Voci - Numero 1 Anno 6 - Amnesty International in Sicilia

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VOCI

Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI i fatti e le idee

FEBBRAIO 2020

NUMERO 1 - ANNO 6

PUNIRE PER RIABILITARE “Parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio” Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), cap. XXVIII


VOCI VOCI - Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson” COMITATO DI REDAZIONE Chiara Di Maria Responsabile Circoscrizione Sicilia Amnesty International Italia Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione Carmen Cera Direttrice del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”

IN QUESTO NUMERO Editoriale: Legittima detenzione

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L’irrazionalità della pena di morte

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La questione dell’ergastolo

6

di Chiara Di Maria

di Vincenzo Ceruso

di Aristide Donadio

Funzione rieducativa della pena e rieducazione dei rieducatori

10

Il sistema giudiziario italiano al vaglio delle Nazioni Unite

16

Pena e cultura

19

Un condannato a morte è fuggito

21

di Maurizio Gemelli

di Giuseppe Provenza

di Paola Caridi

di Francesco Castracane

Silvia Intravaia Responsabile grafica

TUTTI I GIORNI

COLLABORANO

www.amnestysicilia.it

Giorgio Beretta, Daniela Brignone, Paola Caridi, Francesco Castracane, Vincenzo Ceruso, Mouhamed Cissé, Carmen Cera, (Coord. Am. Latina), (Coord. Europa), (Coord. Nord America), Marta D’Alia, Chiara Di Maria, Aristide Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli, Liliana Maniscalco, Andrea Pira, Giuseppe Provenza, Fulvio Vassallo Paleologo.

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Copertina: Compagnia della Fortezza: Naturae – ouverture / Fortezza Medicea, Carcere di Volterra (PI). Luglio-Agosto 2019 © Stefano Vaja / Fonte: compagniadellafortezza.org FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6 - Voci


EDITORIALE di Chiara Di Maria

“Ci trattavano come bestie. Volevano raggiungere il massimo dell’inumanità. Ho visto sangue scorrere a fiumi. Non avrei mai immaginato che l’umanità potesse toccare livelli così bassi. Non si facevano alcun problema a uccidere persone a casaccio” ha raccontato Samer, un avvocato arrestato nei pressi di Hama, in Siria.

Il tema delle violazioni dei diritti umani all’interno delle carceri continua ad essere, purtroppo, ancora molto attuale.

Nel corso delle nostre visite, Amnesty International ha potuto verificare che il 55% della popolazione carceraria (oltre 11.000 persone) era detenuta in attesa di processo. Le percentuali aumentano se si considerano le donne (70 per cento) e i minori (80 per cento). Molti prigionieri, a causa di un sistema giudiziario inefficiente, restano in attesa di un processo per anni. La prolungata detenzione preventiva viene applicata senza eccezioni né per donne incinte né per bambini, violando così il diritto alla presunzione di innocenza.

Spesso il carcere, ovvero il luogo che dovrebbe anche rieducare in qualche modo il carcerato quale essere umano, diventa esso stesso il luogo in cui si verificano una serie di violazioni dei diritti umani.

Molte persone, anche indagate per piccoli reati, a causa di un sistema giudiziario inefficiente restano in attesa di un processo per anni; rilasciati dopo mesi di detenzione preventiva, faticano poi a “reinserirsi” nella società e sopravvivono senza lavoro, in povertà e in condizioni fisiche e mentali precarie.

Celle sovraffollate, sporche, prive di fonti esterne di aria e di luce, carcerazioni arbitrarie, torture e maltrattamenti disumani e degradanti: queste le drammatiche condizioni in cui molte persone sono soggette a detenzione da parte dei Governi o gruppi armati.

Una problematica, quella della necessità del rispetto dei diritti umani nelle carceri, dunque, che spesso non riceve dall’opinione pubblica l’attenzione che meriterebbe e che non viene debitamente affrontata dalle Istituzioni preposte: questo accade in Siria, in Madagascar, come anche in Italia.

Prigioni quelle della Siria in cui le donne vengono sottoposte ad aggressioni sessuali e a stupri da parte di personale di sesso maschile. All’interno dei centri di detenzione dei servizi di sicurezza, i detenuti subiscono costanti torture, durante gli interrogatori per ottenere “confessioni” o altre informazioni, oppure semplicemente come punizione, svilendo in tal modo qualsiasi finalità riabilitativa dei detenuti. In Madagascar le carceri sono veri e propri inferni, infaustamente celebri per il crescente e degradante sovraffollamento e le conseguenti pessime condizioni di vita all’interno per i detenuti. Non di rado le celle hanno latrine a cielo aperto, cosa che espone ad un altissimo rischio di malattie dilaganti: la tubercolosi è tra le prime cause di morte nelle carceri dell’isola.

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Si dimentica infatti, o si vuole dimenticare, che anche i detenuti sono persone e che, come tali, sono titolari di diritti. Amnesty International, infatti, ha sempre posto e continua a porre l’attenzione sulla necessità del rispetto del diritto alla libertà, alla presunzione di innocenza e ad essere trattati con umanità e nel rispetto della dignità intrinseca della persona umana affinché si possa effettivamente parlare di legittima detenzione che conduca ad una riabilitazione del condannato.

Chiara Di Maria Responsabile Circoscrizione Sicilia Amnesty International Italia

FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6 - Voci


Filosofia del Diritto

L’IRRAZIONALITÀ DELLA PENA DI MORTE di Vincenzo Ceruso

Massachusetts State House, Boston, USA 1993. 250 delegati di Amnesty International da tutto il mondo manifestano contro la pena di morte © Amnesty International

La storia dei diritti umani è anche la storia della progressiva conquista di territori ignoti. Ciò che un tempo sembrava naturale, è divenuto col tempo orribile. Ciò che appariva immutabile, è divenuto intollerabile. Scriveva nel 1930 Bertolt Brecht:

“Avete ascoltato e avete veduto / Ciò che è abituale, ciò che succede ogni giorno. / Ma noi vi preghiamo: / Se pur sia consueto, trovatelo strano! / Inspiegabile, pur se normale! / Quello che è usuale, vi possa sorprendere! / Nella regola, riconoscete l’abuso / E dove l’avete riconosciuto / Procurate rimedio!” 1 È la stessa tensione ideale che ha portato all’abolizione dei manicomi e, si spera, porterà un giorno al superamento dell’istituzione carceraria come la conosciamo 2, o quantomeno verso una sua ulteriore “evoluzione da luogo dell’esclusione a città della riabilitazione” 3. Pensiamo allo schiavismo. O alla pena di morte. Il grande filosofo Emmanuel Lévinas ci ha ricordato  1 - H Mayer, Brecht e la tradizione, Einaudi, Torino, 1973, p.123.  2  -  Si veda AA. VV., Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, Chiare lettere, Milano, 2016.  3  -  L. Zevi, Lo spazio e il carcere, in Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Relazione al Parlamento 2019, p.54.

Voci - FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6

come “gli imperativi biblici: «tu non ucciderai» e «amerai lo straniero», attendessero da millenni l’ingresso dei diritti, legati all’umanità dell’uomo, nel diritto giuridico primordiale della nostra civiltà” 4. È una tensione che si nutre dell’idea per cui l’individuo non perde, in nessun caso, la propria dignità, ed è responsabilità di ciascuno, prima ancora che dello Stato, tutelarla.

Ragioni dell’umanità … La pena di morte si manifesta nel mondo come suprema espressione della sovranità statale. Ma gli Stati del mondo globale non sono gli unici soggetti che detengono il monopolio della violenza. Al contrario, le mafie e le diverse forme di terrorismo ricorrono alla pena capitale, nel momento in cui contendono ai governi il controllo del territorio. È vero in Stati fragili come il Messico o molti paesi africani, ma lo è anche in democrazie consolidate, dove la criminalità organizzata trova ampio spazio. La violenza si sviluppa in territori sempre più vasti, per cui si diffonde il ricorso alla pena di morte extragiudiziale. Giulio Regeni conduceva una ricerca in Egitto sul sindacato degli ambulanti, per l’Università di  4  -  E. Lévinas, Tra noi, Saggi sul pensare all’altro, Jaca Book, Milano, 1998 op. cit., p.248.

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Filosofia del Diritto

Cambridge. Il giovane studioso friulano venne rapito il 25 gennaio del 2016, da uomini rimasti ignoti, come ignoti sono rimasti i mandanti del rapimento. Il suo corpo venne ritrovato il 3 febbraio, alla periferia del Cairo. Il cadavere mostrava i segni inequivocabili delle torture: “Tutto il male del mondo si è riversato su lui”, ha detto la madre di Giulio. Dopo diversi tentativi di depistaggio e la mancanza di una concreta collaborazione da parte dell’Egitto, la Procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati cinque uomini dei servizi di sicurezza egiziani. In quel prezioso libro che è L’età dei diritti, Norberto Bobbio ha posto in termini chiari la riflessione odierna sui diritti umani: “Il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico” 5. Ma proprio al fine di ottenere una maggiore tutela dei diritti fondamentali, sentiamo come non sia un esercizio inutile rivolgersi ad un’opinione pubblica i cui anticorpi, rispetto alla pena di morte, appaiono sempre più deboli. Invocare la morte come pena, fino a qualche tempo fa, era impensabile nel discorso pubblico. Oggi non ci si sottrae a questa forma di retorica che, mutuando una definizione ormai nota, possiamo definire come discorso d’odio. Non è irrazionale continuare ad inoculare nel corpo sociale dosi di violenza verbale sempre più massicce? Tutto questo non finirà con il ritorcersi contro quegli stessi soggetti politici, che pretendono di governare paesi in cui è sempre più deteriorato il concetto di Stato di diritto? Senza una cornice di regole condivise, che tutelino i diritti dell’individuo, la stessa sovranità statale è destinata a lasciare spazio ad una violenza incontrollata. Quanti abbracciano questa prospettiva citano spesso, a sproposito, alcuni testi dell’Antico Testamento. Ma il Dio vendicatore di cui si parla è colui che interviene, per ristabilire la giustizia e ripagare adeguatamente le azioni degli uomini 6, non è colui che risponde ai propositi violenti e arbitrari di quanti ritengono di aver subito un torto.

In questa ottica, la cultura della pena di morte viene nuovamente legittimata “per purgar l’infamia” 8 e l’essere umano è ridotto a puro mezzo, instrumentum laboris, per ottenere sicurezza, informazioni e in difesa del corpo sociale da minacce vere o presunte, secondo una visione che ha acquistato autorevolezza nel mondo post 11 settembre. Il risultato di questa concezione dell’uomo, portata alle estreme conseguenze, sarebbe un nuovo totalitarismo. Stati di recente formazione sembrano avere finalmente compreso quanto il ricorso alla pena di morte, nel lungo periodo, non sia funzionale al consolidamento delle istituzioni. Ministri della Giustizia e rappresentanti di 22 Paesi che sono abolizionisti della pena capitale, insieme a Paesi mantenitori si sono riuniti recentemente alla Camera per il convegno internazionale “Per un mondo senza pena di morte”, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio 9. Si è discusso come giungere all’abolizione definitiva della pena capitale – molti paesi sono abolizionisti de facto, ma non de iure – e ad un contrasto maggiore alle esecuzioni extragiudiziali, quali i linciaggi, incentivati dal diffondersi del linguaggio di odio. Il clima dei lavori è stato comunque ampiamente positivo, soprattutto se si considera la lotta alla pena capitale in una prospettiva storica. Nel 1975 solo 16 paesi avevano abolito la pena di morte, mentre nel 2018 l’equilibrio è rovesciato e solo 23 Stati hanno condannato loro cittadini alla pena capitale. Politici e uomini di governo avveduti hanno compreso come le ragioni dei diritti umani possano e debbano coincidere con le ragioni dello Stato moderno. Citiamo ancora una volta Emmanuel Lèvinas: “Bontà per il primo venuto, diritto dell’uomo. Diritto dell’altro uomo prima di tutto” 10.

L’altro mi obbliga. Mi comanda. Questo comando interpella anche lo Stato.

… e ragion di Stato Occorre porre argini sempre più stretti a quella che Papa Francesco ha chiamato efficacemente “demagogia punitiva” 7, perché non invada del tutto il campo del discorso politico.  5 - N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, p.16.  6  -  A. Spreafico, Da nemici a fratelli, San Paolo, Milano, 2010, p.130.  7  -  Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’associazione internazionale di diritto penale, 15 novembre 2019, p.3. http://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/november/documents/ papa-francesco_20191115_diritto-penale.html

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Vincenzo Ceruso Saggista - Comunità di Sant’Egidio

8 - A. Manzoni, Storia della colonna infame, Newton & Compton, Roma, 1993, p.56.  9 - https://www.santegidio.org/pageID/30284/langID/it/itemID/33420/Prepariamola-strada-sconfiggiamo-l-odio-Il-29-novembre-il-XII-Incontro-Internazionale-deiMinistri-della-Giustizia-per-un-mondo-senza-pena-di-morte.html  10  -  E. Lévinas, Tra noi, op. cit., p.248. FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6 - Voci


Psicosociologia

LA QUESTIONE DELL’ERGASTOLO di Aristide Donadio

© Caspar Benson / Foto stock / Getty Images

“La giustizia riparativa è un percorso volontario lungo il quale vittima e colpevole arrivano a un incontro dove la vittima possa sentirsi riconosciuta e riparata del male subìto e il responsabile possa assumere consapevolezza del male inferto: prima sapevo di essere un omicida, ora so di aver ucciso una persona” G. Colombo In tempi relativamente recenti in Italia la dicitura “Fine pena mai”, che connotava la condizione del recluso a vita, è stata tramutata in “Fine pena 31.12.9999”, qualcosa di decisamente kafkiano che ci induce a pensare che il tentativo di migliorare una locuzione ritenuta sconveniente abbia prodotto un rimedio che è peggiore del male. Sono in molti, a partire da Papa Francesco, a ritenere l’ergastolo una “pena di morte nascosta”, una pena avvertita dagli stessi condannati peggiore della stessa pena di morte 1.

Il termine “ergastolo” deriva dal latino ergastŭlu(m), un adattamento del termine greco ergastḗrion, derivato a sua volta da ergázesthai, ‘lavorare’; traducibile con ‘casa di lavoro’. Con questo termine i Romani indicavano l’abitazione degli schiavi impiegati principalmente nei lavori agricoli dei latifondi; ma sappiamo bene che nell’antichità classica gli schiavi vivevano una condizione sub-umana, tanto da non godere di alcun diritto civile e politico. Una condizione di reificazione, di allontanamento dal genere umano propriamente detto. Ma anche in questo caso la parola “ergastolo” nella nostra accezione risulta una definizione inappropriata, incongrua, che non aiuta a comprendere né la natura della condanna né la specie del condannato. È da questi infelici tentativi di definire ciò che di per sé non è definibile 2, un “nomen-omen” inapplicabile, che ricaviamo l’assurdo nel senso etimologico del termine: il vuoto di senso 3, la nota stonata, l’allontanamento dalla significazione umana. Il fallimento linguistico ci induce già a ritenere che ci sia qualcosa di lontano  2  -  Pietro Ingrao affermò più volte: “Sono contrario all’ergastolo perché non riesco a concepirlo”.

1  -  Nel 2006 dieci detenuti del penitenziario francese di Clairvaux attirarono l’attenzione sulla sorte di chi e’ condannato a scontare pene lunghissime o l’ergastolo. Nella lettera, datata 16 gennaio, chiedono che, ritenendosi dei sepolti vivi senza alcuna prospettiva di liberazione, venga ripristinata almeno per loro la pena di morte, da loro stessi considerata preferibile a una morte lenta, e una soluzione meno ipocrita.

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3  -  Per un approfondimento sul tema, anche dal punto di vista giuridico e della ben nota incostituzionalità dell’ergastolo per l’inconciliabilità con l’art.27 della nostra Costituzione: N. Valentino, L’ergastolo, Sensibili alle foglie, Acqui Terme (AL), 2009; anche: P. Gonnella e M. Ruotolo, Giustizia e carceri secondo papa Francesco, Jaca Book, Milano, 2016; S. Anastasia e F. Corleone, Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità delle persone, Ediesse, Roma, 2009.

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Psicosociologia

Carmelo Musumeci / Fonte: L’ex boss della Versilia: “l’ergastolo ostativo è una pena di morte viva”. Katya Maugeri, Sicilia network, 28 agosto 2019 - sicilianetwork.info

dal concepibile: il de-umanizzante, –l’ergastolo–, si rivela sin dall’elaborazione del codice e del registro linguistico qualcosa di non-umano o dis-umano. Esiste, evidentemente, uno iato fra ciò che tentiamo di pronunciare, in un grottesco balbettio giuridicoburocratico, e ciò che siamo, invece, purtroppo in grado di fare. Ma, per entrare davvero nel campo semantico di cui ci occupiamo, dobbiamo partire dall’atto deviante cui si ritiene di dover porre rimedio con la “pena di morte nascosta” o, per usare una definizione forse ancor più efficace, la ‘pena di morte viva’ 4. Al di là di tante teorie ed enunciazioni criminologiche che non possono trovare spazio in queste pagine, credo che uno dei concetti che più riescono ad inquadrare il fenomeno deviante, con tutte le sue conseguenze, sia quello enunciato dallo psicanalista Winnicott nella sua opera del 1967 “La delinquenza come sintomo di speranza”, per cui l’atto deviante corrisponde ad una richiesta inconscia di aiuto e, nel contempo, ad un desiderio di spezzare uno schema incomprensibile, per chi lo vive, di sofferenza per attuare la fantasia, quasi  4 - Carmelo Musumeci, L’ex boss della Versilia: “l’ergastolo ostativo è una pena di morte viva” [Katya Maugeri, Sicilia network, 28 agosto 2019] «[..] La pena deve fare bene, non deve danneggiare l’individuo. Chi commette un reato è vittima di se stesso e la vera pena è il senso di colpa, dal quale non puoi sfuggire». Se si pensa solo a punire, la gente non potrà comprendere gli errori, «sono cambiato quando ho conosciuto il bene, quando ho avuto accanto persone buone e disinteressate», lì nasce la rivoluzione più importante: cambiare prospettiva, ma se il carcere non funziona è «perché a mancare è proprio l’amore». Testi per approfondimenti sul tema, dello stesso autore: C. Musumeci, Gli uomini ombra e altri racconti, Amazon, 2019; C. Musumeci, Nato colpevole, Amazon 2018; C. Musumeci e A. Pugiotto, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali, Editoriale scientifica, Napoli, 2016.

fantasmatica 5, di poter tornare al periodo precedente la deprivazione 6. Vanno smontati alcuni pregiudizi di fondo, altrimenti non si entra in un campo semantico che consenta un approccio olistico, onnicomprensivo del continuum crimine-pena: va colta lo logica sottesa al crimine, ma anche quella alla base dell’idea stessa di pena. Uno dei pregiudizi da smontare è che esista la –cattiveria– 7 e che vi possa essere qualche tipologia di esseri umani che incarni il demonio e che quindi vada isolata o, persino, eliminata: un’idea già storicamente presentatasi ai tempi dell’Inquisizione, praticamente per tutto il Medioevo. Di diavolo è lecito parlare, ma nel senso etimologico di diabolus: scissione, separazione, allontanamento; ci troviamo infatti a parlare di individui separati/allontanati da sé e/o dal mondo esterno. A questo proposito può sicuramente tornare utile la rilettura della bellissima opera di Laing “L’io diviso”, nella quale si esprime bene quanto la condizione schizoide individuale sia sintomo ed effetto della cultura schizoide in cui siamo immersi, e che può condurre tanto alla condizione stessa di dissociazione schizoide quanto alla schizofrenia vera e propria. A livello individuale si tratta di una sofferta condizione di dissociazione da parti significative di sé stessi, da propri vissuti o componenti stesse della personalità, con conseguente alterazione della percezione di sé e della realtà circostante e con le relative ripercussioni anche nell’accezione giuridica  5  -  cfr. M. Klein, Invidia e gratitudine, con particolare riferimento al concetto di fantasma.  6 - AA.VV, Manuale di Psicologia Dinamica, Il Mulino, Bologna, 1999, p.208.  7  -  Cfr. E. Fromm in Anatomia della distruttività umana.

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Paulo Freire, importante pedagogista brasiliano oggi censurato da Bolsonaro nelle scuole e nelle università del Brasile / Foto: https://escolaeducacao.com.br/paulo-freire/

della “capacità di agire”. In quella che Fromm definiva “patologia della normalità” ritroviamo gravi forme di alienazione, sia sotto l’aspetto psichico-relazionale che sotto il profilo socio-culturale, anche a causa delle diffuse sperequazioni che conducono a forme altrettanto diffuse di sofferenza e deprivazione: una società criminogena, in definitiva. Laddove è massima la responsabilità sociale, infatti, diviene minima quella individuale. La società criminogena, dopo aver determinato forme di dissociazione e alienazione, cerca poi in tutti i modi l’allontanamento da sé del criminale, così come aveva fatto col folle 8, sempre erigendo istituzioni totali aventi più il compito di emarginare, allontanare (ancora il diabolus) che quello di curare e reinserire. Va inteso, il criminale come il folle, non solo come paradossale disperato ‘sintomo di speranza’, come grida inconsce per squarciare una normalità devitalizzata de-umanizzante e indifferente, ma anche come denuncia della catena di montaggio in quanto tale: non sono, cioè, i devianti ad essere “i pezzi difettosi della catena di montaggio”, ma è la stessa catena di montaggio che i devianti, in un linguaggio “irrazionale”, ci additano nella forma di un’enorme ed inconscia denuncia collettiva, disperata quanto disperante 9. La violenza si esprime attraverso diverse forme, insegna Galtung: esiste quella diretta, più facile da individuare perché si esprime attraverso forme che colpiscono la vittima o le vittime, ma esiste anche

una violenza indiretta, non meno grave, che si esprime attraverso due forme principali: la violenza strutturale data dallo sviluppo di organizzazioni socioeconomiche che determinano sperequazioni e vite misere, ma più ancora miserevoli, e una violenza culturale che produce forme di oppressione, come direbbero Freire 10 (importante pedagogista brasiliano oggi censurato da Bolsonaro nelle scuole e nelle università del Brasile) e Boal 11, impedendo in varie forme la libera espressione ed il libero sviluppo delle personalità e delle identità singole e collettive. Ora, partendo dalla considerazione dell’ergastolo come “pena di morte viva”, sgombriamo il campo da ogni equivoco e da ogni forma, anche velata, di ipocrisia ed affermiamo con decisione che non esiste differenza fra pena di morte ed ergastolo, se non nelle condizioni aggiuntive di ‘trattamento inumano e crudele’ presenti nell’ergastolo, vale a dire le condizioni di tortura che l’ergastolano deve affrontare sino al giorno del suo decesso in carcere. Fatta questa fondamentale premessa va sottolineato che uno Stato che proponga la violenza, e segnatamente la violenza estrema che è la pena di morte nelle sue diverse declinazioni, come soluzione di qualsiasi problema, è uno Stato che fornisce chiaramente un pericoloso esempio di violenza 12. Amnesty International ha già tante volte dimostrato, statistiche alla mano,  10  -  cfr. P. Freire, La pedagogia degli oppressi.  11  -  cfr. A. Boal, Il poliziotto nella testa.

8 - Cfr. Sorvegliare e punire di M. Foucault.  9  -  Cfr. C. Musumeci, Nato colpevole, Amazon 2018.

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12  -  Cfr. B. Battaglia, Le tre libertà. Fotogrammi di un’evasione e altri modi d’uscita dalla prigione, Sensibili alle foglie, Acqui Terme (AL), 2019.

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che nei Paesi in cui sono presenti forme estreme di “giustizia” penale 13, i reati violenti non diminuiscono ma aumentano, dimostrando non solo l’inutilità di qualsiasi forma di deterrenza in questi casi, ma persino il loro essere controproducenti. Ergastolo e pena di morte rappresentano, oltre che espressioni disumane e incivili di una Comunità che non è in grado di prevenire e far fronte alla devianza in modo efficace, un formidabile (nel senso etimologico: spaventoso) e purtroppo efficacissimo simbolo di morte: una cultura che s’immola e cede al Thanatos. Queste simbologie necrofile s’insinuano inevitabilmente nelle coscienze dei cittadini, legittimati in tal modo proprio nell’uso della violenza. Si tratta di messaggi, diretti ma anche subliminali, con una triste valenza pedagogica che causa danni difficilmente riparabili. Non si tratta, quindi, solo del male procurato direttamente a chi abbia da soffrire da una tale perversa forma di “giustizia” (raccapricciante, a tal proposito, l’espressione adoperata quando un condannato, ucciso dallo Stato e quindi da noi tutti, si dice sia stato “giustiziato”: un vero nonsenso, un paradosso linguistico), ma degli effetti, da non sottovalutare, che essa procura nella diffusione d’una cultura necrofila, nel senso etimologico del termine: la diffusione di una cultura di morte. “Esiste un contagio del male: chi è non-uomo disumanizza gli altri, ogni delitto si irradia, si trapianta intorno a sé, corrompe le coscienze e si circonda di complici sottratti con la paura o la seduzione al campo avverso”, affermava Primo Levi 14, ed è proprio del contagio di una siffatta cultura che dobbiamo tener conto, considerando il rischio che questa considerazione e questo trattamento della vita umana entrino nel regno del consentito e, peggio, del concepibile. Per citare ancora Primo Levi: “la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”. L’uso della violenza in nome di interessi superiori non solo ha mostrato tutta la sua inefficacia e le proprie contraddizioni, ma si rivela, a ben vedere, inaccettabile anche dal punto di vista morale, poiché non è lecito condurre ad una disgiunzione della valutazione etica fra mezzi e fini. Un’altra delle – scissioni – in corso nella cultura occidentale è, infatti, proprio la separazione, sul piano etico, fra mezzi e fini. “I mezzi e i fini, che vengono abitualmente separati in politica, devono convergere nel campo della risoluzione costruttiva di

un conflitto [...] I sostenitori della violenza, del fine che giustifica i mezzi, restano senza parole quando i mezzi non sortiscono l’effetto desiderato. [...] I mezzi, in fin dei conti, sono tutto - afferma Gandhi” 15. E’ una scissione in corso anche la presunzione di poter allontanare da sé l’idea della violenza proiettandola su quanti possano assumere il ruolo di stereotipo simbolico della violenza in quanto tale, usando l’istituzione totale del carcere come vaso di Pandora e le pene di morte come illusione della possibile estinzione della violenza e del – peccato –. Per citare Giovanni Falcone: “Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”. Non è attraverso meccanismi manichei e schizoidi di suddivisione della realtà nelle categorie di buoni e cattivi che si è in grado di problematizzare e risolvere un fenomeno complesso come quello della violenza, ma attraverso forme evolute di formazione e autoformazione, così come di recupero e riabilitazione che sappiano coniugarsi con le esigenze di sicurezza di una comunità ma senza mai procedere per condanne concepite come definitive. Questo vale anche per certe policy che in verità non raggiungono altro effetto che quello di opacizzare la lotta per i diritti umani, come quando si afferma che la lotta contro l’ergastolo non vada perseguita nei Paesi in cui vige la pena di morte: non vale il discorso miope del breve termine ma quello lungimirante del mediolungo periodo che preveda la coscientizzazione 16 delle persone, la loro trasformazione verso un’etica di autentico rispetto dei diritti umani a partire dagli atteggiamenti che sono alla base di scelte e comportamenti; a queste deve tendere un’opera sana di educazione ai diritti umani (EDU), molto al di là di convegni e seminari, attraverso metodologie educative partecipative che incidano in modo duraturo nella personalità dei cittadini coinvolti. Anche il messaggio di denuncia delle violazioni dei diritti umani, il cd. “campaigning” rientra, in tal senso, in un’ottica EDU. I recenti pronunciamenti, prima della Corte Europea per i Diritti Umani e poi della Corte Costituzionale, hanno posto una voce autorevole sulla questione dell’ergastolo, e segnatamente dell’ergastolo ostativo; non resta che adeguare lotte, strumenti e metodologie a favore di questo nuovo impulso alla tutela dei diritti umani. Aristide Donadio Psicosociologo e docente di Scienze umane presso i licei

13  -  Cfr. B. Battaglia, Carcere e cittadinanza, Phoebus, Napoli, 2004.

15 - Rocco Altieri, Religione e politica in Gandhi, ed. Centro Gandhi, Pisa, 2019, p.7.

14  -  Primo Levi in L’asimmetria e la vita.

16  -  Termine coniato da Paulo Freire.

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Approfondimento

FUNZIONE RIEDUCATIVA DELLA PENA E RIEDUCAZIONE DEI RIEDUCATORI di Maurizio Gemelli

© Vauro 2013 / Fonte: https://twitter.com/VauroSenesi

Lo abbiamo sentito risuonare tante volte nella bocca dei nostri professori universitari di diritto penale, diritto processuale penale e persino da quelli di diritto costituzionale: “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una enunciazione di principio che evidentemente deve avere percepito persino Checco Zalone (e la citazione non appaia irriverente né divagante, ma soltanto provocatoria), se qualche anno addietro ha ritenuto di pubblicare su Facebook un videomessaggio nel quale, tra il serio e il faceto, più faceto che serio, ripeteva testualmente: «mi auguro che un giorno un ex detenuto possa entrare in banca ed essere ricevuto da un direttore che gli dice : Le dò il mutuo perché è rieducato. O che si votino i politici perché sono stati in carcere e quindi sono rieducati, mentre sappiamo che per adesso è il contrario: uno viene eletto, lì viene diseducato e poi va in carcere». Ma non è finita lì. Voci - FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6

Ci hanno anche insegnato – ma continuo a nutrire qualche perplessità sul fatto che siamo riusciti a farne tesoro – che la pena assolve ad una pluralità di funzioni, che storicamente si sono avvicendate nel tempo, spesso in funzione delle oscillazioni del pendolo tra garantismo da un lato e retribuzionismo dall’altro o, se si preferisce, tra ragioni del reinserimento sociale dei condannati ed esigenze di difesa sociale. In pochi, però, si sono sforzati di spiegarci che il vocabolo “pena” deriva dal greco poinè, da intendersi nella duplice accezione di prezzo che si doveva pagare per compensare un delitto, ma anche segno di riscatto. Evocava il castigo, ma al tempo stesso anche il premio della liberazione da un male. Già quindi nella radice etimologica della parola si possono cogliere le due facce della pena: espiazione e redenzione da un lato, punizione e riabilitazione

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dall’altro. Eschilo userà poinè solo nella accezione di vendetta, impersonificandola in una dea implacabile. Né, d’altro canto, hanno spesso trovato il tempo di comunicarci che la pena deve coinvolgere anche la dimensione della paideia, vale a dire dell’educazione che rigenera una situazione degenerata. E che, per raggiungere un così alto traguardo, l’elemento imprescindibile rimane il rispetto costante della dignità della persona umana, che, per effetto della carcerazione, finisce per essere già ridimensionata strutturalmente attraverso la privazione di una delle qualità specifiche della creatura umana, vale a dire la sua libertà. Sulla scorta delle brevi premesse che precedono, è venuto il momento di verificare quale contributo concreto ciascuno dei relativi formanti (legislazione, giurisdizione e prassi applicative di settore) ha fornito in passato, e fornisce oggi, al raggiungimento dell’obiettivo strategico risocializzante, che continua a starci molto a cuore, a dispetto dei populismi giudiziari retribuzionisti, ormai tristemente dilaganti ai nostri giorni. Già Carnelutti ai suoi tempi si lamentava della qualità assai scadente del drafting legislativo, che finisce per rendere i testi normativi poco chiari nella loro ratio, lessicalmente ambigui e assai spesso privi di effettivi contenuti. E ai nostri giorni non può certo dirsi che la situazione sia molto migliorata, inducendo il giurista contemporaneo ad invocare a più riprese, pervero sin qui senza troppa fortuna, il fermo biologico! Le cause della patologia suaccennata vanno verosimilmente individuate in un esecutivo oramai divenuto vero e proprio motore legislativo, surrogando il Parlamento nel suo ruolo “istituzionale” di naturale produttore di leggi, e nel conseguente, abnorme ricorso alla decretazione d’urgenza, in ultima analisi ispirata soltanto alle urgenze del ceto politico del momento. Lo stesso attivismo legislativo successivo alla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, piuttosto che con motivazioni ideali connesse alla volontà di migliorare le condizioni materiali di detenzione dei condannati, dando attuazione anche per quella via al precetto di cui all’art.27 co.3 Cost., va spiegato con le ben più pressanti esigenze di fronteggiare l’ormai endemico affollamento carcerario e, comunque, con esigenze securitarie da soddisfare con il puntuale inasprimento della sanzione penale. L’unico percorso che il legislatore del nostro tempo mostra di conoscere per tacitare il presunto, ma mai effettivamente provato, allarme sociale, non essendo in grado di elaborare strategie differenti di contrasto alla criminalità di ogni 11

genere. Da qui, le recentissime modifiche legislative all’ordinamento penitenziario meglio note come legge Spazzacorrotti (n.3 del 2019) e codice rosso (n.69 del 2019). Trascurando di ricordare quanto Dostoevskij ci ricordava a proposito della brutalità del sistema giudiziario penale di matrice zarista:“non conoscono la pietà, conoscono solo la giustizia: per questo sono ingiusti”. Per non tacere, poi, che le nostre norme – come argutamente rilevato dal Comitato scientifico degli Stati generali dell’esecuzione penale, ormai destinato all’oblio in un’epoca di populismi dilaganti – sono state concepite per una popolazione penitenziaria sostanzialmente omogenea da un punto di vista linguistico, culturale e religioso. L’attuale utenza, al contrario, risulta essere composta di un buon 30% di stranieri, in quanto tali, portatori di un patrimonio di conoscenze ed esperienze assai distanti dalle nostre, e per tale ragione esposti alla emarginazione ghettizzante e al rischio di radicalizzazione, non sempre superabile con il pur apprezzabile strumento della mediazione culturale, contemplata peraltro persino dalle linee guida del Consiglio d’Europa. A completare il suaccennato quadro di caos normativo, si aggiunga lo standard c.d. multilivellare di tutela dei diritti fondamentali, apprestato dalle fonti sovranazionali, con la pluralità di apporti normativi che finiscono per intersecarsi con le disposizioni interne, rendendo particolarmente complessi i processi interpretativi degli operatori del diritto in genere, e del giudice per primo. Tutto quanto sopra non poteva non provocare – come approdo finale – una parallela perdita di peso specifico della fonte legislativa, ormai sovrastata di fatto dalle decisioni additive della Corte Costituzionale, dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia di Lussemburgo, da quelle della Corte Europea per i diritti umani e, venendo ai confini nazionali, persino dalle decisioni della magistratura di sorveglianza. La stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale ha più volte riesumato la nozione di pena in senso polifunzionale, cominciando con il puntualizzare che la finalità rieducativa della pena debba caratterizzare non soltanto la fase espiativa, ma anche la scelta della pena più adeguata al fatto e al reo. Precisando altresì che essa finalità va valorizzata nel suo “contenuto ontologico”, vale a dire “da quando nasce nella astratta previsione normativa fino a quando in concreto si estingue”, spingendosi oltre fino al punto di qualificarla come “patrimonio della cultura giuridica europea” (C. Cost., n. 313 del 1990). Peccato, però, FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6 - Voci


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La Corte europea dei diritti dell’uomo (abbreviata in CEDU o Corte EDU) è un organo giurisdizionale internazionale, istituita nel 1959 dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 1950, per assicurarne l’applicazione e il rispetto. Vi aderiscono quindi tutti i 47 membri del Consiglio d’Europa. Foto: Aula della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in Strasburgo, di Adrian Grycuk / CC BY-SA 3.0-pl / Wikimedia Common

che la law in book, di matrice sovranazionale, non si sia mai sin qui preoccupata di consacrare quel principio in un preciso enunciato normativo! Già nel 2007 (sent. n.78), d’altro canto, la Consulta aveva rimarcato il carattere universalistico del finalismo rieducativo. In epoca ancora più recente, da ultimo, è stato definitivamente consacrato il principio che “l’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena è da declinarsi nella fase esecutiva come necessità di costante valorizzazione da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l’intero arco di espiazione della pena. La pena, inoltre, deve potere esplicare in concreto la propria costituzionalmente necessaria funzione rieducativa anche rispetto agli autori dei più gravi reati” (C. Cost. sent. n. 194 del 2018). Prerogativa irrinunciabile di ogni istanza rieducativa rimane, infatti, la circostanza che la pena, quale che sia e per qualsivoglia reato venga irrogata, non si traduca mai in “trattamenti contrari al senso di umanità” (art.27 co.3 Cost.), atteso che ogni violazione dei diritti fondamentali del condannato, che non sia intimamente ricollegabile alle restrizioni funzionali Voci - FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6

allo scopo della privazione della libertà personale, ne vilipende la dignità e finisce per pregiudicare sensibilmente le concrete chance di rieducarlo alla legalità, proprio perché illegittimamente umiliato nella sua dignità di uomo. Ciò, all’evidenza, senza pregiudizio della parallela esigenza di bilanciamento tra istanze rieducative ed esigenze di difesa sociale, peraltro ribadita nella recentissima decisione n.188 dello scorso giugno. Obiettivo, altrettanto strategico quest’ultimo, che la magistratura di sorveglianza, vera e propria custode dell’idea rieducativa, è chiamata a perseguire quotidianamente nell’esercizio della sua funzione istituzionale di giurisdizione incentrata più sulla personalità del condannato che sul fatto di reato. A ben vedere, infatti, la finalità rieducativa nel nostro ordinamento finisce per essere rimessa all’apprezzamento  esclusivo del giudice di sorveglianza, incaricato di adeguare, in sede esecutiva, nel singolo caso il trattamento sanzionatorio alle caratteristiche personologiche del condannato, valutando i presupposti per la meritevolezza della concessione di una misura esterna al carcere, le modalità concrete di esecuzione della misura alternativa, attraverso l’imposizione delle relative prescrizioni, la durata del beneficio, potendolo revocare, nonché l’esito finale delle misure stesse.

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Ciò premesso, nella valutazione delle prassi applicative quotidiane, vanno segnalati alcuni profili di criticità, peraltro verosimilmente assai strettamente legati fra loro, che rischiano di pregiudicare l’adempimento della funzione peculiare della magistratura di sorveglianza di salvaguardia della surrichiamata idea rieducativa. Il primo è quello che attiene alla effettiva conoscibilità, da parte del cittadino, della giurisprudenza esecutiva, in assenza di banche dati on line, di database delle relative decisioni di merito, quantitativamente certo assai più numerose di quelle di legittimità, e di riviste scientifiche dedicate alla materia penitenziaria. Dalla or ora accennata lacuna conoscitiva non possono non scaturire, all’evidenza, conseguenze assai negative sull’utenza dei condannati e degli internati e sui loro difensori, già sul versante della prevedibilità delle decisioni, la cui assenza impedisce, in ultima analisi, alla difesa di calibrare le relative strategie sugli orientamenti precedenti della stessa magistratura di sorveglianza. Trascurando, al tempo stesso, di considerare che, concepita nella sua massima estensione logica, la prevedibilità presuppone altresì la possibilità per il potenziale autore del reato di sapere in anticipo se la propria condotta sarà penalmente rilevante, quale pena dovrà eventualmente scontare, in quale modo sarà esercitata la discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena, se saranno applicabili misure alternative o benefici di altra natura. Per il soggetto che si determina a commettere un reato, potrebbe certo, inoltre, rivelarsi assai utile conoscere in anticipo gli elementi di valutazione positiva della personalità del reo più abitualmente presi in considerazione dal magistrato di sorveglianza, vale a dire, a titolo di esempio, la correttezza del comportamento processuale, la realizzazione di condotte riparative nei confronti della vittima del reato, la resipiscenza dimostrata, l’adeguato supporto offerto dalla rete socio-familiare e lavorativa. Così come, al contrario, avere contezza di quelli di valutazione negativa, ravvisati assai di frequente rispettivamente nella insensibilità mostrata per le sofferenze causate dal reato, nelle patologie psichiatriche diagnosticate, nella dipendenza da alcool o da stupefacenti, nell’abituale ricorso al delitto per procurarsi i mezzi di sussistenza. Il predetto vulnus assume ancor maggiore consistenza, laddove si consideri che la stessa Corte EDU è intervenuta ripetutamente sul tema della prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali (penso alla sent. Del Rio Prada c. Spagna del 2013 e alla Viola c. Italia 2 dello scorso giugno sul’ergastolo ostativo), 13

rimarcando il principio che anche l’esecuzione penale è assoggettata alle garanzie previste dalla CEDU in ordine ai principi di prevedibilità e affidamento, quali corollari del principio di irretroattività in malam partem. Aggiungendo, altresì, che la prevedibilità, dal punto di vista soggettivo del destinatario della decisione, va parametrata all’esperienza specifica e al patrimonio di conoscenza dell’interessato, al suo livello culturale e/o professionale. Tornando all’interno dei confini di casa nostra, si consideri che l’esigenza di prevedibilità si rivela ancora più marcata per le decisioni della magistratura di sorveglianza in punto di revoca di benefici precedentemente concessi, sol che ci si soffermi a riflettere sulla differente valutazione della gravità delle violazioni delle prescrizioni della misura alternativa. Uno stesso comportamento (es: mancato rispetto degli orari della permanenza domiciliare) può provocare, a seconda della valutazione discrezionale del singolo magistrato di sorveglianza, la semplice ammonizione del soggetto, la modifica in peius delle prescrizioni o l’avvio della procedura di revoca e/o sostituzione della misura, ex art. 51 ter O.P. Se tutto ciò non bastasse ad interrogarci sulla opportunità di avviare quanto prima processi di rieducazione dei soggetti preposti dall’ordinamento al concreto adempimento della funzione della pena, che si rivelino adeguati a superare le criticità sin qui evocate, si consideri da ultimo, non certo in ordine di importanza, la assoluta inadeguatezza dei dati dell’osservazione della personalità, raccolti dalla equipe di educatori, assistenti sociali, psicologi, operanti all’interno del carcere, e trasfusi nelle cc.dd. relazioni di sintesi, spesso infarcite di termini tecnici delle scienze sociali, di difficile comprensione per gli operatori di formazione giuridica. Alla superiore difficoltà si aggiunga, poi, quella altrettanto seria attribuibile ai medesimi operatori penitenziari, di individuare con la maggiore precisione possibile i tratti salienti della personalità umana, notoriamente assai complessa, con l’ulteriore conseguenza, non meno devastante ai nostri fini, di registrare il frequente ricorso a vuote formule di stile. Né più efficace contributo alla migliore decisione del magistrato di sorveglianza offrono le informative provenienti dalle forze dell’ordine, anch’esse assai di frequente nelle prassi applicative, costellate di espressioni del tutto generiche, stereotipate (“frequenta soggetti pregiudicati” oppure “non può escludersi la possibilità che il soggetto, se liberato, torni a delinquere”), quando non assai datate, perché attinte dagli archivi di polizia e mai aggiornate e, per l’effetto, molto poco individualizzanti. FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6 - Voci


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Il Palazzo della Consulta, sede della Corte costituzionale della Repubblica italiana e fino agli anni ‘30 secolo scorso del ministero delle Colonie. Piazza del Quirinale, Roma. Foto di Jastrow / Pubblico dominio / Wikimedia Common

Ulteriori versanti, quelli or ora delineati, sui quali occorrerebbe avviare con la maggiore sollecitudine possibile percorsi rieducativi persino di formazione professionale, che all’evidenza andrebbero estesi agli stessi difensori, il cui ruolo nell’ambito dell’intero procedimento di sorveglianza, per tutta una serie di ragioni sulle quali non è possibile soffermarsi in questa sede, anche per ragioni di sintesi, si rivela del tutto marginale e inadeguato al perseguimento dell’importantissimo obiettivo finale della tutela della dignità umana del condannato, a maggior ragione se anche detenuto. Sulla scorta dei sommari rilievi che precedono, appare evidente come il quadro complessivo che emerge presenti seri profili problematici nell’attuazione della finalità rieducativa della pena. Gli interventi sin qui realizzati non si mostrano in grado di fornire risposte esaustive, neppure a lungo termine, all’emergenza carceraria che è tornata ad affliggere il nostro paese, come inequivocabilmente attestano gli ultimi dati statistici registrati dallo steso Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

L’idea rieducativa non può, e non deve, divenire un’utopia irrealizzata. D’altro canto, non può neppure mai essere rivolta a un uomo, considerato mero strumento di qualsivoglia strategia politica (di sicurezza sociale, di governo dell’immigrazione, di contrasto al terrorismo), come tale, del tutto incapace di fare scelte consapevoli e responsabili, prima fra tutte quella di prestare adesione alla sua riabilitazione sociale. Occorre, piuttosto, evitare il contatto col mondo carcerario, ogni qualvolta lo stesso possa condurre a deterioramenti della personalità del soggetto, a palesi violazioni della sua dignità umana. Il potenziamento delle misure alternative e la loro applicazione rimane realisticamente un percorso seriamente alternativo al carcere, destinato a supportare in concreto l’idea della pena rieducativa, concepita anche come finalizzata ad evitare qualsiasi pericoloso, più o meno latente, conflitto tra il pianeta carcere e il mondo esterno.

Gli strumenti deflattivi, consistenti in riduzioni della pena e monetizzazioni del danno subito a seguito di reclusioni in condizioni al limite della vivibilità, non possono certo essere visti come strumenti di risoluzione del problema.

È evidente che un sistema ripensato e completato con le dovute alternative alla pena detentiva comporterebbe investimenti di tempo, impegno da parte del legislatore e sopratutto risorse economiche, difficili da reperire in un momento storico difficile come quello che il paese sta vivendo.

Serve, al contrario, un disegno lungimirante e di ampio respiro, che analizzi il sistema sanzionatorio nella sua globalità, magari provando ad evolversi in termini meno carcero-centrici.

Non rimane che auspicare, in ultima analisi, che anche l’opinione pubblica, seppur giustamente allarmata da episodi di criminalità talvolta particolarmente efferati, possa essere messa nelle condizioni di inquadrare

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correttamente il problema e di comprendere come una pena, attenta agli aspetti rieducativi, non sia affatto una pena necessariamente minusvalente, men che meno un segno di resa nella amministrazione della giustizia, ma piuttosto sia la sola in grado di assicurare un effettivo cambiamento in meglio e, in ultima analisi, un futuro nel quale il sentimento stesso di giustizia e convivenza civile possano risultarne rafforzati da autentica condivisione. Condivisione magari spinta fino al punto di comprendere che l’effettivo reinserimento comincia creando un sistema socialmente sano, vale a dire una società che non cerchi di inquinare le relazioni umane nel quartiere, nelle scuole, nelle piazze, nelle vie, nelle abitazioni, in tutto il contesto di riferimento. Un sistema di civile convivenza capace altresì di generare una cultura di prevenzione di quelle situazioni patologiche strutturali e culturali che in ultima analisi finiscono per deteriorare l’intero tessuto sociale. Sforzandosi di guardare a quel contesto, senza rimanere imprigionati nel passato, senza continuare a cedere all’inganno sociale che crede che la sicurezza e l’ordine sociale si raggiungono solo privando il soggetto deviante della libertà personale, ma proiettandosi piuttosto sul futuro. Evitando, altresì, di far calare sul tema quella coltre di silenzio, dovuto non tanto al fatto che il carcere non è un tema che affascina, quanto piuttosto ad una ragione verosimilmente più smaccatamente politica, vale a dire quella che esso presuppone una realtà virtuale che in tanto si mantiene in vita in quanto alimenta quell’industria della paura, che è un parto della politica, appunto perché in ultima analisi porta acqua al mulino della stessa. Forse, a tale riguardo, faremmo bene a meditare con calma ed attenzione, e poi magari sottoscrivere, le parole, manco a dirlo ancora una volta straordinariamente efficaci, di Papa Francesco. Riferendosi alla realtà carceraria, il Sommo Pontefice propone la metafora delle finestre presenti nelle prigioni, auspicando al tempo stesso che le carceri abbiano sempre una finestra e un orizzonte, anche quando la pena è perpetua (Nessuno può cambiare la propria vita - sottolinea - se non vede un orizzonte! Molte volte la società, mediante decisioni legaliste e disumane, giustificate da una presunta ricerca del bene e della sicurezza, cerca nell’isolamento e nella detenzione di chi agisce contro le norme sociali, la soluzione ultima ai problemi della vita di comunità. Così si giustifica il fatto che si destinino grandi quantità di risorse pubbliche a reprimere i trasgressori, invece di ricercare veramente la promozione di uno sviluppo integrale delle persone che riduca le circostanze che 15

favoriscono il compimento di azioni illecite. È più facile reprimere che educare, e direi che è anche più comodo negare l’ingiustizia presente nella società e creare questi spazi per rinchiudere nell’oblio i trasgressori, che offrire pari opportunità di sviluppo a tutti i cittadini). Come ha rilevato la più autorevole dottrina (GIOSTRA), con altrettanta efficacia, “il tempo della pena non dovrebbe mai essere una sorta di time out esistenziale, una clessidra senza sabbia, ma un tempo di opportunità per un ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale. Nessuna situazione soggettiva (immigrato, senza fissa dimora etc…), o nessun tipo di reato commesso, dovrebbe costituire di per sé esclusione dalle opportunità di recupero sociale”. Obiettivo quest’ultimo che potremmo certo raggiungere più agevolmente se solo tenessimo a mente le parole di Spinoza, nel suo Tractatus politicus (I,4), con le quali dichiarava di non volere “deridere, né compiangere, né tantomeno detestarle azioni umane, ma comprenderle”. Comprendere le persone, le loro vite, le loro storie rimane, infatti, la precondizione principale per proteggerle e risolvere i loro problemi reali! Urge, dunque, un cambio di mentalità per riuscire a vedere prima di tutto come persone coloro che commettono reati, mantenendo a distanza di sicurezza il vociare astioso e sovraeccitato degli odierni riformatori, orientati a considerare i soli aspetti retribuzionisti (“Oggi, in modo particolare, le nostre società sono chiamate a superare la stigmatizzazione di chi ha commesso un errore poiché, invece di offrire l’aiuto e le risorse adeguate per vivere una vita degna, ci siamo abituati a scartare piuttosto che a considerare gli sforzi che la persona compie per ricambiare l’amore di Dio nella sua vita. Molte volte, uscita dal carcere, la persona si deve confrontare con un mondo che le è estraneo, e che inoltre non la riconosce degna di fiducia, giungendo persino a escluderla dalla possibilità di lavorare per ottenere un sostentamento dignitoso. Impedendo alle persone di recuperare il pieno esercizio della loro dignità, queste restano nuovamente esposte ai pericoli che accompagnano la mancanza di opportunità di sviluppo, in mezzo alla violenza e all’insicurezza” Discorso di Sua Santità Papa Francesco ai partecipanti all’Incontro Internazionale per il Responsabile Regionale e Nazionale della Pastorale Penitenziaria, 8 novembre 2019, in: www.vatican.va ).

Maurizio Gemelli Docente a contratto di Diritti Umani presso il DEMS dell’Università di Palermo

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IL SISTEMA GIUDIZIARIO ITALIANO AL VAGLIO DELLE NAZIONI UNITE di Giuseppe Provenza

© Hans Neleman / Foto stock / Getty Images

Il 4 novembre scorso si è tenuta la sessione dell’Universal Periodic Review (UPR) dedicata all’Italia. Come è noto, mediante l’UPR, ogni 4-5 anni il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU compie un monitoraggio sullo stato dei Diritti Umani in ogni paese durante il quale: ff viene presentata dallo stesso una relazione sul proprio rispetto degli obblighi derivanti dalle convenzioni che ha ratificato; ff vengono riepilogate le osservazioni degli organi dell’ONU competenti in materia comunicate al governo del paese; ff vengono presentate le osservazioni delle delegazioni di altri paesi; ff vengono comunicati i rilievi di alcune parti interessate (stakeholders), ossia di Organizzazioni non governative operanti nel settore dei Diritti Umani. Quest’anno l’Italia ha ricevuto 76 osservazioni da parte dei vari organismi ONU, 306 osservazioni da 121 delegazioni di altri paesi, e 93 osservazioni da 34 stakeholders, fra cui Amnesty International Italia. Voci - FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6

Ci soffermiamo qui su quanto è stato osservato in materia di giustizia e carceri.

Osservazioni di Organismi ONU Il Comitato per i Diritti Umani (che vigila sul rispetto del Patto sui Diritti Civili e Politici) si è detto preoccupato per l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari e per l’accesso limitato all’assistenza legale gratuita a causa dei criteri restrittivi e della mancanza di informazioni sull’accesso all’assistenza legale gratuita. Particolarmente grave è quanto espresso dal Comitato per i Diritti Economici, Sociali e Culturali (che vigila sul relativo Patto) che, nel 5° report sull’Italia del 28 ottobre 2015 al paragrafo 10, pur riconoscendo l’adozione nel 2012 della legge anticorruzione, ha manifestato il timore che la corruzione rimanga pervasiva all’interno dello Stato parte, anche in sede giudiziaria. Il Comitato si è detto anche preoccupato che le istituzioni create per frenare la corruzione siano inadeguate e con scarse risorse. (Per la delicatezza dell’argomento, si riporta qui il testo originale: “10. While acknowledging the adoption in 2012 of the Anti-Corruption Act, the Committee is concerned that

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corruption remains pervasive within the State party, including in the judiciary. It is also concerned about the inadequate and underresourced institutions set up to curb corruption.”) Nell’allegato alla relazione presentata all’Assemblea Generale dell’ONU dal Gruppo di Lavoro degli Esperti sulle Persone di Origine Africana in seguito alla visita in Italia, si legge fra l’altro al paragrafo 50: “Afrofobia e discriminazione razziale si manifestano nella mancanza di protezione offerta alle persone di origine africana, un gruppo vulnerabile, e in particolare nella difficoltà che le persone di origine africana hanno nell’accesso alla giustizia e nell’incapacità di perseguire e fornire risarcimento e rimedio. La correzione di questa inaccettabile situazione deve essere compiuta attraverso l’istruzione e i leader devono rispondere e condannare pubblicamente questi incidenti, nonché agire per assicurare alla giustizia gli autori e prevenire un ulteriore aumento dell’odio”. Al paragrafo 82 del medesimo allegato viene peraltro consigliato all’Italia: “Dovrebbero essere raccolti e analizzati i dati per valutare la discriminazione razziale nel sistema di giustizia penale. Inoltre dovrebbero essere tenute in considerazione le leggi che vietano i profili razziali da parte delle forze dell’ordine. Dovrebbero essere adottate misure per garantire l’accesso dei detenuti ad avvocati ed interpreti.” Da parte del Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Arbitraria, nell’allegato alla relazione presentata all’Assemblea Generale in seguito alla visita in Italia, al paragrafo 70 viene scritto: “Il governo dovrebbe intensificare gli sforzi per affrontare le cause profonde di discriminazione nel sistema giudiziario penale, in particolare per ridurre gli alti tassi di incarcerazione tra cittadini stranieri e rom.” Nello stesso documento, viene anche evidenziato che permangono preoccupazioni riguardo all’elevato numero di detenuti in detenzione preventiva e, di conseguenza, per il problema del sovraffollamento nel sistema penitenziario. Inoltre, è necessario monitorare e porre rimedio all’applicazione sproporzionata della detenzione preventiva nel caso di cittadini stranieri e rom, compresi i minori. Il gruppo di lavoro si è detto anche preoccupato per le condizioni di detenzione nei centri di identificazione ed espulsione. Preoccupazioni sono espresse anche in relazione ai rimpatri sommari di individui, compresi in alcuni casi minori non accompagnati e richiedenti asilo adulti, nel contesto di accordi bilaterali di riammissione, principalmente a causa di screening inadeguati o inesistenti che non riescono 17

a determinare l’età o di una mancata comunicazione dei diritti degli interessati. Il gruppo di lavoro rileva che il regime speciale di detenzione per i trasgressori della mafia ai sensi dell’articolo 41 bis della legge sul sistema penitenziario non è stato ancora reso conforme agli standard internazionali sui diritti umani. Per quanto riguarda il sistema psichiatrico, il gruppo di lavoro ha raccomandato al governo di dare priorità alle proposte di riforma per chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari e trasferire le loro competenze alle strutture sanitarie sostitutive regionali.

Raccomandazioni da parte di delegazioni di altri stati In materia di giustizia, da parte delle delegazioni sono state esposte raccomandazioni da Germania e Danimarca riguardanti il sovraffollamento delle carceri e da Francia e Danimarca sull’opportunità di allineare la recente legge sulla tortura alla relativa convenzione internazionale.

Osservazioni di stakeholders Anche da parte di alcune organizzazioni non governative è stato messo l’accento sulla lunghezza dei processi. Amnesty International Italia, nel sottolineare come la legge sulla tortura recentemente approvata in Italia non sia coerente con la definizione di tortura della convenzione internazionale, mette in rilievo come nella legge manchino chiare disposizioni per combattere e prevenire la tortura, come l’inammissibilità di qualunque giustificazione della tortura, l’inclusione nella formazione degli ufficiali di polizia del divieto assoluto di tortura, l’obbligo di tenere costantemente sotto controllo le disposizioni in materia di interrogatorio.

Conclusioni L’articolo 27 comma 3 della Costituzione Italiana afferma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” È noto e risulta evidente dalle osservazioni ricevute, come l’Italia debba, in merito, fare ancora parecchi passi avanti, innanzitutto perché il carcere sia concepito in primo luogo come strumento di riabilitazione più che di punizione. L’umanità richiesta dalla Costituzione va quindi vista anche ai fini della riabilitazione, fine a cui non è possibile tendere prescindendo dal trattamento umano, FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6 - Voci


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la cui assenza, o anche carenza, ne ostacolerebbe la realizzazione. Carceri sovraffollate, o architettonicamente inadeguate, se non fatiscenti, come alcune di quelle italiane, non corrispondono ai dettami della costituzione. Occorre quindi che vengano trovate adeguate soluzioni, innanzitutto, al sovraffollamento, anche, se non altro, utilizzando soluzioni alternative al carcere e ricorrendo in minor misura alla carcerazione preventiva.

Quando poi, da parte di organismi ed osservatori stranieri vengono messi in rilievo discriminazioni, se non, persino, casi di sospetta corruzione nel sistema giudiziario, non può non nascere il bisogno di una sua approfondita analisi al fine di individuare provvedimenti che sempre più avvicinino la pratica della giustizia allo spirito della Costituzione.

Tuttavia rimane estremamente grave, in Italia, il problema dell’eccessiva durata dei processi che costituisce senza alcun dubbio un trattamento inumano che non può essere più accettato.

Giuseppe Provenza Membro del Comitato direttivo di Amnesty International Italia Membro del Gruppo Amnesty Italia 233

VERITÀ PER GIULIO REGENI

https://www.amnesty.it/appelli/corri-con-giulio/

#VERITÀPERGIULIOREGENI

Torturato e ucciso in Egitto per le sue ricerche sul campo - IL CASO “Ho riconosciuto Giulio solo dalla punta del naso. Quello che è successo non è un caso isolato” – Paola Deffendi, madre di Giulio Giulio Regeni, 28 anni, è stato ucciso in Egitto tra la fine di gennaio e i primi di febbraio 2016. Il suo corpo martoriato è stato trovato in un fosso alla periferia del Cairo il 3 febbraio 2016 con evidenti segni di tortura. Giulio, originario del Friuli, era un dottorando dell’università di Cambridge nel Regno Unito. Si trovava in Egitto per svolgere una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani presso l’Università americana del Cairo. Il 25 gennaio 2016, in un clima di forte tensione per il quinto anniversario dell’inizio delle proteste che portarono alle dimissioni del presidente Hosni Mubarak, è uscito di casa per raggiungere i suoi amici a una festa di compleanno, dove non è mai arrivato. Il suo corpo devastato dalle torture, è stato ritrovato per caso il 3 febbraio 2016 nei pressi di Giza, lungo la strada che dal Cairo porta ad Alessandria. Aveva il volto irriconoscibile, su cui “si era abbattuto tutto il male del mondo”, ha raccontato Paola, la mamma di Giulio Regeni. La brutale uccisione di Giulio Regeni ha scioccato il mondo, ma ha anche acceso i riflettori sul metodo delle sparizioni forzate praticato oggi in maniera sistematica in Egitto e che i ricercatori di Amnesty International hanno documentato attraverso fatti e testimonianze. Il quadro che ne risulta è allarmante: in media tre quattro persone al giorno sono vittime di sparizioni forzate nel paese. Una strategia mirata e spietata diretta dall’Agenzia per la sicurezza nazionale che risponde al ministro degli interni egiziano Magdy Abd el-Ghaffar. Firma l’appello al presidente al-Sisi e chiedigli di avviare una indagine approfondita e indipendente sull’omicidio di Giulio Regeni e di assicurare i responsabili alla giustizia.

https://www.amnesty.it/appelli/corri-con-giulio/ Voci - FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6

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Teatro e Letteratura

PENA E CULTURA di Paola Caridi

Compagnia della Fortezza: Naturae – ouverture / Fortezza Medicea, Carcere di Volterra (PI). Luglio-Agosto 2019 © Stefano Vaja / Fonte: compagniadellafortezza.org

La cultura in carcere, per me, ha il volto serio di un amico dei tempi dell’università. Un amico che se n’è andato troppo presto, per un tragico incidente stradale, nel 2008. Si chiamava Rocco Carbone, era il più bravo tra noi che, agli inizi degli anni Ottanta, frequentavamo la facoltà di Lettere e Filosofia della più importante università romana, la Sapienza. Un esperto di letteratura italiana, un uomo colto, serissimo. Con gli anni, aveva deciso di coltivare quello che era non solo il suo sogno. Lo chiamerei, semmai, il suo disegno. Era diventato uno degli scrittori importanti per la sua generazione, autore di romanzi pubblicati da grandi editori come Feltrinelli e Mondadori. Rocco Carbone non aveva seguito – eppure poteva farlo – la carriera accademica. Era andato a insegnare, ma in un luogo che molti ritengono, nello stereotipo, l’extrema ratio. Per lui, invece, era stata una scelta precisa, preferita ad altre – per così dire – più “normali”. Insegnava in un carcere, per la precisione nella sezione femminile dell’istituto penitenziario di Rebibbia, nella città – Roma – che dai tempi

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dell’università sarebbe divenuta, per tutto il resto della vita, la sua città. Era un lavoro a tempo pieno, 18 ore settimanali, di pomeriggio. Un lavoro preferito all’insegnamento in una scuola superiore. In un carcere, il rapporto non è tra un adulto – un professore – e gli adolescenti/ discenti. È una storia tra adulti, talvolta coetanei, in un luogo chiuso dalle sbarre della detenzione e della burocrazia carceraria. «Quanto è difficile avere a che fare con una classe di 20 o 30 adolescenti in un istituto normale», aveva però detto in una intervista, «tanto è facile avere a che fare con una classe di persone che hanno commesso dei reati e li stanno scontando. Il rapporto è capovolto». Della sua esperienza a Rebibbia, dove ora c’è una biblioteca a lui intitolata, Rocco Carbone aveva in qualche modo parlato nelle sue pagine di scrittore. Ma questo, a mio parere, non era l’elemento più importante. Era quello che lui aveva trasmesso alle sue allieve, il nodo di fondo. Non solo la sua

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Teatro e Letteratura

impareggiabile cultura, ma un metodo. Sceglieva autori che potevano apparire a prima vista difficili per chi non aveva alle spalle i “sani studi”. Perché, però, non proporre di leggere Tolstoj a chi stava scontando la sua pena? Rocco Carbone lo ha fatto, ha fatto leggere Tolstoj e non solo Tolstoj. Perché conoscere, imparare un metodo, leggere pagine miliari di letteratura aiuta a superare la subalternità. L’esperienza di Rocco Carbone è abbastanza rara: uno scrittore che si mette al servizio dei detenuti in un lavoro di insegnamento a tempo pieno. Ricade, in ogni caso, in quella idea diffusa – e necessaria – di fare entrare la cultura nelle carceri per aiutare la riabilitazione, la rieducazione, e cercare in questo modo di realizzare uno degli obiettivi della pena detentiva. La ricostruzione di una vita diversa, per i detenuti, che passa attraverso la consapevolezza che una cultura solida può dare. Da questo punto di vista, l’Italia del dopoguerra, e soprattutto degli ultimi decenni, ha scritto pagine importanti e belle. Senza grande clamore, anzi, quasi sempre in silenzio, la cultura entra da tempo nelle carceri italiane. E non ci entra in modo episodico, tanto per lavarsi la coscienza. Sono numerosi i progetti culturali per i detenuti. Dall’offerta di percorsi scolastici e universitari, di scrittura creativa e di lavori legati all’editoria, al teatro che è pratica consolidata da decenni (l’esempio più di rilievo, la Compagnia della Fortezza a Volterra). Per non parlare degli incontri con scrittori e artisti che in carcere non vanno una sola volta, ma che incontrano i detenuti in un vero e proprio percorso, come quello che da anni sostiene il Salone internazionale del Libro di Torino con il suo progetto “Adotta uno scrittore”. Sono esperienze formative, non solo per i detenuti. Ne sono prova i libri nati da questi incontri, come l’ultimo volume – pubblicato da Sellerio – scritto da Marco Malvaldi assieme a Glay Ghammouri, ex militare tunisino oggi detenuto in Italia a causa di un grave delitto. Un libro nato, appunto, da un incontro nel carcere di Pisa che diviene l’inizio di una storia insieme. La cultura apre dunque il portone di un carcere, entra, fornisce i propri strumenti. La direzione, dal “fuori” libero al “dentro” della prigione, sembra quella più naturale. Occorre rieducare chi ha sbagliato. Chi è fuori si ritiene dunque il depositario di una cultura che poggia sulla legalità. Una cultura che nulla deve imparare. È possibile, invece, partire dal percorso inverso? Dalla direzione contraria? È possibile che i detenuti possano insegnarci qualcosa? Sarebbe più facile pensarlo, questo percorso “al contrario”, nei Paesi in cui a essere detenuti, a riempire le celle sono scrittori, artisti, pensatori, intellettuali, Voci - FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6

strappati alla libertà da regimi dichiaratamente dittatoriali o appena nascosti dietro istituzioni statuali che di democratico hanno solo maschere. In quei casi, così ahimè numerosi, i corpi degli artisti debbono essere separati dal mondo libero, rinchiusi nelle mura inaccessibili delle prigioni, proprio perché non ci sia la possibilità di farsi ascoltare dal pubblico. Occorre strappare i corpi degli artisti alla visione del mondo e renderli invisibili poiché sono quegli stessi corpi a rappresentare un pericolo, per le dittature: vale per tutti il caso di Vaclav Havel, drammaturgo che aveva conosciuto il carcere a Praga per la sua dissidenza e che, dopo il 1989, venne eletto presidente dell’allora Cecoslovacchia ancora unita. Quando, invece, chi è in prigione non è un detenuto politico o un prigioniero di coscienza, è possibile, per chi è fuori dalle mura del carcere, pensare di essere destinatario di un’offerta culturale? Nelle pieghe di storie poco raccontate al grande pubblico, si scopre che sì, è possibile pensarlo. Un esempio, tra i tanti, è quello della casa editrice Sinnos, uno dei nomi più rilevanti nel panorama delle case editrici per l’infanzia e l’adolescenza. Quasi trent’anni di storia iniziata in un carcere, anche in questo caso nell’istituto penitenziario di Rebibbia. Racconta Della Passarelli, direttrice editoriale e cofondatrice di Sinnos e, allora, una delle volontarie: “da un’idea di Antonio Spinelli e di un gruppo di detenuti che avevano imparato ad impaginare e volontari che li hanno sostenuti nella costituzione di una cooperativa, nasce una casa editrice che con il carcere non ha nulla a che fare, se non la sede all’inizio e alcuni soci lavoratori, ma che vuole invece contribuire a costruire pensiero, immaginazione attraverso i libri che lasciassero segni. All’inizio i segni sono stati quelli delle diverse lingue e gli immigrati che stavano arrivando nel nostro Paese da tutto il mondo sono stati gli autori di una collana storica per chi si occupava di intercultura: I Mappamondi”. Oggi la Sinnos ha un ruolo riconosciuto, diffuso, alto, che piacerebbe ad Antonio Spinelli, morto all’improvviso per un malore nel 2005. A lui sono dedicate le Biblioteche di Antonio, biblioteche sorte in luoghi dove leggere è ancora difficile per l’assenza di librerie e di luoghi deputati. Da Lampedusa a San Giuseppe Jato, e in giro per l’Italia, le Biblioteche di Antonio dimostrano che le idee possono anche partire dalla reclusione e gemmare tra i liberi.

Paola Caridi Giornalista e storica, esperta di sistemi politici del Medio Oriente e Nord Africa

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Cinema

UN CONDANNATO A MORTE È FUGGITO di Francesco Castracane

Questo articolo inizia con il titolo di uno dei più importanti film della storia del cinema, una pellicola del 1956, di uno dei registi della Nouvelle Vague francese, Robert Bresson. Un lavoro costruito con una grande sobrietà di immagine, che sarà comunque la cifra stilistica di questo grande regista. Il film, tratto dal racconto autobiografico di André Devigny, racconta dell’evasione da un carcere di un componente della resistenza francese durante la seconda guerra mondiale. Perché iniziare da questo film? Perché il dibattito sul significato rieducativo della detenzione è strettamente intrecciato con la riflessione sulla pena di morte. Quindi in questo articolo si parlerà anche dei film sulla pena di morte e sulle condizioni carcerarie. Fin dalla sua nascita, infatti il cinema si è occupato di parlare di tali questioni. Raccontare le dure condizioni della vita carceraria, ha il senso di mostrare la dicotomia fra quanto le leggi dichiarano e la sua reale applicazione nella realtà. Ma vorrei dedicare questo articolo a Giulio Salierno, autore di un volume stampato nel 1976 che si chiama: “Autobiografia di un picchiatore fascista”. Giulio Salierno alla fine degli anni ’40 del ‘900 è iscritto alla sezione romana di Colle Oppio del Movimento Sociale Italiano. Frequenta la Roma del sottobosco fascista dell’epoca, costituito da transfughi della Repubblica Sociale Italiana, palestre di boxe, picchiatori e personaggi non proprio onesti, fino a diventare allievo dello spiritualista di destra Julus Evola. Sogna di uccidere il capo partigiano Audisio, ma durante il furto di una macchina ne uccide il proprietario. Scappa in Francia, si arruola nella Legione Straniera ma alla fine viene arrestato e portato in Italia. In carcere comincia a studiare, si laurea in sociologia e prende le distanze dal suo passato. Nel 1968, l’allora Presidente della Repubblica Saragat gli concede la grazia. Da allora Salierno, che grazie allo studio ha capito i propri errori, sarà impegnato assieme a Franco Basaglia nell’apertura dei manicomi e nella riforma carceraria. Nel 1976 appunto, scrive questo libro dove racconta la propria esperienza di “picchiatore fascista”. Finisce gli ultimi anni della sua vita a insegnare sociologia all’Università di Sassari. Ho voluto raccontare questa storia perché emblematica di come lo studio e le occasioni di riflessione che si possono avere in carcere, possano divenire lo strumento per ripensare in maniera critica al proprio passato. Di esempi in tal senso ce ne sono moltissimi. Ma ora l’intendimento dello scrivente e quello di svolgere una breve ricognizione di alcune delle opere che si

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Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson, Francia 1956

L’uomo di Alcatraz di John Frankenheimer, USA 1962

Brubaker di Stuart Rosenberg, USA 1980

American History X di Tony Kaye, USA 1998 FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6 - Voci


Cinema

ritengono essere più interessanti e significative, più o meno in ordine cronologico: Ovviamente in questo breve viaggio nel cinema non può mancare un film del 1962 “L’uomo di Alcatraz” di John Frankenheimer. Il film, fotografato in uno splendido bianco e nero, è tratto dalla biografia di Robert Stroud, una persona che nel 1909 fu condannata a morte per omicidio, ma al quale fu poi commutata la pena in ergastolo. La sobria recitazione di Burt Lancaster ci mostra un personaggio, che durante la detenzione impara ad allevare volatili fino a scrivere decine di libri sull’allevamento degli uccelli. Successivamente, con lo studio in carcere, riuscirà a scrivere un trattato sulle condizioni carcerarie. Le autorità degli Stati Uniti tentarono di bloccare la produzione del film, senza riuscirci. Un Robert Redford di annata è invece il protagonista di “Brubaker” del 1980, dove al nuovo direttore del penitenziario viene impedito di attuare le riforme necessarie per cambiare le condizioni dei detenuti.

Il profeta di Jacques Audiard, Francia 2009

Il figlio dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, Belgio/Francia 2002

E’ del 1998 uno dei film più interessanti sul percorso di ripensamento della propria vita che può avvenire in carcere. Si parla di “American History X” con un Edward Norton componente di un gruppo di suprematisti bianchi in carcere per avere ucciso due neri, che durante la detenzione si rende conto che gli unici due che lo hanno aiutato sono due neri. Un finale tragico ma un ritmo e un montaggio incessante, che lasciano lo spettatore in ansia fino alla fine. Invece, nel “Il profeta” del 2009, un arabo analfabeta viene condannato a 7 anni di reclusione. In carcere impara a leggere ma scala rapidamente le scale del mondo criminale, in una struttura carceraria dove i detenuti vengono abbandonati a se stessi. Assolutamente degno di nota il lavoro “Il figlio” dei belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne (2002). Olivier insegna falegnameria in un centro che si occupa del reinserimento di giovani disadattati e usciti da riformatorio. Un giorno un Assistente Sociale gli chiede di accogliere come apprendista un ragazzo di 16 anni, che 5 anni prima ha ucciso suo figlio. Un film frugale, quasi eversivo, che non lascia scampo allo spettatore e lo interroga dalla prima all’ultima scena: cosa fareste voi? Accettereste di seguire l’assassino di vostro figlio? E se sì perché? E se no perché? Una macchina costantemente attaccata ai protagonisti, come è nello stile dei Dardenne, per sviluppare una riflessione profonda sul concetto di vendetta, di perdono, di risentimento o di rinascita. Non si dice il finale. Sempre dei fratelli Dardenne, non si può non citare “L’enfant” (2005), una cruda storia di bambini venduti a trafficanti. Voci - FEBBRAIO 2020 N.1 / A.6

L’enfant dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, Belgio/Francia 2005

The Experiment di Paul Scheuring, USA 2010

XIII emendamento (13th) di Ava DuVernay, USA 2016

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Cinema

Interessante ma forse un po’ troppo didascalico il film “4 Minuti” di Chris Kaus (2006). Una giovane donna è in carcere per un omicidio ed è considerata estremamente pericolosa. Invece l’insegnante di piano ne intuisce le potenzialità e nonostante le grandi difficoltà, alla fine la ragazza riuscirà ad esibirsi, per 4 minuti appunto, ad un concorso musicale. Da non perdere il film “The Experiment” (2010), di Paul Scheuring, mai distribuito in Italia e reperibile solamente in DVD. Il film si ispira all’esperimento realizzato dallo psicologo statunitense Dottor Zambardo, all’Università di Stanford nel 1971. A un gruppo di persone, 26 per l’esattezza, vengono coinvolte in un esperimento, dove 16 di queste saranno i prigionieri e gli altri 8 le guardie. Nonostante le buone intenzioni, lentamente ma inesorabilmente, le guardie cominciano a comportarsi da guardie e i detenuti da detenuti, fino a giungere a un livello di violenza incontrollabile. Il XIII Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, recita: «Né schiavitù o servitù involontaria, eccetto che come punizione per un crimine per cui il soggetto dovrà essere debitamente incarcerato, esisterà sul suolo degli Stati Uniti, o in ogni altro luogo». La regista statunitense Ava DuVernay, partendo da quanto scritto, crea un provocatorio documentario, intitolato appunto “13th” (2016), per dimostrare come la giustizia del suo paese sia particolarmente feroce con i neri. Essi vengono condannati ai lavori forzati, continuando quindi, per certi versi a mantenere parte della popolazione afroamericana nella dimensione psicologica della schiavitù. Si vuole concludere questa breve rassegna con due lavori italiani: il primo è “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani (2012), vincitore dell’Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino. Nella sezione alta sicurezza del carcere di Rebibbia sono rinchiusi detenuti che hanno commesso reati diversi, molti dei quali legati alla criminalità organizzata, condannati a pene che vanno da un minimo di quattordici anni fino all’ergastolo. Nell’ambito di un laboratorio teatrale, alcuni di costoro vengono coinvolti nell’allestimento del Giulio Cesare di William Shakespeare per la regia di Fabio Cavalli. I fratelli Taviani non si limitano a documentare il lavoro di preparazione dello spettacolo, riuscendo piuttosto a raccontare l’incontro tra un gruppo di uomini e l’arte attraverso un testo che, essendo incentrato sulla violenza delle lotte di potere, li tocca da vicino. Vengono mostrati i provini, le prove, a volte anche le discussioni fra i detenuti, che non sono detenuti qualsiasi, ma autori di reati di sangue. Ma i registi non ci dicono cosa abbiano compiuto. Poi avviene lo spettacolo all’interno del Teatro del Carcere.

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Cesare deve morire dei fratelli Taviani (2012)

Dustur di Marco Santarelli, Italia 2016

E forse per la prima volta i detenuti/attori scoprono una dimensione diversa della propria vita. Per queste persone il carcere è una ipotesi prevista, ma alla fine del film, nell’ultima scena, uno dei detenuti rientra in cella, e guardando la macchina dice: «Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione». Ma in conclusione non è possibile non citare il bellissimo documentario “Dustur” di Marco Santarelli (2016). Nella biblioteca del carcere bolognese di Dozza, un gruppo di detenuti arabi, coordinati da Fra Ignazio e dal mediatore culturale musulmano Yassin Lafram, discutono della Costituzione italiana, affrontando temi come l’uguaglianza, la libertà, il diritto al lavoro e all’istruzione. Tali questioni vengono confrontate con le leggi dei paesi di provenienza. Alla fine i detenuti provano a scrivere una nuova “Dustur”, una nuova Costituzione. Nel cimitero di Casaglia, luogo simbolo della strage di Marzabotto, Fra Ignazio e uno dei detenuti stilano una nuova Costituzione. Un lavoro veramente straordinario, purtroppo poco visto e conosciuto che meriterebbe una maggiore diffusione.

Francesco Castracane Educatore professionale nell’ambito delle dipendenze patologiche

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«Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.» (Pericle – Discorso agli ateniesi – 461 a.c.) www.amnestysicilia.org

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