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Pena e cultura /Teatro e Letteratura

PENA E CULTURA

di Paola Caridi

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La cultura in carcere, per me, ha il volto serio di un amico dei tempi dell’università. Un amico che se n’è andato troppo presto, per un tragico incidente stradale, nel 2008. Si chiamava Rocco Carbone, era il più bravo tra noi che, agli inizi degli anni Ottanta, frequentavamo la facoltà di Lettere e Filosofia della più importante università romana, la Sapienza. Un esperto di letteratura italiana, un uomo colto, serissimo. Con gli anni, aveva deciso di coltivare quello che era non solo il suo sogno. Lo chiamerei, semmai, il suo disegno. Era diventato uno degli scrittori importanti per la sua generazione, autore di romanzi pubblicati da grandi editori come Feltrinelli e Mondadori.

Rocco Carbone non aveva seguito – eppure poteva farlo – la carriera accademica. Era andato a insegnare, ma in un luogo che molti ritengono, nello stereotipo, l’extrema ratio. Per lui, invece, era stata una scelta precisa, preferita ad altre – per così dire – più “normali”. Insegnava in un carcere, per la precisione nella sezione femminile dell’istituto penitenziario di Rebibbia, nella città – Roma – che dai tempi dell’università sarebbe divenuta, per tutto il resto della vita, la sua città.

Era un lavoro a tempo pieno, 18 ore settimanali, di pomeriggio. Un lavoro preferito all’insegnamento in una scuola superiore. In un carcere, il rapporto non è tra un adulto – un professore – e gli adolescenti/ discenti. È una storia tra adulti, talvolta coetanei, in un luogo chiuso dalle sbarre della detenzione e della burocrazia carceraria. «Quanto è difficile avere a che fare con una classe di 20 o 30 adolescenti in un istituto normale», aveva però detto in una intervista, «tanto è facile avere a che fare con una classe di persone che hanno commesso dei reati e li stanno scontando. Il rapporto è capovolto».

Della sua esperienza a Rebibbia, dove ora c’è una biblioteca a lui intitolata, Rocco Carbone aveva in qualche modo parlato nelle sue pagine di scrittore. Ma questo, a mio parere, non era l’elemento più importante. Era quello che lui aveva trasmesso alle sue allieve, il nodo di fondo. Non solo la sua impareggiabile cultura, ma un metodo. Sceglieva autori che potevano apparire a prima vista difficili per chi non aveva alle spalle i “sani studi”. Perché, però, non proporre di leggere Tolstoj a chi stava scontando la sua pena? Rocco Carbone lo ha fatto, ha fatto leggere Tolstoj e non solo Tolstoj. Perché conoscere, imparare un metodo, leggere pagine miliari di letteratura aiuta a superare la subalternità.

L’esperienza di Rocco Carbone è abbastanza rara: uno scrittore che si mette al servizio dei detenuti in un lavoro di insegnamento a tempo pieno. Ricade, in ogni caso, in quella idea diffusa – e necessaria – di fare entrare la cultura nelle carceri per aiutare la riabilitazione, la rieducazione, e cercare in questo modo di realizzare uno degli obiettivi della pena detentiva. La ricostruzione di una vita diversa, per i detenuti, che passa attraverso la consapevolezza che una cultura solida può dare.

Da questo punto di vista, l’Italia del dopoguerra, e soprattutto degli ultimi decenni, ha scritto pagine importanti e belle. Senza grande clamore, anzi, quasi sempre in silenzio, la cultura entra da tempo nelle carceri italiane. E non ci entra in modo episodico, tanto per lavarsi la coscienza. Sono numerosi i progetti culturali per i detenuti. Dall’offerta di percorsi scolastici e universitari, di scrittura creativa e di lavori legati all’editoria, al teatro che è pratica consolidata da decenni (l’esempio più di rilievo, la Compagnia della Fortezza a Volterra). Per non parlare degli incontri con scrittori e artisti che in carcere non vanno una sola volta, ma che incontrano i detenuti in un vero e proprio percorso, come quello che da anni sostiene il Salone internazionale del Libro di Torino con il suo progetto “Adotta uno scrittore”. Sono esperienze formative, non solo per i detenuti. Ne sono prova i libri nati da questi incontri, come l’ultimo volume – pubblicato da Sellerio – scritto da Marco Malvaldi assieme a Glay Ghammouri, ex militare tunisino oggi detenuto in Italia a causa di un grave delitto. Un libro nato, appunto, da un incontro nel carcere di Pisa che diviene l’inizio di una storia insieme.

La cultura apre dunque il portone di un carcere, entra, fornisce i propri strumenti. La direzione, dal “fuori” libero al “dentro” della prigione, sembra quella più naturale. Occorre rieducare chi ha sbagliato. Chi è fuori si ritiene dunque il depositario di una cultura che poggia sulla legalità. Una cultura che nulla deve imparare. È possibile, invece, partire dal percorso inverso? Dalla direzione contraria? È possibile che i detenuti possano insegnarci qualcosa?

Sarebbe più facile pensarlo, questo percorso “al contrario”, nei Paesi in cui a essere detenuti, a riempire le celle sono scrittori, artisti, pensatori, intellettuali, strappati alla libertà da regimi dichiaratamente dittatoriali o appena nascosti dietro istituzioni statuali che di democratico hanno solo maschere. In quei casi, così ahimè numerosi, i corpi degli artisti debbono essere separati dal mondo libero, rinchiusi nelle mura inaccessibili delle prigioni, proprio perché non ci sia la possibilità di farsi ascoltare dal pubblico. Occorre strappare i corpi degli artisti alla visione del mondo e renderli invisibili poiché sono quegli stessi corpi a rappresentare un pericolo, per le dittature: vale per tutti il caso di Vaclav Havel, drammaturgo che aveva conosciuto il carcere a Praga per la sua dissidenza e che, dopo il 1989, venne eletto presidente dell’allora Cecoslovacchia ancora unita.

Quando, invece, chi è in prigione non è un detenuto politico o un prigioniero di coscienza, è possibile, per chi è fuori dalle mura del carcere, pensare di essere destinatario di un’offerta culturale? Nelle pieghe di storie poco raccontate al grande pubblico, si scopre che sì, è possibile pensarlo.

Un esempio, tra i tanti, è quello della casa editrice Sinnos, uno dei nomi più rilevanti nel panorama delle case editrici per l’infanzia e l’adolescenza. Quasi trent’anni di storia iniziata in un carcere, anche in questo caso nell’istituto penitenziario di Rebibbia. Racconta Della Passarelli, direttrice editoriale e cofondatrice di Sinnos e, allora, una delle volontarie: “da un’idea di Antonio Spinelli e di un gruppo di detenuti che avevano imparato ad impaginare e volontari che li hanno sostenuti nella costituzione di una cooperativa, nasce una casa editrice che con il carcere non ha nulla a che fare, se non la sede all’inizio e alcuni soci lavoratori, ma che vuole invece contribuire a costruire pensiero, immaginazione attraverso i libri che lasciassero segni. All’inizio i segni sono stati quelli delle diverse lingue e gli immigrati che stavano arrivando nel nostro Paese da tutto il mondo sono stati gli autori di una collana storica per chi si occupava di intercultura: I Mappamondi”. Oggi la Sinnos ha un ruolo riconosciuto, diffuso, alto, che piacerebbe ad Antonio Spinelli, morto all’improvviso per un malore nel 2005. A lui sono dedicate le Biblioteche di Antonio, biblioteche sorte in luoghi dove leggere è ancora difficile per l’assenza di librerie e di luoghi deputati. Da Lampedusa a San Giuseppe Jato, e in giro per l’Italia, le Biblioteche di Antonio dimostrano che le idee possono anche partire dalla reclusione e gemmare tra i liberi.

Paola Caridi: Giornalista e storica, esperta di sistemi politici del Medio Oriente e Nord Africa

Compagnia della Fortezza: Naturae – ouverture / Fortezza Medicea,
Carcere di Volterra (PI). Luglio-Agosto 2019 © Stefano Vaja / Fonte: compagniadellafortezza.org

Compagnia della Fortezza: Naturae – ouverture / Fortezza Medicea, Carcere di Volterra (PI). Luglio-Agosto 2019 © Stefano Vaja / Fonte: compagniadellafortezza.org