ottimo per una ragazza giovane come te.” Giulia si era liberata dalla presa dello sconosciuto e, a passo veloce, si era diretta verso casa. Quella stessa notte non era riuscita a togliersi dalla testa la domanda indiscreta che aveva ricevuto. “Ti andrebbe di lavorare per me?”. Quella voce profonda, che proveniva da un uomo di aspetto prestante, aveva fatto scattare qualcosa in lei. Mentre si girava e rigirava fra le coperte, sentiva come se una piccola fiaccola si fosse accesa e bruciasse nel suo petto. Era una sensazione eccitante e ad alimentare questa emozione era il fatto che, per la prima volta in quindici anni, qualcuno si era accorto di lei per davvero! Quello sconosciuto aveva deciso di rivolgerle la parola perché era stata lei ad andare in quel posto con le sue gambe e non perché era stata costretta da altri a trovarsi lì. Appena il fiume di emozione l’ebbe travolta, aveva lasciato spazio a domande che le erano sorte spontanee: Chi era quell’uomo? Cosa voleva da lei? E perché, poi, proprio lei? Ponderando a lungo su quali fossero le risposte era arrivata alla conclusione che non sapeva nulla e avrebbe trovato una vera risposta solo se l’indomani si fosse presentata all’appuntamento.
Così fu. La calura del pomeriggio l’accompagnò al luogo d’incontro e lo sconosciuto, che ormai non era più tale dato che era stato l’oggetto dei suoi pensieri per tutta la notte, non aveva tardato ad arrivare. “Sono contento di rivederti.” Le aveva detto non appena si era seduto. Ricevette come risposta un cenno di testa dalla ragazza. “Allora, ci hai pensato?” “Vorrei sapere prima di cosa si tratta.” Quelle parole avevano suscitato nell’uomo un po’ di sorpresa. Credeva, come aveva avuto modo di constatare dalle altre ragazze reclutate in passato, che avrebbe ricevuto una risposta affermativa o negativa. Stavolta era andata diversamente. Quegli occhi azzurri, che posarono il loro sguardo su di lui, volevano sapere di più. Era come se quella ragazza fosse affamata e soltanto le sue parole potevano saziarla. Perciò le fornì i giusti chiarimenti, specificando le mansioni da svolgere e l’accordo da stringere, perché in quel lavoro non c’era contratti, ma patti. Giulia capì, tutto. Probabilmente il lavoro non le interessava davvero, ma la professionalità con cui l’uomo si era espresso, rivolgendosi a lei come si fa con una persona adulta e preoccupandosi che ogni cosa le fosse chiaro, l’aveva affascinata a tal punto che la fiaccola della sera prima aveva acquistato terreno e incominciato ad intensificare il suo calore. Stordita dall’emozione e dal desiderio di scoperta, emise la sua sentenza: “Va bene. Accetto.” A distanza di un anno guardando il proprio riflesso nello specchio, realizzò che aveva vissuto molte più esperienze delle sue coetanee. La prima cosa che aveva cambiato era stato il nome. Si faceva chiamare “Elena” quando lavorava, perché il suo Capo le aveva detto di non poter usare il suo vero nome. Subito dopo fu tutto un susseguirsi: feste, discoteche, alberghi, yacht privati. Il Capo le organizzava gli appuntamenti con clienti che pagavano bene: avvocati, direttori, politici. Non importava chi fossero o che età avessero, bastava che pagassero la quota prestabilita. Con il tempo Giulia aveva capito che per evitare imbrogli al lavoro i clienti dovevano pagare prima di consumare il prodotto. Quante volte aveva ricevuto 200€, invece di 400€! Naturalmente all’inizio la sua tariffa era più bassa, ma con il passare del tempo aveva acquisito esperienza e prestigio. Per questo motivo il suo prezzo era diventato più alto e tra i clienti del Capo si era diffusa la voce che Elena fosse “la più brava di tutte”. Era consapevole del fatto che prima o poi l’avrebbero scoperta e, inevitabilmente, si sarebbe rovinata la vita. Ma che cosa l’aveva convinta a restare? Svolgendo quel lavoro si ricavavano molti soldi che di conseguenza venivano spesi appena ricevuti. Vestiti costosi, borse firmate, scarpe alla moda. Era a queste cose che non voleva rinunciare? Sicuramente non le dispiaceva possedere tutta quella roba. Però quanta fatica per nasconderla a casa! Di certo sua madre non le avrebbe mai comprato tre volte all’anno delle borse, costose quanto il salario che guadagnava. In più doveva stare attenta a ciò che indossava e mostrava. A volte diceva che una gonna le era stata prestata da una compagna di classe, un’altra volta quel cappotto da un’amica, le scarpe comprate ad una svendita, una borsa come regalo di compleanno. Ma per quanto gli oggetti di lusso esercitassero su di lei un indiscutibile fascino, non era abbastanza a farla restare inchiodata a quel lavoro.
Forse un perenne desiderio fisico, da dover sfogare sempre, si era impossessato di lei? Probabilmente no. Quella parte del suo lavoro la odiava. Calarsi nell’intimità con un cliente era stato difficile all’inizio, ma nonostante col tempo si fosse lasciata andare di più, le risultava comunque avvilente dover condividere il letto con un uomo. In quei momenti, quando sentiva quelle pesanti mani addosso che la consumavano, ricordava a sé stessa di essere a lavoro. Aveva deciso lei, con tutte le sue facoltà, di accettare chiunque il Capo le affidasse. Perciò stringeva gli occhi e si irrigidiva, mentre una voce dentro di lei ripeteva “Finirà, finirà!”. Scosse la testa per evitare che vecchi ricordi di notti passate con i lividi sulla schiena e le gambe che bruciavano ritornassero troppo in fretta alla memoria. Non capiva perché aveva agito così. Non sapeva l’origine del suo consenso da dove provenisse. Era solo un essere umano, non era perfetta. Come non lo era il suo viso quella mattina. Le occhiaie scure davano l’idea che non avesse passato una notte tranquilla. Aprì lo sportello accanto allo specchio e la sua vista incontrò il profumo che la mamma indossava quotidianamente. Prese la boccetta e la portò al naso. Le sembrò che il tenero odore di vaniglia pervadesse il suo corpo. Oh, che dolore doveva aver provato la mamma quando l’aveva scoperta! Ricordava ancora l’espressione sdegnata, delusa e sconfitta con cui lei l’aveva fissata. Ed era successo tutto per colpa sua, per un errore di distrazione. Una sera, tornata da un incontro, era entrata in camera e, accendendo la luce, aveva visto la madre seduta ai piedi del letto. Dietro di lei l’armadio aperto con i vestiti a terra e sulle ante, alcuni erano rimasti ancora dentro. Sparse intorno alla madre tutte le borse che aveva occultato in giro per la stanza. La povera donna, con la faccia nascosta tra le gambe, stringeva un mazzetto di soldi. Erano 1.000€. Non era stato difficile per Giulia, davanti a quello scenario simile ad un guerra persa, capire che la madre aveva sospettato qualcosa e aveva trovato le prove che cercava. Spruzzò un po’ di profumo sul collo e lo ripose al suo posto. La sua faccia non la convinceva ancora, era come se mancasse qualcosa. L’assenza di trucco? I vestiti troppo semplici? Accadde per caso che lo sguardo di Giulia si posasse sul rossetto lasciato vicino al rubinetto. Quello era lo stesso rossetto che indossava prima di andare ad un appuntamento. Gliel’aveva regalato il suo Capo, per renderla seducente con quella tonalità così intensa di rosso. Lo afferrò d’istinto e subito capì, tutto. Era come se avesse finalmente aperto gli occhi da un lungo torpore! Quando applicava il prodotto sulle sue labbra, era come se il rossetto le infondesse l’energia vitale. Da truccata non era più Giulia, ma Elena, l’unica tra le due che poteva decidere di sé. Quando si guardava, con il rossetto sulle labbra, sentiva quel calore che la riscaldava come una fiamma. Carica di quell’ ardore andava, intrepida, ad aggravare le esperienze della sua vita. Non le importava cosa stesse facendo, finché avrebbe sentito quella sensazione riscaldarle il cuore, avrebbe capito che stava vivendo con la consapevolezza di agire individualmente! Non c’era più mamma o un’insegnate o il Capo. C’era solo lei anche a costo di lasciarsi consumare da quella fiamma.
Si mise il rossetto e finalmente il suo viso trovò l’armonia che cercava, non tardò a ripresentarsi quell’emozione che la faceva bruciare come la fiamma più intensa di un incendio. Sentiva la potenza che aveva e capì quanto dovesse rispettare sé stessa. Lei era una puttana, non l’aveva mai negato, almeno lo era stato finora, ma non le importava più. Era ancora giovane, poteva recuperare, almeno in parte, ciò che aveva perso nell’illusione di acquisire autonomia, e in più era carina. “Giulia!”, la madre entrò nel bagno, “Sei pronta? Ci stanno aspettando in questura.” “Mamma”, si girò di scatto e divampando dall’emozione disse: “ho capito tutto adesso. Ho capito perché.” “Che cosa intendi?” “Finalmente! Sono così contenta!” “Giulia non puoi presentarti con quel rossetto, è troppo forte.” “Tutto mamma, ho capito tutto!” Sorridendo uscì dal bagno. La madre si avvicinò allo specchio, chiuse l’anta che la figlia aveva lasciato aperta, e vide il rossetto. Con un gesto furtivo lo prese e lo mise nella tasca della giacca, prima di uscire e chiudere la porta del bagno.
An ordinary day in London Una giornata ordinaria a Londra
di Raffaele Trerotola
It was such a foggy day, not that I was surprised, but a man deserves a ray of light sometimes. This was only one of the countless things London, the Unreal City, could offer. As I was staring at the clouds out of the window, someone yelled: ‘Checkmate!’. This is what a man can do in the most prominent club of all England: a game of chess. Sorrowfully, I decided to head back home. In the streets of Kensington there was a frightened rat finding its way through the crowd. Why was everyone in such a hurry? Oh, of course, there’s surely an execution today. The victim was a convict escaped from a prison nearby. All the folks were angrily throwing tomatoes to the hanged man, lifeless… I was 30 years old, and yet, I could never get used to this human desire: a hunt for someone to blame and on whom pour out your frustration. Now it was time to really go back home, it had to be done, I could no more stand up to all this cruelty, mixed with indifference for other’s feelings. Some people in front of a café were talking about the Royal Family, ‘the greatest family of all times’ they said. I cannot get their idea of ‘greatness’, because someone who is great is supposed to not let poor starving children fighting each other for a piece of rotten apple found in the rubbish at least. The gentlemen started reviling them because of their behaviour: ‘You’re getting us dirty, you animals!’. In this funny situation, I approached to the undomesticated souls and offered them ten shillings. The joy on their face could be visible from around two miles. It is surprising how money-god, the Greatest divinity among all, also affected eight-yearold-children. ‘Thank you very much, sir!’, they yelled running away, hunting for a candy shop. It was almost evening; the temperature was colder. I came across Mrs. Smith in the staircase. ‘Hi Mr. Johnson, it is a lovely evening, isn’t it?’ said the tiny lady. ‘Yes, sure Mrs. Smith, have a good evening’ I replied, fleeing in my flat. I was supposed to prepare dinner, but hunger was a feeling unknown to me lately, so I threw myself on the bed and continued the reading of Keep the Aspidistra Flying under the sweet background music of my neighbour, who puts a record on the gramophone every evening. “This life we live nowadays. It's not life, it's stagnation death-in-life. Look at all these bloody houses and the meaningless people inside them. Sometimes I think we're all corpses. Just rotting upright.” I had been losing myself in this magnificent novel and only the flickering candle-flame near me made me re-emerge in my room, as the cold wind was blowing through the window. My feet approached to the window, my mind was clouded. I jumped on the corner of it, I stretched my arms like Jesus Christ on the cross, and jumped off the building, a fallen angel. ‘What is that noise?’ asked a worried lady in the street. She saw the corpse, buried in a blood puddle. She shrugged her shoulders and went on walking, the train was about to leave. A welcome of indifference is one of the countless things you can receive in London.
Era una giornata estremamente nebbiosa, non che non fossi sorpreso, ma agli uomini spetta un raggio di luce ogni tanto. Questa era soltanto una delle innumerevoli cose che Londra, la Città, poteva offrire. Qualcuno urlò: “Scacco matto!” mentre guardavo le nuvole fuori dalla finestra. Questo era quello che potevamo fare, noi Signori, nel club più esclusivo di tutta l’Inghilterra: una partita a scacchi. Decisi di tornare a casa, disperato. C’era un topo impaurito nelle strade di Kensington. Perché andavano tutti così di fretta? Oh, certamente, stasera ci sarà sicuramente un’esecuzione. La vittima era un condannato, scappato da una prigione nelle vicinanze. Tutti, dal contadino al riscossore delle tasse, gettavano dei pomodori al povero impiccato, senza vita… Ormai avevo trent’anni, eppure non riuscivo ad abituarmi a quest’indole umana, il desiderio di dover dare la colpa a qualcuno, qualcuno sul quale sfogare la propria frustrazione. Era ora di tornare davvero a casa, doveva essere fatto, non potevo sopportare più tutta questa crudeltà, intrisa di indifferenza verso l’altro. Delle persone parlavano della Royal Family davanti un cafè: “la più grande dinastia di tutti i tempi” blateravano. Non riuscivo a comprendere la loro idea di greatness, perché qualcuno che è grande, magnifico, non dovrebbe permettere che dei poveri bambini affamati lottino per un pezzo di mela marcia trovato in un cassonetto. I Gentiluomini iniziarono a urlargli contro, a causa del loro comportamento: “ci state sporcando, animali!”. La scena era molto divertente, mi avvicinai alle anime selvagge offrendogli dieci scellini. La gioia e l’emozione sulle loro facce poteva essere percepita da quasi due chilometri. Non finiva mai di sorprendermi come il Dio Denaro, la divinità più grande, influenzava dei bambini di otto anni. “Grazie tante, signore!” urlarono i bambini correndo via, a caccia di un negozio di dolciumi. Era quasi sera, la temperatura si faceva sempre più fredda. Mi imbattei in Mrs. Smith nelle scale. “Salve Mr. Johnson, è una serata adorabile, non è vero?” disse la minuta signora. “Sì, sicuramente Mrs. Smith, le auguro una buona serata” risposi, fuggendo nel mio appartamento. Avrei dovuto preparare la cena, ma la fame era una sensazione sconosciuta, quindi mi buttai subito sul letto e ripresi a leggere Fiorirà l’Aspidistra, accompagnato dalla dolce sinfonia del mio vicino, che metteva ogni sera una canzone col giradischi. ‘This life we live nowadays. It’s not life, it’s stagnation death-in-life. Look at all these bloody houses and the meaningless people inside them. Sometimes I think we’re all corpses. Just rotting upright.’Ormai mi ero perso tra le magnifiche pagine del romanzo, e soltanto la luce della candela, a tratti incandescente e tremolante, mi fece ritornare in quella stanza, mentre un venticello freddo soffiava attraverso la finestra. I miei piedi si avvicinarono alla finestra, la mia mente era annebbiata. Saltai sul cornicione della finestra, distesi le mie braccia come il Cristo sulla croce, saltando nel vuoto. Un angelo caduto. “Cos’è questo strano rumore?” chiese per strada una signora preoccupata. Vide il cadavere, sepolto in una pozzanghera di sangue. Scrollò le spalle e continuò a camminare, il treno stava per partire. Un’ondata di indifferenza è una delle innumerevoli cose che puoi ricevere da Londra.
Sparkling di Silvia Argento
Quel giorno Àngelus era rincasato per l’ennesima volta. Non era una cosa strana, del resto, ogni mattina a quella stessa ora si ritrovava in una casa vuota, solo. La domenica era un po’ diversa, perché non trovava la casa vuota, ma era come se lo fosse visto che suo padre dormiva. Perfino nella giornata in cui tutti si riposavano, lui prendeva la sua tracolla, il suo iPhone e si ritrovava ad uscire già alle 9 di mattina, tornava a casa sempre verso le 13 e 30. Orfano di madre da appena un anno, aveva un padre che per mantenerlo faceva di tutto, anche lavorare quando e quanto non avrebbe mai fatto se la moglie fosse stata in vita. Per questo la casa era spenta non appena lui si ritrovava lì. Tuttavia non gli dispiaceva, non solo poiché sapeva che il padre lavorava per mantenerlo e che quindi doveva essergli grato, ma anche e soprattutto perché adorava stare in cucina con le cuffie attaccate e gli occhi chiusi. Il grandissimo divano bordeaux con due cuscini morbidissimi era un ottimo posto dove riposare la mente, senza però addormentarsi, ma rintanandosi in un luogo completamente estraneo alla realtà. Era questa la sua vita. Uscire come i ragazzi della sua età? Ma sì, l’aveva anche fatto per un certo periodo di tempo. Dopo, però, era tutto andato in malora, perché il suo migliore amico, che conosceva dall’infanzia, era divenuto la sua rovina. Quindi era lì, a fare ciò che faceva sempre. Lo stesso divano, lo stesso telefono, una diversa canzone che poteva essere degli Europe, dei Pink Floyd, dei Queen o magari anche dei Radiohead, gruppi che apprezzava, ma soprattutto dei Nirvana. E poi, contrapposto a questa musica rock, il suo grande idolo, Ray Charles e poi la sua amatissima musica classica, soprattutto Mozart. In generale aveva un forte debole per tutto ciò che era solo strumentale, gli piaceva individuare solo nella musica tantissime parole diverse, poiché sapeva che un ritmo originale od emozionante, una melodia orecchiabile e travolgente, potevano essere più loquaci di una canzone formata da 200 strofe e da altrettanti ritornelli. Riconosceva nelle parole un valore inesistente e nelle emozioni il valore della vita, capiva che ogni attimo poteva essere speciale solo se aveva il sottofondo giusto. E così era lì, fermo, ma in movimento più di tutti gli altri pazzi in giro per la cittadina in cui viveva, lui che ascoltava semplicemente musica, lui che semplicemente sognava e niente, niente, lo fermava lì. Eppure all’occhio nudo appariva più statico di un kouros. La mattina del giorno dopo successe qualcosa che succedeva sempre, ma che come moltissime cose aveva avuto una sfumatura diversa. Angelus ascoltava musica, suonava, scriveva, non si poteva dire fosse un artista, ma aveva una sensibilità che lo rendeva capace di riconoscere le sfumature. Ed una sola sfumatura può essere fatale, un tono di voce diverso, un attimo, anche solo uno sguardo e passi da uno stato di serenità alla totale consapevolezza che stai per perire. Ritornò dunque a casa ed un superficiale avrebbe detto “come al solito”. Stavolta non erano le 13 e 30 come ogni mattina, perfino domenicale, ma quel giorno erano le 14. Erano le 14 e stava ascoltando “Shine on you crazy diamond” dei Pink Floyd. Angelus la riteneva così adatta alla situazione che viveva oramai da tempo da stupirsi di dove l’empatia potesse arrivare. Un diamante che splende, Angelus era più forse un fuoco che però non splendeva. Avrebbe voluto divampare e risplendere di luce ovunque, scintillare
per portare luce alla sua vita. Invece, come fuoco era solo riuscito a farsi terra bruciata attorno. Quella fiamma, sentirla, falla sua, sembrava impossibile.
Damiano, chissà se anche lui riusciva a splendere. Quel suo ex migliore amico, l’unico che non l’avesse mai fatto sentire come un ragazzino sconfitto, come un minatore di delusione. Quella mattina era particolare, poiché di solito le ferite che gli avevano lasciato a scuola erano solo interne, le più radicate del mondo, ma pur sempre interne. Stavolta no, anche fuori si notava un livido in viso. All’uscita da scuola aveva incontrato due ragazzi che lo avevano preso in giro a causa di uno sbaglio, il più grande che Angelus potesse fare: era stato se stesso fra persone che non lo potevano capire, ma non per sua volontà. Damiano aveva rivelato a Lucas la ragione della loro rottura, si era fidato di un amico e non esiste buona azione che non resti impunito. Per una fiducia mal riposta tramutatasi in lingua che batte su un tamburo, parafrasando un cantautore, Angelus si era ritrovato perso, confuso, solo, senza più nessuno con cui parlare. Picchiato, sfigurato, ma da due ragazzi senza cervello né cuore, che per qualcosa che oramai era diventata di dominio pubblico, avevano deciso di fargli male. Deluso, tradito, abbandonato, ma anche dal suo migliore amico che invece aveva un cervello, un cuore, un’anima. Altrimenti non avrebbe mai smesso di vederlo. Sì, aveva agito per il suo bene. Alla lista dei cantanti che rappresentavano la sua ancora nei momenti bui ed un ulteriore faro nei momenti di luce, andava annoverato un altro che l’autrice ha volontariamente omesso, ma che ha citato qualche riga fa. Qualcuno che non ascoltava da un mese quasi, da quando con Damiano non scambiava più alcuna parola. Lo chiamava “Faber”, come molti, per altri troppo concentrati ad ammirare un futile ritmo passeggero era un completo sconosciuto, per altri ancora troppo noioso, per altri era Fabrizio De André. Per Damiano era l’apoteosi dell’arte, della poesia, della parola, tanto che il suo soprannome, così lo chiamava spesso anche Angelus, era “Geordie”, da una canzone di Faber. Allora, per masochismo, curiosità o forse per nostalgia, Angelus decise di fermare i suoi adorati Pink Floyd e di riascoltare De André. Nonostante fosse solo in casa quando ascoltava musica, adoperava sempre le cuffie, stavolta decise di usare il CD che gli aveva prestato Damiano e che non gli aveva ancora restituito. Un CD
originale, s’intende, anche per questo lo mise dentro allo stereo con moltissima cura, anche perché Amico fragile. L’aveva scritta da ubriaco dopo una cena a dir poco singolare. E così, troppo sobrio per dimenticare il dolore e troppo ubriaco per non conservare un po’ di felicità, Angelus stava lì. Ad un certo punto fu costretto ad interrompere l’ascolto per disinfettare la ferita che aveva sulla guancia sinistra, guardandosi allo specchio provava un grande disprezzo per chiunque avesse inventato quel minaccioso oggetto riflettente, pensando che in realtà non riflette nulla, perché il vero riflesso non è il viso ed il vero riflesso non può essere visto da chiunque. Si fecero le 15 e 30, suo padre sarebbe arrivato fra poco. Cosa avrebbe detto? Non lo sapeva. E come se ciò che cercava fosse una parola e quindi come se avesse bisogno di un dizionario, tornò ad ascoltare “Amico fragile” alla ricerca di una definizione. Potevo attraversare litri e litri di corallo per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci. E mai che mi sia venuto in mente, di essere più ubriaco di voi di essere molto più ubriaco di voi.
-Amico fragile (Fabrizio De André) Era finita, chiuse gli occhi e cominciò a pensare a ciò che aveva appena udito. Ad un tratto il campanello. Guardò l’orologio confuso: erano le 15 e 45. Aprì la porta e se lo trovò davanti. Biondo, occhi azzurri, sguardo perso nel vuoto e solita giacca nera, era lui, era lì, Geordie. Spaventato come se fosse sul punto di essere impiccato, in colpa come se avesse rubato sei cervi, fissava Angelus. Questi esitò per un attimo, poi lo salutò con un distante “Ciao, accomodati”. Damiano era entrato in una stanza che non vedeva da tempo, perciò si guardò intorno come se fosse la prima volta. Abbassò lo sguardo e poi, trovato il coraggio di parlare, disse:”Ho sbagliato, va bene? Avevo bisogno di qualcuno di cui fidarmi, qualcuno che non fosse un idiota. Eppure mi ero dimenticato che quel qualcuno sei tu, che avevo già qualcuno. Ma non è colpa mia se l’ho perso, tu hai detto che era troppo difficile, tu hai detto che”, “So benissimo cosa ti ho detto”, lo interruppe Angelus. “E non me ne pento – continuò - Ciò che ho fatto è stato solo per non far accadere questo! – gridò indicandosi la ferita sulla guancia – e invece è successo“, “E’ vero, hai ragione. Odiami pure, ma tu mi hai abbandonato proprio quando avevi bisogno”, rispose Damiano. Aveva detto “proprio quando avevi bisogno”, non “avevo”, ma “avevi”, ovviamente Angelus pensò ad un lapsus, infatti disse:”E io non avevo bisogno allora, secondo te?”, “E’ ciò che ho appena detto. Tu avevi bisogno e non aiutarti per me è stata una tortura. È vero, tu mi hai mostrato un incendio, una fiamma che ardeva verso la felicità ed io l’ho spenta. Inizialmente volevo alimentarla, per questo ti ho risposto <<anch’io>> e nel mio racconto a Lucas l’ho omesso, io ho ricambiato il tuo gesto ed ho omesso anche questo, ma solo perché non so se ho il coraggio di lasciare che quel fuoco divori le nostre vite. Forse, insieme, non so...
Non appena ho raccontato tutto, Lucas si è messo a ridere ed è andato a dirlo ad i suoi amici, a parlare di te, non sono riuscito a fare niente”. La stanza esplose a causa di grida emesse in un grande silenzio e dalle finestre i raggi del Sole sembravano dar fuoco all’aria. Si erano già fatte le 16, ma Angelus non se ne era accorto, come prevedibile. Ad un tratto Damiano vide la custodia del CD poggiata sullo stereo. “Facciamo parte di un luogo che non ci piace più, ma non possiamo ritirarci dalla cena e mandare tutti a quel paese e chiuderci a scrivere una canzone. Per questo ho bisogno di qualcuno dalla mia parte!”, sorrise poi con amarezza. Angelus era in lacrime, così come il suo amico. Avrebbe avuto il coraggio di splendere davvero? Di ritrovare le fiamme dentro di sé, di farle uscire fuori? Quando sentì il rumore dell’ascensore e disse: ”Mio padre è qui. Ne riparliamo per telefono o domani, okay?”, “D’accordo”, rispose Damiano e fece per andare. Non aveva lo smalto rosa, non amava truccarsi, non parlava come una donna, non camminava come una donna, non era un ballerino, non gli piacevano i musical, non aveva alcuno stereotipo in sé perché nessun essere umano è fatto come dicono gli stereotipi. La verità non si deduce con delle prove fisse o con delle caratteristiche che conosciamo, ciò che siamo se necessita di una prova è una finzione, ciò che siamo non si definisce, è. Ed è essere ciò che si è per certuni non è semplice, per alcuni l’essenza diventa incendio, per altri è un fuoco libero, che vorrebbe divorare la libertà di altri. Angelus sentì i passi di Damiano che si allontanava e poi il rumore del portone del piano terra aperto dal padre, ma non si sentì più tanto fragile perché sapeva che era stato se stesso con qualcuno che lo poteva capire. Mise dunque un altro CD sullo stereo, Wish you were here, pensando all’immagine dei due uomini che si stringono la mano ed uno dei due… splende, va a fuoco grazie alle fiamme. Lo mise ad un bassissimo volume, così che la conversazione con suo padre avesse solo un leggerissimo sottofondo e stavolta, poiché aveva dedotto troppe parole dalla semplice parte strumentale, mise avanti fino ad arrivare alla parte anche cantata.
Ascoltò dunque queste parole e non ebbe più paura di splendere. Splendi pazzo diamante. Accatasta molti più strati e io ti raggiungerò laggiù. Splendi pazzo diamante. E ci crogioleremo ai raggi del trionfo di ieri, veleggeremo sulla brezza d'acciaio. Vieni ragazzino, vincitore e sconfitto, vieni tu minatore di verità e delusione, e splendi!
-Shine on you crazy diamond (Pink Floyd)
La fiammella alla luna (o Il mondo oltre il mondo)
Un raggio di luna mi carezza da lontano e tiene viva la mia brace, che ancora s’ingegna a scintillare. E in questo quieto fremere mi chiedo se c’è altro. Se lassù la vista dia su un mondo ulteriore. È così palese! Eppure, stento a vederlo. Potessi io salire sul tuo polo, sfidando il cielo e i tuoi crateri, mi offriresti il panorama? Lo faresti? Ti chiedo, luna: ne varrebbe la pena? Semmai riuscissi in questa impresa, lasciando a terra le catene, affidandomi alla spinta del fuoco che m’arde dentro, semmai vincessi il cielo, il gelo e i tuoi crateri, o luna, mi siederei. Immerso nella polvere, col respiro corto e il cuore acceso, lascerei correre lo sguardo. E con le tue brillanti direttive, custodirei la bellezza di questo nuovo inizio. Oh, luna, luna! Che libera bellezza. Chi riceve per la prima volta i colori, nel primissimo momento vivrà un’abbaglio. Poi, correrà, fortissimo, nel panorama. All’origine, guardo il Tutto che vive. Sono lo spettatore privilegiato - chissà, l’unico! della più profonda realtà. Sono puro sguardo, pura contemplazione. E il corpo quasi si lascia addormentare, perché gli occhi resistano a tanta, riuscita magnificenza. Sospeso il tempo, all’incombere del vuoto, lì sprigiona la creazione. Quella fiammella che gioca a nascondersi fra le pieghe della vita, quel giorno, per grazia tua, si paleserebbe. Avrebbe abbastanza ossigeno per alimentarsi e respirare vigorosa, come mai altrimenti potrebbe. La prospettiva di qualcos’altro, un altro mondo, un’altra esistenza, é il combustibile di chi non s’accontenta dell’ordinario. Proprio ora scalpita, improvvisa ed ardita, nei primi freddi delle notti d’autunno. É impaziente, quasi ribolle, anela i cieli. Se ci fosse pur una possibilità di viaggiare tanto in alto, prendere lo svincolo giusto per lo spazio, e infine confondersi fra le stelle, lei, senza alcuna esitazione, scommetterebbe su di essa. Ma quale corridoio porta a te? Riflette, e intanto s’avvinghia al tuo raggio e ne ricava calore. Resiste e progetta. Sente la veracità del futuro. Chiudo gli occhi, ma filtra ancora la luce.
Ricordati dei miei rituali, luna, ricordati di come accolgo la tua mano nelle notti insonni. Te ne prego, non stancarti. Solo immaginare cosa possa essere, riesce a mitigare ciò che è. Dunque, fammi compagnia, quando puoi: io ci sarò. E per vivere ancora e di nuova vita, sì, avrò più luce.
*I disegni sono stati realizzati dall'autore
Poesia A cura di:
Alessia Mastroberardino Alessandra Vitale Andrea D'Amico Beatrice Del Re Davide di Gioia Francesco Giuseppe Piemonte Francesco Catino Marco Carbone Luca Celentano Sara Manganelli
Divampo Brucia Il mio corpo Brucia La mia anima derelitta e solitaria Brucia, per te Sto aspettando, invano, che qualcuno mi salvi Che tu mi salvi Ma nessuno può farlo Ma tu non lo farai Credevo di poter domare il fuoco che ho dentro Ma divampa, mi assale, mi consuma Arriverà fin dentro le ossa E io sono sola E sarò sola, per un tempo indefinito Il tempo che serve per ridurre in cenere quello che sono Divampo, e mi consumo In eterno
ALESSIA MASTROBERARDINO
Se il fuoco ha sete non beve, o si spegne. Ma io vivo desiderando ciò che mi fa male e mi vedo scintilla che galleggia su oceani di contraddizioni.
ALESSANDRA VITALE
Brucerò per te Ed io… abbandonato in questa stanza che do sfogo ad una mancanza e poi cessa la mia arroganza di pensare che un giorno ci saremo ancora insieme bruciando come due candele. E brucerò per te tutte quelle lacrime che prima ho versato e pian piano consumato. E brucerò per te tutte quelle pagine, tutti quei ricordi che sanno di noi perché ritorneremo prima o poi ancora di nuovo, insieme. E bruceranno per te, le nostre anime che ricongiungendosi ritroveranno rifugio nel nostro amore immenso che non smetterà mai di capire che questa storia immensa non potrà mai morire…
ANDREA D'AMICO
Una terra abbandonata
Molti la chiamano terra dei fuochi lì dove i bambini si divertono coi giuochi corrono e ridono guardando il cielo ma non sanno che sotto di loro c’è un velo che copre polveri, vernici, metalli pesanti tutti materiali altamente inquinanti, abbandonati dalla criminalità tra indifferenza e omertà. Vendetta, povertà e timore causano un ignoto tumore di cui è vittima un innocente parte dell’inerme gente. La nostra voce è l’unica speranza per sconfiggere quest’ignoranza così come l’acqua spegne la fiamma evitando un inutile dramma.
BEATRICE DEL RE
Scintille La tua anima. Sfuggente e candida, Aleggia nel mio mondo come maestrale, Facendomi sentir forte. Il tuo corpo. Un' opera d'arte, Che ovunque incede, Emette un candido e spontaneo tepore. Facendomi sentir appagato. Il tuoi occhi. Specchi del tuo essere. Rilasciano un tenue fuoco, Che scalderebbe il più pesante dei cuori. Facendomi sentir grato. Il tuo sorriso. Ciò che la mia anima venera. Brilla negli astri più remoti, Si nasconde in attesa di esser raggiunto. Facendomi sentir vivo.
DAVIDE DI GIOIA
Come la canzone che ti dedicavo Scusami ma non ce la faccio Scusami ma mi sento povero come un bambino strappo i fogli che ho preparato per te, non che farmene di queste penne ho promesso di scrivere di amore, di gioia e di vita per te ma mi accorgo di avere le mani sporche di veleno Veleno non tuo, veleno del giorno prima Resto fermo davanti uno schermo vuoto, con i demoni del passato che ridono ridono, ridono di me, con tutte le mie poesie che guardano fisse i miei occhi lucidi amiche scusate, il buio che avevo e che vi ha partorito sta sparendo temo per i libri e le canzoni, sento tutto ciò bruciare nel fuoco che hai acceso in me Scusami. Ma questo fuoco e questa luce mi appartengono? Sono stati rubati dalla vita di qualcuno? Sono solo delle immagini che spariranno un volta aver scritto? No, è un fuoco che non va via dopo una notte, è un fuoco che nasce dai tuoi rumorosi silenzi, dalla tua risata nel grigio della pioggia dal tempo che scorre con te che non posso calcolare con dei numeri. E’ il calore della luce che esce dal tuo cuore che illumina la stanza quando spegniamo la luci. Ti chiedo scusa scusa per come scrivo è che vivo ciò che scrivo come una medicina ma non ho più nulla da curare Ho solo questo fuoco che brucia la stanza.
FRANCESCO GIUSEPPE PIEMONTE
Stelle filanti Scintillavano le nostre stelle filanti di baci ansanti, ed ora mi affievolisco al tuo buio. Si spegne l'innesco.
FRANCESCO CATINO
La scintilla della mia vita Una scintilla una scintilla che ravvivi una fiamma spenta stanca viver in uno stato di calma tenta di dar valore ad ogni attimo scandendo il tempo con ogni battito e negli occhi vedrai un fuoco candido colorerà un volto vuoto e pallido. Quella scintilla manca da tempo è stata oppressa da un soffio di vento il freddo di uno spietato inverno dimora e divora un corpo spento. Come può un fuoco di nuovo divampare? Come può una candela mai più tremare? Come può la scintilla della mia vita scoccare? Come posso io un senso al fuoco trovare? Sarà lui ad accendersi in me all’improvviso lui trova sempre il tempo e quando sarò solo, incompleto, deriso lui darà senso a tutto.
FRANCESCO CATINO
Marco Carbone
Luca
Ogni uomo arde Ogni uomo arde nell’animo suo e brucia, morde, strappa, distrugge, pur cosciente che potrebbe appassionare, scaldare, esaltare, coinvolgere. Quel fuoco che ti desta la notte, ti rompe gli occhi, e si mostra a te per quel che è, vita o morte. E’ fuoco, quello che brucia così forte da far splendere le tenebre, che nel buio ti mostra la via, che ti salva quando il tuo cuore congela. Ma è pur fuoco quello che brucia così forte da annientare tutto, che nulla resiste, che lascia solo un pugno di polvere che il vento porterà via. Delle volte ci spinge ad amare così intensamente da non desiderare altro al mondo, se non amare di più.
Luca
Delle volte ci spinge ad amare così intensamente da non desiderare altro al mondo, se non amare di più. Delle volte ci istiga a respingere la mano che si tende verso di noi e a bastonarla finché non cade esangue, a terra, immobile È vivo, lo sento divampare dentro e da dentro gioca con me. Ogni uomo arde nell’animo suo. Quando scende la notte, non resta che decidere: bruciare per amare o bruciare per distruggere.
Celentano
Ovunque tu sia, dovunque io voglia; Ha senso mentire a se stessi se ci porta beneficio? Fino a che punto tocca spingerci per stare bene, per lasciare il nostro dolore velato ad occhi altrui. Occhi che non capirebbero; i miei stessi non lo farebbero. Forse. Ha senso? Porterebbe a qualcosa questo inutile martirio? Immolarsi per una croce di cui nemmeno Noi conosciamo l'esistenza, e, forse, non la bramiamo nemmeno la conoscenza. Non conosco me stesso, nĂŠ tanto meno il fuoco che anima il mio spirito, spento e senza luce. Nemmeno i sogni mi danno piĂš una semplice e modesta quiete, lasciandomi in balia di un'irrequietezza tempestosa
SARA MANGANELLI
Troverò mai la mia miccia?
C R I T I C A
A
L E T T E R A R I A
C U R A
D I :
Erica Iannaccone
CON IL CUORE DEI GIGANTI Il titolo di questa rubrica è ispirato alla celebre citazione di Bernard de Chartes: “…come nani sulle spalle dei giganti” Il nostro sarà un tentativo di salire sulle spalle dei colossi del passato e da spiriti di bassa statura con il loro aiuto guardare al presente e al futuro con occhio critico e curioso. In questo spazio, verranno trattati un autore e un’opera letteraria in linea con il tema mensile della rivista. Non verranno date solo note tecniche o mere nozioni sullo stile ma fornirà un ponte di lancio al nostro pensiero per poi addentrarsi nelle profondità: tentare di interpretali ed offrire poi uno spunto di riflessione.
CONTINUATE AD ARDERE, FIAMME PROMETEICHE
CRITICA LETTERARIA AL ROMANZO “FAHRENHEIT 451” DI RAY BRADBURY DI ERICA IANNACCONE Fuoco,
fuoco e ancora fuoco.
Per secoli la storia dell’umanità è stata condizionata dal fuoco: la sua
scoperta
da
rappresentato Utile
e
parte
un
punto
necessario
proteggersi
dal
difendersi
e
importante
delle
per
freddo,
per
di
la
prime
svolta
per
fare
i
primi
il
di
nell’evoluzione
sopravvivenza,
combattere,
per
comunità
per
segnali, fuoco
ha
cambiamenti
ha
antropologica.
cuocere per
ominidi
i
cibi
e
comunicare,
rivestito
epocali
un
per per
ruolo
che
hanno
caratterizzato e accompagnato l’umanità sino a oggi: per quanto riguarda
la
successiva
metallurgia,
nascita
l’innovazione
della
ceramica,
nell’industria
lo
bellica
sviluppo e
in
della quella
farmaceutica, la lavorazione di alcuni materiali e la costruzione di armi. Ma il fuoco è, soltanto, una mera reazione chimica causata dalla combustione?
A
cosa
è
riconducibile
la
sua
indispensabile
presenza nella vita quotidiana? Il
fuoco
è
uno
nell’alchimia,
dei
quattro
l’archè
elementi
eracliteo,
è
il
naturali, simbolo
il
simbolo
dello
Spirito
numero
1
Santo
e
della punizione per gli eretici, ricorre spesso nei riti e nei libri; ma, oltre a questa sua possente componente spirituale e, in certo qual modo, magica, oltre alla mitologia e alla religione, anche la storia, la
cultura
e
l’arte
sono
state
pervase
dal
simbolismo
di
queste
fiamme indomabili. Il fuoco viene, essenzialmente, considerato nelle sue due opposte accezioni:
da
un
lato
si
ha
la
luce
che
esso
emana,
il
PARALLELISMO TRA PROMETEO E MONTAG
calore,
la
Il fuoco rubato agli dei è lo stesso che distrugge centinaia
passione che incarna, il cuore che brucia, visto come un qualcosa di
purificatore,
nella
sua
dimensione
creatrice;
emerge il suo antitetico potere distruttivo, la paura, l’imprevedibilità, la rabbia, il peccato, il dolore.
dall’altro
lato,
di migliaia di libri nel romanzo di Bradbury?
Inevitabili contesti
le
sue
più
molteplici
disparati,
e
dalla
diffuse
filosofia
allusioni, all’arte,
nei
termini
dalla
e
nei
letteratura
al
cinema… Con
la
sua
concentrazione
di
opposti
intrinsechi
alla
sua
naturale
esistenza, il fuoco è il protagonista di molte opere (letterarie e non), ma
si
può
fuoco
agli
dire
lo
dei?
stesso
Dove
per
colui
sarebbe
che,
coraggiosamente,
riscontrabile
un
ben
più
rubò
il
recente
Prometeo? In quale opera è possibile trovare un titanico eroe e, al contempo, la presenza
del
statunitense Fahrenheit
fuoco Ray
451
rovente?
Bradbury
è
un
L’opera
detiene
romanzo
più
le
famosa
dello
proprietà
scrittore
sopraelencate:
distopico-fantascientifico
in
cui
il
protagonista, un vigile del fuoco molto speciale, è assimilabile ad un moderno Prometeo. Ambientato in un futuro post-apocalittico non meglio specificato, il libro
di
Bradbury,
muove
un’importante
critica
all’utilizzo
sfegatato
della tecnologia che invade tutti gli ambiti della vita, condizionando l’esistenza suo
di
fattore
ogni
essere
“umano”
umano,
per
che,
appunto,
trasformarsi
in
arriva
un
a
perdere
automa
privo
il di
sentimenti. Il
personaggio
nella
principale
cosiddetta
“milizia
è
Guy
del
Montag
fuoco”,
a
che
opera
differenza
come di
pompiere
una
normale
squadra di vigili del fuoco, quella in cui lavora Montag non spegne gli
incendi,
libri,
di
possa
bensì
conoscenza
generazioni
sempre
di
le
il
loro
copie
Inizialmente,
non che
appicca; tutte
servirsene.
concittadini,
alle
li
incenerire
riflette sta
sul
meno,
Montag,
e
su
alla
trascorrendo
è
quello
esistenti come
potenziale
annientando,
successive
scopo
scritte
quanti
sua,
intere
del
della
di
distruggere
affinché resto
lettura,
danni
quando
la
giornate
tutti su
stia
i
nessuno i
suoi
tutta
la
provocando
gente
imparerà
davanti
ad
uno
schermo. Montag non ragiona su tutto questo, non si cura di capire quale sia il senso della vita e cosa significhi ciò che lo circonda, anzi è entusiasta all’idea di bruciare pagine e pagine di parole.
"Era
una
gioia
speciale
veder
appiccare le
cose
il
fuoco.
divorate,
Era
una
vederle
gioia
annerite,
diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel
grosso
venefico tempie,
sul e
le
pitone mondo, sue
che il
mani
sputava
sangue
gli
il
suo
cherosene
martellava
diventavano
le
mani
contro
di
non
le sai
che direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia”.
Come si evince dall’incipit del romanzo, il protagonista è ancora lontano dal percorso
che
lo
condurrà
verso
una
drastica
e
rinnovata
maturazione;
non
solo la legge, ma anche l’intera comunità, la moglie, il capitano e quasi tutti i suoi conoscenti gli remano contro, ostacolando il suo proposito di capire perché
alcuni
uomini
decidano,
arbitrariamente,
di
morire
con
i
loro
libri,
piuttosto che darli alle fiamme. Si tratta semplicemente di incoscienza o di saggia
passione
per
il
sapere?
Per
scoprirlo
Montag
dovrà
salvare
un
libro
dal rogo, aprirlo e leggerlo, sotto il vigile e costante sguardo di quella sorta di “Grande Fratello” orwelliano che governa la città, insomma deve violare le leggi e il proprio codice. In
quest’ottica
Montag
si
licenzia,
legge
libri
di
nascosto,
affronta,
poi,
il
proprio capo e combatte per la propria salvezza e per quella dei suoi nuovi amici di carta.
Una volta ho visto un bambino venire verso di me tenendo una torcia accesa in mano. "Da dove porti la luce? " gli ho chiesto. Lui la spense immediatamente e mi disse: "O Hasan, dimmi dove è andata e io ti dirò dove l'ho presa".
- HASAN BASRI Costretto a darsi alla fuga, riesce a mettersi in salvo e raggiungere il confine dove
incontrerà
ex-scienziati,
studiosi
e
altri
litterati
homines
che,
nonostante
l’espresso divieto di leggere libri, hanno ideato un’alternativa soluzione creativa ed
efficiente
per
memorizzano
preservare
stralci
di
il
patrimonio
diverse
opere
in
culturale
modo
che
e il
letterario loro
dalle
contenuto
fiamme:
non
vada
perduto. Montag decide di unirsi a loro e di aggirare, così, il vecchio governo protezionista e dittatoriale, contribuendo all’estensione e alla tutela della nuova “biblioteca” orale e ambulante, con la speranza che in un prossimo futuro sarà possibile
ricostruire
ribellione,
un
Prometeo
che
eroe
delle che
sfida
vere
e
proprie
fronteggia
gli
dei
per
biblioteche.
l’ingiusto
il
bene
e
Montag
totalitario
dell’umanità,
è
un
regime,
per
simbolo
un
restituire
po’ a
di
come
tutti
gli
uomini ciò che gli è stato negato. Ecco, questo è quello che fa anche Montag: lotta
Fonti delle immagini: Internet. In ordine di
affinché
venga
ristabilito
un
libero
accesso
alla
conoscenza,
si
batte
contro la censura, contro l’abolizione della libertà. Il
fuoco
con
la
sua
attitudine
distruttiva
è
l’altro
protagonista
indiscusso
del
comparsa:
romanzo, ma, oltre la sfera prettamente negativa e devastatrice delle fiamme,
“Fuoco di Prometeo”;
l’impeto del fuoco potrebbe essere paragonato all’immensa potenza sovversiva
“rivoluzione liberale, libri
dei
per la denutrizione
umana.
libri:
essi
sono
come
il
fuoco,
necessari
per
la
sopravvivenza
della
culturale”; miti da sfatare le torce “Altrimondi”. Bibliografia: “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, p.1; Koan Zen del Maestro Hasan Basri
CONTINUATE AD ARDERE, FIAMME PROMETEICHE
specie
P U N T O
18
D I F U G A
Andrea Gerardo Russo
Francesco Testa
FOTOGRAFIA
La foto è stata scattata al "Glow" festival di Eindhoven nel 2019.
di Andrea Gerardo Russo
L'attesa
Di fronte al suo smarrimento i genitori, gli insegnanti e anche il maestro di chitarra non
facevano altro che ripetergli sempre la stessa cosa: "arriverà il tuo momento e sarà come
una scintilla che illumina la notte più buia. L'importante è non smettere mai di cercare".
Però questa frase non lo rassicurava e non placava le domande che affollavano le sue notti:
"E se non avesse riconosciuto la scintilla? Magari l'aveva già persa!" "Perché i suoi amici
l'avevano già trovata? Che invidia!" Solo e pensoso si ritrovava spesso ad osservarli ma
doveva aguzzare gli occhi per superare le tenebre di cui si era circondato.
Quando sarebbe arrivato il suo momento?
Piccione a fuoco
di Francesco Testa
Un puro esercizio di sovrapposizioni di soggetti con varie messe a fuoco.
We want you Contest In questa sezione vengono riportati i testi dei finalisti del primo contest di Fiat Lux, We want you, con critiche a tema libero. che coprono gli ambiti di letteratura, cinema e arte, a cura di:
ANGELA DE ANGELIS FRANCESCO CATINO FRANCESCO PIEMONTE MARIA BALDASSARRE SYDNEY FOCE
Cesare Pavese:
l'ironia nascosta di un poeta tormentato di Angela de Angelis “Aveva sempre, nei rapporti con i suoi amici, un fondo ironico, e usava, noi suoi amici, commentarci e conoscerci con ironia; e questa ironia, che era forse tra le cose più belle che aveva, non sapeva mai portarla nelle cose che più gli stavano a cuore, non nei suoi rapporti con le donne di cui s’innamorava, e non nei suoi libri: la portava soltanto nell’amicizia, perché l’amicizia era, in lui, un sentimento naturale e in qualche modo sbadato, era cioè qualcosa a cui non dava un’eccessiva importanza. Nell’amore, e anche nello scrivere, si buttava con tale stato d’animo di febbre e di calcolo, da non saperne mai ridere, e da non esser mai per intero sé stesso: e a volte, quando io ora penso a lui, la sua ironia è la cosa di lui che più ricordo e piango, perché non esiste più: non ce n’è ombra nei suoi libri, e non è dato ritrovarla altrove che nel baleno di quel suo maligno sorriso.”
È
Natalia Ginzburg
così che
descrive l’amico e
nelle
Langhe
piemontesi,
ed
è
conosciuto
Maestro Cesare Pavese in una delle pagine del
più come un poeta tormentato, sfortunato
suo Lessico famigliare.
con
Il
ritratto
che
la
Ginzburg
luce
su
un
aspetto
che
è
nascosto
dello nelle
fa
di
Pavese
scrittore sue
getta
piemontese
opere
e
nelle
le
donne
che
amava,
che
ha
imparare quello che lui definiva
di vivere" vita
senza
27
il
agosto una
stanza
"il mestiere
riuscito.
1950 di
Si
tolse
ingerendo
la
dei
sonniferi,
uomo ,
Torino, la città che tanto amava, e sulla prima
Cesare Pavese ,
scrittore e intellettuale tra i più
pagina di una copia dei suoi
influenti
letteratura
Leucò"
della
italiana
nasce nel 1908 a Santo Stefano Belbo,
del
‘900,
un
di
antologie, e consegna al lettore il ritratto di un prima che di un poeta.
in
esserci
tentato
ai
albergo
"Dialoghi con
che teneva sul comodino scrisse:
di
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi” Il giorno dopo centinaia di articoli parlavano della sua morte. Per
tutta
uomo
la
vita
Pavese
malinconico ,
è
stato
meticoloso
ragazzo
nel
e
lavoro
e
dedito alla letteratura: è sempre data, di lui, un’immagine che si fatica a riconoscere nelle parole
con
le
quali
la
Ginzburg
lo
descrive,
parlando della sua ironia come qualcosa che, appunto,
riusciva
a
venir
i suoi amici :
rapporti con
fuori
solo
nei
non in amore, non
nella poesia.
È infatti proprio nelle Lettere che spediva agli amici, nei suoi carteggi con gli editori, nelle corrispondenze con gli
anni
del
testimonianza
sarcasmo
confino
che
diretta
dell’ironia
sottile
personalità
di
la sorella Maria
che
Pavese
durante
riceviamo
la
e
del
contraddistingueva e
di
cui
non
la
possiamo
facendo
così
della
sua
poesia
la
testimonianza
di
quella marmaglia di sentimenti che provava. Già
da
ragazzo,
però,
nelle
lettere
scambiate
con
i
suoi compagni del liceo D’Azeglio, si scorge in Pavese
godere leggendo la sua poesia.
un’ironia e
un’autoironia pungente :
“Sarà perché io non ho quell’anima di
“A me hanno tolto un voto di italiano perché ho
poeta che vorrei, ma ti dico che una mia
osato
poesia mi costa prima di cominciare a scriverla mesi interi di vita e di dolori.” Scrive
così,
amico
nel
poteva
infatti,
in
gennaio
1927:
lettera la
sua
di
poeta
che
anche
nella
quella
superficiale;
letteratura che
più
riusciva
appare a
invece,
solo
le
io:
poesia
non
dalla media”
dunque. avere,
come
passioni
mica
ammiro anzi in ciò la forza del progresso. Nel
è
di
sé,
futile
nelle
e
sue
In una lettera a Tullio Pinelli, suo compagno di classe, ironizza così “sull’elenco dei trionfi della sua maturità” definendo la scuola “quella stia da capponi” che non vede
che
più
l’ora
ancora, delle lascia
opere,
protesto
adesso, più borghesemente, mi tolgono un voto
parte
portare
non
del
suo
vorrebbe
ogni
Ma
correzione
‘600 mi avrebbero per lo meno bruciato vivo:
allora quindi, quella di un poeta che riesce a riversare
componimento.
nella
un
ad
nascere dal dolore ,
che
Quell’anima
una
contraddirli
la
sue il
di
lasciare
sua
autoironia
esperienze lettore
per
con
affrontare nel le
esterrefatto,
la
vita
raccontare donne se
si
è
vera.
agli
amici
qualcosa
pensa
E
alle
che sue
lo innumerevoli struggenti poesie d’amore; in una lettera
facevano sentire vivo,
del 1926 a Giorgio Curti scrive:
“Sono la mia debolezza le innamorate, e il bello è che non ne ho mai avuta neppure una. […] Mi convinco però sempre più che non sono fatto io per convivere. Troppo prepotente, individualista sono. Una donna che mi amasse davvero (oh numi!) dopo tre mesi l’avrei già fatta impazzire. Ma mi ricordo ora che, se la propria merda è piacevole a odorare, non è detto che tutti debbano gustartela allo stesso modo.” Leggendo
le
lettere
di
Pavese
si
scopre
una
sfumatura inedita e simpatica che non ci si aspetta da una personalità che ai lettori si è sempre mostrata così fragile e inquieta. Certo è che, anche nella sua ironia
Pavese
complicato : che
fa
riesce
ad
essere
burbero, sfrontato,
per
il
modo
in
cui
sveste
alcune
infatti
interessante
veder
emergere
un
fondo
ironico, così lontano dal Pavese poeta, soprattutto in
“Una conseguenza dello stare in cella è che si tirano
uscirò,
non
sarò
(per più
tenersi capace
compagnia) di
trattenerli
e
quando
nemmeno
davanti a persone di riguardo”, scherza così sulla sua condizione
di
prigioniero,
questo
un
modo,
quello
scrittore,
suo
tratto,
così
peculiare
ma
ironizzando
anche
su
se
di
per
leggere tentare
le di
lettere
e
i
diari
comprendere
di
prima
ancora che una poesia, l’uomo che ha dato vita ad essa;
è
un
interiore
modo
per
nell’animo
nell’animo
durante i tragici anni del confino:
formidabili
conoscere
contenute
molte lettere destinate alla sorella Maria scritte
rutti
nelle
opere di Pavese, e non vi è modo per un lettore di
uno
situazioni dalla tragicità. È
maligno sorriso
tanto nascosto, se non leggendo le sue Lettere. È
la sua è un’ironia aspra
sorridere
Non vi è traccia di quel suo
di
un
scoprire umano,
poeta,
le
moltitudini
ancor
dotato
di
di
più
quella
vita
che ha bisogno di essere profondamente
sviscerata per riuscire a venir fuori. Pavese
non
riusciva
a
portare
nella
sua
scrittura
quell’ironia amara e al tempo stesso tenera tanto apprezzata
dagli
amici
in
quanto
aveva
posto,
nella poesia, tutto l’ideale della sua vita:
stesso:
“Io più penso alla mia situazione e più sono
“Siccome la vita non è che una ricerca di
convinto che la terra è una valle di lacrime: il più
sensazioni e, più, di sentimenti piacevoli,
grande poeta vivente d’Italia, e forse d’Europa,
ecco che l’arte diviene, almeno per me, lo
dov’è? A Regina Coeli. Cose dell’altro mondo.”
scopo ultimo della vita.”
È ancora più divertente notare i simpatici appellativi
Aveva fatto di tutta la letteratura il suo
dati
definendola
ai
Leone
suoi
amici:
Ginzburg
barboncino”
o
le
lettere
iniziano
“Castrone”,
all’amico
spesso mentre
e
con
un
riserva
collega “Caro
nomignoli
vuole
tutto
mestiere ,
un’innamorata troppo gelosa , per
sé:
per
Pavese
la
poesia
che
sembra
quasi un lavoro sacro, un mestiere che deve darti
come “Bacarozzo” all’amico pittore Mario Sturani. È
da
interessante
meticolosamente e nei cui confronti, dunque, non è
che
amichevolmente
un
lessico
sfrontato
così
appartenga
autore di dolci versi come quel
irriverente, allo
stesso
“Viso di primavera”
dedicato all’attrice Constance Dowling.
vivere,
qualcosa
a
cui
dedicarsi
riuscito a porsi, anche se forse avrebbe voluto, con la sua sfacciata e
indimenticabile ironia .
VERITÀ, CULTURA E GIUSTIZIA DELL’UOMO ATTRAVERSO OPERE MINORI portare alla luce autori considerati minori dalla massa di Francesco Catino
Leggere verbi
C’è quindi la necessità di svincolarsi dalla
ed intrepretare:
che
si
avvicendano
nelle
diverse
azioni
il
lettore
dell’autore punto
di
mainstream”
il
quotidiane. Spesso
“
cerca
secondo
vista
il
della
di
interpretare
proprio società,
punto che
di
è
le
idee
vista,
legata
il in
lavoro
visione
della letteratura, quasi compiendo
dell’archeologo
che
porta
alla
reperti della nostra cultura del nostro passato e ritenendo degni di nota lavori letterari trascurati perché
forieri di verità non accettate,
esemplari
raccontati in libri, articoli, blog.
considerati banali dal pubblico e dalla critica.
società connessa
mette
in
evidenza
passo.
ispirano
capolavori
e
libri
con il suo tempo relativo intellettuali
anziché
altri
perché studiati a scuola oppure perché visti in TV o in rete e
che
modelli
modo inscindibile o tenue a valori che vengono
La
luce
la critica contemporanea
va di pari
I testi presi da me in esame che esplicano queste
"Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia, "Il libro dei perché" di Gianni Rodari e "Il Tartufo" di Molière. tematiche
sono:
Tutte
queste
ricerca
dei
nostro
opere
vari
e
sono
sempre
essere:
infatti
accomunate attuali
dalla
aspetti del
vengono
messe
in
ricerca della
evidenza in Sciascia la
Il
percorso
umano.
la
verità
intrecci politico-mafiosi
è
permeato
da
come il trasferimento
del capitano dalla Sicilia. Egli scopre legami più intensi
verità, in Rodari la ricerca dei bambini di scoprire il mondo attraverso le domande e in Molière abbiamo la ricerca del vano apparire
verso
fino
tra
ad
membri
interrogare
Mariano, "
del
che
quaquaraquà"
parlamento il
padrino
pronuncia (chiacchierone)
e
malavita,
locale la
Don
parola
diventata
poi
famosa nel gergo comune. Si racconta anche di un dibattito tra parlamentari e due mafiosi.
"Il giorno della civetta"
di
Leonardo Sciascia
Il romanzo si conclude con la
edito da Einaudi nel 1961, scritto nell’estate del
scarcerazione del boss perché l’omicidio di un
1960
testimone viene attribuito alla
prende
giornalistiche racconta
la
spunto
dalle
dello sua
numerose
scrittore
terra
senza
inchieste
siciliano, veli.
Il
che
romanzo
moglie
del
teste.
Il
lavoro
di
Sciascia
vuole
mettere in risalto le commistioni
la classe dirigente e potere mafioso,
ambientato dopo la seconda guerra mondiale si
tra
protrae fino agli anni 60. Il protagonista,
a quel tempo erano rinnegate, sottaciute come
l
capitano Bellodi
in
nominata), indaga sull’
servizio
a
C.
(città
non
omicidio Colasberna,
un
oggi
e
recenti
che
vedranno
attraverso
la
alcune
luce
solo
inchieste
in
dei
che
tempi giudici
imprenditore ucciso alla fermata del bus.
del pool antimafia di Palermo.
I testimoni che rimangono sono solo l’autista ed
Pietre angolari di verità e libertà:
il
per le prossime generazioni per uno Stato meno
bigliettaio
sul
bus,
omicidio di mafia Colasberna,
come
gli
altri
scappano.
Un
come molti al tempo, perché si
scoprirà,
aveva
fondamenti
iniquo e meno torbido.
ricevuto
minacce per appalti.
“La mafia era, ed è, un’altra cosa: un sistema che in Sicilia muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel vuoto dello Stato, ma dentro lo Stato” (Avvertenza al romanzo di Leonardo Sciascia, 1972)
Oltre alla ricerca della verità, è insita in ogni uomo la
ricerca
del
circonda
fin
persone
lui
a
proprio
mondo,
dall’età vicine
infantile
di
farsi
Dopo
l’inganno
subito
e
la
perdita
dei
di ciò che lo
possedimenti, Orgone si accorge dello sbaglio e
chiedendo
solo dopo grazie al Principe (il re di Francia) che
alle
spiegare l’universo
riconosce il furfante, viene risarcito del maltolto.
piccolo o grande che sia.
Gianni Rodari
Questo compito cerca di eseguirlo
"Libro dei perché"
con il suo 1984,
una
raccolta
della
uscito postumo nel
rubrica
"La
posta
dei
Questa
commedia
a
caricatura
degli
confessioni
religiose
uomini
clero
delle
diverse
XVII
secolo,
Francia
nel
dell’astuta
curiositas puerile
di essere lupi di uomini ingannandoli, ma alla fine
accompagnate
filastrocche
da
che
dinamica
la
Attraverso le pagine, l’autore cerca di soddisfare la
domande
la
del
per
rimane
con risposte efficaci, precise e
per
in
censurata
perché" su L’unità.
dettagliate espresse in uno stile medio a svariate
attuale
lungo
meschinità umana.
vengono smascherati
grazie
raffigurazione
Gli uomini cercano
al
reciproco
aiuto
della social catena.
riguardano azioni quotidiane, modi di dire, versi di animali
che
giornata.
i
bambini
osservano
Leggendolo
riapprendere
sembra
elementi
della
durante
di
la
riscoprire
realtà
che
loro e
di
sembrano
conosciuti da sempre.
“Perché la neve è bianca?” “La neve è composta da prismi d’acqua simili allo zucchero” Indagare nel proprio passato tramite le conoscenze
rispolverare il proprio io nella temporaneità dell’esistenza e acquisite
con
il
vivere
significa
renderlo meno caduco.
L’ uomo vive sempre nella
sé,
aspirando
alle
attraverso
ricerca del meglio per
proprie
passioni,
sotterfugi,
talvolta
trasformandosi
completamente agli occhi di alcuni: è il caso di
"Il Tartufo" Molière, del Il
commedia
una
in
cinque
atti
di
1664.
protagonista,
in
scena
solo
all’inizio
del
terzo
atto, ma nominato di continuo nella casa di Orgone come
fervente
Filippo
suo
religioso
servo
nelle
molto grazie
devoto, del
entra
con
capofamiglia
TARTUFO: “Tutti i vostri furori non mi commuoveranno per nulla: io penso soltanto a fare il mio dovere” UFFICIALE DEL RE: “Noi viviamo sotto un sotto un Principe nemico della frode, un Principe i cui occhi sanno leggere nei cuori e che tutta l’arte degli impostori non riuscirà mai ad ingannare”
borghese, che gli vuole concedere persino la figlia Marianna Valerio.
in
sposa,
Dorina,
tranello
ordito
moglie
di
e
già
serva con
Orgone,
promessa
di
la
al
Marianna,
collaborazione
svela
l’arcano
giovane
capisce di
il
Elmira,
facendosi
corteggiare, ma suo marito accecato dalla fiducia per Tartufo gli dona tutti i suoi averi.
Queste
opere
riflettono
tre bisogni verità, cultura e i
fondamentali dell’uomo: giustizia, che sono in perenne
ricerca nella brevità
della
accompagnano
vita
e
secondo
me
mestiere di vivere" di ognuno di noi.
"il
INCEPTION di Francesco Piemonte
QUANDO
UN
FILM FUNZIONA
Il
mondo del cinema, si sa, è un obbiettivo di vita per molte persone, da giovani attori con la voglia di calcare le
vie dorate di Hollywood, affascinati dalle luci di New York e da “La dolce vita” di Fellini, a registi visionari, pronti a scrivere una nuova pagina di storia, da chi lavora lontano dalla cinepresa, dando comunque un forte contributo alla nascita di un’opera, a chi, invece, si sveglia ogni giorno sognandosi sul palco del Dolby Theatre, mentre recita un discorso con una statuetta in mano. In questo grande mondo, fatto di luci, colori e lacrime, è facilissimo perdersi nell’oblio, sia per chi ricerca l’originalità, rischiando di vivere nell’ombra inseguendo una luce impossibile da raggiungere, sia per chi percorre una strada già calcata, rischiando, dopo qualche minuto di fama, di perdersi presto nel cliché. Per nostra fortuna ciò non accade a tutti. Inception, film del 2010 diretto da Christopher Nolan, è un attimo esempio di come un film possa funzionare a livello di trama, sceneggiatura e regia, creando una storia accattivante, che sappia intrattenere e far riflettere. L’inizio del film è tutt’altro che scontato, sembra quasi voler far subito abituare lo spettatore alla perdita totale di punti di riferimento e della linearità della narrazione, con rapidi cambi di scena alternati a inquadrature lente e prolungate, l’introduzione di alcuni personaggi con la relativa scomparsa di altri e il succedersi di eventi al limite dell’imprevedibile per l’ignaro pubblico.
Nonostante il ritmo scandito è possibile definire il ruolo delle figure presentate già nei primi minuti, tra queste spicca Dominic "Dom" Cobb, interpretato da Leonardo Di Caprio, protagonista annunciato con una frase che sembra fare da mantra all’intero film:
“Qual è il parassita più resistente? Un batterio? Un virus? Una tenia intestinale? Un'idea. Resistente, altamente contagiosa. Una volta che un'idea si è impossessata del cervello è quasi impossibile sradicarla. Un'idea pienamente formata, pienamente compresa si avvinghia, qui da qualche parte”
Il film va avanti, facendo comprendere allo spettatore come, le scene viste in precedenza, non fossero altro che quelle di un sogno generato dalla mente di Mr. Saito (Ken Watanabe), nel quale, mediante un misterioso congegno, sono riusciti a entrare proprio Cobb seguito da Arthur Joseph Gordon-Levitt); la stanza nella quale si trovano i protagonisti, successivamente al loro risveglio, risulterà essere un ulteriore sogno, scaturito da un sonno iniziato in una carrozza di un treno dal quale Cobb decide di scendere, abbandonando la sua squadra, temendo ripercussioni dopo il fallimento della missione; il gruppo, infatti, opera entrando nei sogni di un bersaglio, creando una sorta di “sogno condiviso”, estrapolando informazioni e idee utili. Lo stesso Mr. Saito propone poi a Cobb un accordo: se riuscirà a formare di nuovo squadra e ad eseguire una nuova missione, egli userà le sue conoscenze per far sì che egli possa tornare negli Stati Uniti, paese dal quale è dovuto fuggire, lasciando la sua casa e i suoi figli, dopo la morte della moglie, per la quale è indiziato come assassino. La missione consiste nell’innestare nella mente di Robert Michael Fischer (Cillian Murphy), erede di un’azienda molto potente sul mercato energetico e rivale dell’impresa di Saito, l’idea di dissolvere l’impero creato dal padre dopo la sua morte. Il seguire il piano porta Cobb a creare una nuova squadra, reclutando i soggetti migliori per ogni ruolo; il loro obbiettivo porterà a comprendere la storia e la personalità dei protagonisti, oltre a diverse rivelazioni cruciali ai fini della trama. L’opera di Christopher Nolan rappresenta un ottimo esempio di come un film possa intrattenere, presentando ottimi spunti degni di un action movie, senza trascurare la profondità della trama, regalando anche ottimi spunti di riflessione. Uno dei maggiori dettagli del film è la costante evoluzione dei personaggi, i quali si delineano, agli occhi dello spettatore, non come semplici protagonisti di un’opera di invenzione, bensì come persone reali, descritte in tutte le loro sfaccettature, lasciando intravedere dubbi, incertezze, paure e momenti di leggerezza mista a coraggio. Tutti, prima o poi, sono costretti a venire a patti con il proprio vissuto, rendendo lo sviluppo del film non quello di un classico film di fantascienza e avventura, ma di un vero e proprio Thriller che non ha paura di toccare e di interessare tematiche della psicologia. Tra i temi più importanti del film, quello che spicca come vero e proprio pilastro della narrazione è sicuramente il rapporto contrastante fra realtà e sogno, la prima formata da una visione obbiettiva, spesso cruda e nella quale non sempre è possibile riparare ai propri errori; la seconda, invece, indica una realtà ideale, nella quale il soggetto può disegnare il proprio mondo a suo piacimento, dove gli sbagli semplicemente non esistono e non esisteranno mai.
La
scelta
attoriale
è
studiata
nei
minimi particolari, ogni attore riesce a ritagliarsi
al
meglio
un
ruolo
nella
trama e plasmando un piccolo tassello nel grande mosaico che è il film. Uno degli
attori
delineare trama
il
che
meglio
proprio
è
Tom
riesce
personaggio Hardy,
interpretando
il
Eames,
a
nella
quale,
personalità
dinamica, ironica e carismatica, riesce non
solo
action
a
incarnare
della
protagonista
trama, con
il
la
realtà
ma
quale
più
anche
un
empatizzare
al meglio. “Inception” si può definire un film riuscito e ciò è dovuto sicuramente alle doti attoriali di Leonardo DiCaprio, attore
capace
personaggi dinamici spalle,
di
interpretare
poliedrici,
e
con
come
un
in
introspettivi,
forte
passato
“Shutter
alle
Island”
e
in
“Catch Me If You Can”, riuscendone al meglio anche sotto la guida di Nolan, che reso
molto lo
probabilmente
stesso
risultato
non
con
avrebbe
un
attore
qualunque; è impossibile, infatti, anche solo non essere coinvolti dallo stile personaggio
di
Cobb,
del
carattere
capace di catturare l’attenzione dello spettatore
per
tutta
la
durata
della
trama, lasciando un dubbio cruciale sul suo
passato.
vivere, che Il rapporto così burrascoso fra i due mondi viene ribadito molto spesso, accompagnando le vicende di tutti i protagonisti, rendendolo non solo un escamotage narrativo molto ben utilizzato, ma soprattutto una chiave di volta
per
comprendere
la
psiche
e
i
vari
tratti
del
carattere
di
ogni
personaggio, regalando una lettura che ricorda gli scritti sulla psicanalisi di Freud, dove l’inconscio e il sogno diventano i portatori della verità e della realtà dell’individuo. L’essere cinema
uno non
Christopher interno
dei è
registi
dovuto,
Nolan
contenuti
letteratura,
ne e
maggiori
sicuramente, prova
nozioni
all’arte
e
al
anche
che
allo
incassi creare in
dei
film
questo
strizzano
studio
registrati
“banali”
film,
l’occhio
nella
e
del
“vuoti”,
inserendo
alla
paradossi
e
storia
al
e
suo
psicologia,
alla
ad
suoi
alcuni
precedenti lavori; basti pensare, per comprendere la dedizione e lo studio dietro
quest’opera,
che
la
scrittura
di
“Inception”
inizia
ben
dieci
anni
prima dell’uscita nel 2010, periodo che ha visto Nolan alle prese con lavori come “Memento” e “Insomnia”, dove l’atmosfera oscura e psicologica fa, anche qui, in
cui
la
da padrona.
pellicola
si
Un altro notevole spunto di riflessione è il modo
ispiri
a
studi
inerenti
l’architettura
e
i
paradossi,
dettaglio spiegato dallo stesso Nolan in un intervista per “The Telegraph”, citando
ad
esempio
gli
le
che
emozioni
naturalmente; lasciarsi
da
un
film
da
vedere,
lasciando
possano
scaturire
l’invito
rapire
è
migliore
dall’atmosfera
e
è
dallo
spessore della trema, assimilando ogni singola emozione, solo così è possibile comprendere
e
apprezzare
al
meglio
l’opera di Christopher Nolan, scorrendo i titoli di coda con la soddisfazione di
coi
dà
oltre
“Inception”
scritti
dell’artista
e
scrittore
olandese
Maurits
Cornelis Escherm e i progetti paradossali di Roger Penrose (la “scala di Penrose” è l’espediente utilizzato da Arthur per spiegare come realizzare l’architettura dei sogni nella mente di un soggetto).
aver goduto al meglio di un ottimo film.
Il pianeta del tesoro Ho
trovato azzeccatissima la coesione fra fattori che rappresentano
la società tecnologicamente avanzata ed elementi della prima metà del 1500, quando ebbe inizio la grande età della pirateria. Jim
Hawkins
o
Jimbo,
come
lo
chiamerà
poi
Silver,
è
come
la
Pellicola adatta ai soli sognatori
principessa Disney di tutti i ragazzini. È
colui
che
non
ha
problemi
ad
essere
diverso
da
tutti
gli
altri,
DI
rimarrà sempre integro e fedele a se stesso. Eterno
Sognatore,
Determinato,
Coraggioso,
Ribelle,
Anarchico
MARIA
BALDASSARRE
e
perciò costantemente nei guai, ma con un Gran Cuore. I
libri
vengono
rappresentati
come
l’elemento
che
lascerà
in
Jim
un’impronta così profonda da non abbandonarlo mai.
“Chi è deserto
Libro che all’apertura circonda il lettore, in questo caso Jim, di immagini lette da una voce narrante; sono ciò che un lettore vede
non vuole che
con gli occhi della mente. Il mondo nel quale un lettore si immerge completamente. La Colonna Sonora, nella versione italiana cantata da Max Pezzali, credo
rappresenti
questo
film
d’animazione
impeccabilmente
ragazzi, ti resta in testa come poche xD. E vorrei portarvi a riflettere su un verso della canzone:
qualcosa fiorisca
e
in te”
Ritengo che sia uno dei film d’animazione Disney più sottovalutato. Personalmente l’ho trovato emozionante e avvincente. Nonostante tutti (o quasi) ritengano che Jim sia un perdente, continua a seguire il suo cuore a testa alta, non si perde d’animo nonostante tutto e tutti. Il Viaggio come simbolo di cambiamento. Tutti gli artisti credo abbiano usato questa metafora e qui viene rappresentata molto bene, soprattutto l’emozione del viaggio ed è vero che conta il viaggio e non la destinazione. Quando torni non sei mai quelli che eri. Questa pellicola ti permette anche di riflettere sul concetto di normalità…
siamo abituati a considerarci
normali e a pensare che l’essere umano lo sia; ma questa pellicola mostra l’esatto contrario. L’essere umano è visto con sguardo giudicatorio e come qualcosa di anormale, ma realmente… cos’è normale? Ognuno di noi ha un’idea di normale che viene fortemente influenzata dalla società, dall’epoca e dalla nazione in cui vive. Credo che in fondo nessuno di noi sia normale e che non ci sia una reale definizione di normale ed è questo il bello. Il linguaggio ricercato tipico…si può dire che sia tipico dell’epoca?... comunque il linguaggio ricercato mi è piaciuto moltissimo, mi ha ricordato molto quando ho letto “L’isola del Tesoro” di Robert Louis Stevenson… che a pensarci bene ci vedo parecchi parallelismi… Soffermiamoci un attimo a parlare del cyborg Silver, personaggio che da subito ci viene rappresentato come il cattivo della storia, di conseguenza possiamo dire che partiamo con dei gran pregiudizi nei suoi confronti e non posso non ammettere che questi non diventino reali. La questione però va oltre ciò che sembra. “Devi rinunciare a qualche cosa quando rincorri un sogno”, una delle frasi più iconiche del cartone, pronunciata per appunto da Silver. Si trova “costretto” a fingere di non essersi affezionato a Jimbo solo per poter mantenere il potere e il controllo sulla ciurma. In realtà Silver avrà un rapporto quasi padre e figlio con Jimbo, rapporto che si spezzerà per il suo sogno. Silver però sarà anche capace di insegnarci che la ricchezza non è ciò che conta, rinuncerà al suo sogno per una Vita. Silver ci insegnerà che avere la stoffa non basta, bisogna avere anche la forza (sì lo so sembra una frase di Star Wars xD) per affrontare i momenti più bui e saper andare avanti, senza mollare mai.
Seguite la vostra Strada. Create la vostra Storia. Plasmate il vostro Futuro.
“Famiglie di marmo” Le decorazioni a rilievo dei sarcofagi e la raffigurazione del mito di Medea
di Sydney Foce
I
sarcofagi
con
prodotti
legato a delle figure, a dei temi da incidere sul
Roma
marmo e, dunque, a un elemento artistico stricto
rappresentano un tratto distintivo, soprattutto a
sensu: è proprio questa componente a rendere
all’interno
partire
del
vasto
a
rilievo
Impero
di
II sec. d.C., dell’arte figurativa nesso, durante la tarda età imperiale,
dal
romana, con
decorazioni
l’arte
ricezione
paleocristiana di
forme
e
e
per
cultura
finire
antiche
veicolo
di
durante
il
Rinascimento. I
sarcofagi
sarcofagi a rilievo, che dava vita addirittura a un commercio
rispondevano,
come
d’altronde
gli
l’altra
dedicato
tra
in
Asia
necessariamente
esemplari
diffusa
forma
di
allestimento
temi
e
loro
esecuzione
connessa alla vita pubblica del defunto seppur,
rapporti
come si pensa in ambito critico, con declinazioni
decorazioni funerarie.
cerimonie
avrebbero
rituali
conseguenza,
sarcofagi
la
portato
funerarie
grande
più
a
“intime”
e,
meccanismo
funzionale
e
ritualità,
di
parentela,
produzione
Un esemplare risalente al
di
Medea/Creusa,
con decorazioni a rilievo a cominciare
e
non
tra
comportava
loro
irrelati
Staatlische
Museen,
presenta una
di per
contestuale
generando
per
così
160 d.C.
dire,
ma,
che
tra
dei le
le nozze con Creusa, i figli che Medea ha
quanto
portano
un
posto
Berlino)
sequenza di quattro
avuto da Giasone e che ora
l’aspetto
(Sarcofago di
Antikensammlung,
rappresentazione,
occupi
quel
“famiglia a rilievo”,
di
scene: ideologia
produzione
privilegiare
dai primi del II sec. d.C.
Questo
di
anzi, spesso era in grado di creare un discorso su
possiamo chiamare una
che
centri
Minore),
funerario, l’urna, a una funzione
diverse
i
(come Roma, Atene col suo marmo pentelico e Dokimeion,
edifici funerari che ospitavano
possibile intuire che questa enorme produzione di
alla
figlia
di
Creonte
una
veste
avvelenata, l’agonia di Creusa colpita dal
fondamentale nel considerare opera artistica che
veleno e la disperazione del padre; Medea che
è
progetta l’infanticidio che l’ha resa
anzitutto
produzione
di
una
determinata
congiuntura storico-culturale, è pur sempre
“Medea” e, infine, la sua fuga su un carro trainato da serpenti.
Questa sequenza di scene
ed
eventi
compare
in
modo
quasi
del
tutto
identico anche in un altro sarcofago, conservato al
Museo Nazionale di Roma
Palazzo Massimo alle Terme). (
Le
forti
somiglianze
fanno,
quindi,
pensare
a
una
realizzazione non indipendente dei due rilievi, tuttavia lo stato lacunoso dei dossier che ci sono pervenuti fa pensare al massimo che entrambi derivino da un
“genitore” di
partenza
ormai
perduto
e
tecnicamente
definito
“archetipo”. Basilea
Se viaggiamo ancora tra i musei europei, a (Antikenmuseum) sarcofago sequenze
a
possiamo
rilievo,
trovare
risalente
rappresentate
al
sono
le
volta, con elementi aggiuntivi, di
sposi
sulla
proporzioni
sinistra)
delle
figure
un
ulteriore
190 d.C., stesse
in
ma,
cui
le
questa
sia figurativi (la coppia
che, molto
soprattutto,
stilistici:
allungate,
marcato
chiaroscuro con intagli più marcati, disposizione fitta dei soggetti, staccati dal fondo quasi a tutto tondo, perdendo in sostanza, ma guadagnando considerevole
vivacità espressiva. Quello di Basilea sembra, dunque, essere un lontano parente, un cugino dei primi due di Berlino e Roma, eppure, che
lo
nonostante classificano
artistica
romana
“mutamento vista stesso
le in
quel
definita
stilistico
l’identità
marcate
o
momento da
di
archetipo
stilistiche
dell’evoluzione
Gerhart Rodenwalt
tardo-antonino”
figurativa
antenato
differenze
fondo, dei
(180-190
d.C.),
discende
dallo
primi
due
rilievi
esaminati, anche se definendosi come variante.
“Su, dunque, non risparmiare nessuna delle arti che conosci, Medea: decidi e agisci.” William Wetmore Story, Medea, 1865
Occorre a questo punto mettere a confronto gli esemplari a nostra disposizione, esaminarli a fondo in
modo
da
disegnare
un
piccolo
albero
genealogico e cercare di rispondere anzitutto alla domanda fondamentale che pone il dossier: come era fatto l’archetipo?
La
ricostruzione
delle
“genitore” marmoreo comparata elementi tratti
di
in
e
varianti,
riconducibili
sostanziale
l’attenzione
di
questo
passa attraverso la lettura
esemplari
comune
di
fisionomie
diversità
sull’individuazione
di
osservando
all’archetipo
e
concentrando quegli
elementi
stilistici presenti negli esemplari più datati e delle loro
modalità
somatico
di
che
si
trasmissione, trasmette
come
di
un
tratto
generazione
in
generazione nelle sue linee essenziali ma potendo
dettagli.
variare i suoi
In tal senso, l’archetipo è ricostruibile a partire dai sarcofagi
di
Berlino
e
Roma,
viste
le
loro
corrispondenze e la loro realizzazione in epoca più antica,
mentre
riconducibile a come
fanno
l’esemplare
di
Basilea
risulta
una variante dell’archetipo, pensare
stile
e
realizzazione
più
recente rispetto ai primi due “parenti”.
Come i componenti di una famiglia, le modifiche che caratterizzano le diverse generazioni possono essere
utili
profonde
segni
e
possono
ampie,
suggerire
concezioni
morte
rivelatori
della
così
di
trasformazioni
le
varianti
messaggi
società,
dei
diversi
esistenza
dell’
più
rilievi sulle
e
della
fino a configurarsi come una delle fonti più
rappresentative
dell’universo
figurativo
di
epoca
imperiale e della sua evoluzione fino al III sec. d.C. (si pensi al sarcofago di Palazzo Doria, a Roma, raffigurante
Endimione) e oltre.
Bibliografia essenziale:
- G. Koch, H. Sichtermann, Handbuch der Archäologie. Römische Sarkophage, Monaco, 1982. - T. Hölscher, L’Archeologia Classica. Un’introduzione. Roma, 2010.
NON
BASTA
BISOGNA TENETE
A
COSA CERCATE
LA
ACCENDERE ANCHE
MENTE VI
UN
FUOCO
ALIMENTARLO.
COSA
VI
TIENE
INCENDIA
IL
CUORE
VI
FARÃ&#x20AC;
SCINTILLA
CHE
GRAZIE PER AVER SCRITTO GRAZIE PER AVERCI LETTO
VIVI MUOVERE