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e della sanità nel VCO L. Gondoni
from Alternativa 4_2022
PER UNA NUOVA VISIONE DELLA MEDICINA E DELLA SANITÀ NEL VCO
Alice arrivò a un bivio sulla strada e vide lo Stregatto sull’albero. “Che strada devo prendere?” chiese. La risposta fu una domanda: “Dove vuoi andare?”“Non lo so”, rispose Alice. “Allora, – disse lo Stregatto – non ha importanza.” Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie
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Luca Gondoni
(1) Mi sembra importante fare una precisazione terminologica: lo stato tutela e soddisfa il diritto alla salute e non offre una risposta ai bisogni di salute, reali o presunti, della popolazione. Diritto, secondo la Treccani è “… ciò che è giusto, o è sentito o dovrebbe essere sentito come giusto, come appartenente cioè o improntato a quel complesso di principi morali che regolano i rapporti tra gli uomini uniti in società”. Bisogno è invece qualcosa che può anche essere indotto e addirittura può essere pubblicizzato, per incrementare la domanda, anche in campo sanitario, senza rispetto per un bene così fondamentale come la salute.
(2) G. Engel. The need for a new medical model: a challenge for biomedicine. Science 1977; 8: 129-136 P rima di prendere qualunque decisione in merito alle scelte per migliorare la nostra sanità, come del resto in qualunque ambito, dobbiamo avere ben chiaro cosa vogliamo ottenere. Penso che l’obiettivo sia abbastanza ovvio e condivisibile: con le nostre possibilità, nel contesto reale in cui ci troviamo a vivere e non in un mondo ideale e teorico, vogliamo cercare di ottimizzare la qualità del servizio sanitario che offriamo ai cittadini. E dobbiamo farlo in modo da rispondere a quello che ci raccomanda la Costituzione all’articolo 32: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività” (1) . Credo che il nostro modo di comprendere il sapere medico sia alla base delle scelte organizzative che faremo e credo anche che ci sia molta confusione nel sentire comune rispetto alla natura reale della medicina. Qualche osservazione generale può essere di aiuto. Noi corriamo il rischio che i modelli che utilizziamo per cercare di comprendere la realtà, una volta consolidati nel tempo, diventino dogmi. In ambito scientifico un modello viene rivisto o abbandonato quando non riesce più a dare conto di tutti dati: la forza della scienza è quella di accettare la critica e accettare quindi che le sue proposizioni possano essere rese false. Il dogma invece è qualcosa che comporta un percorso opposto: i dati discrepanti sono scartati o forzati per adeguarsi al modello. In campo medico, secondo il modello/dogma bio-medico, tutti i fenomeni che riguardano la nostra salute devono essere concettualizzati in termini di principi fisicochimici e tutto ciò che non è spiegabile con questa visione deve essere escluso dalla categoria delle malattie; ovvero la definizione di malattia non si applica se non si dimostrano modificazioni dello stato biochimico. Non solo: in ambito medico l’incertezza, che ha raggiunto ormai da tempo uno status quasi ontologico con la fisica quantistica e il principio di indeterminazione, viene ancora considerata frutto di errori di misura e non una condizione ineliminabile. Indubbiamente passare da un modello strettamente bio-medico ad uno che, accettando l’incertezza, contempli l’inclusione degli aspetti psicologici, sociali e affettivi sarebbe una profonda riforma, quasi rivoluzionaria, del modo di intendere la medicina: possiamo dire che una riforma è la correzione di errori e prevaricazioni, ma una rivoluzione è un vero trasferimento di potere che farebbe del paziente il nuovo centro decisionale per quello che riguarda la propria salute. Il cosiddetto modello bio-psico-sociale non è propriamente una novità essendo stato proposto dallo psichiatra americano George Engel nel 1977 (2). Nonostante gli anni trascorsi, la novità non è riuscita a scalfire le convinzioni, che potremmo definire positiviste e razionaliste, di buona parte degli operatori sanitari, per i quali aggiungere nella loro pratica quotidiana le variabili psicologiche e sociali rappresenta evidentemente un ostacolo quasi insormontabile. Per “scendere” dal modello interpretativo alla realtà dei fatti possiamo farci alcune domande di base: ad esempio chiederci perché il paziente cerchi un medico. Una
indagine del 2013 relativa alla Regione Veneto (3) evidenzia come il tasso di accesso al Pronto Soccorso sia, per oltre l’80% dei casi, in codice verde o bianco, il che chiaramente non vuol dire che tali accessi siano sempre inappropriati, almeno se teniamo in conto la soggettività del paziente, ma si tratta comunque di numeri che ci parlano di una motivazione che va al di là del problema clinico in senso stretto. Tanto è vero che uno studio inglese di qualche anno fa (4), nel descrivere le variabili chiave che spingono le persone a cercare l’aiuto di un medico, identifica la percezione soggettiva di vulnerabilità alla malattia, la percezione della gravità della malattia stessa, la percezione del potenziale beneficio ottenibile. Quello che è interessante non sono tanto le variabili in sé, ma il fatto che ciò che più conta è la percezione soggettiva dei parametri sopra descritti e non la loro “reale” ed “oggettiva” entità. Sembra evidente da queste poche considerazioni preliminari che la componente soggettiva e quindi, almeno in senso lato, psicologica dei nostri problemi sia determinante nel definire la nostra percezione della salute. Chiaramente queste premesse sono molto parziali, ma vorrebbero cercare di scardinare il modo in cui abitualmente percepiamo la medicina e aprire sguardi diversi sul problema della sua gestione. Riferendomi in particolare alla gestione ospedaliera, di cui ho esperienza diretta, per rispondere all’esigenza di avere la sanità migliore possibile, ritengo, abbastanza ovviamente, che ci siano alcuni aspetti fondamentali da considerare: la struttura, le persone che all’interno della struttura lavorano e il modo, ovvero il modello organizzativo, con cui lavorano. La struttura, l’edificio, l’ospedale per intenderci è importante, ma non può essere l’aspetto decisivo per guidare le nostre scelte. Anzi la scelta della struttura e quindi, facendo riferimento alla situazione del VCO, la sua unicità con la conseguente nuova (o vecchia?) sede, piuttosto che il mantenimento delle varie sedi attuali non è una scelta solo politica, tra l’altro con posizioni molto mutevoli nel corso del tempo da parte dei vari schieramenti, cosa che getta più di qualche ombra sul ragionamento sotteso, ma una decisione che deve emergere da altre considerazioni che proveremo a fare sommariamente. Credo molto convintamente che i medici e gli infermieri debbano essere parte attiva nella definizione dell’organizzazione aziendale e che questo sia il punto chiave di tutta la questione: ovviamente, questi aspetti vanno affrontati prima di deliberare fisicamente la struttura dove il lavoro verrà svolto. Parlando dei medici (mi limito alla parte medica per questioni di esperienza personale) individuerei alcuni settori su cui lavorare, a partire dalla definizione di competenza professionale che hanno elaborato due medici dell’Università di Rochester (New York) descrivendola come “uso abituale e giudizioso di comunicazione, conoscenza, capacità tecniche, ragionamento clinico, emozioni, valori … per il beneficio dell’individuo e della comunità per cui si presta servizio” (5). Per i miei scopi semplificherò arbitrariamente e di molto i vari temi e suddividerò la discussione in tre ambiti: la competenza tecnica, la competenza relazionale e la competenza gestionale. Vedremo che, in realtà, le varie competenze sono strettamente interconnesse e la distinzione sarà forse un po’ fragile, ma comunque utile per semplicità espositiva. Anche l’analisi dei temi che affronteremo di seguito sarà necessariamente parziale, più utile per aprire un dialogo e un confronto che per esaurire gli argomenti ed arrivare a conclusioni certe. Diciamo che si tratta di un primo piccolo passo. Competenza tecnica. Da questo punto di vista, i problemi e le eventuali carenze sono, a mio modo di vedere, relativamente modesti, anche se qualche controllo sulla preparazione dei medici andrebbe fatto e ne parleremo brevemente dopo. L’Università da sempre è attenta a formare gli studenti sulle conoscenze specifiche del sapere medico. Abbiamo l’obbligo della formazione permanente con aggiornamenti scientifici ogni anno: sono eventi migliorabili sia nella qualità che nella scelta di argomenti, ma comunque garantiscono un aggiornamento accettabile. Parlando di Cardiologia, settore nel quale ho qualche conoscenza in più, ci sono le linee guida regolarmente pubblicate e aggiornate da varie società scientifiche indipendenti (6). Anche chi non ha tempo o voglia di seguire regolarmente le riviste specifiche del proprio settore di competenza, trova nelle linee guida ottimi compendi, di grande aiuto nella pratica quotidiana. Un’osservazione aggiuntiva può emergere dalla riflessione condotta: ho parlato di
(3) https://www.ser-veneto.it/public/ reportps_2013.pdf
(4) SM Campbell, MO Roland. Why do people consult the doctor? Family Practice 1996; 13: 75-83
(5) Epstein e Hundert (RM Epstein, EM Hundert. Defining and assessing professional competence. JAMA 2002; 287: 226-235) identificano sette macroaree di competenze: cognitive, tecniche, integrative, di contesto, relazionali, affettive/morali e attitudinali. Anche in questo caso gli aspetti psicologici e sociali emergono ampiamente.
(6) Le principali società scientifiche cardiologiche sono la European Society of Cardiology (https://www.escardio.org/ Guidelines/Clinical-Practice-Guidelines) e le due grandi società americane che spesso pubblicano documenti comuni (American HeartAssociation - https:// professional.heart.org/en/guidelines-andstatements eAmerican College of Cardiology - https://www.acc.org/guidelines) oltre ad altre organizzazioni che si occupano di revisione della letteratura, come, per citare solo un esempio, la Cochrane Collaboration - https://www. cochranelibrary.com