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Gli appunti di Padre McKenzie Orfani del passato, reclusi nel presente R. Negroni

ORFANI DEL PASSATO, RECLUSI NEL PRESENTE

L’assenza di passato congela il presente e cancella il futuro. È concepibile un’esistenza ingabbiata in un claustrofobico hic et nunc?

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Roberto Negroni

GLI APPUN TI DI PADRE MCKE NZIE

“Father McKenzie writing the words of a sermon that no one will hear” (Padre McKenzie scrive le parole di un sermone che nessuno ascolterà)

“Eleanor Rugby”, Lennon-McCartney, 1966 Quasi trent’anni fa, Eric Hobsbawn, uno dei maggiori storici del XX secolo, scriveva in apertura della sua opera più celebre: “La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui vivono” (1) . Due segnali d’allarme: il rapido assottigliarsi fino a dissolversi di quei fili del tempo che nelle società danno continuità alle esperienze di vita delle diverse generazioni e l’inconsueta condizione di una moltitudine di giovani privati del passato storico del loro tempo. Due segnali che oggi hanno perso quel carattere che allora avevano di prodromi e descrivono una realtà ormai diffusa e sempre più consolidata: un tempo, un mondo senza storia (2). Scrive infatti Adriano Prosperi: “Viviamo da tempo immersi in una ideologia dominante che assegna alla storia uno spazio vicino allo zero nella formazione dei giovani e nella vita sociale. Le cause fondamentali risiedono in una affermazione di valori e obbiettivi sociali dettati dalla svolta neoliberista e da un dominante populismo che sta svuotando la democrazia della sua sostanza (…). Si tende all’obbiettivo della formazione di persone capaci di entrare presto nel mondo del lavoro e di eseguirvi compiti tecnici e ripetitivi che non richiedono cultura generale né buone letture” (3) . È innegabile la responsabilità del sistema scolastico, che ha penalizzato ed emarginato l’insegnamento della storia dando un decisivo apporto all’allontanamento dal passato, a un suo progressivo oblio. È però evidente che il discorso non può finire qui: attribuire alla sola scuola una simile responsabilità sarebbe una semplificazione fuorviante. Certo la scuola una responsabilità ce l’ha, ma è una responsabilità derivata o secondaria, cioè assunta per ossequio al mainstream ideologico. Un orientamento dominante indirizzato soprattutto a una declinazione del sapere come “saper fare”, in cui la formazione, in una sola parola, “umanistica” (quella tesa alla ricerca dell’araba fenice del “saper essere”), è spesso un accessorio secondario, in particolare per l’insegnamento della storia. “Lo scarso peso che registra la disciplina negli anni della frequenza scolastica non fa fatica a tradursi poi, nel momento in cui si esce dal circuito formativo, in disinteresse per la storia tout court associato alle ben note lacune cognitive” (4) . In questo scorcio di tempo tra i due secoli siamo anche partecipi (o travolti?) dei grandi cambiamenti indotti dalla rivoluzione digitale, da un progresso tecnologico e scientifico in accelerata evoluzione e da un sovvertimento culturale che “ha allontanato vertiginosamente il presente dal recente passato” (5). Abitudini quotidiane e stili di vita sono frontalmente investiti da innovazioni portatrici di profondi mutamenti, e le giovani generazioni sono

(1) E completava: “Questo fenomeno fa sì che la presenza e l’attività degli storici, il cui compito è ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio, di quanto mai lo siano state nei secoli passati”. Eric J. Hobsbawn, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1997, pp. 14-15. (2) Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino, 2021; Francesco Germinario, Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios, Trieste, 2017. (3) Prosperi, cit., p. 21. (4) Germinario, cit., p. 22.

le componenti sociali più radicalmente coinvolte. La distanza da un passato anche prossimo appare tale da non avere precedenti. Ma la possibilità di avere rapidamente accesso nello sterminato web, con strumenti sempre più friendly, ad una quantità infinita di informazioni e di conoscenze è uno dei maggiori potenziali offerto dallo sviluppo tecnologico, un potenziale di facile accesso per la gran parte della società. Uno dei fenomeni in evidenza in questo ambito è la consistenza che ha assunto il circuito domandaofferta di conoscenza storica, un fenomeno probabilmente indicativo di un bisogno da parte di molti di compensare ciò che non è più acquisito per altra via; indicatore forse di una curiosità ma anche di un bisogno più profondo di reagire e porre un qualche rimedio all’affermazione di un presentismo avvertito come depauperante. Web, reti radiofoniche e televisive abbondano di una varietà di video, podcast, programmi e contributi assortiti in materia di storia, in parte pure di buona qualità; alcuni esperti divulgatori sono diventati famosi personaggi degli spazi mediatici. Si tratta certamente di un lodevole impegno, anche se non disgiunto da logiche commerciali, utile a mettere una pezza alla conclamata carenza di conoscenza storica della nostra società, una pezza che rimane inevitabilmente cosa diversa da ciò che si può acquisire in normali corsi di studio, adatta a fornire ciò che è meglio di niente, cioè pillole, prime sommarie infarinature, ma che corrono però anche il rischio di seminare, nei più sprovveduti, proprio per i limiti insiti nei mezzi impiegati, competenze illusorie. C’è però qualcosa che non torna tra questo crescente oblio del passato e quanto si è detto in questa stessa rubrica qualche tempo fa (6), a proposito della retrotopia, cioè della propensione diffusa nelle odierne società a guardare più che al futuro, percepito come imperscrutabile incerto e infido, al passato, ovvero a tempi considerati fidati e rassicuranti perché già vissuti e, soprattutto, mondati da tutto ciò che potrebbe smentirne l’oleografica immagine. Ricorrendo, cioè, al consueto processo di ricostruzione-reinvenzione proprio della nostra memoria, che seleziona, sfronda e ripulisce i nostri ricordi, acconciandoli al presente che viviamo (7). Ma di quale passato si vaneggia se il passato non lo si conosce? Se la storia, anche quella recente del XX secolo, dell’ultimo cinquantennio non la si studia? La risposta è intuibile, i due fenomeni sono interconnessi: è proprio l’inconsistenza della conoscenza che induce a bearsi di ipotetici passati, approssimativamente e lacunosamente abbozzati nella mente come erronee memorie. Un processo che taglia, esclude, omette, semplifica e banalizza pezzi di storia, spesso imbellettandoli e riducendoli a simulacri, a distorsioni prive, oltre che di tutto ciò che non si conosce, di quello che si è consapevolmente o meno dimenticato o cancellato, avviando tanti sprovveduti e spensierati cappuccetti rossi a spasso nel bosco ignari del lupo che vi scorrazza. “Secondo i dati del sondaggio 2020 Eurispes Italia, oggi il 15,6 per cento della popolazione italiana crede che la Shoah non sia mai esistita. Nel 2004, era il 2,7 per cento. Che cosa è accaduto e che cosa non ha funzionato nella trasmissione delle conoscenze?” (8) “Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla” sta scritto in trenta diverse lingue a Dachau. Spesso questa inclinazione per il passato assume la veste nobile della tradizione, perché ritenuta l’assolvimento del dovere etico di conservare e trasmettere (tradere), al fine di perpetuare, particolari conoscenze, memorie, riti, ricorrenze o quant’altro sia reputato patrimonio fondativo o storicamente rilevante di una comunità. “Ciò che è distintivo della tradizione è che essa definisce una specie di verità. Per chi segue una pratica tradizionale, le domande non hanno risposte alternative: per quanto possa cambiare, una tradizione fornisce sempre un quadro per l’azione che ben di rado viene messo in discussione (…) la tradizione rappresenta il concetto basilare del conservatorismo, dal momento che i conservatori credono che essa contenga una saggezza accumulata nel tempo” (9). Anche in questo caso, però, come nel caso poco sopra ricordato a proposito della memoria, c’è una seconda faccia della moneta. “L’idea di tradizione (…) è una creazione della modernità, (…) si potrebbe dire che tutte le tradizioni sono inventate, (…) tradizioni e costumi sono sempre stati inventati per una molteplicità di ragioni, (…) sono imposti più di quanto siano cresciuti spontaneamente, sono usati come strumenti di potere” (10). “Molto di quanto noi consideriamo tradizionale e radicato nella notte dei tempi è in realtà un prodotto al massimo dell’ultimo paio di secoli, e spesso ancor più recente” (11) . Se i grandi mutamenti epocali e un passatismo ammalato sono all’opera nel ridimensionare l’importanza del passato nella società odierna, tristemente coadiuvati dalla scuola, altri media, altre

(5) Prosperi, cit., p. 13. (6) Alternativa, n. 2 anno 2022, pp.50-54. (7) Un aneddoto che raccontava (non ricordo dove) Umberto Eco, ben illumina questo fenomeno. L’ambiente è uno sfavillante salotto di un palazzo parigino negli anni della Restaurazione: un crocchio di giovani nobili attornia un’attempata contessa che tiene banco con ricordi della sua vita. “Ah, che fantastico anno fu il ’93!”, esclama estasiata ad un certo punto nella foga del racconto la nobildonna. “Ma come… signora contessa! - azzarda sgomento uno dei giovani ascoltatori – il ’93, il 1793?! ... l’anno del Terrore! del Comitato di Salute Pubblica! Robespierre! la ghigliottina!!!”. Nell’improvviso silenzio degli astanti, “Ah sì, …già - mormora svagata la contessa – ma sa, caro amico…, io allora avevo vent’anni!”. (8) Prosperi, cit., p. 12. (9) Anthony Giddens, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 58.

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