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La questione dell’ergastolo /Psicosociologia

LA QUESTIONE DELL’ERGASTOLO

di Aristide Donadio

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“La giustizia riparativa è un percorso volontario lungo il quale vittima e colpevole arrivano a un incontro dove la vittima possa sentirsi riconosciuta e riparata del male subìto e il responsabile possa assumere consapevolezza del male inferto: prima sapevo di essere un omicida, ora so di aver ucciso una persona”

G. Colombo

In tempi relativamente recenti in Italia la dicitura “Fine pena mai”, che connotava la condizione del recluso a vita, è stata tramutata in “Fine pena 31.12.9999”, qualcosa di decisamente kafkiano che ci induce a pensare che il tentativo di migliorare una locuzione ritenuta sconveniente abbia prodotto un rimedio che è peggiore del male. Sono in molti, a partire da Papa Francesco, a ritenere l’ergastolo una “pena di morte nascosta”, una pena avvertita dagli stessi condannati peggiore della stessa pena di morte (1).

Il termine “ergastolo” deriva dal latino ergastŭlu(m), un adattamento del termine greco ergastḗrion, derivato a sua volta da ergázesthai, ‘lavorare’; traducibile con ‘casa di lavoro’. Con questo termine i Romani indicavano l’abitazione degli schiavi impiegati principalmente nei lavori agricoli dei latifondi; ma sappiamo bene che nell’antichità classica gli schiavi vivevano una condizione sub-umana, tanto da non godere di alcun diritto civile e politico. Una condizione di reificazione, di allontanamento dal genere umano propriamente detto. Ma anche in questo caso la parola “ergastolo” nella nostra accezione risulta una definizione inappropriata, incongrua, che non aiuta a comprendere né la natura della condanna né la specie del condannato.

È da questi infelici tentativi di definire ciò che di per sé non è definibile (2), un “nomen-omen” inapplicabile, che ricaviamo l’assurdo nel senso etimologico del termine: il vuoto di senso (3), la nota stonata, l’allontanamento dalla significazione umana. Il fallimento linguistico ci induce già a ritenere che ci sia qualcosa di lontano dal concepibile: il de-umanizzante, –l’ergastolo–, si rivela sin dall’elaborazione del codice e del registro linguistico qualcosa di non-umano o dis-umano. Esiste, evidentemente, uno iato fra ciò che tentiamo di pronunciare, in un grottesco balbettio giuridicoburocratico, e ciò che siamo, invece, purtroppo in grado di fare.

Ma, per entrare davvero nel campo semantico di cui ci occupiamo, dobbiamo partire dall’atto deviante cui si ritiene di dover porre rimedio con la “pena di morte nascosta” o, per usare una definizione forse ancor più efficace, la ‘pena di morte viva’ (4).

Al di là di tante teorie ed enunciazioni criminologiche che non possono trovare spazio in queste pagine, credo che uno dei concetti che più riescono ad inquadrare il fenomeno deviante, con tutte le sue conseguenze, sia quello enunciato dallo psicanalista Winnicott nella sua opera del 1967 “La delinquenza come sintomo di speranza”, per cui l’atto deviante corrisponde ad una richiesta inconscia di aiuto e, nel contempo, ad un desiderio di spezzare uno schema incomprensibile, per chi lo vive, di sofferenza per attuare la fantasia, quasi fantasmatica (5), di poter tornare al periodo precedente la deprivazione (6). Vanno smontati alcuni pregiudizi di fondo, altrimenti non si entra in un campo semantico che consenta un approccio olistico, onnicomprensivo del continuum crimine-pena: va colta lo logica sottesa al crimine, ma anche quella alla base dell’idea stessa di pena. Uno dei pregiudizi da smontare è che esista la –cattiveria– (7) e che vi possa essere qualche tipologia di esseri umani che incarni il demonio e che quindi vada isolata o, persino, eliminata: un’idea già storicamente presentatasi ai tempi dell’Inquisizione, praticamente per tutto il Medioevo. Di diavolo è lecito parlare, ma nel senso etimologico di diabolus: scissione, separazione, allontanamento; ci troviamo infatti a parlare di individui separati/allontanati da sé e/o dal mondo esterno. A questo proposito può sicuramente tornare utile la rilettura della bellissima opera di Laing “L’io diviso”, nella quale si esprime bene quanto la condizione schizoide individuale sia sintomo ed effetto della cultura schizoide in cui siamo immersi, e che può condurre tanto alla condizione stessa di dissociazione schizoide quanto alla schizofrenia vera e propria. A livello individuale si tratta di una sofferta condizione di dissociazione da parti significative di sé stessi, da propri vissuti o componenti stesse della personalità, con conseguente alterazione della percezione di sé e della realtà circostante e con le relative ripercussioni anche nell’accezione giuridica della “capacità di agire”. In quella che Fromm definiva “patologia della normalità” ritroviamo gravi forme di alienazione, sia sotto l’aspetto psichico-relazionale che sotto il profilo socio-culturale, anche a causa delle diffuse sperequazioni che conducono a forme altrettanto diffuse di sofferenza e deprivazione: una società criminogena, in definitiva. Laddove è massima la responsabilità sociale, infatti, diviene minima quella individuale. La società criminogena, dopo aver determinato forme di dissociazione e alienazione, cerca poi in tutti i modi l’allontanamento da sé del criminale, così come aveva fatto col folle (8), sempre erigendo istituzioni totali aventi più il compito di emarginare, allontanare (ancora il diabolus) che quello di curare e reinserire. Va inteso, il criminale come il folle, non solo come paradossale disperato ‘sintomo di speranza’, come grida inconsce per squarciare una normalità devitalizzata de-umanizzante e indifferente, ma anche come denuncia della catena di montaggio in quanto tale: non sono, cioè, i devianti ad essere “i pezzi difettosi della catena di montaggio”, ma è la stessa catena di montaggio che i devianti, in un linguaggio “irrazionale”, ci additano nella forma di un’enorme ed inconscia denuncia collettiva, disperata quanto disperante (9).

La violenza si esprime attraverso diverse forme, insegna Galtung: esiste quella diretta, più facile da individuare perché si esprime attraverso forme che colpiscono la vittima o le vittime, ma esiste anche una violenza indiretta, non meno grave, che si esprime attraverso due forme principali: la violenza strutturale data dallo sviluppo di organizzazioni socioeconomiche che determinano sperequazioni e vite misere, ma più ancora miserevoli, e una violenza culturale che produce forme di oppressione, come direbbero Freire (10) (importante pedagogista brasiliano oggi censurato da Bolsonaro nelle scuole e nelle università del Brasile) e Boal (11), impedendo in varie forme la libera espressione ed il libero sviluppo delle personalità e delle identità singole e collettive.

Ora, partendo dalla considerazione dell’ergastolo come “pena di morte viva”, sgombriamo il campo da ogni equivoco e da ogni forma, anche velata, di ipocrisia ed affermiamo con decisione che non esiste differenza fra pena di morte ed ergastolo, se non nelle condizioni aggiuntive di ‘trattamento inumano e crudele’ presenti nell’ergastolo, vale a dire le condizioni di tortura che l’ergastolano deve affrontare sino al giorno del suo decesso in carcere. Fatta questa fondamentale premessa va sottolineato che uno Stato che proponga la violenza, e segnatamente la violenza estrema che è la pena di morte nelle sue diverse declinazioni, come soluzione di qualsiasi problema, è uno Stato che fornisce chiaramente un pericoloso esempio di violenza (12). Amnesty International ha già tante volte dimostrato, statistiche alla mano, che nei Paesi in cui sono presenti forme estreme di “giustizia” penale (13), i reati violenti non diminuiscono ma aumentano, dimostrando non solo l’inutilità di qualsiasi forma di deterrenza in questi casi, ma persino il loro essere controproducenti. Ergastolo e pena di morte rappresentano, oltre che espressioni disumane e incivili di una Comunità che non è in grado di prevenire e far fronte alla devianza in modo efficace, un formidabile (nel senso etimologico: spaventoso) e purtroppo efficacissimo simbolo di morte: una cultura che s’immola e cede al Thanatos. Queste simbologie necrofile s’insinuano inevitabilmente nelle coscienze dei cittadini, legittimati in tal modo proprio nell’uso della violenza. Si tratta di messaggi, diretti ma anche subliminali, con una triste valenza pedagogica che causa danni difficilmente riparabili.

Non si tratta, quindi, solo del male procurato direttamente a chi abbia da soffrire da una tale perversa forma di “giustizia” (raccapricciante, a tal proposito, l’espressione adoperata quando un condannato, ucciso dallo Stato e quindi da noi tutti, si dice sia stato “giustiziato”: un vero nonsenso, un paradosso linguistico), ma degli effetti, da non sottovalutare, che essa procura nella diffusione d’una cultura necrofila, nel senso etimologico del termine: la diffusione di una cultura di morte.

“Esiste un contagio del male: chi è non-uomo disumanizza gli altri, ogni delitto si irradia, si trapianta intorno a sé, corrompe le coscienze e si circonda di complici sottratti con la paura o la seduzione al campo avverso”, affermava Primo Levi (14), ed è proprio del contagio di una siffatta cultura che dobbiamo tener conto, considerando il rischio che questa considerazione e questo trattamento della vita umana entrino nel regno del consentito e, peggio, del concepibile. Per citare ancora Primo Levi: “la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”.

L’uso della violenza in nome di interessi superiori non solo ha mostrato tutta la sua inefficacia e le proprie contraddizioni, ma si rivela, a ben vedere, inaccettabile anche dal punto di vista morale, poiché non è lecito condurre ad una disgiunzione della valutazione etica fra mezzi e fini. Un’altra delle – scissioni – in corso nella cultura occidentale è, infatti, proprio la separazione, sul piano etico, fra mezzi e fini. “I mezzi e i fini, che vengono abitualmente separati in politica, devono convergere nel campo della risoluzione costruttiva di un conflitto [...] I sostenitori della violenza, del fine che giustifica i mezzi, restano senza parole quando i mezzi non sortiscono l’effetto desiderato. [...] I mezzi, in fin dei conti, sono tutto - afferma Gandhi” (15).

E’ una scissione in corso anche la presunzione di poter allontanare da sé l’idea della violenza proiettandola su quanti possano assumere il ruolo di stereotipo simbolico della violenza in quanto tale, usando l’istituzione totale del carcere come vaso di Pandora e le pene di morte come illusione della possibile estinzione della violenza e del – peccato –. Per citare Giovanni Falcone: “Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”. Non è attraverso meccanismi manichei e schizoidi di suddivisione della realtà nelle categorie di buoni e cattivi che si è in grado di problematizzare e risolvere un fenomeno complesso come quello della violenza, ma attraverso forme evolute di formazione e autoformazione, così come di recupero e riabilitazione che sappiano coniugarsi con le esigenze di sicurezza di una comunità ma senza mai procedere per condanne concepite come definitive.

Questo vale anche per certe policy che in verità non raggiungono altro effetto che quello di opacizzare la lotta per i diritti umani, come quando si afferma che la lotta contro l’ergastolo non vada perseguita nei Paesi in cui vige la pena di morte: non vale il discorso miope del breve termine ma quello lungimirante del mediolungo periodo che preveda la coscientizzazione (16) delle persone, la loro trasformazione verso un’etica di autentico rispetto dei diritti umani a partire dagli atteggiamenti che sono alla base di scelte e comportamenti; a queste deve tendere un’opera sana di educazione ai diritti umani (EDU), molto al di là di convegni e seminari, attraverso metodologie educative partecipative che incidano in modo duraturo nella personalità dei cittadini coinvolti. Anche il messaggio di denuncia delle violazioni dei diritti umani, il cd. “campaigning” rientra, in tal senso, in un’ottica EDU.

I recenti pronunciamenti, prima della Corte Europea per i Diritti Umani e poi della Corte Costituzionale, hanno posto una voce autorevole sulla questione dell’ergastolo, e segnatamente dell’ergastolo ostativo; non resta che adeguare lotte, strumenti e metodologie a favore di questo nuovo impulso alla tutela dei diritti umani.

Aristide Donadio: Psicosociologo e docente di Scienze umane presso i licei

Note:

1 - Nel 2006 dieci detenuti del penitenziario francese di Clairvaux attirarono l’attenzione sulla sorte di chi e’ condannato a scontare penelunghissime o l’ergastolo. Nella lettera, datata 16 gennaio, chiedonoche, ritenendosi dei sepolti vivi senza alcuna prospettiva diliberazione, venga ripristinata almeno per loro la pena di morte, daloro stessi considerata preferibile a una morte lenta, e una soluzionemeno ipocrita.

2 - Pietro Ingrao affermò più volte: “Sono contrario all’ergastolo perché non riesco a concepirlo”. 3 - Per un approfondimento sul tema,anche dal punto di vista giuridico e della ben nota incostituzionalitàdell’ergastolo per l’inconciliabilità con l’art.27 della nostraCostituzione: N. Valentino, L’ergastolo, Sensibili alle foglie, AcquiTerme (AL), 2009; anche: P. Gonnella e M. Ruotolo, Giustizia e carcerisecondo papa Francesco, Jaca Book, Milano, 2016; S. Anastasia e F.Corleone, Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e ladignità delle persone, Ediesse, Roma, 2009.

3 - Per un approfondimento sul tema, anche dal punto di vista giuridico e della ben nota incostituzionalità dell’ergastolo per l’inconciliabilità con l’art.27 della nostra Costituzione: N. Valentino, L’ergastolo, Sensibili alle foglie, Acqui Terme (AL), 2009; anche: P. Gonnella e M. Ruotolo, Giustizia e carceri secondo papa Francesco, Jaca Book, Milano, 2016; S. Anastasia e F. Corleone, Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità delle persone, Ediesse, Roma, 2009.

4 - Carmelo Musumeci, L’ex boss della Versilia: “l’ergastolo ostativo è una pena di morte viva” [Katya Maugeri, Sicilia network, 28 agosto 2019]«[..] La pena deve fare bene, non deve danneggiare l’individuo. Chicommette un reato è vittima di se stesso e la vera pena è il senso dicolpa, dal quale non puoi sfuggire». Se si pensa solo a punire, la gentenon potrà comprendere gli errori, «sono cambiato quando ho conosciutoil bene, quando ho avuto accanto persone buone e disinteressate», lìnasce la rivoluzione più importante: cambiare prospettiva, ma se ilcarcere non funziona è «perché a mancare è proprio l’amore».

Testi per approfondimenti sul tema, dello stesso autore: C. Musumeci, Gli uomini ombra e altri racconti, Amazon, 2019; C. Musumeci, Nato colpevole, Amazon 2018; C. Musumeci e A. Pugiotto, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali, Editoriale scientifica, Napoli, 2016.

5 - cfr. M. Klein, Invidia e gratitudine, con particolare riferimento al concetto di fantasma.

6 - AA.VV, Manuale di Psicologia Dinamica, Il Mulino, Bologna, 1999, p.208.

7 - Cfr. E. Fromm in Anatomia della distruttività umana.

8 - Cfr. Sorvegliare e punire di M. Foucault.

9 - Cfr. C. Musumeci, Nato colpevole, Amazon 2018.

10 - cfr. P. Freire, La pedagogia degli oppressi.

11 - cfr. A. Boal, Il poliziotto nella testa.

12 - Cfr. B. Battaglia, Le tre libertà. Fotogrammi di un’evasione e altri modi d’uscita dalla prigione, Sensibili alle foglie, Acqui Terme (AL), 2019.

13 - Cfr. B. Battaglia, Carcere e cittadinanza, Phoebus, Napoli, 2004.

14 - Primo Levi in L’asimmetria e la vita.

1 5 - Rocco Altieri, Religione e politica in Gandhi, ed. Centro Gandhi, Pisa, 2019, p.7.

16 - Termine coniato da Paulo Freire.

Carmelo Musumeci

Carmelo Musumeci

Fonte: L’ex boss della Versilia: “l’ergastolo ostativo è una pena di morte viva”. Katya Maugeri, Sicilia network, 28agosto 2019 - sicilianetwork.info

Paulo Freire, importante pedagogista brasiliano oggi censurato da Bolsonaro nelle scuole e nelle università del Brasile

Paulo Freire, importante pedagogista brasiliano oggi censurato da Bolsonaro nelle scuole e nelle università del Brasile

Foto: https://escolaeducacao.com.br/paulo-freire/