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Funzione rieducativa della pena e rieducazione dei rieducatori /Approfondimento

FUNZIONE RIEDUCATIVA DELLA PENA E RIEDUCAZIONE DEI RIEDUCATORI

di Maurizio Gemelli

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Lo abbiamo sentito risuonare tante volte nella bocca dei nostri professori universitari di diritto penale, diritto processuale penale e persino da quelli di diritto costituzionale: “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una enunciazione di principio che evidentemente deve avere percepito persino Checco Zalone (e la citazione non appaia irriverente né divagante, ma soltanto provocatoria), se qualche anno addietro ha ritenuto di pubblicare su Facebook un videomessaggio nel quale, tra il serio e il faceto, più faceto che serio, ripeteva testualmente: «mi auguro che un giorno un ex detenuto possa entrare in banca ed essere ricevuto da un direttore che gli dice : Le dò il mutuo perché è rieducato. O che si votino i politici perché sono stati in carcere e quindi sono rieducati, mentre sappiamo che per adesso è il contrario: uno viene eletto, lì viene diseducato e poi va in carcere». Ma non è finita lì.

Ci hanno anche insegnato – ma continuo a nutrire qualche perplessità sul fatto che siamo riusciti a farne tesoro – che la pena assolve ad una pluralità di funzioni, che storicamente si sono avvicendate nel tempo, spesso in funzione delle oscillazioni del pendolo tra garantismo da un lato e retribuzionismo dall’altro o, se si preferisce, tra ragioni del reinserimento sociale dei condannati ed esigenze di difesa sociale.

In pochi, però, si sono sforzati di spiegarci che il vocabolo “pena” deriva dal greco poinè, da intendersi nella duplice accezione di prezzo che si doveva pagare per compensare un delitto, ma anche segno di riscatto. Evocava il castigo, ma al tempo stesso anche il premio della liberazione da un male. Già quindi nella radice etimologica della parola si possono cogliere le due facce della pena: espiazione e redenzione da un lato, punizione e riabilitazione dall’altro. Eschilo userà poinè solo nella accezione di vendetta, impersonificandola in una dea implacabile.

Né, d’altro canto, hanno spesso trovato il tempo di comunicarci che la pena deve coinvolgere anche la dimensione della paideia, vale a dire dell’educazione che rigenera una situazione degenerata. E che, per raggiungere un così alto traguardo, l’elemento imprescindibile rimane il rispetto costante della dignità della persona umana, che, per effetto della carcerazione, finisce per essere già ridimensionata strutturalmente attraverso la privazione di una delle qualità specifiche della creatura umana, vale a dire la sua libertà.

Sulla scorta delle brevi premesse che precedono, è venuto il momento di verificare quale contributo concreto ciascuno dei relativi formanti (legislazione, giurisdizione e prassi applicative di settore) ha fornito in passato, e fornisce oggi, al raggiungimento dell’obiettivo strategico risocializzante, che continua a starci molto a cuore, a dispetto dei populismi giudiziari retribuzionisti, ormai tristemente dilaganti ai nostri giorni.

Già Carnelutti ai suoi tempi si lamentava della qualità assai scadente del drafting legislativo, che finisce per rendere i testi normativi poco chiari nella loro ratio, lessicalmente ambigui e assai spesso privi di effettivi contenuti. E ai nostri giorni non può certo dirsi che la situazione sia molto migliorata, inducendo il giurista contemporaneo ad invocare a più riprese, pervero sin qui senza troppa fortuna, il fermo biologico!

Le cause della patologia suaccennata vanno verosimilmente individuate in un esecutivo oramai divenuto vero e proprio motore legislativo, surrogando il Parlamento nel suo ruolo “istituzionale” di naturale produttore di leggi, e nel conseguente, abnorme ricorso alla decretazione d’urgenza, in ultima analisi ispirata soltanto alle urgenze del ceto politico del momento.

Lo stesso attivismo legislativo successivo alla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, piuttosto che con motivazioni ideali connesse alla volontà di migliorare le condizioni materiali di detenzione dei condannati, dando attuazione anche per quella via al precetto di cui all’art.27 co.3 Cost., va spiegato con le ben più pressanti esigenze di fronteggiare l’ormai endemico affollamento carcerario e, comunque, con esigenze securitarie da soddisfare con il puntuale inasprimento della sanzione penale. L’unico percorso che il legislatore del nostro tempo mostra di conoscere per tacitare il presunto, ma mai effettivamente provato, allarme sociale, non essendo in grado di elaborare strategie differenti di contrasto alla criminalità di ogni genere. Da qui, le recentissime modifiche legislative all’ordinamento penitenziario meglio note come legge Spazzacorrotti (n.3 del 2019) e codice rosso (n.69 del 2019). Trascurando di ricordare quanto Dostoevskij ci ricordava a proposito della brutalità del sistema giudiziario penale di matrice zarista:“non conoscono la pietà, conoscono solo la giustizia: per questo sono ingiusti”.

Per non tacere, poi, che le nostre norme – come argutamente rilevato dal Comitato scientifico degli Stati generali dell’esecuzione penale, ormai destinato all’oblio in un’epoca di populismi dilaganti – sono state concepite per una popolazione penitenziaria sostanzialmente omogenea da un punto di vista linguistico, culturale e religioso.

L’attuale utenza, al contrario, risulta essere composta di un buon 30% di stranieri, in quanto tali, portatori di un patrimonio di conoscenze ed esperienze assai distanti dalle nostre, e per tale ragione esposti alla emarginazione ghettizzante e al rischio di radicalizzazione, non sempre superabile con il pur apprezzabile strumento della mediazione culturale, contemplata peraltro persino dalle linee guida del Consiglio d’Europa.

A completare il suaccennato quadro di caos normativo, si aggiunga lo standard c.d. multilivellare di tutela dei diritti fondamentali, apprestato dalle fonti sovranazionali, con la pluralità di apporti normativi che finiscono per intersecarsi con le disposizioni interne, rendendo particolarmente complessi i processi interpretativi degli operatori del diritto in genere, e del giudice per primo.

Tutto quanto sopra non poteva non provocare – come approdo finale – una parallela perdita di peso specifico della fonte legislativa, ormai sovrastata di fatto dalle decisioni additive della Corte Costituzionale, dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia di Lussemburgo, da quelle della Corte Europea per i diritti umani e, venendo ai confini nazionali, persino dalle decisioni della magistratura di sorveglianza.

La stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale ha più volte riesumato la nozione di pena in senso polifunzionale, cominciando con il puntualizzare che la finalità rieducativa della pena debba caratterizzare non soltanto la fase espiativa, ma anche la scelta della pena più adeguata al fatto e al reo. Precisando altresì che essa finalità va valorizzata nel suo “contenuto ontologico”, vale a dire “da quando nasce nella astratta previsione normativa fino a quando in concreto si estingue”, spingendosi oltre fino al punto di qualificarla come “patrimonio della cultura giuridica europea” (C. Cost., n. 313 del 1990). Peccato, però, che la law in book, di matrice sovranazionale, non si sia mai sin qui preoccupata di consacrare quel principio in un preciso enunciato normativo!

Già nel 2007 (sent. n.78), d’altro canto, la Consulta aveva rimarcato il carattere universalistico del finalismo rieducativo.

In epoca ancora più recente, da ultimo, è stato definitivamente consacrato il principio che “l’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena è da declinarsi nella fase esecutiva come necessità di costante valorizzazione da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l’intero arco di espiazione della pena. La pena, inoltre, deve potere esplicare in concreto la propria costituzionalmente necessaria funzione rieducativa anche rispetto agli autori dei più gravi reati” (C. Cost. sent. n. 194 del 2018).

Prerogativa irrinunciabile di ogni istanza rieducativa rimane, infatti, la circostanza che la pena, quale che sia e per qualsivoglia reato venga irrogata, non si traduca mai in “trattamenti contrari al senso di umanità” (art.27 co.3 Cost.), atteso che ogni violazione dei diritti fondamentali del condannato, che non sia intimamente ricollegabile alle restrizioni funzionali allo scopo della privazione della libertà personale, ne vilipende la dignità e finisce per pregiudicare sensibilmente le concrete chance di rieducarlo alla legalità, proprio perché illegittimamente umiliato nella sua dignità di uomo. Ciò, all’evidenza, senza pregiudizio della parallela esigenza di bilanciamento tra istanze rieducative ed esigenze di difesa sociale, peraltro ribadita nella recentissima decisione n.188 dello scorso giugno. Obiettivo, altrettanto strategico quest’ultimo, che la magistratura di sorveglianza, vera e propria custode dell’idea rieducativa, è chiamata a perseguire quotidianamente nell’esercizio della sua funzione istituzionale di giurisdizione incentrata più sulla personalità del condannato che sul fatto di reato.

A ben vedere, infatti, la finalità rieducativa nel nostro ordinamento finisce per essere rimessa all’apprezzamento esclusivo del giudice di sorveglianza, incaricato di adeguare, in sede esecutiva, nel singolo caso il trattamento sanzionatorio alle caratteristiche personologiche del condannato, valutando i presupposti per la meritevolezza della concessione di una misura esterna al carcere, le modalità concrete di esecuzione della misura alternativa, attraverso l’imposizione delle relative prescrizioni, la durata del beneficio, potendolo revocare, nonché l’esito finale delle misure stesse.

Ciò premesso, nella valutazione delle prassi applicative quotidiane, vanno segnalati alcuni profili di criticità, peraltro verosimilmente assai strettamente legati fra loro, che rischiano di pregiudicare l’adempimento della funzione peculiare della magistratura di sorveglianza di salvaguardia della surrichiamata idea rieducativa.

Il primo è quello che attiene alla effettiva conoscibilità, da parte del cittadino, della giurisprudenza esecutiva, in assenza di banche dati on line, di database delle relative decisioni di merito, quantitativamente certo assai più numerose di quelle di legittimità, e di riviste scientifiche dedicate alla materia penitenziaria.

Dalla or ora accennata lacuna conoscitiva non possono non scaturire, all’evidenza, conseguenze assai negative sull’utenza dei condannati e degli internati e sui loro difensori, già sul versante della prevedibilità delle decisioni, la cui assenza impedisce, in ultima analisi, alla difesa di calibrare le relative strategie sugli orientamenti precedenti della stessa magistratura di sorveglianza.

Trascurando, al tempo stesso, di considerare che, concepita nella sua massima estensione logica, la prevedibilità presuppone altresì la possibilità per il potenziale autore del reato di sapere in anticipo se la propria condotta sarà penalmente rilevante, quale pena dovrà eventualmente scontare, in quale modo sarà esercitata la discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena, se saranno applicabili misure alternative o benefici di altra natura.

Per il soggetto che si determina a commettere un reato, potrebbe certo, inoltre, rivelarsi assai utile conoscere in anticipo gli elementi di valutazione positiva della personalità del reo più abitualmente presi in considerazione dal magistrato di sorveglianza, vale a dire, a titolo di esempio, la correttezza del comportamento processuale, la realizzazione di condotte riparative nei confronti della vittima del reato, la resipiscenza dimostrata, l’adeguato supporto offerto dalla rete socio-familiare e lavorativa. Così come, al contrario, avere contezza di quelli di valutazione negativa, ravvisati assai di frequente rispettivamente nella insensibilità mostrata per le sofferenze causate dal reato, nelle patologie psichiatriche diagnosticate, nella dipendenza da alcool o da stupefacenti, nell’abituale ricorso al delitto per procurarsi i mezzi di sussistenza.

Il predetto vulnus assume ancor maggiore consistenza, laddove si consideri che la stessa Corte EDU è intervenuta ripetutamente sul tema della prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali (penso alla sent. Del Rio Prada c. Spagna del 2013 e alla Viola c. Italia 2 dello scorso giugno sul’ergastolo ostativo), rimarcando il principio che anche l’esecuzione penale è assoggettata alle garanzie previste dalla CEDU in ordine ai principi di prevedibilità e affidamento, quali corollari del principio di irretroattività in malam partem. Aggiungendo, altresì, che la prevedibilità, dal punto di vista soggettivo del destinatario della decisione, va parametrata all’esperienza specifica e al patrimonio di conoscenza dell’interessato, al suo livello culturale e/o professionale.

Tornando all’interno dei confini di casa nostra, si consideri che l’esigenza di prevedibilità si rivela ancora più marcata per le decisioni della magistratura di sorveglianza in punto di revoca di benefici precedentemente concessi, sol che ci si soffermi a riflettere sulla differente valutazione della gravità delle violazioni delle prescrizioni della misura alternativa. Uno stesso comportamento (es: mancato rispetto degli orari della permanenza domiciliare) può provocare, a seconda della valutazione discrezionale del singolo magistrato di sorveglianza, la semplice ammonizione del soggetto, la modifica in peius delle prescrizioni o l’avvio della procedura di revoca e/o sostituzione della misura, ex art. 51 ter O.P.

Se tutto ciò non bastasse ad interrogarci sulla opportunità di avviare quanto prima processi di rieducazione dei soggetti preposti dall’ordinamento al concreto adempimento della funzione della pena, che si rivelino adeguati a superare le criticità sin qui evocate, si consideri da ultimo, non certo in ordine di importanza, la assoluta inadeguatezza dei dati dell’osservazione della personalità, raccolti dalla equipe di educatori, assistenti sociali, psicologi, operanti all’interno del carcere, e trasfusi nelle cc.dd. relazioni di sintesi, spesso infarcite di termini tecnici delle scienze sociali, di difficile comprensione per gli operatori di formazione giuridica.

Alla superiore difficoltà si aggiunga, poi, quella altrettanto seria attribuibile ai medesimi operatori penitenziari, di individuare con la maggiore precisione possibile i tratti salienti della personalità umana, notoriamente assai complessa, con l’ulteriore conseguenza, non meno devastante ai nostri fini, di registrare il frequente ricorso a vuote formule di stile.

Né più efficace contributo alla migliore decisione del magistrato di sorveglianza offrono le informative provenienti dalle forze dell’ordine, anch’esse assai di frequente nelle prassi applicative, costellate di espressioni del tutto generiche, stereotipate (“frequenta soggetti pregiudicati” oppure “non può escludersi la possibilità che il soggetto, se liberato, torni a delinquere”), quando non assai datate, perché attinte dagli archivi di polizia e mai aggiornate e, per l’effetto, molto poco individualizzanti.

Ulteriori versanti, quelli or ora delineati, sui quali occorrerebbe avviare con la maggiore sollecitudine possibile percorsi rieducativi persino di formazione professionale, che all’evidenza andrebbero estesi agli stessi difensori, il cui ruolo nell’ambito dell’intero procedimento di sorveglianza, per tutta una serie di ragioni sulle quali non è possibile soffermarsi in questa sede, anche per ragioni di sintesi, si rivela del tutto marginale e inadeguato al perseguimento dell’importantissimo obiettivo finale della tutela della dignità umana del condannato, a maggior ragione se anche detenuto.

Sulla scorta dei sommari rilievi che precedono, appare evidente come il quadro complessivo che emerge presenti seri profili problematici nell’attuazione della finalità rieducativa della pena.

Gli interventi sin qui realizzati non si mostrano in grado di fornire risposte esaustive, neppure a lungo termine, all’emergenza carceraria che è tornata ad affliggere il nostro paese, come inequivocabilmente attestano gli ultimi dati statistici registrati dallo steso Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

Gli strumenti deflattivi, consistenti in riduzioni della pena e monetizzazioni del danno subito a seguito di reclusioni in condizioni al limite della vivibilità, non possono certo essere visti come strumenti di risoluzione del problema.

Serve, al contrario, un disegno lungimirante e di ampio respiro, che analizzi il sistema sanzionatorio nella sua globalità, magari provando ad evolversi in termini meno carcero-centrici.

L’idea rieducativa non può, e non deve, divenire un’utopia irrealizzata.

D’altro canto, non può neppure mai essere rivolta a un uomo, considerato mero strumento di qualsivoglia strategia politica (di sicurezza sociale, di governo dell’immigrazione, di contrasto al terrorismo), come tale, del tutto incapace di fare scelte consapevoli e responsabili, prima fra tutte quella di prestare adesione alla sua riabilitazione sociale.

Occorre, piuttosto, evitare il contatto col mondo carcerario, ogni qualvolta lo stesso possa condurre a deterioramenti della personalità del soggetto, a palesi violazioni della sua dignità umana.

Il potenziamento delle misure alternative e la loro applicazione rimane realisticamente un percorso seriamente alternativo al carcere, destinato a supportare in concreto l’idea della pena rieducativa, concepita anche come finalizzata ad evitare qualsiasi pericoloso, più o meno latente, conflitto tra il pianeta carcere e il mondo esterno.

È evidente che un sistema ripensato e completato con le dovute alternative alla pena detentiva comporterebbe investimenti di tempo, impegno da parte del legislatore e sopratutto risorse economiche, difficili da reperire in un momento storico difficile come quello che il paese sta vivendo.

Non rimane che auspicare, in ultima analisi, che anche l’opinione pubblica, seppur giustamente allarmata da episodi di criminalità talvolta particolarmente efferati, possa essere messa nelle condizioni di inquadrare correttamente il problema e di comprendere come una pena, attenta agli aspetti rieducativi, non sia affatto una pena necessariamente minusvalente, men che meno un segno di resa nella amministrazione della giustizia, ma piuttosto sia la sola in grado di assicurare un effettivo cambiamento in meglio e, in ultima analisi, un futuro nel quale il sentimento stesso di giustizia e convivenza civile possano risultarne rafforzati da autentica condivisione.

Condivisione magari spinta fino al punto di comprendere che l’effettivo reinserimento comincia creando un sistema socialmente sano, vale a dire una società che non cerchi di inquinare le relazioni umane nel quartiere, nelle scuole, nelle piazze, nelle vie, nelle abitazioni, in tutto il contesto di riferimento. Un sistema di civile convivenza capace altresì di generare una cultura di prevenzione di quelle situazioni patologiche strutturali e culturali che in ultima analisi finiscono per deteriorare l’intero tessuto sociale. Sforzandosi di guardare a quel contesto, senza rimanere imprigionati nel passato, senza continuare a cedere all’inganno sociale che crede che la sicurezza e l’ordine sociale si raggiungono solo privando il soggetto deviante della libertà personale, ma proiettandosi piuttosto sul futuro.

Evitando, altresì, di far calare sul tema quella coltre di silenzio, dovuto non tanto al fatto che il carcere non è un tema che affascina, quanto piuttosto ad una ragione verosimilmente più smaccatamente politica, vale a dire quella che esso presuppone una realtà virtuale che in tanto si mantiene in vita in quanto alimenta quell’industria della paura, che è un parto della politica, appunto perché in ultima analisi porta acqua al mulino della stessa.

Forse, a tale riguardo, faremmo bene a meditare con calma ed attenzione, e poi magari sottoscrivere, le parole, manco a dirlo ancora una volta straordinariamente efficaci, di Papa Francesco. Riferendosi alla realtà carceraria, il Sommo Pontefice propone la metafora delle finestre presenti nelle prigioni, auspicando al tempo stesso che le carceri abbiano sempre una finestra e un orizzonte, anche quando la pena è perpetua (Nessuno può cambiare la propria vita - sottolinea - se non vede un orizzonte! Molte volte la società, mediante decisioni legaliste e disumane, giustificate da una presunta ricerca del bene e della sicurezza, cerca nell’isolamento e nella detenzione di chi agisce contro le norme sociali, la soluzione ultima ai problemi della vita di comunità. Così si giustifica il fatto che si destinino grandi quantità di risorse pubbliche a reprimere i trasgressori, invece di ricercare veramente la promozione di uno sviluppo integrale delle persone che riduca le circostanze che favoriscono il compimento di azioni illecite. È più facile reprimere che educare, e direi che è anche più comodo negare l’ingiustizia presente nella società e creare questi spazi per rinchiudere nell’oblio i trasgressori, che offrire pari opportunità di sviluppo a tutti i cittadini).

(1)Come ha rilevato la più autorevole dottrina (GIOSTRA), con altrettanta efficacia, “il tempo della pena non dovrebbe mai essere una sorta di time out esistenziale, una clessidra senza sabbia, ma un tempo di opportunità per un ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale. Nessuna situazione soggettiva (immigrato, senza fissa dimora etc…), o nessun tipo di reato commesso, dovrebbe costituire di per sé esclusione dalle opportunità di recupero sociale”. Obiettivo quest’ultimo che potremmo certo raggiungere più agevolmente se solo tenessimo a mente le parole di Spinoza, nel suo Tractatus politicus (I,4), con le quali dichiarava di non volere “deridere, né compiangere, né tantomeno detestarle azioni umane, ma comprenderle”. Comprendere le persone, le loro vite, le loro storie rimane, infatti, la precondizione principale per proteggerle e risolvere i loro problemi reali! Urge, dunque, un cambio di mentalità per riuscire a vedere prima di tutto come persone coloro che commettono reati, mantenendo a distanza di sicurezza il vociare astioso e sovraeccitato degli odierni riformatori, orientati a considerare i soli aspetti retribuzionisti (“Oggi, in modo particolare, le nostre società sono chiamate a superare la stigmatizzazione di chi ha commesso un errore poiché, invece di offrire l’aiuto e le risorse adeguate per vivere una vita degna, ci siamo abituati a scartare piuttosto che a considerare gli sforzi che la persona compie per ricambiare l’amore di Dio nella sua vita. Molte volte, uscita dal carcere, la persona si deve confrontare con un mondo che le è estraneo, e che inoltre non la riconosce degna di fiducia, giungendo persino a escluderla dalla possibilità di lavorare per ottenere un sostentamento dignitoso. Impedendo alle persone di recuperare il pieno esercizio della loro dignità, queste restano nuovamente esposte ai pericoli che accompagnano la mancanza di opportunità di sviluppo, in mezzo alla violenza e all’insicurezza” - Discorso di Sua Santità Papa Francesco ai partecipanti all’Incontro Internazionale per il Responsabile Regionale e Nazionale della Pastorale Penitenziaria, 8 novembre 2019, in: www.vatican.va ).

--- http://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/november/documents/papa-francesco_20191108_pastorale-carceraria.html

Maurizio Gemelli: Docente a contratto di Diritti Umani presso il DEMS dell’Università di Palermo

© Vauro 2013 / Fonte: https://twitter.com/VauroSenesi

La Corte europea dei diritti dell’uomo (abbreviata in CEDU o Corte EDU) è un organo giurisdizionale internazionale, istituita nel 1959 dallaConvenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e dellelibertà fondamentali (CEDU) del 1950, per assicurarne l’applicazione eil rispetto. Vi aderiscono quindi tutti i 47 membri del Consigliod’Europa.

La Corte europea dei diritti dell’uomo (abbreviata in CEDU o Corte EDU) è un organo giurisdizionale internazionale, istituita nel 1959 dallaConvenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e dellelibertà fondamentali (CEDU) del 1950, per assicurarne l’applicazione eil rispetto. Vi aderiscono quindi tutti i 47 membri del Consigliod’Europa.

Foto: Aula della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in Strasburgo, di Adrian Grycuk / CC BY-SA 3.0-pl / Wikimedia Common

Il Palazzo della Consulta, sede della Corte costituzionale della Repubblica italiana e fino agli anni ‘30 secolo scorso del ministero delle Colonie. Piazza del Quirinale, Roma.

Il Palazzo della Consulta, sede della Corte costituzionale della Repubblica italiana e fino agli anni ‘30 secolo scorso del ministero delle Colonie. Piazza del Quirinale, Roma.

Foto di Jastrow / Pubblico dominio / Wikimedia Common