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QUELLO “GREEN” È UN DISCORSO ETICO
di Valeria Savoia
“Io non vi capisco, oggi siete tutti strani: comprate abiti usati, non usate nulla che sia confezionato in plastica, siete vegani, vegetariani e tutta quella roba lì. Quella roba lì. Tutti fissati con l’ambiente, neppure le cannucce usate più perché inquinano. Mi pare tanto una moda questa del green.”
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Quante volte vi è capitato di sentirne discorsi simili a questo? Forse troppe, specie se si considera che affermazioni del genere provengono da esponenti di tutte le età. Ecco, questo articolo vuole dimostrare come quello green, quello dell’ambientalismo, non sia affatto un discorso di moda, ma tutt’altro. Sì, perché l’attaccamento e le attenzioni nei confronti di Madre Natura, fortunatamente, ce li portiamo dietro da tempo. In ogni epoca, infatti, l’antropocentrismo si è scontrato con il suo opposto, l’eco centrismo, ossia quel modello di pensiero (quella filosofia) che riconosce la Natura come avente un valore intrinseco indipendente dall’uomo, vedendo questi come solo una delle tante creature della Terra - l’antropocentrismo (più “egoistico” appunto) suppone che tutto ciò che è nell’universo sia stato creato per l’uomo e per i suoi bisogni. No, è dunque opportuno sminuire l’ambientalismo definendolo come una moda od una fissazione, poiché esso ha radici molto più profonde: in termini filosofici, si può affermare che l’ecologia costituisca una vera e propria ontologia.1 Ecco, dunque, dove nasce l’ambientalismo: nella profonda convinzione che l’uomo non sia “staccato” dalla Natura, che non sia indipendente da essa bensì che in essa trovi il suo più profondo radicamento, che egli non sia che uno dei plurimi enti dell’essere Natura. Secondo questo pensiero, dunque, l’essere - la verità, il principio primo ed universale alla base di tutte le cose particolari - non si riconosce nel pensiero, ossia nella capacità razionale dell’essere umano (quella che tanti, in filosofia, hanno denominato come “anima”), bensì nella Natura che circonda l’uomo e che lo ha plasmato. A tal proposito, riporto di seguito una delle frasi forse più esplicative di questa scuola di pensiero: «L’uomo non fa che segare il ramo sul quale poggia. O se ne accorge quando è troppo tardi, oppure, se vede venire ciò che sta per avvenire, è però troppo prigioniero del presente per rinunciare al vantaggio dell’istante.» 2 Ecco cos’è che alimenta così tanto “gli hippie di oggi”, quello che li fa veramente arrabbiare, che li porta a chiedersi come gli altri non possano capire, come possano ignorare la realtà: la consapevolezza che, con il suo menefreghismo, oltre che distruggere se stesso, l’essere umano distrugge ciò che sta alla base della vita di ogni essere. Questa presa di coscienza, che ha trovato il modo di presentarsi in ogni epoca, si rende oggi maggiormente necessaria rispetto al tempo precedente in quanto quello che l’uomo ora è in grado di fare, sia nei confronti di se stesso che dell’ambiente esterno, non ha eguali nella storia. A rendersi conto di ciò è stato ad esempio un famoso filosofo tedesco contemporaneo (1903-1993) di origine ebraica, Hans Jonas, che vi ha fondato una parte fondamentale del proprio pensiero, espressa nella celebre opera “Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica”. Jonas sostiene infatti che, sebbene la Natura avrebbe diritto a priori alla nostra tutela – anche se un’autentica vita umana fosse possibile per le generazioni future in un ambiente naturale devastato – è necessario ricordare che i due aspetti uomo-natura non sono effettivamente separabili: l’interesse dell’uomo coincide con quello del resto del mondo in quanto sua dimora cosmica. Essendo da lei generati, siamo debitori verso la totalità della Natura. L’obiettivo di Jonas è dunque quello di creare un’etica realistica, di emergenza: il presente non può essere esonerato da un impegno reale sulla base della promessa di un futuro ideale in cui tutto si aggiusterà ed il bene giungerà a trionfare. È necessario agire. L’ambientalismo odierno si basa proprio su questo: è un approccio realista, un impegno concreto, un attivismo presente. Non si crede più all’utopia, non c’è più la vana speranza che le cose miglioreranno, al contrario vi è una forte presa di coscienza del fatto che, senza un nostro mettersi in prima linea, le cose non potranno che peggiorare. Si tratta di guardare in faccia la realtà, leggere i dati e decidere di cambiare non solo in quanto sensibili alla problematica, ma perché è necessario che tutti lo facciano, e che lo facciano ora. Con ciò non si intende condannare il progresso sognando un mondo che torni indietro nel tempo, una realtà utopica nella quale si possa ad oggi tornare a coesistere come i pellerossa di Toro Seduto, ma di cercare un equilibrio tra il
desiderio di sviluppo dell’uomo e la necessità di salva-
guardia del pianeta, in altre parole, uno sviluppo sostenibile.
1 Il termine deriva dal greco òntos («essere») e da lògos («discorso»), letteralmente «discorso sull’essere»: si tratta dello studio dell’essere in quanto tale, al di là delle sue determinazioni particolari, ossia gli enti. 2 N. Hartmann, Neue Wege der Ontologie, Kohlhammer, Stuttgart 1949; trad. it. a cura di G. Penati, Nuove vie dell’ontologia, Morcelliana, Brescia, 2017.

IDENTITÀ DIGITALE E PERSONALITÀ ONLINE: I PROFILI SOSTANZIALI DI TUTELA

dell’Avv. Simone Facchinetti
1. L’IDENTITÀ DIGITALE NEL PANORAMA NORMATIVO ITALIANO
L’odierno individuo è pervaso da una molteplicità di applicazioni tecnologiche e di impulsi digitali che lo obbligano a crearsi una rappresentazione digitale di sé, appunto definita “identità digitale” o “personalità online”, al fine di poter utilizzare al meglio le risorse che offre l’odierno mondo del web 2.0. Tale identificazione si discosta da quella tradizionalmente intesa e basata sull’apparenza dell’individuo e sui suoi comportamenti pubblici all’interno della comunità (identità personale). L’affermazione massiva dei nuovi social network, dei social media e, più in generale, di ogni odierno mezzo di comunicazione ha reso obsoleti gli strumenti e le modalità di comunicazione precedenti, di fatto, eliminando ogni sorta di barriera temporale e spaziale. Questo ultimo aspetto, senza che si possa fare alcuna obiezione di sorta, rappresenta la caratteristica di maggior forza, riconosciuta all’unisono, di detti strumenti informatici. Tuttavia, sebbene da un lato abbiano comportato delle modifiche significativamente migliorative al consueto modo di vivere e di socializzare degli individui, d’altro canto hanno indotto gli ordinamenti statali ad adeguare i propri modelli legislativi – ancorati ad un’antiquata concezione di identità individuale – affinché predisponessero un corollario di diritti in grado di tutelare i consociati all’interno degli spazi digitali che quotidianamente vivono. Il tradizionale diritto all’identità personale, inteso dall’ordinamento come quel bene o quel valore “costituito dalla proiezione sociale della personalità dell’individuo, alla quale si collega un interesse del soggetto a essere rappresentato, nella sua vita di relazione con gli altri consociati, con la sua vera identità, e a non veder travisato il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, religioso, professionale” (così Cass. civ., Sez. I, 07 febbraio 1996 n. 978, in Guida al diritto 2013, dossier 5, 62), è stato affiancato – ed a tratti addirittura soppiantato – dal neo introdotto diritto all’identità digitale. La rappresentazione di un individuo attraverso gli strumenti tipici della rete, che odiernamente viene spesso ad essere assimilata ed equiparata alla reale rappresentazione del soggetto stesso è formata dall’insieme di due presupposti: l’esistenza di un individuo fisico e l’attribuzione a tale soggetto di una molteplicità di codici elettronici (cd. attributi), che riescono ad identificarlo, servendosi di complessi sistemi informatici, semplicemente collegando detti attributi alla sua reale identità. Il Decreto SPID, uno dei primi a fornire una definizione in materia, ha classificato tale identità specificamente come “la rappresentazione informatica della corrispondenza biunivoca tra un utente e i suoi attributi identificativi, verificata attraverso l’insieme dei dati raccolti e registrati in forma digitale [...]” (art. 1, co. 1, lett. o), DPCM 24 ottobre 2014. Tuttavia, all’interno di ogni sito web, si accumulano quotidianamente una massa di informazioni accessibili in ogni momento dalla totalità degli utenti. La possibilità per ciascuno di essi di interagire con il network comporta l’opposta necessità per i singoli di vedersi riconosciuta e tutelata la propria identità digitale individuale che, attraverso la rete, corre il rischio di essere facilmente danneggiata. On-line, infatti, si possono trovare informazioni e dati relativi ad un individuo non necessariamente corrispondenti al vero, oppure, anche se veritieri, comunque distorsivi della percezione che si ha di quel soggetto. È molto importante tener presente questo assunto quando ci si interfaccia con il mondo del web, nonostante – sempre con più frequenza – si tenda a considerare l’identità digitale più rilevante rispetto all’identità. A tal riguardo, la legislazione italiana ed europea (in particolar modo, con riferimento al Regolamento UE 2016/679) ha previsto degli strumenti che consentano di evitare un eccesso di distanza tra le due identità: strumenti della rettifica, contestualizzazione, aggiornamento, can-
2. DIRITTO ALL’OBLIO
Il diritto all’ablio (art. 17, Reg. EU 679/2016) è stato definito quale interesse del soggetto alla non reiterata pubblicazione di notizie che lo riguardino, se non contestualizzate e aggiornate, finalizzato a salvaguardare il riserbo imposto dal tempo ad una notizia già resa di dominio pubblico nei riguardi di un determinato individuo. Tale interesse viene definito, altresì, come diritto a essere dimenticati, ovvero la legittima aspettativa di ogni individuo a veder cadere l’oblio su quanto commesso, di negativo, in passato. In altre parole, così come specificato dalla Corte di Cassazione, il right to be forgotten (RTBF) rappresenta il “giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata” (cfr. Cass. civ., Sez. III, 07/12/2005 n.26999, in Resp. civ. e prev. 2006, 7-8, 1289). Il diritto all’oblio è stato appositamente coniato, infatti, per poter consentire al soggetto interessato di ricostruire concretamente la propria personalità. Nel mondo digitale è di tutta evidenza rilevare però alcune criticità circa l’effettiva concretizzazione del diritto in discorso, sicché la notizia pubblicata in rete tende a restare memorizzata nella stessa, finendo per appiattirsi e non venire più aggiornata perché svanito l’interesse pubblico nei confronti della stessa, a totale discapito del soggetto citato all’interno della notizia online. Nella realtà delle aule giudiziarie è accaduto, per l’appunto, che ad alcuni soggetti venisse rigettata un’istanza di tutela del loro diritto all’oblio rispetto a delle informazioni caricate sul web che li riguardavano. Nello specifico, il caso interessava la vicenda di un ex terrorista, abbastanza noto per la partecipazione a numerosi fatti di cronaca accaduti nel corso degli Anni di piombo, che chiedeva la deindicizzazione (cd. delisting) di alcuni articoli online riportanti i gravi fatti di cronaca che lo avevano visto protagonista nel passato. Dopo aver espiato la pena, il soggetto, avendo concluso un percorso risocializzante e essendo riuscito a reinserirsi nella comunità cittadina, chiedeva che venisse eliminato il suggerimento della parola “terrorista” nel corso della ricerca in merito al suo nome nel “Search di Google”. A seguito del rifiuto espresso di Google all’eliminazione di tale dicitura, il soggetto interessato ha rimesso la questione al Garante italiano per la Privacy. Quest’ultimo, non discostandosi di fatto dalla decisione pervenuta dalla Silicon Valley, ha affermato che, nel caso di specie, seppur il soggetto non abbia più un ruolo pubblico, i fatti siano risalenti nel tempo e sia avvenuto il reinserimento sociale, la narrazione dei fatti storici e l’interesse alla ricerca storica da parte di tutti i consociati sia più rilevante rispetto al diritto all’oblio del singolo (provvedimento del Garante per la Protezione dei Dati Personali, n. 152 del 31 marzo 2016).
Alla luce di tutto ciò, è auspicabile che la piena tutela del diritto all’identità digitale e del connesso diritto all’oblio venga ulteriormente implementata, raggiungendo un’uniformità applicativa capace di apprestare adeguata protezione ai diritti di ogni fruitore della rete.

A sx: l’Avvocato Simone Facchinetti In basso: lo staff dello Studio Legale Facchinetti
