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La salute. Un diritto della persona e un bene sociale G. Piana Immagini. Le mani, lo sguardo,

LA SALUTE. UN DIRITTO DELLA PERSONA E UN BENE SOCIALE

Superare i limiti dell’attuale sistema sanitario significa ispirarsi a una visione della realtà che intrecci in perfetto equilibrio “personale” e “sociale”, in piena corrispondenza con il dettato costituzionale

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Giannino Piana

La salute è un diritto fondamentale della persona (di ogni persona), diritto che è compito dello Stato tutelare e promuovere. Lo afferma con chiarezza la nostra Costituzione, laddove scrive: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” (art. 32). La formula costituzionale mette in evidenza, pur nella sua stringatezza, i due aspetti sotto i quali la questione della salute deve essere considerata: quello soggettivo di “diritto della persona” e quello sociale di “bene collettivo”. Questa definizione corrisponde pienamente all’intero impianto costituzionale, ispirato a una visione della realtà nella quale “personale” e “sociale” si intrecciano in perfetto equilibrio, dando vita al binomio libertà-giustizia come pilastri fondamentali della vita associata. Il personalismo sociale, che costituisce il supporto culturale della nostra Costituzione, consente infatti il dispiegarsi di un rapporto corretto tra “diritti soggettivi” – i diritti civili e politici – e “diritti economico-sociali”, conferendo alla salute, insieme al lavoro e all’istruzione, carattere di bene irrinunciabile che la Repubblica deve assicurare ad ogni cittadino. Lo Stato italiano è, da questo punto di vista, in piena regola. L’assistenza medica e la possibilità di fruizione delle strutture sanitarie è garantita a tutti i cittadini a prescindere dalla propria condizione sociale.

I limiti dell’attuale sistema

Diverso e meno positivo è tuttavia il giudizio che si deve dare a proposito del sistema organizzativo e, più in generale, della conduzione complessiva dell’apparato sanitario dove emergono consistenti limiti. I tempi di esecuzione di esami clinici o di visite specialistiche in ambito pubblico continuano a prolungarsi con evidenti difficoltà per molti cittadini costretti a ricorrere al privato, l’assenza di presidi territoriali che affrontino situazioni per le quali non si esige necessariamente il ricovero ospedaliero, la mancanza in alcuni settori di un personale sanitario sufficiente a far fronte alla domanda di intervento, l’intasamento dei pronto soccorso con le lunghe file di attesa sono altrettanti segnali di uno stato tutt’altro che ottimale che crea un evidente disagio nella popolazione bisognosa di cure. La recente (e non del tutto superata) pandemia da Covid-19 ha reso trasparente in modo inequivocabile la gravità di tale situazione ed evidenziato l’esigenza del ricorso a interventi immediati e risolutivi. Ma il limite ancora più preoccupante dell’attuale esercizio dell’attività sanitaria è rappresentato dal verificarsi di una sempre maggiore distanza tra il personale sanitario (il medico in particolare) e il malato. L’introduzione di tecnologie sempre più sofisticate e l’avanzare costante delle specializzazioni sottraggono inevitabilmente spazio allo sviluppo del dialogo e del confronto personale. Da un lato, la rilevazione dei dati clinici relativi alla situazione del malato, tradizionalmente reperiti attraverso l’anamnesi, è oggi ottenuta mediante il ricorso alle tecnologie; dall’altro, l’attenzione dei medici è sempre più incentrata sull’organo malato, con la tendenza a non prendere sufficientemente in considerazione la situazione complessiva dell’organismo. Nel primo caso – l’uso esorbitante delle tecnologie e dell’affidamento ad esse – a venire a mancare è la conoscenza delle dinamiche psicologiche e delle condizioni sociali del malato, fattori che rivestono una importante funzione sia nella definizione della diagnosi sia nella determinazione della cura. Nel secondo caso – l’eccesso di specializzazione – a venire a mancare è la conoscenza piena della condizione del malato, la possibilità cioè di fruire di un quadro organico della sua situazione – come vuole la medicina olistica – non potendo di conseguenza intraprendere un’azione curativa, che tenga nel dovuto conto i diversi risvolti della malattia.

Due proposte per l’umanizzazione

I limiti delineati (e ve ne sono altri) impongono la ricerca di alternative adeguate che restituiscano alla cura della salute un carattere umanizzante. Due piste (tra le molte) meritano, al riguardo, di essere percorse. La prima è costituita dalla restituzione di centralità alla persona del malato. La malattia – ce lo ricorda l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) – è un fenomeno complesso nel quale entrano in gioco dinamiche psicologiche e condizioni sociali, che implicano, per essere colte nella loro concreta e specifica consistenza, la disponibilità

del medico ad un confronto dialogico con il malato. La cura non può ridursi a una semplice considerazione della parte malata; comporta un “prendersi cura” della persona con un coinvolgimento, che crea le condizioni per una relazione fiduciale, la quale ha ricadute altamente positive anche sullo sviluppo della cura. Ciò appare oggi ancora più evidente se si considera il primato assunto dal principio di autodeterminazione nella moderna bioetica; primato per il quale la decisione circa le modalità della cura, e prima ancora circa la scelta di sottoporsi o meno ad essa, sono demandate alla volontà del malato. Il che non fa che confermare del resto quanto è presente nella seconda parte dell’articolo 32 della Costituzione già segnalato, il quale recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La possibilità che la relazione interpersonale ricuperi piena centralità è legata, oltre che alla sensibilità del medico e del personale sanitario, ad un iter formativo che, accanto alle conoscenze scientifico-tecniche assolutamente indispensabili, le quali, grazie alla rapidità del progresso in campo medico-biologico, costituiscono gran parte degli studi di medicina ed impongono un costante aggiornamento, faccia sempre più spazio alla conoscenza delle scienze umane, scienze che concorrono alla acquisizione di una mentalità aperta al dialogo e forniscono gli strumenti utili per perseguirlo. La seconda pista riguarda la necessità di una riorganizzazione del sistema sanitario che tenga conto delle attuali esigenze della popolazione. Il passaggio da una società statica come quella del passato, dove lo scambio sociale si sviluppava su un territorio ristretto, a una società aperta e dinamica, nella quale la possibilità di comunicazione, sia a livello fisico che culturale, è enormemente cresciuta, rende necessario un radicale riassetto delle strutture sanitarie per offrire un servizio efficiente. La presenza di una molteplicità di ospedali su un territorio ristretto con pochi reparti e poche specializzazioni non è più giustificata, stante la rapidità con cui possono avvenire gli spostamenti anche a distanze rilevanti. Si impone dunque una revisione del sistema che sappia mediare e far interagire tra loro ospedali e presidi territoriali. Questo esige anzitutto una consistente riduzione del numero degli ospedali con la possibilità, in ragione della loro concentrazione, che ciascun ospedale venga dotato di molte specialità e che si garantisca in questo modo maggiore sicurezza per i malati, che possono, in caso di complicazioni, disporre con facilità di un’area allargata di competenze specialistiche per un’immediata consultazione e, in caso di necessità, la possibilità di trasferimento da un reparto all’altro. Ma esige anche, in secondo luogo, un forte incremento e una alta qualificazione dei presidi sul territorio con il coinvolgimento dei medici di base e con la presenza di specialisti in grado di affrontare una serie di stati patologici senza dover ricorrere alla ospedalizzazione. Questo processo di razionalizzazione consentirebbe una maggiore agibilità della conduzione dell’attività ospedaliera e rappresenterebbe un indubbio vantaggio per i malati ai quali in molti casi verrebbe consentito di non abbandonare le proprie case per essere curati. Sono considerazioni che non esauriscono certo i molti risvolti di una tematica – quella della tutela e della promozione della salute – che necessita di essere affrontata senza pregiudizi ideologici e senza interessi campanilistici e con un serio approccio interdisciplinare, avendo come riferimento il perseguimento del bene della persona e della comunità.

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