Voci - Numero 1 - Anno 7 - Amnesty International in Sicilia

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VOCI

Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI i fatti e le idee

LUGLIO 2021

NUMERO 1 - ANNO 7

SICUREZZA E DIRITTI UMANI

«Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità” Questo è oggi il motto per noi di Amnesty» (Peter Benenson)


VOCI VOCI - Rivista del

Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

COMITATO DI REDAZIONE Chiara Di Maria Responsabile Circoscrizione Sicilia Amnesty International Italia

IN QUESTO NUMERO Editoriale 3 di Chiara Di Maria

La lezione di Genova

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Diritti umani e sicurezza: un rapporto necessario

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La violenza della polizia bielorussa dopo le elezioni del 9 agosto 2020

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di Riccardo Noury

di Francesca Cesarotti

di Heather McGill

Le violenze della polizia croata sui migranti

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Colombia: manifestazioni represse nel sangue

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Stati Uniti: l’uso e l’abuso della forza della Polizia

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Cinema: Macelleria messicana

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Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione

di Giuseppe Provenza

Carmen Cera Direttrice del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

di Franco Mazzarella

Silvia Intravaia Responsabile grafica

COLLABORANO Giorgio Beretta, Daniela Brignone, Paola Caridi, Francesco Castracane, Vincenzo Ceruso, Mouhamed Cissé, Carmen Cera, (Coord. Am. Latina), (Coord. Europa), (Coord. Nord America e Isole Caraibiche), Marta D’Alia, Chiara Di Maria, Aristide Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli, Liliana Maniscalco, Giuseppe Provenza, Fulvio Vassallo Paleologo.

di Chiara Casotti e Lorenzo Moro

di Francesco Castracane

TUTTI I GIORNI www.amnestysicilia.it Amnesty Sicilia @Amnestysicilia @amnestysicilia /amnestysicilia /amnestysicilia @amnestysicilia

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EDITORIALE di Chiara Di Maria

Attivisti pro-immigrazione con le mani pitturate di bianco partecipano alle dimostrazioni anti-G8 a Genova il 19 Luglio 2001 / Photo by SEAN GALLUP/GETTY IMAGES

Dal 19 al 21 luglio 2001 Genova ospitò il Vertice del G8, un incontro tra i governi delle otto nazioni più industrializzate. In quei giorni, oltre 200.000 persone presero parte a iniziative “antiglobalizzazione”, in larga parte pacifiche, nelle strade del capoluogo della Liguria. Alcune proteste degenerarono in atti di violenza, che procurarono danni alle persone e alle cose: in quei giorni Genova divenne teatro di aggressioni indiscriminate da parte di agenti di polizia verso manifestanti pacifici e giornalisti. A 20 anni di distanza, il G8 di Genova resta una ferita aperta. Verrà ricordato, come commentò all’epoca Amnesty International, come “una violazione dei diritti umani di dimensioni mai viste nella recente storia europea”. Ebbene, nel nostro Paese, a 20 anni di distanza, si registrano ancora episodi violenti e brutali da parte delle forze di polizia che abusano dell’utilizzo della forza e delle armi sia nei confronti di civili per la strada che nelle carceri e ciò accade nonostante le numerose (e reiterate negli anni) richieste alle autorità italiane di sottoporre a revisione approfondita le disposizioni applicabili alle operazioni di ordine pubblico, compreso l’addestramento delle forze di polizia impiegate durante le manifestazioni e la disciplina sull’uso della forza e delle armi da fuoco. 3

Si tratta di una revisione necessaria per rendere le forze di polizia adeguatamente equipaggiate e addestrate per l’impiego di metodi non violenti prima di ricorrere, quando strettamente necessario, all’uso della forza e delle armi da fuoco. Le forze di polizia devono infatti rispettare norme riguardanti l’uso di tali metodi ed essere sottoposte a un rigoroso meccanismo di accertamento delle responsabilità, attraverso la previsione di elementi d’identificazione individuale durante le operazioni di ordine pubblico. Appare opportuno precisare infatti che le forze di polizia sono attori chiave nella protezione dei diritti umani in ogni Paese. Hanno, tra le proprie responsabilità, quella di ricevere denunce su abusi dei diritti umani, svolgere le indagini e garantire il corretto svolgimento delle manifestazioni, proteggendo chi vi partecipa da minacce e violenze. Più in generale, il lavoro della polizia consiste nella prevenzione del crimine, nel mantenimento dell’ordine pubblico e nella protezione della popolazione. Per svolgere tale lavoro e garantire la sicurezza, le forze di polizia possono legittimamente restringere i diritti delle persone; in determinate situazioni, possono fare uso della forza e delle armi. L’applicazione e il rispetto della legge richiedono infatti che una certa capacità coercitiva possa essere esercitata. LUGLIO 2021 N.1 / A.7 - Voci


Editoriale

La polizia è dunque depositaria di poteri importanti, che si ripercuotono enormemente sulla vita delle persone e che, se esercitati indebitamente, possono condurre a violazioni gravi dei diritti umani.

secondo le esigenze specifiche del caso concreto, e la possibilità di mirare e sparare al corpo di una persona è giustificabile solamente quando vi siano in gioco interessi di valore assoluto.

Per questo motivo, le norme internazionali stabiliscono limiti precisi all’uso di tali poteri e un lavoro della polizia orientato ai diritti umani si svolge necessariamente all’interno di questi limiti.

In tutti gli altri casi, quando non sia posto in pericolo un bene di primaria importanza, l’ufficiale di pubblica sicurezza dovrà soddisfare lo scopo intimidatorio o persuasivo tipico del proprio intervento, evitando che dall’uso della forza possano derivare conseguenze letali.

La polizia è autorizzata a usare la forza in determinate circostanze, come ad esempio per effettuare arresti o per legittima difesa. La legislazione italiana prevede che non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, faccia uso (ovvero ordini di far uso) delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi sia la necessità di respingere una violenza o vincere una resistenza ovvero di impedire determinati specifici delitti ex art. 53 c.p.. L’uso delle armi o di altri mezzi di coazione deve costituire però l’extrema ratio da limitare ai soli casi in cui non vi sia altro mezzo possibile; inoltre, l’utilizzo della forza deve rispettare i principi cardine di legalità, necessità, proporzionalità e gradualità dell’uso dei mezzi di coazione. Attraverso una lettura sistematica e costituzionalmente orientata del codice penale, la giurisprudenza nazionale e internazionale ha più volte chiarito che i principi di legalità, necessità, proporzionalità e gradualità dell’uso dei mezzi di coazione, sono applicabili alla norma di cui all’art. 53 del c.p., in quanto rappresentano un principio generale e comune a tutte le cause di giustificazione dalla responsabilità penale previsti nel codice penale. Gli ufficiali di polizia, dunque, devono graduare l’uso della forza e delle armi in modo proporzionale e

In conclusione, affinché il ruolo delle forze di polizia sia riconosciuto nella sua importanza e svolto nella piena fiducia di tutti, le forze di polizia devono tenere al centro della loro azione il rispetto dei diritti umani, la prevenzione degli abusi, il riconoscimento delle responsabilità e una complessiva trasparenza. Gli stati, quindi, devono vigilare sull’operato delle forze di polizia, assicurando che esse agiscano nel rispetto degli standard internazionali sui diritti umani. Essi sono infatti obbligati a prevenire violazioni dei diritti umani e ad assicurare indagini rapide e approfondite e procedimenti equi per l’accertamento delle responsabilità quando emergano denunce di violazioni. E se, dunque, da un lato gli stati sono chiamati a consentire alle forze di polizia di garantire un ambiente in cui chiunque possa sentirsi al sicuro e protetto, dall’altro lato la società civile ha il compito di incoraggiare il rispetto dei diritti umani da parte delle stesse forze di polizia.

Chiara Di Maria Responsabile Circoscrizione Sicilia di Amnesty International Italia

CODICI IDENTIFICATIVI SUBITO

https://www.amnesty.it/appelli/inserire-subito-i-codici-identificativi/

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Attualità

LA LEZIONE DI GENOVA di Riccardo Noury

G8 di Genova: dimostranti no-global per le strade di Genova prima degli scontri con le forze di polizia. 20 Luglio 2001 /Photo by ANTOINE SERRA/SYGMA/Sygma via Getty Images

Nel luglio 2001 Genova divenne teatro di aggressioni indiscriminate da parte di agenti di polizia verso manifestanti pacifici e giornalisti durante i cortei, di violenze ingiustificate nel corso del raid notturno alla scuola Diaz (usata come alloggio per i manifestanti e come centro stampa del Genoa Social Forum), e di arresti arbitrari e ulteriori maltrattamenti nella caserma militare di Bolzaneto, adibita a carcere provvisorio. Alla fine del Vertice, si contarono un manifestante morto, Carlo Giuliani, ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere, diverse centinaia di persone ferite e altrettante trattenute a lungo a Bolzaneto senza contatti col mondo esterno. Vennero subito alla luce prove di violazioni dei diritti umani da parte delle forze di polizia, con il coinvolgimento di personale medico, nei confronti di cittadini italiani e stranieri. Le prove si riferivano a maltrattamenti compiuti sia durante le manifestazioni che nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Tuttavia, come noto, le denunce relative all’uso eccessivo e arbitrario della forza e ai maltrattamenti e alle torture non hanno portato all’accertamento e alla punizione di tutti i colpevoli. Solo poche vittime hanno ottenuto un risarcimento in sede civile. La mancata previsione, negli anni successivi ai “fatti di Genova”, del reato specifico di tortura non è stata l’unica causa dell’assenza di sanzioni adeguate alla gravità dei fatti commessi. Infatti, decine di altri pubblici ufficiali ritenuti coinvolti nelle violenze non hanno potuto essere identificati 5

poiché il loro volto era coperto da caschi, fazzoletti o elmetti e sulle loro divise non erano presenti nomi o numeri identificativi. Per di più, nessuno dei pochi condannati è stato sospeso dal servizio. Al di là dell’esito insoddisfacente delle vicende giudiziarie, sono mancate le scuse e non c’è mai stata un’inchiesta indipendente, approfondita ed efficace sulla condotta delle forze di polizia nel luglio 2001. Ce n’è, dunque, per considerare quella inferta a Genova “una ferita non ancora rimarginata”. E ce n’è per pretendere che la legge sulla tortura sia ora applicata puntualmente e per chiedere che l’Italia si adegui alla maggior parte degli stati dell’Unione europea in cui sono in vigore norme sull’identificazione delle forze di polizia. Se così non andrà, saremo costretti a parlare di lezioni non apprese a 20 anni di distanza. Le tragiche giornate genovesi di due decenni fa demolirono un falso mito: che le violazioni dei diritti umani erano qualcosa che avveniva oltre i confini italiani, forse anche europei. Occorre vigilare affinché quel mito non venga restaurato.

Riccardo Noury Portavoce di Amnesty International Italia

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EDU e Formazione

DIRITTI UMANI E SICUREZZA: UN RAPPORTO NECESSARIO di Francesca Cesarotti

Ruby Bridges, a soli 6 anni, viene scortata fuori la Scuola Elementare “William Frantz” a New Orleans da agenti della U.S. Marshals. New Orleans, U.S.A. - November 1960 / Uncredited US-DOJ photographer

Quando mi si chiede di parlare del rapporto tra diritti umani e forze di polizia, che così tanto caratterizza il lavoro di noi attiviste e attivisti per i diritti umani, il mio pensiero torna subito indietro ad una delle immagini più iconiche di tutto il movimento per i diritti civili. Un’immagine forte, nonostante la giovanissima protagonista e l’apparente ordinarietà di quanto vi è ritratto: il tragitto verso la scuola di una bambina di sei anni. Lei è Ruby Bridges, ha 6 anni quella mattina del 14 novembre 1960 mentre si dirige verso la Scuola Elementare William Frantz a New Orleans, e quella mattina Ruby – lo dirà spesso nel corso degli anni non ha paura. Strano. Quella mattina infatti di ragioni per avere paura ce ne sarebbero molte. Il tragitto verso scuola è accompagnato da una folla nervosa, lì per protestare Voci - LUGLIO 2021 N.1 / A.7

contro l’idea che bambini e bambine come Ruby avrebbero imparato insieme ai bambini e alle bambine bianchi/e. Dai manifestanti, prima di correre a scuola per portare via i loro figli e figlie, piovono urla e oggetti di ogni tipo e c’è persino qualcuno che agita in direzione della bambina una bambola nera in una piccola bara. Un macabro regalo che tormenterà le notti di Ruby per parecchio tempo. Ma quella mattina no, la bambina non ha paura. Non conosce davvero il significato di ciò che sta accadendo – racconterà poi che pensava si trattasse della parata del Martedì Grasso – e di certo non immagina come proprio lei diventerà una figura centrale del movimento per i diritti civili, ma quel giorno c’è dell’altro: non è sola. C’è la sua mamma e c’è la sua insegnante, Barbara Henry, che non smetterà mai di fare lezione con lei anche quando saranno solo in due in aula. 6


EDU e Formazione

Ci sarà però anche un uomo che (con la superficialità di molti dei giornalisti che racconteranno questa storia negli anni) troverete quasi sempre nelle fotografie descritto come “Un uomo bianco che accompagna Ruby”. Quell’uomo è Charles Burks e quella mattina – assieme ai suoi colleghi William N. Darsey Sr., Jesse Grider, Jim Davis – non è la prima volta in cui affronta l’odio e il pericolo. Pilota durante la Seconda Guerra Mondiale, abbattuto nel 1944 e prigioniero di guerra in Germania; nel 1945 fugge e ritorna dietro alle linee americane. Dopo la guerra si unisce agli U.S. Marshals – un’agenzia federale statunitense, all’interno del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, che garantisce, tra le altre cose, l’integrità della Costituzione – dove diviene parte di un’unità operativa speciale addestrata per occuparsi dell’integrazione scolastica. Burks aveva preso parte a più di una dozzina di operazioni di integrazione scolastica, comprese le università del Mississippi, dell’Alabama e della Georgia. Ha sempre detto che stava semplicemente facendo il suo lavoro di proteggere coloro che ne avevano bisogno in quel momento. Nel caso di Ruby, la sua presenza fa decisamente la differenza, una presenza ordinaria che sa diventare straordinaria – come spesso accade nelle storie che raccontano i diritti umani – quando è necessario. Un esempio sicuramente importante, anche se l’imprescindibile necessità di un rapporto tra diritti umani e le istituzioni preposte alla sicurezza si afferma con forza ben prima degli eventi che abbiamo raccontato. Sin dal 1941 quando Roosevelt nel suo famoso Discorso delle quattro libertà parla della “Libertà dalla Paura” e inizia a far riferimento ai diritti come componente necessaria per la sicurezza e la sicurezza come lo spazio necessario dove applicare i diritti; e poi naturalmente dal 10 dicembre 1948 quando, nell’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti umani, si ribadisce con forza che Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona. Significativamente, vivere in sicurezza – nel senso di vivere esenti da pericolo o paura, sicuri e protetti – riceve poi un preciso riconoscimento e nel Preambolo del Patto internazionale sui diritti civili e politici in cui si afferma che L’ideale dell’essere umano libero, che goda delle libertà civili e politiche e della libertà dal timore e dalla miseria, può essere conseguito soltanto se vengono create condizioni che permettano a ognuno di godere dei propri diritti civili e politici, nonché dei propri diritti economici, sociali e culturali; e una di queste condizioni è un ambiente sano e sicuro dove ci sia “ordine”. È infatti difficile immaginare una società veramente sicura senza che i diritti stessi vengano

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messi al centro delle politiche di sicurezza, essendo quest’ultima – appunto – presupposto imprescindibile del godimento dei diritti umani. Se questo è sempre vero, a maggior ragione lo è nelle attuali società, sempre più complesse ed interconnesse. Ed è qui, tra le importanti presenze di gruppi vulnerabili e le spinte di noi attivisti e attiviste per il rispetto dei diritti, che “una buona attività di polizia […] dipende dall’instaurazione di un rapporto di fiducia e confidenza, costruito su una comunicazione regolare e una cooperazione pratica, tra la polizia e le minoranze. Tutte le parti ne beneficiano”. 1 Le forze di polizia sono dunque attori-chiave nella protezione dei diritti umani in ogni Paese. E questo anche in Italia, Paese che sin dal 2010 si è dotato di uno strumento operativo interforze per la prevenzione e il contrasto dei reati di matrice discriminatoria. Istituito nell’ambito del dipartimento della Pubblica Sicurezza, per volontà dell’allora capo della Polizia, Antonio Manganelli, per ottimizzare l’azione di Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri: l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD). Gli obiettivi dell’Osservatorio sono quelli di agevolare le denunce relative ai crimini d’odio, contrastando il fenomeno del c.d. under-reporting (la scarsità di denunce, spesso dovuta ad una mancanza di fiducia delle vittime vulnerabili nei confronti delle Istituzioni) e favorirne così l’emersione; attivare un efficace monitoraggio del fenomeno dei crimini d’odio, nonché formare e aggiornare costantemente gli operatori delle forze di polizia, per affrontare il fenomeno del c.d. under-recording (il mancato riconoscimento della componente discriminatoria del reato). E proprio sul tema della formazione, e in considerazione dell’importanza della mission e dell’operato, sin dal 2014 la Sezione Italiana di Amnesty International ha avviato una collaborazione con l’OSCAD tesa a supportarne la formazione degli operatori e delle operatrici (34.000 al 31 dicembre 2020) sul tema dei diritti umani e della discriminazione; convinti che, se anche i diritti umani esistono a prescindere dalle istituzioni e le strutture che gli Stati creano, ma in queste, e con esse, si realizzano pienamente e che, proprio come diceva Ruby, “c’è bisogno di sempre più Marshals” per sostenere e difendere le vittime nel nostro Paese. Francesca Cesarotti Resp. Educazione e Formazione ai Diritti Umani Amnesty International Italia

1  -  OSCE Office of the High Commissioner on National Minorities, Recommendations on Policing in Multi-Ethnic Societies (2006), p.3

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Europa

LA VIOLENZA DELLA POLIZIA BIELORUSSA DOPO LE ELEZIONI DEL 9 AGOSTO 2020 di Heather McGill

Le forze di sicurezza fanno la guardia mentre le persone continuano a protestare per le elezioni presidenziali marciando verso Piazza Stella nella capitale Minsk, Bielorussia, il 30 agosto 2020 / Photo by MARINA SEREBRYAKOVA/ANADOLU AGENCY via Getty Images

Il 9 agosto si sono svolte in Bielorussia le elezioni presidenziali che hanno portato alla rielezione di Alyaksandr Lukashenka per la sesta volta dal 1994. È stato affermato che avesse vinto con l’80% dei voti, ma era opinione diffusa che i risultati fossero stati falsificati e la gente è scesa in piazza in un numero senza precedenti per protestare, per lo più pacificamente. Sono emerse immagini scioccanti di manifestanti pacifici brutalmente aggrediti dalla polizia antisommossa, di granate stordenti sparate a breve distanza sulla folla pacifica, di volti macchiati di sangue e di corpi gravemente contusi di uomini e donne appena rilasciati dalla detenzione. La brutalità della reazione della polizia alle proteste ha galvanizzato molte più persone a prendere parte alle proteste. Molte persone intervistate da Amnesty International hanno parlato degli eventi come di un punto di svolta nelle loro vite quando si sono confrontati per la prima volta con il fatto innegabile che i diritti umani vengano regolarmente violati in Bielorussia.

e altre armi meno letali. Queste immagini danno una visione scioccante del modo con cui la polizia ha torturato e maltrattato i detenuti. In una registrazione fatta dai parenti in attesa fuori dalla stazione di polizia di Akrestina a Minsk, la notte del 13 agosto, si possono chiaramente sentire i suoni di percosse, urla e gemiti.

Vi sono centinaia di foto e video pubblicamente disponibili che mostrano violazioni dei diritti umani commesse dalla polizia per le strade della Bielorussia: immagini della brutale dispersione di raduni pacifici, di arresti violenti di individui, dell’uso di attrezzature di polizia tra cui manganelli, proiettili di gomma, granate stordenti, irritanti chimici, cannoni ad acqua

Dal 9 agosto 2020 più di 30.000 persone sono state arrestate per aver preso parte a manifestazioni pacifiche. Molte centinaia di persone hanno testimoniato di essere state torturate e diversi manifestanti sono morti, ma fino ad oggi nessun agente delle forze dell’ordine è stato perseguito per tortura e altri maltrattamenti.

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Prove di torture e maltrattamenti da parte della polizia registrate da parenti il 13 agosto 2020 a Minsk: https://www.youtube.com/watch?v=RWqlk6xdqgI

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Europa

Nessuno è al sicuro dalla brutalità della polizia in Bielorussia. Bambini, donne e pensionati sono stati tutti vittime. Piotr Kiryk aveva solo 16 anni quando è stato picchiato e arrestato da due agenti di polizia per essere stato in strada dopo una manifestazione a Minsk il 12 agosto 2020. Stava scendendo da un autobus con un amico verso mezzanotte quando due agenti di polizia mascherati li hanno avvicinati. Lui è scappato, ma quando uno di loro ha minacciato di sparare, si è fermato e lo hanno condotto verso un furgoncino blu. Fuori dal furgone lo hanno costretto a inginocchiarsi a terra e hanno iniziato a picchiarlo: “Ero seduto per terra, sono stato colpito più volte con un manganello su tutto il corpo: schiena, gambe e fianchi. Poi mi hanno spinto la faccia contro la fiancata del minivan e mi hanno perquisito. Hanno trovato il mio cellulare e mi hanno chiesto la password. Ho detto che l’avevo dimenticato. Dopodiché, mi hanno colpito con il manganello al braccio”. Piotr è stato poi costretto a salire sul furgone: la polizia lo ha afferrato per i suoi lunghi capelli e gli hanno legato le mani con fascette di plastica. “Ci chiamavano animali, bestiame, fanatici di Maydan... mi hanno puntato una torcia in faccia e ci hanno detto che eravamo tossicodipendenti e che avremmo avuto una lunga condanna. Nel furgone, mi hanno picchiato sulle natiche, sulle gambe e dietro con un bastone”. Quando è riuscito a dire alla polizia che aveva solo 16 anni, il pestaggio è divenuto meno grave, ma è continuato. È stato quindi messo su un furgone della polizia e portato alla stazione di polizia del distretto di Maskouski. È stato intervistato e poi ripreso da sua madre. Ha lasciato la stazione di polizia verso le 3.30 del mattino.

BYPOL, un gruppo formato da agenti di polizia bielorussi che hanno lasciato le forze dell’ordine in risposta alla repressione della protesta pacifica, ha pubblicato una registrazione nel gennaio 2021 presumibilmente con la voce di un alto funzionario del ministero degli Interni, Mikalai Karpenkau. Mikalai Karpenkau probabilmente stava parlando con i suoi subordinati della Direzione Centrale del Ministero per la Lotta alla Criminalità Organizzata e alla Corruzione (una delle forze d’élite della polizia), intorno al 30 ottobre 2020. La registrazione contiene numerose dichiarazioni che, se vere, equivalgono a ordini criminali di ricorrere alla forza illecita contro manifestanti pacifici, comprese, ad esempio,

Piotr Kiryk aveva solo 16 anni quando è stato picchiato e arrestato la prima volta da due agenti di polizia © Private archive

“Non funziona più così in questo paese. Ora non ci sono più diritti.” Yuliya Mitskevich, una femminista e membro del consiglio di coordinamento dell’opposizione, ha scontato una pena di 15 giorni nel centro di detenzione di Zhodzina nell’ottobre 2020 a causa delle sue attività politiche. Quando è stata arrestata e portata alla stazione di polizia del distretto di Kastrychnitski, nella capitale Minsk, ha ricordato agli agenti di polizia i suoi diritti costituzionali e il suo diritto a un avvocato e le è stato detto: “Non funziona più così in questo paese. Ora non ci sono più diritti”. Sembra che le parole dette a Yuliya Mitskevich non fossero solo il crudele scherzo di un singolo agente di polizia, ma facessero parte di un più ampio clima di impunità, dove l’uso della forza, la tortura e altri maltrattamenti sono condonati ai massimi livelli.

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Yuliya Mitskevich, femminista e membro del consiglio di coordinamento dell’opposizione, ha scontato una pena di 15 giorni nel centro di detenzione di Zhodzina nell’ottobre 2020 a causa delle sue attività politiche © Private archive

LUGLIO 2021 N.1 / A.7 - Voci


Europa

Migliaia di manifestanti ammassati nel centro di Minsk per chiedere le dimissioni del presidente bielorusso Alexander Lukashenko e contro la sua contestata rielezione. Minsk, Bielorussia, il 30 agosto 2020 / Photo by MARINA SEREBRYAKOVA/ANADOLU AGENCY via Getty Images

istruzioni di colpire i testicoli, lo stomaco e il viso dei manifestanti con proiettili di gomma, il che implica che la morte accidentale sarebbe accettabile. In modo agghiacciante, la voce nella registrazione afferma: “Tutti coloro che prendono parte alle proteste e bloccano le strade, sono persone superflue”. E prosegue dando istruzioni per disattendere gli standard internazionali sui diritti umani: “È arrivato un tempo diverso, un tempo di azione decisiva. Il tempo in cui eravamo un Paese che faceva parte della comunità internazionale e doveva rispettare una serie di standard internazionali è finito ed è iniziato un nuovo tempo”.

Morte dei manifestanti. Alla fine del 2020, l’uso della forza illegale e abusiva da parte delle forze dell’ordine aveva portato a diverse morti di manifestanti pacifici. Il primo è stato quello di Alyaksandr Taraikovsky, il 10 agosto 2020 a Minsk, in un comizio vicino alla stazione della metropolitana di Pushkinskaya. La polizia inizialmente ha affermato che era morto a causa di un ordigno improvvisato esploso nelle sue mani. Tuttavia, sono apparsi filmati della scena che hanno mostrato che era a mani vuote quando è stato colpito al petto dalle forze di sicurezza. La notte dell’11 agosto il camionista Henadz Shutau e il meccanico di motociclette Alyaksnadr Kardzyukou, grandi amici da lunga data, si sono recati al centro di Brest, una città nel sud-ovest della Bielorussia dove vivevano, per partecipare a una manifestazione di protesta. Dopo che la manifestazione è stata violentemente dispersa dalla polizia, i due uomini si sono diretti verso un vicino complesso residenziale Voci - LUGLIO 2021 N.1 / A.7

cercando di evitare di essere arrestati e si sono seduti su una panchina. Quello che seguì è stato parzialmente catturato da filmati a circuito chiuso (CCTV) ottenuti e pubblicati da Mediazona. «Убийство в Бресте. Что мы узнали из записи камеры видеонаблюдения», Mediazona, 21 settembre 2020, disponibile su http:// mediazona.by/article/2020/09/21/shutov-cctv Sebbene l’albero oscuri la panchina dalla vista della telecamera, il filmato mostra Shutau e Kardzyukou avvicinati da tre uomini, che in seguito sono stati ufficialmente confermati come agenti di polizia in borghese. Secondo la figlia di Shutau, Anastasiya Baranchuk, intervistata da Amnesty International, i residenti locali hanno sentito la conversazione tra i due uomini e gli agenti in borghese. Uno degli ufficiali ha chiesto loro per chi avessero votato e quando Shutau ha risposto: “Per Tsikhanouskaya”, gli è stato ordinato di inginocchiarsi e poi sdraiarsi. Non appena Shutau si è inginocchiato, uno dei tre agenti in borghese lo ha colpito alla fronte con una pistola e poi gli ha sparato alla nuca. Kardzyukou è riuscito a scappare nonostante fosse inseguito da uno degli ufficiali. Shutau è stato portato in un ospedale locale, poi trasferito in un ospedale militare a Minsk, dove è morto per le ferite il 19 agosto. La versione ufficiale afferma che gli agenti di polizia sono stati assaliti da “cittadini aggressivi” e che hanno agito per legittima difesa.

Impunità Le vittime di violazioni dei diritti umani in Bielorussia e coloro che le sostengono e contribuiscono a documentare le violazioni, affrontano un sistema che 10


Europa

non solo le ostacola, le scoraggia e le intimidisce, ma cerca anche di invalidare le denunce e le prove che le accompagnano. Il 17 agosto, Alyaksandr Lukashenka ha visitato lo stabilimento di trattori gommati di Minsk, dove numerosi lavoratori avevano scioperato per solidarietà con i manifestanti di strada. Nel suo discorso ai lavoratori, parlando delle denunce di tortura ad Akrestsina, ha affermato di aver “ordinato l’esame di ogni fatto”. Le autorità bielorusse hanno poi ammesso ufficialmente di aver ricevuto più di 900 denunce di abusi da parte delle forze dell’ordine durante le manifestazioni. Il media indipendente russo Mediazona ha riferito di aver visto i registri ufficiali del comitato investigativo della Bielorussia e, secondo questi, non meno di 1.373 persone erano state elencate come vittime di violenza della polizia in agosto e all’inizio di settembre 2020. Tuttavia, non risulta che sia stata aperta una sola indagine ufficiale sulle violazioni dei diritti umani da parte delle forze dell’ordine in Bielorussia. La famiglia di Shutau ha chiesto un’indagine completa sulla sua uccisione. Tuttavia, il 3 settembre, la commissione investigativa ha inviato loro una lettera in cui affermava che “non vi erano motivi sufficienti per avviare un’indagine penale ai sensi dell’articolo 139” (omicidio). Invece, le autorità hanno prontamente avviato un procedimento penale per presunta “resistenza a un agente di polizia che implicava violenza o minaccia di violenza” e hanno arrestato, come sospetto criminale, il suo amico Kardzyukou nelle prime ore del 14 agosto vicino al suo garage. Egli si trova adesso in un centro di detenzione preventiva a Minsk, accusato di tentato omicidio di un agente di polizia, un reato che comporta l’ergastolo. Allo stesso tempo, gli alti funzionari del paese e lo stesso Alyaksandr Lukashenka hanno attivamente negato e respinto qualsiasi accusa di violazione dei diritti umani da parte della polizia e di altre forze dell’ordine, e hanno attribuito la colpa ai manifestanti e alle stesse vittime di torture. Così, in un’intervista ai media del 9 settembre 2020, Alyaksandr Lukashenka ha dichiarato che coloro che sono finiti agli arresti sono stati principalmente criminali esperti, ubriaconi e tossicodipendenti, e ha aggiunto che non poteva incolpare la polizia per la sua dura risposta mentre “difendeva non solo il Paese, ma anche se stessa”. I sopravvissuti alla tortura che osano chiedere giustizia nonostante le minacce e le rappresaglie che devono affrontare, devono presentare la loro denuncia alla polizia o alla Commissione Investigativa (un’agenzia autonoma responsabile delle indagini su reati gravi e che riferisce direttamente al presidente) e assicurarsi 11

che sia accettata e registrata. Una denuncia formulata in modo lievemente “errato” può essere trattata come mera presentazione e non registrata come denuncia di reato; questo comporterà che nessuna azione venga intrapresa. Successivamente, la vittima deve far verificare le proprie lesioni dall’Office of CourtMedical Examination (servizio forense ufficiale), per il quale è richiesto un documento di riferimento della Commissione Investigativa. Almeno uno dei sopravvissuti alla tortura che ha parlato con Amnesty International ha confermato che i rappresentanti della Commissione Investigativa si sono rifiutati di fornire tali riferimenti sia a loro che a molti altri sopravvissuti e (falsamente) hanno affermato che prima dovevano esaminare le denunce. Ciò ha privato i denuncianti di prove cruciali in assenza delle quali avevano poche o nessuna possibilità di vedere la loro denuncia passare a un’indagine formale. Altri documenti medici che confermano le loro lesioni non hanno, se il caso, lo stesso peso legale ai fini di un’indagine ufficiale. Nel caso in cui venga assicurato un esame forense ufficiale delle lesioni, i risultati e le conclusioni pertinenti dell’Office of Court-Medical Examination non vengono generalmente condivisi con la vittima ma inviati direttamente al comitato investigativo. Tra i casi documentati da Amnesty International, a nessuna delle vittime è stato permesso di vedere i relativi rapporti forensi e non hanno avuto idea della loro accuratezza. Inoltre, il processo è lento. In alcuni casi, i rapporti forensi non raggiungono la Commissione Investigativa dopo oltre un mese dall’esame. Data la totale impunità degli autori di violazioni dei diritti umani all’interno della Bielorussia, Amnesty International ha invitato i governi, le organizzazioni internazionali e regionali ad utilizzare tutta la loro influenza per esercitare pressione sulle autorità bielorusse affinché pongano fine a questo attacco ai diritti umani, ma anche a fare un passo in più e mettere in atto un’azione consolidata per attivare o istituire meccanismi internazionali di indagine e perseguimento degli autori.

Heather McGill Ricercatrice del Segretariato Internazionale di Amnesty International per la Bielorussia

Per informazioni più dettagliate Belarus: “You are not human beings” State-sponsored impunity and unprecedented police violence against peaceful protesters, Amnesty International, AI Index: : EUR 49/3567/2021, January 2021: https://www.amnesty.org/en/documents/eur49/3567/2021/en/

Tutti i briefing prodotti nell’ambito della campagna di solidarietà con la Bielorussia di Amnesty International “Stand with Belarus”: https://www.amnesty.org/en/latest/campaigns/2021/01/stand-with-belarus/

LUGLIO 2021 N.1 / A.7 - Voci


Europa

LE VIOLENZE DELLA POLIZIA CROATA SUI MIGRANTI di Giuseppe Provenza

Hammad, 17 anni, dal Pakistan, con le labbra ferite e gonfie, ferite riportate da un manganello utilizzato dalla polizia croata, 9 novembre 2018 © Alessio Mamo [Foto tratta da: PUSHED TO THE EDGE violence and abuse against refugees and migrants along the balkans route - Index: EUR 05/9964/2019 - amnesty.org]

Le segnalazioni di violenze perpetrate dalla polizia croata al confine con la Bosnia Erzegovina nei confronti dei migranti, costituiscono ormai una lunga la serie. Secondo quanto è stato riferito da numerosi testimoni, gli episodi in cui la polizia di frontiera croata ha tenuto comportamenti vessatori ed umilianti nei confronti di migranti sono stati molteplici negli ultimi tempi e continuano a verificarsi. Alle persone, prima di essere respinte in Bosnia, sono stati tolti gli effetti personali e perfino vestiti e scarpe e, seminude e scalze, sono state costrette a camminare, a lungo, sulla neve. Fra queste palesi violazioni dei diritti umani, alcune hanno avuto particolare diffusione mediatica. Un grave episodio, su cui ha relazionato il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei migranti, González Morales, si è verificato il 26 maggio 2020. Voci - LUGLIO 2021 N.1 / A.7

16 migranti, di origini pakistane ed afgane, sono stati fermati da uomini in uniforme nera e passamontagna che hanno dichiarato di far parte della polizia croata. Dopo averli legati, hanno quindi iniziato a bastonarli e ad infliggere loro scariche elettriche. L’umiliazione nei confronti dei migranti ha raggiunto il culmine quando sulle loro teste sono stati cosparsi ketchup, maionese e zucchero a loro stessi sequestrati. Sono stati quindi fatti salire su un furgone, portati al confine con la Bosnia e costretti a riattraversarlo sotto la minaccia delle armi e con la promessa che sarebbero stati uccisi se avessero riprovato ad entrare in Croazia. Un altro episodio è stato messo in luce e pubblicato dal Consiglio Danese per i Rifugiati (DRC). Il 15 febbraio 2021 quattro persone afgane, fra cui due bambini, sono state fermate alla frontiera da un 12


Europa

agente a cui hanno fatto presente che intendevano fare richiesta d’asilo. L’agente avrebbe però iniziato a perquisire la donna, che, secondo il suo racconto, si è ribellata: “Ho ripetuto che non doveva toccarmi. Lui mi ha chiesto perché. Gli ho detto perché sono una donna e una musulmana ed è haram [ndt. “proibito”]. L’ufficiale mi ha dato uno schiaffo e mi ha detto: Se sei una musulmana perché sei venuta in Croazia, perché non sei rimasta in Bosnia con i musulmani?”, tuttavia, continua il racconto della donna, “Ha continuato a toccarmi il seno e dietro ed ho pianto tanto. Mi ha detto di smettere di piangere mentre gesticolava che mi avrebbe strangolato se avessi continuato. Avevo paura, ma ho smesso di piangere.” Il racconto della donna continua con l’aggressione sessuale dell’agente che avrebbe colpito anche gli altri del gruppo su viso, testa e gambe. Poi lui e gli altri agenti avrebbero ordinato loro di incamminarsi verso la Bosnia. Le aggressioni sessuali, tuttavia, sarebbero tutt’altro che casi isolati. Il Border Violence Monitoring Network ha dichiarato che dozzine di donne e ragazze hanno riferito di essere state “perquisite ovunque” da agenti della polizia croata maschi. In seguito a tali accuse mosse da varie organizzazioni al governo croato e alla richiesta di indagini imparziali ed approfondite, finora la risposta è stata: “dopo essersi feriti accidentalmente o in scontri fisici fra loro, i migranti dicono sempre che a colpirli è stata la polizia del paese in cui desiderano entrare”.

Peraltro, malgrado le sollecitazioni provenienti anche dal Parlamento Europeo, finora la Commissione Europea non è intervenuta nei confronti del governo croato. I gravi episodi di violenza nei confronti dei migranti da parte della polizia croata sono stati severamente criticati da Amnesty International per bocca del vice direttore dell’ufficio per l’Europa Massimo Moratti, che, sollecitando l’Unione Europea ad intervenire, ha dichiarato: “L’Unione europea non può più restare in silenzio e ignorare deliberatamente la violenza e gli abusi da parte della polizia croata alle sue frontiere esterne. Questo silenzio sta permettendo ai responsabili di queste violazioni di proseguire senza conseguenze, addirittura è un incentivo. La Commissione europea deve svolgere indagini sulle recenti notizie di terribili violenze della polizia contro i migranti e i richiedenti asilo.” L’auspicio è che, finalmente, nell’Unione Europea si riesca a razionalizzare l’accoglienza dei migranti e che, di conseguenza, da parte di nessuno, in ogni luogo e in ogni circostanza venga mai meno il rispetto dovuto alla dignità di ogni essere umano.

Giuseppe Provenza Membro del Gruppo Amnesty Italia 233

Continua la lotta per la sopravvivenza dei rifugiati a Bihac, bloccati vicino alle tende dopo che il loro campo “Lipa” era stato bruciato. Bihac, Bosnia-Erzegovina, 02 gennaio 2021 / Photo by AMAR MEHIC/ANADOLU AGENCY via Getty Images

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America Latina

COLOMBIA: MANIFESTAZIONI REPRESSE NEL SANGUE di Franco Mazzarella

Manifestanti si scontrano con la polizia antisommossa durante le proteste contro un progetto di riforma fiscale lanciato dal presidente colombiano Iván Duque, a Bogotà. 29 aprile 2021 - Foto: AFP / JUAN BARRETO

Il 28 aprile in Colombia la gente è scesa in strada per protestare contro la legge di riforma tributaria proposta dal governo del presidente Iván Duque Márquez che danneggerebbe pesantemente il ceto medio. Le manifestazioni, organizzate dal Comité Nacional de Paro (CNP) sono state subito osteggiate dal tribunale della capitale che ne ha chiesto il rinvio per motivi sanitari dovuti alla pandemia da Covid 19. Nonostante il divieto, sono scese in piazza oltre 5 milioni di persone in oltre 600 municipi secondo la Central Unitaria de Trabajadores (CUT). Sebbene le manifestazioni siano state per lo più pacifiche, la reazione del governo non si è fatta attendere. Prendendo a pretesto alcuni atti vandalici accaduti durante le proteste, il governo ha schierato l’esercito e il 1° maggio il presidente Iván Duque ha dichiarato che con la sua decisione voleva lanciare un preciso avvertimento a ”coloro che, mediante violenza e atti di vandalismo e terrorismo, cercano di mettere paura alla società”. In particolare, per reprimere le manifestazioni, il governo ha fatto ricorso al Escuadrón Móvil Antidisturbios (ESMAD), una speciale squadra antisommossa che si è sempre distinta per i suoi metodi brutali. Voci - LUGLIO 2021 N.1 / A.7

Poliziotti antisommossa si scontrano con i manifestanti a Medellín. Aprile 2021 - Foto: AFP / JOAQUIN SARMIENTO

Secondo Amnesty International, che ha raccolto testimonianze e visionato video convalidati da un team di esperti, c’è stato un uso eccessivo della forza da parte di militari, polizia ed ESMAD nel reprimere le manifestazioni. In diversi casi le forze di sicurezza hanno fatto uso di armi letali e fatto ricorso indiscriminato ad armi non letali come gas lacrimogeni e cannoni ad acqua. Le forze di sicurezza hanno tenuto sotto tiro i manifestanti con armi semi-automatiche il 2 maggio a Popayán e il 1° maggio a Bogotá hanno sparato proiettili veri da un blindato. Il 30 aprile a Cali 14


America Latina

La folla protesta contro la riforma fiscale a Bogotà, 29 aprile 2021 - Foto: AFP / RAÚL ARBOLEDA

Polizia antisomossa cerca di disperdere i manifestanti durante le proteste. Cali, aprile 2021 - Foto: EFE / ERNESTO GUZMÁN JR.

la polizia ha fatto uso di fucili Galin Tavorn. Proprio in questa città la repressione si è scatenata contro la comunità indigena e afro-discendente appartenente al Consejo Regional Indígena del Cauca (CRIC). In base ai dati raccolti dalle ONG Temblores e Indepaz, riportati in un documento di Amnesty International, il bilancio degli scontri avvenuti tra il 28 aprile e il 9 maggio è stato pesantissimo: 47 morti (di cui 35 nella sola città di Cali) 1786 atti di violenza da parte delle forze dell’ordine 963 arresti 28 casi di danni agli occhi a causa dei lacrimogeni 12 casi di violenza sessuale

Un manifestante ferito dalla polizia vaga fra gli scontri. Cali, aprile 2021 - Foto: EFE / ERNESTO GUZMÁN JR.

Fin dall’inizio degli scontri Amnesty International ha rivolto un appello al presidente Iván Duque condannando l’uso eccessivo della forza da parte delle autorità e chiedendo che venga rispettato il diritto di manifestazione pacifica. Un altro appello è stato rivolto al Segretario di stato Blinken affichè gli USA cessino la fornitura al governo colombiano di armi utilizzate per reprimere le manifestazioni, come piccoli fucili a pompa e relative munizioni, lanciagranate ad alta capacità e manuali, apparecchiature denominate “meno” letali come gas lacrimogeni, nonché veicoli blindati e tecnologie di sorveglianza.

Franco Mazzarella Coord. America Latina di Amnesty International Italia

Sono stati denunciati, inoltre, 168 casi di desaparecidos 15

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America del Nord

STATI UNITI: L’USO E L’ABUSO DELLA FORZA DELLA POLIZIA di Chiara Casotti e Lorenzo Moro

Murale in memoria di George Floyd, assassinato da un ufficiale di polizia negli Stati Uniti. Mauerpark, Berlino, 30 maggio 2020 - Foto di Leonhard Lenz

L’omicidio di George Floyd, avvenuto il 25 maggio 2020 nella città di Minneapolis, in Minnesota, ha squarciato il velo su un problema che nel tempo si è incancrenito nella società statunitense, il problema del razzismo in concomitanza all’uso eccessivo della forza da parte della polizia locale e federale. George Floyd è diventato, suo malgrado, un simbolo, che ha spinto migliaia di persone a scendere in strada per manifestare e cercare di mettere la parola fine a questo odioso fenomeno. E i fatti di Minneapolis sono solo la punta dell’iceberg di questo fenomeno. Infatti, nei dati raccolti da ricerche di settore e investigazioni giornalistiche, si nota come, se da un lato ci sia una stretta correlazione tra i concetti di ordine pubblico e razzismo, dall’altro il fenomeno della violenza utilizzata dalla polizia sia ad ampio raggio e colpisca tutti i cittadini statunitensi. Le vittime di violenze della polizia, in molti casi, non sono “criminali pericolosi”, ma persone che muoiono tra le mani degli agenti per motivi futili, come persone che potrebbero essere incriminate lecitamente per reati minori e fermate senza la necessità di utilizzare la forza. Bisogna innanzitutto precisare che le forze dell’ordine statunitensi, sia locali che federali, hanno ampio margine di utilizzo della forza verso tutti i cittadini, Voci - LUGLIO 2021 N.1 / A.7

50 Stati non rispettano gli standard internazionali sulla forza letale da parte della polizia / infografica tratta da: Deadly Force Conversation Toolkit - Amnesty International USA

22 Stati consentono agli agenti delle forze dell’ordine di uccidere qualcuno che cerca di fuggire da una prigione o un carcere, indipendentemente dal fatto che rappresentino o meno una minaccia / infografica tratta da: Deadly Force Conversation Toolkit - Amnesty International USA

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America del Nord

in situazioni anche non ritenute “pericolose”. C’è ad esempio un abuso dell’utilizzo del taser durante controlli stradali, come si abusa dell’uso di proiettili di gomma, lacrimogeni e altri strumenti di coercizione durante manifestazioni pacifiche. Questo utilizzo eccessivo della forza è spesso velato dalla consapevolezza di agire nella totale impunità delle proprie azioni da parte degli agenti di polizia.

Una ricerca della Reuters ha analizzato 529 cause presenti nei tribunali federali dal 2005 al 2019, riguardati casi in cui agenti di polizia hanno sollevato come difesa il principio di immunità qualificata per il loro uso eccessivo della forza, e i dati raccolti hanno mostrato che per un poliziotto era 3,5 volte più probabile vincere una causa civile rispetto a un semplice cittadino.

Il caso Floyd e le manifestazioni di strada del 2020 hanno nuovamente portato l’attenzione su un dibattito più ampio riguardo all’ordinamento statunitense e riferito alla cosidetta “qualified immunity”, cioè la disposizione giuridica che offre una speciale protezione ai pubblici ufficiali nei casi di violenza delle forze dell’ordine ai danni dei cittadini.

A cio’ si deve aggiungere, da un lato, che negli Stati Uniti le legislazioni a tutela di queste tematiche sono carenti, sia nei singoli Stati sia a livello federale. (per i dati vedi scheda a fine articolo). Dall’altro, il periodo politico appena passato ha accentuato questi fenomeni di violenza delle forze dell’ordine, in una visione sempre piu’ militarizzata del concetto di “sicurezza nazionale”.

Nel 1871 col Civil Rights Act (conosciuto come Ku Klux Klan Act) il Congresso ha dato agli americani il diritto di citare in giudizio funzionari pubblici che violano i loro diritti, ad esempio attraverso un uso illegittimo della forza. Ma nel 1967 la Corte Suprema ha creato la teoria giuridica dell’immunità qualificata, inserendo il concetto di buona fede al comportamento delle forze dell’ordine che compiono atti in violazione di diritti fondamentali. Inoltre la Corte ha deciso che sarebbe spettato alla vittima l’onere della prova.

Bisogna fare riferimento, in particolare, agli ultimi 4-5 anni appena trascorsi: di fatto, da quanto Donald Trump si è candidato e successivamente è diventato presidente degli Stati Uniti per un mandato. L’attuale ex presidente si è distinto, durante tutto il mandato (e ancor oggi, con la sua ultima dichiarazione del 2627 giugno, riferita alla possibile caduta di Biden nel prossimo agosto, che ha allertato la National Security Guard...) per una serie di affermazioni irresponsabili,

Manifestazione per chiedere giustizia per Trayvon Martin in Freedom Plaza, sabato 24 marzo 2012, a Washington D.C., USA - AP/Haraz N. Ghanbari Trayvon Martin, un ragazzo nero di 17 anni viene ucciso da George Zimmermann, 29 anni, vigilante volontario delle ronde di quartiere a Sanford in Florida, il 26 febbraio 2012. Nonostante Zimmerman abbia subito ammesso di aver sparato al diciassettenne afroamericano, la corte lo ha dichiarato non colpevole perché ha sparato per legittima difesa. Il caso ha suscitato molte proteste e ha toccato questioni che riguardano i pregiudizi razziali, il funzionamento della giustizia e le leggi sulla legittima difesa (in particolare quella basata sul principio del cosidetto Stand Your Ground law, che permette di sparare anche se ci si sente soltanto minacciati) e in generale sull’uso delle armi negli Stati Uniti.

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LUGLIO 2021 N.1 / A.7 - Voci


America del Nord

ammiccanti al suprematismo bianco e all’uso della forza militare verso i disordini e le manifestazioni di protesta. Lo sdoganamento di questi concetti, mette in capo a Trump una enorme responsabilità in questa situazione di violenza delle forze dell’ordine contro i manifestati e le minoranze. Dal 26 maggio al 5 giugno 2020 Amnesty International ha monitorato quello che accadeva nelle piazze statunitensi, ha verificato filmati e raccolto testimonianze e ha così constatato numerosi casi di violazioni di diritti umani da parte delle forze dell’ordine: in 40 Stati, ovvero l’ 80% del territorio statunitense, ha registrato violazioni dei diritti umani legate all’uso della forza illegittima da parte della polizia: uso di granate, proiettili di gomma, e altri strumenti che denotato chiaramente un processo di militarizzazione e non semplicemente di attivita’ cosiddetta “di polizia”. A ciò si somma il problema culturale e storico della profilazione razziale, definibile come «ogni azione di polizia che si basi sulla razza, l’etnia o l’origine nazionale di un individuo, piuttosto che sul suo comportamento oppure su informazioni che portino a identificarlo come coinvolto in attività criminali». è l’attitudine, ad esempio, di ritenere che un bianco con le mani in tasca abbia freddo, mentre un nero con le mani in tasca debba nascondere un coltello; si percepisce dunque sempre il nero come una minaccia. I dati statistici mostrano che c’è un razzismo istituzionale, che attraverso il periodo-Trump è stato spinto ai più alti livelli delle istituzioni statunitensi, in violazione della stessa carta costituzionale su cui si fondano i diritti di questa nazione. I numeri parlano chiaro (qui solo due esempi tra tanti): Sebbene metà delle persone colpite e uccise dalla polizia siano bianche, gli americani neri vengono colpiti a un ritmo sproporzionato. Rappresentano meno del 13 percento della popolazione degli Stati Uniti, ma vengono uccisi dalla polizia con una percentuale doppia rispetto agli americani bianchi. Uno studio di massa pubblicato nel maggio 2020 su 95 milioni di fermate del traffico da 56 agenzie di polizia tra il 2011 e il 2018 ha scoperto che mentre le persone di colore avevano molte più probabilità di essere fermate rispetto ai bianchi, la disparità diminuisce di notte, quando la polizia è meno in grado di distinguere il pilota. La morte di George Floyd, come quella di altre vittime di questo sistema di violenza istituzionalizzato, è il risultato di una esecuzione extragiudiziale, ovvero di Voci - LUGLIO 2021 N.1 / A.7

0 Stati includono meccanismi di responsabilità nelle loro leggi sulla forza letale / infografica tratta da: Deadly Force Conversation Toolkit - Amnesty International USA

GLI AFROAMERICANI SONO COLPITI IN MODO SPROPORZIONATO DALLA POLIZIA Gli afroamericani rappresentano il 13,2% della popolazione degli Stati Uniti... ma rappresentano il 27,6% delle morti totali per mano della polizia / infografica tratta da: Deadly Force Conversation Toolkit - Amnesty International USA

un’uccisione di un uomo disarmato (dunque non è legittima difesa) da parte di un pubblico ufficiale e non di una situazione sfuggita di mano, ma un’azione consapevole delle conseguenze (omicidio di primo grado). I fatti documentati con video e testimonianze dimostrano anche che l’uso eccessivo della forza è in violazione delle norme internazionali, che troppo spesso gli Stati Uniti sono soliti “ignorare” colpevolmente. Gli organi federali non sono disponibili ancora a intervenire, ma alcuni a livello locale si stanno muovendo (vedi Minneapolis); tuttavia le norme sono insufficienti, troppo permissive e senza il parametro di proporzionalità che necessiterebbe un sistema di giustizia solido. Si auspica che il dibattito interno al paese si muova anche nella direzione, a prescindere dal tanto discusso “defund-the-police”, dell’inserimento dei codici identificativi degli agenti di polizia.

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America del Nord

STATI UNITI E USO DELLA FORZA DA PARTE DELLA POLIZIA 9 STATI E WASHINGTON-DC attualmente non

hanno leggi sull’uso della forza letale da parte delle forze dell’ordine.

9 STATI consentono l’uso della forza letale per reprimere una rivolta.

13 STATI hanno leggi sull’uso della forza

letale da parte delle forze dell’ordine, che non rispettano nemmeno il livello inferiore delle norme stabilite dalla legge costituzionale.

22 STATI consentono agli agenti delle forze

dell’ordine di uccidere chi cerca di fuggire dai centri di detenzione.

20 STATI consentono ai cittadini privati ​​di

usare la forza letale se svolgono attività di contrasto al crimine.

42 STATI non richiedono un avvertimento prima di usare una forza letale.

TUTTI E 50 GLI STATI e Washington-DC non

rispettano le leggi e le norme internazionali che regolano l’uso della forza letale delle forze dell’ordine.

0 STATI richiedono l’uso della forza letale come ultima risorsa, anche se quello è lo standard internazionale.

0 STATI limitano l’uso della forza letale a

situazioni di imminente minaccia alla vita o lesioni gravi all’ufficiale o ad altri, come richiesto dalle norme internazionali.

0 STATUTI sull’ “uso della forza letale”

includono meccanismi di responsabilità, quali ad esempio il requisito di segnalazione obbligatoria per l’uso della forza e delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine.

GLI STATI UNITI NON SONO RIUSCITI A RISPETTARE E PROTEGGERE IL DIRITTO ALLA VITA, non garantendo la conformità della legislazione nazionale al diritto internazionale e ai diritti umani, nonche’ norme sull’uso della forza letale da parte delle forze dell’ordine.

GLI STATI UNITI HANNO RATIFICATO IL PATTO INTERNAZIONALE SUI DIRITTI CIVILI E POLITICI E LA CONVENZIONE INTERNAZIONALE SULL’ELIMINAZIONE DI TUTTE LE FORME DI DISCRIMINAZIONE RAZZIALE E PERTANTO HANNO L’OBBLIGO DI RISPETTARE E PROTEGGERE QUESTI DIRITTI. NESSUNO STATO ATTUALMENTE È CONFORME AGLI STANDARD STABILITI DA QUESTE CONVENZIONI.

Chiara Casotti e Lorenzo Moro Coord. Nord America e Isole Caraibiche di Amnesty International Italia

IN EVIDENZA

DEADLY FORCE CONVERSATION TOOLKIT - Amnesty International USA https://www.amnestyusa.org/pdfs/DeadlyForceConversationToolkit.pdf

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LUGLIO 2021 N.1 / A.7 - Voci


Cinema

MACELLERIA MESSICANA

Viaggio nella rappresentazione delle forze dell’ordine attraverso l’immaginario filmico. di Francesco Castracane

Il capro espiatorio è un film del 1921, diretto da Buster Keaton e Malcolm St. Clair - YouTube

Fin dall’inizio della storia del cinema le forze di polizia sono presenti, generalmente come figure che rappresentano l’ordine costituito e lo difendono. Nei film comici muti, sia di Charlie Chaplin come di Buster Keaton, la figura del poliziotto, è una maschera che sovrasta sempre in altezza i protagonisti. Per il pubblico dell’epoca questa rappresentazione ha un evidente significato simbolico. Il poliziotto è più forte e alto di te e non puoi fare altro che scappare. La necessità dell’inseguimento aiutava il pubblico a tifare per l’inseguito senza che questo avesse delle conseguenze immediate sullo spettatore. E quasi sempre l’inseguito riusciva a sfangarsela. Un film del 1922 (Cops – poliziotti) con Buster Keaton protagonista, altro non è che sostanzialmente un lungo inseguimento da parte di un gruppo di poliziotti, che considerano Keaton colpevole di avere messo una bomba. Voci - LUGLIO 2021 N.1 / A.7

Tra il 1912 e il 1917, Mark Sennett, realizzò il ciclo dei poliziotti imbranati e incapaci di contrastare il crimine, i Keystone Cops, che ebbero un grande successo nel pubblico dell’epoca. Anche qui, è solamente attraverso la commedia che è possibile rappresentare una polizia incapace. Nel 1952, il compito di raccontare la solitudine della lotta al crimine è affidato ad un western: “Mezzogiorno di Fuoco” (“High Noon”, regia di Fred Zinnemann, USA), dove uno sceriffo da solo deve affrontare un gruppo di criminali poiché i suoi aiutanti e tutti i cittadini si sono dileguati. Lo sceriffo è rappresentato non come un eroe senza paura, ma come una persona che cerca di svolgere il suo dovere. Le riprese indugiano sul sudore del volto, provocato non solo dal caldo, ma anche dalla paura. Lo sceriffo viene mostrato in tutta la sua solitudine.

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Cinema

In questa scena di “Mezzogiorno di fuoco” (“High Noon”, regia di Fred Zinnemann, 1952, USA) lo sceriffo Kane comprende definitivamente che dovrà affrontare da solo i banditi che stanno per arrivare - YouTube

In Italia il tema del comportamento delle forze dell’ordine è stato poco affrontato, se non con delle eccezioni: il primo film che si ricorda in tal senso è, ovviamente: “Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto” (1970) di Elio Petri. Un dirigente di Pubblica Sicurezza, del quale non viene mai fatto il nome, nel giorno della sua promozione, uccide la propria amante. Per quanto lasci deliberatamente tracce e prove, il sistema del quale fa parte, lo protegge. Il film, accompagnato da una importante colonna sonora composta da Ennio Morricone e dalla interpretazione magistrale di Gian Maria Volontè, rischiò il sequestro, ma fu l’ottavo film per incassi in quella stagione cinematografica. La ragione di tale successo forse è spiegata in una dichiarazione di Ugo Pirro, sceneggiatore assieme ad Elio Petri: «L’affluenza del pubblico nelle sale era enorme e in alcuni casi fu necessario interrompere la circolazione dei veicoli, data la lunghezza delle file alle biglietterie. La gente si accalcava perché non credeva ai propri occhi.» Forse per la prima volta nel cinema italiano veniva affrontato il tema degli abusi di potere da parte della polizia. “Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto” (1970) di Elio Petri

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LUGLIO 2021 N.1 / A.7 - Voci


Cinema

Nel Luglio 2021 cade il ventesimo anniversario del G8 di Genova, dove chi scrive era presente. In tale occasione Amnesty International ebbe a dichiarare di trovarsi di fronte a «La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale.» In effetti ci si trovò di fronte ad un inspiegabile comportamento delle forze di polizia, che non sembravano essere quelle di un paese democratico. Sembra che su tali fatti esista una sorta di rimozione collettiva da parte del mondo della cultura e del cinema. A venti anni dagli avvenimenti solo un film a soggetto ha tentato di descrivere i fatti della Diaz. Ci sono stati alcuni documentari realizzati a caldo, ma poi nulla. A distanza di venti anni, quei fatti sembrano essere avvenuti in una realtà parallela. Io stesso, per venti anni ho rimosso questa mia esperienza e scrivere questo articolo costa molta fatica, soprattutto perché mi sono rimasti ricordi confusi e frastagliati, se non il ricordo costante dell’odore dei lacrimogeni e delle macchine bruciate. A tal riguardo va ricordata la dichiarazione dell’allora vice questore Michelangelo Fournier il quale parlò di “Macelleria Messicana”. Ho cercato di capire da dove arrivasse quel termine, e pare che sia stato utilizzato da Ferruccio Parri, uno dei dirigenti della resistenza milanese, quando vide i corpi appesi di Benito Mussolini e Claretta Petacci in piazzale Loreto a Milano. Ma forse faceva invece riferimento ai fatti avvenuti nel 1968 proprio in Messico. È il 2 ottobre 1968, dieci giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi e gli studenti messicani si riuniscono in piazza delle Tre Culture a Tlatelolco, un quartiere di Città del Messico. A Tlalelolco, il 13 agosto 1521, i conquistadores spagnoli massacrarono circa 40.000 aztechi, determinando di fatto la fine di quella cultura. Gli studenti riuniti furono circondati, stretti nella piazza e massacrati. Secondo i comunicati ufficiali i morti furono circa 50, ma si stima siano stati almeno 300. Anche questa storia sembra essere finita nell’oblio. Per fortuna la rivista “Internazionale” in queste settimane sta pubblicando dei podcast che ricordano i fatti di Genova. Nel 2012, il regista Daniele Vicari, realizza “Diaz – Non pulire questo sangue”, basato sugli atti processuali all’epoca conosciuti. Per quanto sia basato solo sui fatti accertati, è un film duro, freddo, asettico. Nonostante ciò, una parte del pubblico non è riuscita a vedere il film fino alla fine. Quello che ricordo di quel film è la macchina attaccata alle persone e la sensazione Voci - LUGLIO 2021 N.1 / A.7

DIAZ. Non pulire questo sangue, “DIAZ. Don’t clean up this blood”, regia di Daniele Vicari, Italia 2012

di claustrofobia che ne emergeva. Ci si sente meglio solamente alla fine, quando un gruppo di mezzi si allontana dal confine italiano e la macchina si alza e mostra un panorama. La liberazione dello sguardo come liberazione dal clima minaccioso e limaccioso dell’Italia. Sempre riguardo a Genova, da citare il documentario del 2002 di Francesca Comencini, “Carlo Giuliani, ragazzo”, dove vengono ricostruiti i fatti che hanno portato alla morte del manifestante Carlo Giuliani. Ma su queste terribili violazioni avvenute, né il cinema, o il teatro o la letteratura sono riusciti a rielaborare questi tragici fatti. Da citare inoltre “Sulla mia pelle” (2018) di Alessio Cremonini, sulla morte di Stefano Cucchi. Film duro e asettico, basato anche questo sugli atti processuali. Nel 2012 invece Stefano Sollima, realizza “ACAB – All Cops Are Bastards”, sulla storia di poliziotti del reparto Celere di Roma. È un tentativo onesto, forse eccessivamente retorico, di mostrare la piazza vista dall’altra parte. Il regista, che mostra una certa abilità nella ricostruzione degli scontri, tenta di rappresentare la sensazione di accerchiamento vissuta da questi uomini e come questi tendano in alcuni casi a forzare le procedure.

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Cinema

di polizia. Il film si conclude con un finale aperto, che lascia in sospeso tutte le questioni affrontate nel film. Dal Brasile è degno di nota “Tropa de Elite – gli squadroni della morte” (2007) di José Padilha, che racconta la storia del BOPE, una squadra d’assalto d’elite specializzata nella lotta alla droga all’interno delle favelas. Il cinema statunitense sembra in tal senso essere più coraggioso, avendo una lunga tradizione di cinema di impegno civile. Fra i tanti sembra utile citare: “Detroit” (2017) di Kathryn Bigelow, che racconta gli scontri razziali avvenuti nel 1967 appunto a Detroit, che provocarono 43 morti, 24 dei quali uccisi dalla guardia nazionale. Del 2014 è “Selma” di Ava DuVernay, che racconta di una serie di marce per i diritti civili dei neri organizzate da Martin Luther King, fra il 1963 e il 1964. La prima marcia subì un violento attacco da parte della polizia. Un partecipante alla seconda marcia, un pastore protestante, fu assassinato da dei segregazionisti bianchi e a conclusione della terza, una attivista bianca, Viola Liuzzo, fu assassinata da membri del Ku Klux Klan.

“Carlo Giuliani, ragazzo” di Francesca Comencini - documentario, Italia 2002.

Invece cinematografie di altri paesi si mostrano più coraggiose nel raccontare i comportamenti non appropriati da parte delle forze dell’ordine. Ad esempio la Francia ha raccontato spesso queste questioni, avendo nella propria storia la nascita e lo sviluppo del genere “Polar” una rilettura del noir e dell’hard boyled di matrice statunitense. Due titoli per tutti: “L’odio” (1995) di Mathieu Kassovitz. Ambientato in una banlieue di Parigi, racconta senza mezzi termini la vita dei giovani e della brutalità della polizia. Il film all’epoca fu un record di incassi, anche perché era girato in un bellissimo bianco e nero, ma incontrò le feroci opposizioni della Polizia che non si riconobbe nelle accuse di violenza. Il film è uno spaccato della vita delle banlieue e ancora oggi rappresenta una realtà che pare essere poco modificata nel tempo. Il 2019 è infatti l’anno in cui un regista di origini maliane, LadJ Ly, realizza “I Miserabili”, ambientato nello stesso luogo dove era ambientato parte del libro “I miserabili” di Victor Hugo (1862). La cittadina, che si chiama Montfermeil, racconta con una certa durezza, ma anche con un ritmo estremamente dinamico, i rapporti fra i giovani del luogo e la polizia, che non sempre sono idilliaci. Nel plot sono presenti anche le questioni riguardanti le riprese effettuate dai cittadini durante le operazioni 23

Nel 2018, Spike Lee realizza “BlacKkKlansman”, un film che si ispira al genere blaxploitation del cinema statunitense dei primi anni’70, per costruire quella che pare essere apparentemente una commedia, ma che affronta il tema sempre presente nella cultura americana del razzismo, dell’antisemitismo, dell’odio verso i gay. Non a caso nel titolo sono presenti le tre K del Ku Klux Klan. Un film da vedere, anche per la perfetta ricostruzione del periodo degli anni ’70. Dalla Gran Bretagna arriva invece “Bloody Sunday” (2002) di Paul Greenbass, avvenimento cantato anche da un famoso brano degli U2 “Sunday bloody Sunday”. Il 30 Gennaio 1972 a Derry, in Irlanda del Nord, i soldati del I Battaglione del Reggimento Paracadutisti dell’esercito britannico spararono contro i manifestanti, provocando 14 morti. Un film nervoso, girato come se si fosse veramente presenti in quei momenti, ma molto rigoroso. Per il momento questo viaggio nel cinema che racconta le violazioni si ferma qui per motivi di spazio. Sicuramente ne sono stati prodotti altri che a chi scrive sono sfuggiti. Ma ciò non significa che tali lavori non siano importanti, ma soltanto che non erano conosciuti o ricordati dall’estensore dell’articolo.

Francesco Castracane Educatore professionale nell’ambito delle dipendenze patologiche

LUGLIO 2021 N.1 / A.7 - Voci


«Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.» (Pericle – Discorso agli ateniesi – 461 a.c.) www.amnestysicilia.org

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