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Il sistema salute fra diritti e sostenibilità N. Dirindin
from Alternativa 4_2022
IL SISTEMA SALUTE FRA DIRITTI E SOSTENIBILITÀ
Il Servizio sanitario nazionale. I suoi punti di forza e le sue debolezze. La necessità di difendere la sanità pubblica. Nerina Dirindin
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Da qualche anno, il dibattito italiano sulla sanità pubblica sembra polarizzato su posizioni contrapposte, spesso infondate e in gran parte strumentali. Forti correnti di pensiero denunciano la insostenibilità economica del servizio sanitario pubblico, proponendo dati di contesto che non trovano riscontro nelle statistiche internazionali, mentre, nonostante tutte le debolezze, il nostro sistema di tutela della salute continua a essere classificato fra i migliori al mondo (almeno fino a un paio di anni fa). I media danno risalto ai casi di malasanità, di sprechi e di inefficienze, sicuramente da deprecare ma che oscurano i tanti casi di dedizione, competenza e sobrietà che si rilevano in molte regioni italiane. Il dibattito più recente sulla corruzione nella pubblica amministrazione sembra guardare alla sanità pubblica come al luogo per eccellenza della immoralità, ma a ben guardare, i (pochi) dati disponibili dicono che sono le dimensioni del settore a renderlo in assoluto un terreno di interesse per speculatori e affaristi, mentre in termini relativi non ci sono evidenze su una maggiore presenza di illegalità. Secondo altri luoghi comuni, la sanità pubblica sarebbe preda della peggiore politica, mentre il Servizio sanitario nazionale è l’unico comparto della pubblica amministrazione che negli ultimi decenni si è dotato di un apparato tecnico e di sistemi di governance che non hanno eguali negli altri comparti pubblici (come riconosciuto anche dalla Corte dei Conti). Ciò non significa che la sanità non sia oggetto di continue pressioni da parte della cattiva politica, ma è altresì vero che la sanità è un settore che necessita di un importante intervento pubblico (della buona politica) a correzione delle inefficienze dei mercati e a promozione degli obiettivi di equità propri di un ambito di particolare interesse per l’individuo e la collettività. Le accuse ai dipendenti pubblici, che sarebbero tutti fannulloni e improduttivi, colpiscono anche gli addetti alla sanità, ma i dati rivelano che nel nostro Paese il numero dei dipendenti pubblici è, in termini comparati, eccezionalmente basso e che gli operatori della sanità producono mediamente risultati non inferiori a quelli di altri Paesi sviluppati, come hanno dimostrato anche durante la pandemia. Anche in questo caso l’affermazione vale con riferimento ai dati medi nazionali, mentre ci sono livelli locali di disorganizzazione e inefficienze che non possono essere tollerati e difesi. Gli esempi potrebbero continuare, ma sono sufficienti a testimoniare un dibattito sorretto più da convinzioni ideologiche e posizioni strumentali che da evidenze scientifiche. Un dibattito che ha contribuito a dare della nostra sanità pubblica un’immagine distorta, peggiore di quella reale, e che ha favorito un graduale, costante peggioramento del sistema di tutela della salute. Pregiudizi e ideologie che sono funzionali al superamento di un sistema (il Servizio sanitario nazionale) la cui esistenza deprime le ambizioni di profitto di importanti settori economici (dal mondo assicurativo alla finanza privata, dai produttori di apparecchiature tecnologiche fino ai produttori profit) le cui strategie stanno diventando sempre più insidiose e spregiudicate. Su questo dibattito ha fatto improvvisamente irruzione il coronavirus. La pandemia ha colpito il nostro paese in un momento in cui il Servizio sanitario nazionale aveva raggiunto il suo punto di massima debolezza. Personale dipendente ridotto di oltre 40 mila unità nell’ultimo decennio, mancato ricambio generazionale di medici e infermieri, aumento del precariato e del ricorso a personale esterno (attraverso l’esternalizzazione di importanti servizi, come il Pronto soccorso), ospedali obsoleti e insicuri, servizi territoriali impoveriti, scarsa cultura della prevenzione nei luoghi di vita e di lavoro, dotazione di posti letto ospedalieri fra le più contenute dell’Europa continentale (abbiamo 4 posti letto per 1000 abitanti: il 60% in meno della Germania e il 45% in meno della Francia), diseguaglianze geografiche e socio-economiche in crescita, disimpegno dei vertici decisionali a tutti i livelli. Fortunatamente il Coronavirus sembra (o forse sembrava) aver aperto gli occhi anche ai peggiori detrattori della sanità pubblica. Di fronte alla diffusione del contagio
tutti hanno elogiato il nostro sistema sanitario, i nostri professionisti, i principi alla base del Servizio sanitario nazionale. Durante la pandemia, nessun italiano ha pensato che sarebbe preferibile passare a un sistema diverso, un sistema che inevitabilmente potrebbe prendersi cura solo di chi può pagarsi l’assistenza e ha un lavoro stabile. Ognuno ha ben chiaro che Covid-19 può colpire chiunque (anche se colpisce di più i poveri e i fragili), che dall’emergenza nessuno può uscire da solo (né come individuo né come nazione), che è interesse di tutti limitare la diffusione dell’epidemia, che la sorveglianza, l’identificazione e il trattamento precoce della malattia sono la strada maestra per vincere questo virus (come tutti gli altri agenti infettivi). Insomma, abbiamo capito che quanto previsto dalla legge 833/78 istitutiva del Servizio sanitario nazionale è quanto ci serve e che dobbiamo ripristinare ciò che non è stato realizzato o è stato realizzato in modo parziale. Mai come durante la pandemia, la sanità pubblica è apparsa a tutti un patrimonio prezioso di cui essere orgogliosi, da salvaguardare e potenziare. L’insopportabile ritornello sulla insostenibilità del Servizio sanitario nazionale è scomparso improvvisamente dal dibattito quotidiano, ma – ahimè - forse solo temporaneamente. La martellante pubblicità delle assicurazioni private di malattia si è dissolta nel nulla, ma al venir meno dell’emergenza ha subito ripreso a riproporci offerte seducenti. Durante la pandemia, l’assordante silenzio delle forme integrative di assistenza (mutue aziendali) ha reso evidente il carattere non indispensabile, spesso superfluo, della loro offerta assistenziale, ma sapranno presto riposizionarsi sul mercato alimentando consumismo, inappropriatezza e diseguaglianze fra lavoratori e il resto della popolazione. Gli erogatori privati di prestazioni diagnostiche si sono rapidamente posizionati offrendo test sierologici senza alcuna capacità diagnostica a livello individuale (a bassa specificità e sensibilità), sfruttando vergognosamente le paure degli italiani e offrendo prestazioni diagnostiche e visite specialistiche che il Servizio sanitario nazionale purtroppo non è più in grado di dare, anche perché sfiancato dalla pandemia. Tutto ciò non ci fa ben sperare per quando l’epidemia sarà definitivamente superata, ma bisognerà ricordare a tutti che è proprio grazie alla Costituzione e alla legge 833 del 1978 che l’Italia ha potuto affrontare l’emergenza Coronavirus senza aggiungere alla sofferenza della malattia e alla paura della morte la preoccupazione del costo di trattamenti che potrebbero essere insostenibili per la gran parte delle famiglie (un ricovero per problemi dell’apparato respiratorio con respirazione assistita per oltre 4 giorni è tariffato poco meno di 16 mila euro; trattamenti più complessi superano i 50 mila euro). Non solo. Grazie alla Carta costituzionale e al Servizio sanitario nazionale nessuna persona esposta al rischio di disoccupazione (rischio sempre più elevato a causa della grave crisi economica che imperversa) deve temere di perdere, oltre al posto di lavoro, anche il diritto alle cure. Non è poco. E ce ne stiamo rendendo conto solo ora. Ma non basta. La pandemia ci ha ricordato che l’assistenza deve essere erogata nei luoghi di vita e di lavoro delle persone, nell’ambito del Distretto socio sanitario, privilegiando la domiciliarità (e non solo l’assistenza domiciliare), rinnovando profondamente le cure primarie e la medicina di famiglia, evitando ogni forma impropria di istituzionalizzazione e facendo concretamente lavorare insieme i servizi sociali e i servizi sanitari. Ma tutto ciò non è sufficiente, perché l’indebolimento della sanità pubblica ha raggiunto livelli troppo preoccupanti. I fondi del PNRR sono fondamentali, ma il SSN deve essere strutturato in via ordinaria e stabile, con personale, luoghi di cura accoglienti, sicuri, riconoscibili e “amici” delle persone più fragili. Da molti anni, le scelte di politica economica hanno colpito pesantemente il settore sanitario. Se si esclude la pandemia, da molto tempo, le diverse coalizioni che si sono succedute al governo non hanno inserito nella loro agenda politica il tema della tutela della salute, o lo hanno inserito in modo del tutto marginale. Il ruolo delle politiche per la tutela della salute quale strumento fondamentale per il benessere delle persone e per la coesione sociale è al massimo declinato come dichiarazione di principio, ma non è tradotto in azioni conseguenti. Solo i settori ad alta tecnologia e intensità di ricerca, in particolare il farmaceutico, sono oggetto di attenzione, mentre i settori ad alta intensità di lavoro (la gran parte dei servizi sanitari e sociali!) sono percepiti come improduttivi, costosi, poco qualificati, superati e da considerare marginali. E invece il futuro è in buona parte nelle mani di chi sa programmare ed erogare percorsi di cura sul territorio, in cui la tecnologia si intreccia con le relazioni umane, l’assistenza primaria ha la stessa dignità dell’alta specializzazione, le persone sono assistite prevalentemente nel loro ambiente familiare, la qualità è perseguita in tutti i contesti assistenziali, la sicurezza e il decoro delle strutture è parte integrante del servizio, i malati e gli anziani non sono considerati un peso ma persone colpite da rischi a cui tutti siamo esposti e che vorremmo fossero affrontati con il contributo di tutti. Di fronte a tali debolezze, dobbiamo tutti impegnarci affinché la fase che stiamo affrontando, nella quale dobbiamo ricominciare a strutturare il nostro sistema sanitario tenendo conto di quanto abbiamo imparato nell’emergenza, non sia di nuovo succube delle vecchie ricette. Dobbiamo ricominciare infatti, non ripartire da dove ci siamo fermati. E dobbiamo difendere la sanità pubblica.