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La luce che non fu
LUCA SARACHO, 4F
È passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che scrissi un articolo che trattava di politica americana, non è vero? Dall’ultima volta in cui ho tirato qualche frecciatina all’attuale Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, tantoché qualcuno tra i miei venticinque lettori si sarà potuto persino scordare della sua esistenza. E come biasimarvi? Tra una versione di latino di qua, una verifica di fisica di là, e poi ancora scienze, inglese, letteratura Italiana… ci saranno state sicuramente cose più importanti di cui preoccuparsi che seguire le vicissitudini politiche di un Paese così distante da noi da essere diviso da un intero Oceano. A questo si aggiunge il fatto che non siam più in periodo di campagne elettorali, quindi l’attenzione del mondo non è più centrata su chi occuperà la Casa Bianca. Ma se si dovesse addurre un’ulteriore motivazione al surreale silenzio mediatico che avvolge la situazione negli Stati Uniti, almeno qua in Italia, si potrebbe, e anzi si dovrebbe, da subito mettere in luce lo sfacciato doppio-pesismo di cui i mass media sono palesemente succubi. Quando al 1500 di Pennsylvania Avenue risiedeva quel razzista, omofobo, suprematista bianco, misogino di Donald Trump, la stampa era subito pronta a ritrarlo come il più rivoltante mostro presente su questo intero pianeta, all day long; adesso che invece il testimone è passato ad una di quelle venerabili personalità istituzionali che erano tanto mancate al sistema, note nella realtà dei fatti come “cadaveri in avanzato stato di decomposizione”, tutti devono mantenere il più religioso silenzio. Perché se si dovesse onestamente tratteggiare il ritratto dell’attuale inquilino dello Studio Ovale, non ne risulterebbe un quadro particolarmente positivo. Eppure, se c’è una cosa che Manzoni ci ha potuto insegnare, è che è necessario fronteggiare i più indecenti aspetti della nostra realtà per poter ambire ad un miglioramento. E potremmo solamente trarre insegnamenti dai nefasti risultati di un’elezione
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in cui non prevalse la bontà delle idee di un singolo, bensì la più completa denigrazione dell’individuo. Pare infatti che Joe Biden e tutti i democratici assieme a lui fossero così concentrati nel battere Trump in tutti i modi possibili che si siano dimenticati che oltre la vittoria su Orange Man Bad ci fosse una nazione da governare. Adesso che il demonio, contro cui si erano così veementemente scagliati durante gli scorsi quattro anni, non è più al potere, per il partito democratico non è più possibile attribuire le cause del fallimento delle loro promesse a qualcun altro all’infuori di se stessi. Qualche giorno fa, infatti, sulle pagine del New York Times, di tutte le testate giornalistiche, capitolava il titolo “Democrats Struggle to Energize Their Base as Frustrations Mount”, in cui si metteva in luce come sempre più elettori si sentissero disincentivati a ritornare alle urne ai prossimi midterms per supportare il partito dall’attuale Presidente, tantoché, nel medesimo articolo, è possibile addirittura leggere che “molti dei loro più fedeli sostenitori vedono inazione e promesse elettorali non mantenute”. Ciò si è tradotto in un drastico calo dei consensi in tutti i possibili sondaggi: a livello nazionale l’indice di gradimento di Joe Biden è adesso sotto di 8 punti percentuali ed alcuni sondaggisti lo ritengono tanto basso da arrivare persino al 39%; nell’aggregato dei medesimi Swing States che un anno fa gli avevano garantito l’accesso alla Casa Bianca, i Repubblicani deterrebbero uno strabiliante vantaggio di 23 punti, come riportato da un sondaggio condotto da ABC/Washington Post, mentre nei singoli stati i Repubblicani godrebbero di un vantaggio a doppie cifre sui propri avversari; sempre a doppie cifre sono stati inoltre i cali dei consensi nei diversi gruppi sociali di afroamericani, latinoamericani, donne e giovani. Tuttavia, il fallimento della politica di Biden si può evidenziare in questi altri dati provenienti da queste ultime due fonti: il 70% degli americani valutano lo stato dell’economia in modo negativo, con circa la metà della popolazione che attribuisce all’attuale Presidente la responsabilità del rapido aumento dell’inflazione, che ha toccato i massimi in trent’anni; il 66% degli statunitensi ritiene poi che Biden abbia fallito in uno delle sue più utopiche, a mio modo di vedere, promesse elettorali, ovvero quella di rendere il paese più unito e coeso e superare quell’accanita polarizzazione politica a cui tuttavia egli non sembra aver tentato di porre un freno; più di 6 americani su 10 ritengono che Biden non abbia ottenuto molto durante i suoi primi dieci mesi della sua presidenza; infine, quasi il 60% degli intervistati giudica negativamente lo stato mentale dell’attuale Commander in Chief. Osservando tutta questa sequela di dati che attestano il vertiginoso calo nella fiducia che il popolo americano affida al proprio Presidente, mi si potrebbe obbiettare che è da sempre un trend consolidato quello che vede i presidenti assistere ad un calo dei consensi dopo il proprio insediamento. Tuttavia, in questo caso, non stiamo parlando di un qualsiasi Presidente capitato in un qualsiasi momento storico: la disastrosa ritirata delle truppe americane dal territorio afghano da lui supervi-
sionata ha pochi precedenti nella storia del paese, con le immagini dell’evacuazione di Kabul per via aerea troppo simili alla caduta di Saigon, al termine della Guerra del Vietnam. Stiamo parlando di un Presidente che, al ritorno delle salme dei soldati caduti vittima dell’attentato talebano all’aeroporto di Kabul, ha controllato più e più volte il proprio orologio, come se onorare il decesso di giovani soldati morti proprio a causa della sua incompetenza fosse una totale perdita di tempo. Un Presidente che non aveva fatto altri titoli a livello internazionale se non quelli che riportavano di un delicato incidente, volendo far uso della più “profumata” espressione che può descrivere l’accaduto, davanti ai reali di Inghilterra; un Presidente che si è appisolato non in una, ma in ben due distinte occasioni, l’ultima della quali durante la recente Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici tenutasi qualche settimana fa in Scozia, nonostante egli avesse incentrato buona parte della sua retorica proprio sulla grande “attenzione” ai cambiamenti climatici; un Presidente, infine, che non è in grado di leggere da un banale teleprompter e che ha bisogno di essere assistito nella delicatissima scelta di decidere a quale dei giornalisti presenti dare la parola, nei rari casi in cui si concede lo sfizio di rispondere a qualche domanda dopo i suoi soporiferi discorsi. Lo stato in cui versa la presidenza è tale da aver fatto perdere al suo partito il governatorato della Virginia, nonostante lui stesso insieme ai più autorevoli Dems (Obama incluso) vi si fosse recato per supportare l’ex-governatore dello Stato, Terry McAuliffe. Il tutto mentre la credibilità del Paese a livello internazionale cala drasticamente. “Con Joe Biden alla Casa Bianca ritornerà la Vera America e le tenebre del passato verranno squarciate da una nuova luce” dicevano illusi. Eppure, dopo ormai dieci mesi dal suo insediamento, nessuno può sostenere di aver visto accendersi il più misero lumicino. Sarà che gli Stati Uniti si trovano già negli abissi di un oceano chiamato inflazione, oppure è perché il venerando sene non riesce a dormire sogni tranquilli con la luce accesa? Svegliarlo da questo suo perpetuo riposino non è compito nostro: la scelta la compirà il popolo americano il prossimo novembre. Nel mentre shhh, fate piano! Non vogliamo sicuramente che il signore faccia degli incubi, dico bene?