YtseMagazine n. 5 - Dicembre 2021

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Numero 5 - Dicembre 2021


YtseMagazine n. 5 Dicembre 2021 YtseMagazine è una pubblicazione YtseItalia 2.0 Fan club ufficiale italiano dei Dream Theater. YtseItalia 2.0 opera senza alcuno scopo di lucro e non rappresenta una testata giornalistica, in quanto pubblica contenuti senza alcuna periodicità regolare. YtseMagazine non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della Legge n. 62/2001. YtseItalia 2.0 Staff Johnny Bros David Cangi Andrea Mancini Redazione fanzine: Andrea Mancini Hanno collaborato: Ignazio Verzicco Matteo Santoro Viviano Crimella Gabriele Pirovano Traduzioni a cura di: Johnny Bros Gabriele Pirovano Foto e immagini: Dream Theater James Meslin John Petrucci Jordan Rudess Laura Rossi Mike Mangini Rayon Richards Neural DSP Alcune foto sono state reperite in internet senza possibilità di accredito e quindi valutate di pubblico dominio. Qualora i legittimi autori lo richiedessero provvederemo alla loro rimozione. Contatti: ytseitalia@gmail.com Facebook messenger: m.me/YtseItalia2.0

l’EDITORIALE Ciao Dreamers, eccoci di nuovo qua. Siamo vicini alla conclusione di questo 2021, un altro anno di attività del fanclub, sebbene un po’ sottotono, va in archivio e, per coronare il tutto, arriva davanti ai vostri occhi un numero nuovo di zecca della nostra fanzine, la quale tra una discussione su cosa buttarci dentro e ritardi vari dovuti ai più disparati motivi, giunge ancora una volta alla fine dell’anno. È stato un altro anno che, nonostante una lenta ripresa verso una parvenza di normalità, ci ha visto ancora alle prese con restrizioni e limitazioni che ci hanno costretto a numerose rinunce, tra le quali ci sono anche i primi concerti dei nostri amati Dream Theater dopo un anno e mezzo di stop forzato. Se vogliamo guardare al lato positivo di tutta la storia, il lockdown dello scorso anno ci ha portato ben quattro nuovi album da studio: un nuovo solista di Rudess, il tanto atteso (da ben 15 anni!) solista di Petrucci, l’altrettanto attesissimo, qui gli anni son 22, terzo capitolo del Liquid Tension Experiment, ed infine A View From The Top Of The World, il nuovo album dei DT; questo invero un po’ in anticipo sugli originali piani della band. Di questi, tre sono stati concepiti e registrati nei nuovi studi all’interno del Dream Theater HeadQuarter (DTHQ per gli amici) anch’esso completato e messo in funzione durante il lockdown. Senza contare il live Distant Memories, anch’esso mixato presso il DTHQ, il quale potrà fungere da preziosa testimonianza del tour a supporto di Distance Over Time e celebrativo del ventennale di Scenes From a Memory per chi non ha avuto l’opportunità di presenziarvi dal vivo, come gli amici asiatici, rimasti purtroppo a bocca asciutta. Certo, se la band fosse stata in grado di concludere il tour, tutti questi nuovi album magari non sarebbero venuti alla luce in questo momento, e li avremmo attesi ancora per molto; ma come


hanno detto più volte loro stessi, nell’impossibilità di esibirsi dal vivo, cosa c’è di meglio che non sfogare la propria creatività, scrivendo e registrando del materiale? Tutti questi album pieni di grande musica hanno, come sempre, scatenato la vostra e la nostra passione, con una selva di giudizi, critiche, commenti e chi più ne ha, più ne metta. Tutto ciò, in questo grigiore dei tempi moderni, non può farci che piacere, segno che la passione per i Dream Theater, con tutti gli annessi e connessi, è più viva che mai. Come facilmente intuibile, questa fanzine sarà monopolizzata dal nuovo album dei Dream Theater. Si è già parlato molto in giro di questo disco, ma noi non ci siamo voluti sottrarre all’impegno e ci siamo dati da fare per confezionare una sorta di speciale, cercando di non fare una recensione classica od un track by track; a quello ci pensano già fior di magazine, webzine, blog ecc. ecc.; abbiamo piuttosto cercato di analizzare in maniera approfondita quello che è stato il lavoro fatto dalla band per questo disco ed alcuni particolari aspetti che secondo noi sono stati i più meritevoli di attenzione. Non spoileriamo nulla, proseguite nella lettura, che ne varrà sicuramente la pena. Tornando alla questione dei live, come probabilmente già saprete, la leg americana che avrebbe dovuto inaugurare il Top Of The World Tour, sarebbe dovuta partire in ottobre a supporto del nuovo album, ma è stata posticipata presumibilmente all’inizio della primavera. Quindi, una delle rinunce cui siamo stati costretti e di cui abbiamo parlato in apertura, riguarda il fatto che in questa fanzine avremmo voluto già iniziare a raccontarvi qualcosa del tour (rigorosamente “spoiler free”), mentre invece ci toccherà rimandare al prossimo numero. Cari dreamer italiani, potete comunque stare tranquilli: per il momento il tour europeo che vedrà i DT calare sul suolo italico per le ormai classiche tre date che toccheranno le città di Milano, Roma e Padova durante la prossima fine primavera, risulta regolarmente confermato. E proprio poche settimane fa è arrivata la notizia, ben accolta dalla stragrande maggioranza dei fan, che l’opening act di questo tour europeo è stato affidato nientemeno che a quel pazzo scatenato di Devin Townsend e siamo tutti curiosi di vedere cosa potrà combinare sul palco. Una cosa è sicura: con lui non ci si può annoiare! Ah, noi ve lo diciamo subito: ancora non abbiamo le idee ben chiare su quello che si potrà e non si potrà fare; ancora non sappiamo a quale di queste date parteciperemo, se potremo fare il nostro consueto raduno e se potremo - come speriamo - regalarvi ancora una volta “un sogno”, ovvero quello di poter incontrare la band in aftershow, come successo praticamente ad ogni tour da quando gestiamo questo fanclub. Perdonateci e portate pazienza ma, come ormai avrete notato, in questa particolare situazione è molto difficile fare programmi a lungo termine ed avere la certezza che, nel frattempo, niente cambi. Un grande abbraccio a tutti quanti, tanti auguri di buone feste e speriamo di poter tornare presto a vederci on the road!! Andrea, David, Johnny 3


DT15 Timeline

Prima di parlare nel dettaglio di A View From The Top Of The World, vogliamo fare un excursus indietro nel tempo, passando in rassegna tutta una serie di dichiarazioni rilasciate nel corso di varie interviste e post pubblicati sui social networks dai membri della band nell’ultimo anno e mezzo circa. Ripercorreremo così in senso cronologico le tappe principali che hanno portato all’uscita di questo quindicesimo lavoro in studio dei nostri amici americani. Ci preme di fare comunque una doverosa premessa: c’è chi ancora oggi accusa i DT, pretestuosamente, per la propria brama di voler contestare a tutti i costi o comunque per tentare di giustificare il fatto che la proposta musicale della band non incontra più i propri gusti, di proporre lavori confezionati in fretta e furia, senza che i brani, una volta scritti decantino, maturino o invecchino come un buon vino. E questo, sempre secondo alcuni, non favorirebbe la qualità della musica proposta. Beh, nessuno obbliga la band a sfornare un disco ogni due anni, questo è vero, ma è altrettanto vero che in un certo senso, i DT lo hanno sempre fatto; fin dagli esordi infatti hanno sempre tenuto un ritmo molto alto nel loro lavoro; sappiamo bene che sono persone estremamente creative e nessuno può dire che i primi album della band, usciti anch’essi a distanza di due anni circa l’uno dall’altro, non siano dei capolavori. Sicuramente non sono artisti che amano stare con le mani in mano o adagiarsi e ciò lo dimostrano anche i numerosi progetti paralleli, sempre di elevata qualità, che coinvolgono i membri della band presenti o passati. Ma mai come in questo caso urge prendere in considerazione un dato statistico ed incontrovertibile, per quanto possa sembrare noioso e non esaustivo del “fenomeno DT”. Se guardiamo l’attività della band negli ultimi 10 anni, ovvero dall’ingresso di Mangini in formazione, tra l’uscita sul mercato di A Dramatic Turn Of Events ed il successivo album omonimo (DT12) passano 24 mesi; da DT12 a The Astonishing i mesi di distanza sono 28, mentre il successivo Distance Over Time esce addirittura dopo 37 mesi. Fino ad arrivare all’ultima fatica, la quale vede la luce dopo 32 mesi dal precedente e se non ci fosse stata la pandemia, sicuramente tale lasso temporale sarebbe stato ancora maggiore. Quindi, nell’ultima decade in un certo senso la band ha leggermente rallentato la propria corsa “all’album”, ma come ben sappiamo, la band ama ritrovarsi in studio e scrivere collettivamente, di getto, utilizzando il cosiddetto “metodo LTE”. È quindi inutile, secondo noi, continuare in questa sterile battaglia per indurre i DT a fermarsi, riposare di più ecc. Ma veniamo al sodo e ripartiamo da dove ci eravamo lasciati. Il pomeriggio del 12 febbraio siamo ad Assago; il “Distance Over Time Tour” è ancora nel pieno del suo svolgimento, la band è in formissima, si sta divertendo e fa divertire ed emozionare gli spettatori dei vari show, grazie anche alla celebrazione del mito Scenes From A Memory. I ragazzi non si risparmiano, sono anche impegnati a preparare la registrazione di un nuovo live album. Inoltre ci sono le successive leg asiatica e australiana ancora da iniziare e programmate per la primavera successiva. Mentre Johnny fa gli onori di casa con i ragazzi che stanno iniziando ad arrivare al locale scelto per il nostro raduno, David ed il sottoscritto si trovano nei camerini del Forum per intervistare Jordan Rudess poco prima di salire sul palco per l’ultimo concerto in terra italiana (l’intervista video la trovate sul nostro canale YouTube e la trascrizione su Issuu). È lui stesso a fornirci il primo indizio sulla volontà della band di iniziare a preparare un nuovo 4


album. Jordan ci rivela infatti di aver discusso proprio in quei giorni con John Petrucci di qualche idea ed ipotesi sulle possibili strade da poter prendere per un futuro nuovo album. Il successivo 18 febbraio in un post su Facebook, Mike Mangini parlava dei suoi programmi per il resto dell’anno e, tra le varie cose da fare oltre alla registrazione del live, il proseguo del tour e riprendere le sue lezioni di batteria online, cita genericamente “un nuovo album dei DT”. Ovviamente, nessuno ancora si immaginava che il mondo intero sarebbe stato sconvolto di lì a breve da una pandemia come neanche l’infausta peste di manzoniana memoria, con il tour stoppato dal lockdown e tutti i programmi futuri saltati. La band farà in tempo a registrare il live Distant Memories i successivi 21 e 22 di quello stesso mese in quel di Londra ed a portare a termine la leg europea del tour con l’ultima data il 23 a Glasgow, prima di doversi fermare definitivamente. Il 28 marzo ed il successivo 14 aprile Petrucci pubblica sui suoi profili social, dapprima la foto di un amplificatore microfonato, praticamente senza nessuna didascalia, poi la foto di una Music Man Majesty nel colore purple nebula, uno dei suoi modelli preferiti, accompagnata da queste parole: creando parecchia musica con questa bellezza. L’informazione non è delle più esplicite ed al tempo molti avevano ipotizzato che Petrucci stesse raccogliendo idee per un ipotetico nuovo album dei DT; quei “semi” sparsi, come lui stesso li ha definiti (vedi l’intervista su YtseMagazine n. 4), che spesso registra e salva nel suo computer per poi utilizzarli in seguito; creando così non poche aspettative. A posteriori però, possiamo dire con una buona dose di certezza che tali foto non erano altro che indizi per farci capire che finalmente, dopo ben 15 anni da Suspended Animation, “grazie” al lockdown JP aveva trovato il tempo per dedicarsi ad un nuovo album solista. Infatti, il lavoro su Terminal Velocity ha coinvolto il chitarrista a partire proprio dal mese di marzo e per i seguenti due mesi e mezzo circa. Il 20 maggio Jordan pubblica su Instagram la foto di uno spartito pieno zeppo di note accompagnato da queste poche parole, diciamo enigmatiche: nel caso vi steste chiedendo a cosa sto lavorando in studio. Anche in questo caso non si può dire con certezza se la musica presente sullo spartito fosse per DT15 oppure per altro, data la notevole mole di progetti ai quali, da sempre, il tastierista si dedica. Arriviamo così all’estate e il nuovo album solista di John Petrucci è finalmente una realtà; l’annuncio ufficiale arriva ai primi di giugno, portando con sé un notevole entusiasmo, dovuto anche alla partecipazione di Mike Portnoy alla batteria, ma come conseguenza, voluta o meno che sia, inizia anche a serpeggiare sui social e tra gli addetti ai lavori qualche speculazione e velate speranze (rivelatesi poi vane) che la reunion artistica tra i due vecchi sodali, potesse coinvolgere anche la band madre. Nel frattempo però, Petrucci e Rudess si ritrovano segretamente con Tony Levin e lo stesso Portnoy presso il DTHQ, per due settimane a cavallo tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, per scrivere e registrare LTE3 il quale verrà annunciato ufficialmente solo nel dicembre 2020. 5


L’uscita ufficiale di Terminal Velocity è prevista per il 28 agosto, ma già da diverse settimane Petrucci è impegnato nelle classiche attività di promozione. Inevitabilmente, nel giro delle interviste che vengono rilasciate dal chitarrista, tra una domanda e l’altra relative al suo album solista e smentite di circostanza a riguardo del LTE3, si parla anche del futuro della band. Così, in più di un’occasione, dichiara esplicitamente: Senza i tour il nostro programma è cambiato. Ad ogni modo siamo musicisti, siamo persone creative, non staremo fermi a guardare e nei prossimi mesi lavoreremo a nuova musica, sebbene non uscirà prima del 2021, probabilmente verso fine anno. Sempre Petrucci, durante un’intervista podcast rilasciata a Sonic Perspectives e pubblicata online il 17 settembre (da noi già ripresa in Ytsemagazine n. 4) a precisa domanda se la band entrasse in studio con le idee chiare di quale direzione dare all’album, il chitarrista risponde così: Con i Dream Theater quello che amiamo fare il più delle volte è comporre in maniera collettiva stando tutti nella stessa stanza, se qualcuno porta un’idea, inizia a suonarla e tutti si uniscono, passandoci la palla l’uno con l’altro. È così che scriviamo le canzoni, quindi è sempre cosa buona avere dei “semi da piantare”, delle idee iniziali e una direzione da seguire, sia che poi vengano usati o meno – non siamo obbligati – ma ottimi come punti di partenza. Di solito, prima delle sessioni, discutiamo del tipo di disco che vogliamo realizzare, è una cosa molto importante, perché abbiamo una lunga carriera alle spalle, un catalogo molto ampio e cerchiamo di vedere ogni album come un altro capitolo della nostra storia. Quando ci approcciamo ad un nuovo album cerchiamo di fare qualcosa di unico e che possa semplicemente rendere le cose più interessanti. Perché le persone dovrebbero continuare ad ascoltare i Dream Theater o attendere il nuovo disco se non ci fosse nulla di nuovo, di diverso o di eccitante? Quindi ne parleremo in anticipo, in modo che tutti possano poi essere sulla stessa lunghezza d’onda. Il successivo 2 ottobre, il magazine online Revolver, pubblica un’altra intervista in cui JP menziona, forse per la prima volta in modo esplicito, il nuovo Dream Theater Head Quarter (DTHQ per gli amici), lo spazio di proprietà della band, di recente costruzione e dice che proprio nello studio al suo interno, si svolgeranno le sessioni di scrittura e registrazione del nuovo album. DT15 sarà quindi il primo album dei Dream Theater ad essere interamente scritto e prodotto dall’inizio alla fine all’interno dello studio privato della band (tranne il mixaggio che, vista la scelta di Andy Sneap, adesso sappiamo essere stato effettuato in un’altra location). Sappiamo però, che a fungere da banco di prova per questo nuovo studio privato sono stati dapprima Distant Memories, che qui è stato mixato e successivamente l’intera produzione di Terminal Velocity ed LTE3. Il 21 ottobre torna a parlare anche Jordan, il quale all’interno di una intervista per un canale Youtube precisa che il lavoro della band è partito da un’interessante idea di fondo e sanno ciò che vogliono creare, ma DT15 non sarà un concept. Un paio di giorni dopo, Petrucci e Rudess appaiono insieme (con una breve incursione anche di Mike Mangini) per un Q&A in diretta sul canale Youtube di Dream Theater World, in una stanza del DTHQ; probabilmente adibita a magazzino dato che si intravedono alle loro spalle vari strumenti e attrezzature; a testimonianza che il lavoro è ormai iniziato ed è la conferma che si sta svolgendo proprio nel nuovo spazio di proprietà della band. Petrucci inoltre, parla ancora del fatto che se Music Man riuscirà a produrre in tempo utile almeno un prototipo di chitarra ad 8 corde, la utilizzerà sul nuovo album. Il 17 novembre si fa sentire e vedere anche James Labrie, il quale, intervistato da The Everyman Podcast, spiega come sta contribuendo al lavoro: Non sono voluto andare negli 6


States anche se li amo perché mi hanno portato tutto quello che ho oggi, ma ho detto ai ragazzi: voglio rimanere isolato perché sto leggendo storie orribili su questo virus, persone che perdono la laringe e i loro polmoni sono compromessi. Non posso farlo. Quindi, ogni giorno mi collego via Zoom con gli altri che si trovano insieme nel quartier generale dei Dream Theater - il nostro studio, magazzino, qualunque cosa. Loro hanno un grande monitor, una tv al muro con la mia faccia sopra ed è così che ogni giorno comunichiamo e scriviamo. Comunque, siamo proprio adesso nella fase di scrittura e, lo dirò sempre perché di solito è così che ci sentiamo, sta venendo fuori in modo sorprendente. Gli stessi Petrucci e Labrie ospiti della rubrica podcast “Talk is Jericho” con Chris Jericho, pubblicato il 25 novembre, confermano di essere entrati in studio da alcune settimane e di stare scrivendo nuova musica tutti insieme, essendo l’unica cosa che possono fare, dato che non possono tornare in tour. Inoltre, si inizia, in qualche misura, anche a parlare di tempistiche per la pubblicazione, citando un generico “nel corso dell’anno seguente”. Nel frattempo la band non dimentica cosa sta succedendo nel mondo e nel bel mezzo del lavoro di scrittura del nuovo album, trova il tempo e la voglia di fare anche qualcosa per aiutare la propria live crew che da quasi un anno non può lavorare. Viene così registrato un nuovo medley di brani natalizi, il quale, presentato ufficialmente il 1 dicembre, poteva essere acquistato online ed il cui ricavato è stato destinato ad aiutare i membri della crew. L’8 dicembre, una foto postata sull’account Instagram di Petrucci svela un nuovo importante dettaglio, che di fatto è la conferma, dopo il rincorrersi di molte voci e rimandi che, finalmente per la gioia di qualcuno, o purtroppo, per i timori di altri; nel nuovo album il chitarrista userà un nuovo modello di Music Man ad 8 corde. Passano le feste natalizie ed il 14 gennaio 2021 torna a parlare brevemente anche Mike Mangini, il quale, sulla sua pagina Facebook, si scusa con i fans per dover rimandare le sue lezioni online ed il lancio del suo e-store in quanto c’è ancora del lavoro da fare con i DT. Il 20 dello stesso mese, una foto su Instagram ci mostra Jordan impegnato in studio a lavorare sulle sue parti di tastiera. Mentre il 23 Mike annuncia, sempre dalla sua pagina Facebook, la fine del suo lavoro: Le mie parti di batteria per DT15 sono complete. Non suonavo su un album così energico e inarrestabile dai tempi degli Annihilator. Questa energia si intreccia con un sacco di melodia in stile vecchi Dream Theater. Non ho mai usato in modo così avanzato le mie tecniche nuove e vecchie. Ho potuto farlo perché è stato un lavoro creativo monumentale frutto di cinque menti aperte. È l’effetto del lockdown, come ho sentito in altra nuova musica che ho ascoltato. La dichiarazione all’inizio non è stata ben 7


compresa, in quanto il riferimento agli Annihilator ha creato un po’ di scompiglio tra i fan; in molti infatti hanno temuto che il nuovo album potesse essere una sorta di nuovo Train Of Thought, un album con atmosfere thrash/speed metal, se non addirittura uno stravolgimento totale del sound dei DT, dovuto anche alla sempre più probabile possibilità di utilizzo di una 8 corde da parte di Petrucci. Ma facendo un salto in avanti di un paio di mesi, andiamo al 18 marzo quando il portale greco Rock Overdose pubblica una intervista allo stesso Mike il quale corregge il tiro, spiegando cosa intendesse con l’affermazione precedente: I fan possono aspettarsi un ulteriore passo avanti rispetto a quello che abbiamo fatto con gli ultimi quattro dischi con me alla batteria. Prendete il meglio di quei quattro album ed ecco il mio quinto [ridendo]. Per questo nuovo disco il mio coinvolgimento è stato molto maggiore, come lo è stato quello di tutta la band. Ognuno ha potuto dire la sua. Il disco è molto energico. Questo non significa che sia tutto pesante. Voglio parlare chiaro e voglio che le mie parole non vengano mal interpretate: per ‘più energico’ intendo che ogni sezione, che si tratti di una ritmica o di una melodia, è molto potente e immediata. I pezzi sono lunghi ma scorrono velocemente. Ogni volta che terminavamo la composizione di un brano, rimanevamo stupiti dalla durata, perché all’ascolto sembrano molto più brevi di quello che sono. Ciò significa che sono molto coinvolgenti. È questo che intendo. Nel corso della stessa intervista Mangini accenna anche alla possibile data di pubblicazione dell’album e del primo singolo: Probabilmente pubblicheremo il disco a settembre 2021 e quindi posso immaginare che i fan sentiranno il primo assaggio qualche settimana prima. Penso nel corso dell’estate. Riprendiamo il filo del discorso tornando al 3 febbraio, quando Mike è ospite di The Mistress Carrie Podcast, dove tra le altre cose, spiega come si svolge il processo di scrittura nei DT: Era ottobre (quando ci siamo riuniti per iniziare a scrivere), in quel momento ci siamo ritrovati nel mezzo delle restrizioni e le conseguenti misure di precauzione attuate, come ad esempio l’aggiunta di pannelli in plexiglass in studio. Normalmente il processo di lavoro dei Dream Theater funziona in questo modo: noi ci presentiamo – beh, almeno per questo e per il precedente album (Distance Over Time), – e lo scriviamo al volo. I membri della band si sono presentati con qualche idea, ma non molte, a differenza di quanto avveniva coi dischi precedenti, dove invece tutti quanti portavamo più contributi, ma alla fine non si trattava di un vero e proprio lavoro di gruppo. Io ho finito le mie tracce di batteria, ma ora anche la chitarra e il basso potrebbero essere finiti, mentre le tastiere dovranno esserlo… se già non lo sono… in realtà non lo so. Gli strumenti sono in fase di completamento, poi dovremo occuparci dei testi e delle voci e poi dovrà essere mixato. Conclude poi con una considerazione a proposito del DTHQ: Ora abbiamo la nostra struttura, lo chiamiamo semplicemente quartier generale, quartier generale DT, ed è in una lontanissima località su un altro pianeta (frase pronunciata con voce da narratore di film di fantascienza). Ha più attrezzatura di quanto dodici band dovrebbero essere autorizzate ad avere. Abbiamo ogni cosa, è fatto magnificamente. Il 21 febbraio, la foto postata dalla pagina Instagram della band ci mostra come Jordan sia ancora a lavoro in studio con Petrucci ed il solito James Meslin; ormai insostituibile tecnico di studio ed ingegnere del suono di fiducia della 8


band; presente al banco mixer per registrare. Il 24 febbraio, il sito Ultimate Guitar pubblica un estratto di una conversazione con Petrucci, il quale fornisce un paio di aggiornamenti interessanti in merito alla tanto chiacchierata chitarra ad 8 corde e sul brano scritto con questo strumento: L’album sta venendo fuori alla grande, uscirà entro la fine dell’anno ed in effetti c’è un pezzo con la chitarra a 8 corde, quindi si, abbiamo lavorato ad una 8 corde, sarà una Majesty. Al momento abbiamo due prototipi ed ho potuto usarne una con cui scrivere e registrare. Stiamo ancora lavorando su alcune cose per perfezionare il brano, ma sarà presente sul disco e lo pubblicheremo anche da solo. Non ho ancora una data di uscita ma il pezzo è fantastico, molto ispirato e non vedo l’ora che i fan possano ascoltarlo. Sono felice che sia nell’album. Il 10 marzo Jordan annuncia ai suoi abbonati Patreon di aver concluso le registrazioni delle tastiere. Mentre il 22, sempre tramite tale network, dice che il lavoro di registrazione è entrato nella settimana conclusiva. Infatti, la pagina Instagram della band, pubblica il giorno successivo una foto di James Labrie impegnato in studio. Come sempre accade, la registrazione delle parti vocali avviene per ultima dopo che il lavoro sulle tracce degli altri strumenti è ormai completato. Passano pochi giorni ed il 27 marzo, lo stesso James con un post dai suoi profili, annuncia a sua volta di aver terminato le registrazioni. A questo punto, l’album è completato. Per la band il lavoro sulla parte puramente musicale è concluso. Dal lato tecnico invece, resta da svolgere una parte non meno importante del lavoro, il mixaggio. Un buon mixaggio influisce non poco sulla resa finale e sul gradimento che può avere un disco presso gli ascoltatori. A questo punto della storia non era ancora stato annunciato ufficialmente chi si sarebbe occupato del mixing, ma una sorta di conferma indiretta della scelta, arriva da chi non ti aspetteresti. Autore della “soffiata” è nientemeno che Biff Byford, storico cantante dei Saxon, durante una videointervista con Robb Flynn trasmessa il 2 aprile in diretta sul canale Youtube “No Fuckin’ Regrets”. Byford sta parlando di un suo nuovo progetto nel quale vorrebbe coinvolgere Andy Sneap, il quale ha prodotto gli ultimi 3 album dei Saxon e, inavvertitamente, si lascia sfuggire qualche parola di troppo: Sneap al momento non è disponibile a lavorare al suo progetto perché è impegnato con i Dream Theater. Byford non dice esplicitamente quale sia “l’impegno”, ma ragionando un minimo e andando per esclusione, si intuisce che il ruolo per il quale è stato ingaggiato, dopo l’ottimo lavoro fatto su Terminal Velocity, è quello di addetto al mixaggio. Andy Sneap è un personaggio ben conosciuto, esperto ed apprezzato nell’ambiente metal; se avete ascoltato qualche disco metal degli ultimi due decenni, sicuramente vi sarete imbattuti in qualche lavoro prodotto, registrato o mixato dal produttore/chitarrista/ingegnere del suono inglese. Il 14 aprile il canale Youtube “Thomann’s Guitars & Basses” pubblica una nuova videointervista con Petrucci. Nonostante sia dedicata quasi interamente alla promozione di LTE3, non manca un accenno anche al nuovo album dei DT: Abbiamo appena terminato le registrazioni. Ci lavoravamo da ottobre e ne sono super entusiasta. Il disco uscirà verso la fine di quest’anno. Non abbiamo ancora informazioni precise circa la data di pubblicazione e, ovviamente, appena sapremo qualcosa, lo renderemo noto. La pandemia è stata dura per molte persone nel mondo, 9


soprattutto per i musicisti. Non ci sono concerti, tutti sono rinchiusi e vogliamo tornare a suonare. Tutti questi dischi che stiamo facendo in studio sono lavori pieni di energia e positività. Davvero, non vedo l’ora che tutti possiate ascoltarlo. Il 25 aprile Mike, in uno dei consueti post Facebook relativi alle sue lezioni online, fa sapere che a maggio ci sarà del lavoro con i DT che richiede tempo. Probabilmente si riferiva a tutte quelle attività diciamo collaterali, ma necessarie al lancio di un nuovo album, ossia la promozione; quindi fare i servizi fotografici, girare videoclip, scegliere l’artwork e quella che molti musicisti ritengono sia l’attività più noiosa, rispondere alle interviste. Anche James, durante una videointervista con Peter Orullian, parla del lavoro che li attende: Tra poche settimane faremo un grande servizio fotografico e stiamo girando il video per il primo singolo. Ed in effetti, poco meno di un mese dopo, il 20 maggio, ritroviamo Mike che pubblica questa foto da una terrazza di New York, dove si vede anche un tipo losco alle sue spalle, mentre James e Jordan sono insieme in un video pubblicato sul profilo Instagram di quest’ultimo, all’interno della Penn Station di Manhattan. I due parlano che è il loro primo incontro dal vivo dopo molti mesi e che per la settimana seguente saranno impegnati al DTHQ per svolgere alcune attività connesse alla promozione dell’album. Il successivo 24 maggio Mike, in un video pubblicato sulla sua pagina Facebook, dice di aver concluso il suo ciclo di interviste. L’ultimo aggiornamento arriva il 2 giugno, quando Jordan dal suo canale Patreon, annuncia che è iniziato il lavoro di masterizzazione. Da qui passa praticamente un mese, finché il 10 luglio ha inizio la fase di promozione vera e propria verso il pubblico. Sulla pagina Facebook di Dream Theater World viene pubblicato, a sorpresa, il primo di una serie di cinque brevi video, composti da una successione di diapositive raffiguranti un dettaglio delle cover dei precedenti album dei DT, intervallate da altre immagini; alcune di queste portano impressi i timing dei brani dei vecchi album, altre ancora sono nuove illustrazioni che si può intuire potrebbero essere parte dell’artwork del nuovo album ancora una volta creato ad opera di Hugh Syme. Ognuna di queste illustrazioni, come abbiamo scoperto successivamente, rappresenta un brano. Gli ulteriori timing che appaiono accoppiati ad alcune lettere, sono quelli dei brani (di cui abbiamo quindi le iniziali) che andranno a comporre la tracklist completa. Curiosità: permettetemi qui una piccola nota campanilistica, di cui vado anche un po’ orgoglioso (nonostante non ne sapessi niente fin quando non l’ho visto); nel quarto di questi mini video, una delle diapositive raffigura un edificio arroccato su una costa rocciosa; bè quello è un luogo reale (come d’altronde lo è quello della copertina dell’album) e si trova proprio in Italia. Si tratta del Castello del 10


Boccale, uno degli edifici più famosi e iconici de Il Romito il tratto di costa a sud di Livorno, reso celebre tra l’altro, dallo storico film Il sorpasso. Vi basterà cercare velocemente su internet per vedere tale castello immortalato in centinaia, se non migliaia di scatti sempre da quella stessa angolazione. Ovvio il riferimento, in quel preciso momento della successione delle immagini, al brano The Count Of Tuscany, contenuto in Black Clouds & Silver Linings, anche se tale luogo non si trova propriamente in terra di Chianti... Questi mini video, rilasciati in successione a distanza di 3-4 giorni l’uno dall’altro hanno lo scopo di creare attesa e curiosità verso i fan, il famoso hype; un po’ come era successo 2 anni prima con la “caccia al tesoro” che portò a svelare titolo ed artwork di Distance Over Time. Così, l’ultimo video della serie, pubblicato il 23 luglio, ci dà la tanto attesa notizia: il 28 luglio tutto sarà rivelato. Conosceremo così ufficialmente la data di uscita del nuovo album, fissata al 22 ottobre, la copertina, la tracklist completa ed anche le prime date del tour a supporto dell’album, che sarebbe dovuto partire con la leg americana proprio alla fine di ottobre, ma come ormai sappiamo, tale partenza è stata rinviata a febbraio 2022. Il 13 agosto esce il primo singolo, The Alien ed a seguire, il 22 settembre, Invisible Monster. Bene, questa cronistoria si chiude qui, perché da adesso inizia davvero il viaggio nei meandri di questa nuova fatica regalataci dai Dream Theater, con una serie di articoli, chiamateli recensioni se volete, che approfondiranno alcuni aspetti che secondo noi, valeva la pena di analizzare con un po’ più di attenzione. Andrea

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INSIDE THE TOP

Ogni album dei Dream Theater, inevitabilmente, genera intorno a sé un sacco di aspettative e di hype. Questa volta l’attesa è sembrata ancora più lunga, in quanto l’album arriva nelle nostre mani dopo un lunghissimo periodo di inattività della band (dovuta ai motivi che tutti noi ben sappiamo), ma anche dopo un anno e mezzo in cui le nostre vite sono state caratterizzate da incertezze, dubbi e paure, che hanno reso ancora più “famelica” la nostra voglia di nuova musica, in modo da esorcizzare e, si spera, tentare di lasciarci alle spalle il recente passato. Ma non è certo questo l’argomento di cui vogliamo parlare, quindi torniamo al disco. Durante questi interminabili mesi, ci si chiedeva, soprattutto, quale sarebbe stata la direzione intrapresa dalla band, dopo gli esperimenti di The Astonishing e Distance Over Time: ci sarebbe stato una sorta di ritorno al passato o un’ulteriore evoluzione verso un nuovo sound? È un discorso che affronteremo nel corso della recensione, ma prima è necessario la solita ed inevitabile premessa. Questo è un album complesso, molto più prog dei due precedenti, con melodie meno “dirette”, talvolta più oscure o non immediatamente memorizzabili. È un disco che richiederà almeno 2 o 3 ascolti per riuscire ad orientarsi tra i vari brani e molti altri per poterne cogliere i numerosi dettagli e sfumature. Pertanto non è un disco adatto a chi non ha la pazienza di andare oltre al primo ascolto, men che meno a quelli che, pochi minuti dopo aver sentito un brano per la prima volta, corrono sui social network per dare il proprio, perentorio giudizio, spesso negativo. Allo stesso modo non è un disco adatto agli inguaribili nostalgici che ancora sperano di sentire una fotocopia dei dischi degli anni ‘90, e che, pertanto, sono destinati a rimanere eternamente delusi, nella vana speranza di ascoltare un disco che suoni come Images and Words o Awake. Vogliamo quindi mettere subito le cose in chiaro: se già con l’ascolto di The Alien e Invisible Monster avevate 12


OF THE WORLD

già deciso che questo disco non avrebbe meritato il vostro apprezzamento (e quindi aspettate di sentirlo interamente solo per confermare il vostro pregiudizio), perché per voi “i Dream Theater hanno smesso di esistere dopo [inserite il nome dell’ultimo disco che avete gradito]” allora potete tranquillamente fermarvi qui, perché è palese che il resto della recensione non potrà mai farvi cambiare idea. Per tutti gli altri, speriamo che queste righe possano aiutarvi a restituirvi una vaga idea di quello che troverete all’interno dell’album. Dicevamo... è un disco “complesso”. Questo non significa che si tratta di composizioni inascoltabili o eccessivamente complicate, non vorremmo essere fraintesi: il termine serve ad indicare che, dopo le melodie ariose di The Astonishing ed i brani più orecchiabili di Distance Over Time, questo album segna un ulteriore variazione di rotta rispetto ai due precedenti. La band ha optato per un approccio maggiormente prog, che ha portato i brani a non risultare immediati, soprattutto per quanto riguarda le linee vocali o le loro strutture. Niente che possa mettere in difficoltà gli ascoltatori dei DT, ma rispetto agli ultimi due lavori, è evidente che AVFTTOTW non intenda accompagnare per mano l’ascoltatore utilizzando soluzioni prevedibili o scontate. È chiaro che non ha molto senso aspettarsi dal 15esimo disco dei Dream Theater una rivoluzione sonora e, forse, questa non è mai stata la loro intenzione: del resto si tratta di musicisti che ormai conosciamo alla perfezione, con il loro stile inconfondibile... per essere rivoluzionari dovrebbero totalmente reinventarsi, ma a quel punto non sarebbero più i musicisti che abbiamo imparato ad amare negli ultimi decenni. Ciò non toglie che, così come accade per una ricetta, talvolta basta cambiare le dosi degli ingredienti, ed aggiungere qualche spezia qua e là, per ottenere un piatto molto più saporito del solito. Ed in questo caso, gli ingredienti sono stati mischiati, a nostro parere, in maniera ottimale. Non è nostra intenzione procedere con un track by track vero e proprio visto che, soprattutto in questo caso, descrivere i singoli brani risulterebbe dannatamente difficile e rischierebbe di trasformarsi in una pura analisi tecnica, adatta soprattutto agli addetti ai lavori, ma poco interessante per tutti gli altri. Del resto la musica è fatta per essere ascoltata, non descritta! Però possiamo dirvi che si tratta di un album che alterna momenti più cupi ad altri più melodici (pur non essendo presenti al suo interno lenti o power ballad), raffiche di note tipicamente metal, ma anche orchestrazioni e melodie che creano atmosfere, talvolta tetre, altre volte rilassanti e sognanti. Basta ascoltare i due singoli, The Alien e Invisible Monster, due brani letteralmente agli antipodi (e che non sono minimamente rappresentativi di quello che troverete nel resto della tracklist) per capire che i DT non hanno voluto incentrare il loro ultimo lavoro attorno ad un sound ben specifico, ma hanno voluto spaziare, andando anche a ripescare sonorità del passato e che, nell’ultimo decennio, avevano un po’ lasciato da parte. Tra gli episodi più interessanti o meritevoli di attenzione, possiamo citare Transcending Time, brano di stampo smaccatamente AOR, con cui i DT riescono ad omaggiare il rock melodico degli anni 80 insieme a quello delle proprie band di riferimento (Rush in primis) e dove James sembra essere tornato ai tempi del suo disco d’esordio con i Winter Rose. Altro brano su cui tutti avranno puntato le orecchie è “Awaken The Master”, ovvero quello in cui John Petrucci ha utilizzato, per la prima volta nella sua carriera, una chitarra ad otto corde. Alcuni, all’epoca di tale annuncio, avevano ipotizzato che l’uso di questo strumento avrebbe 13


potuto portare ad una deriva djent o comunque alla scrittura di un brano prettamente metal, in stile The Dark Eternal Night, in cui JP martella continuamente la corta più bassa per gran parte della canzone. E invece, con sommo stupore, ATM si rivela (dopo un’intro effettivamente molto aggressiva, com’era lecito aspettarsi) uno dei brani del disco in cui la fanno da padrone melodie aperte e orchestrazioni, complice il magnifico lavoro di Jordan Rudess, che in più occasioni ruba la scena a JP. Non vi nascondiamo che alcuni passaggi di pianoforte ci hanno riportato alla mente i tempi di Six Degrees Of Inner Turbulence, mentre le orchestrazioni (e qui sappiamo che stiamo per spararla grossa, ma fidatevi della nostra parola...) ci hanno ricordato le atmosfere più cupe di Awake. A nostro parere, questo brano rimane uno degli episodi migliori del disco. E poi c’è lei, la title track, che si apre con quella che, a tutti gli effetti, è la più trionfale e “cinematografica” intro mai scritta dalla band, che vi inchioderà alla sedia fin dalle prime note. Anche in questo caso, descrivere il brano sarebbe riduttivo, ma diciamo che segue quello che è il tipico canovaccio delle suite dei DT (e questo non è un male, anzi...): dopo un’intro strumentale, arriva il cantato di James che alterna una serie di strofe cariche di tensione ad un ritornello corale che alla prima volta potrebbe non colpire particolarmente l’ascoltatore, ma già dal secondo ascolto - quando vi ritroverete a cantarlo come se lo conosceste da sempre - si manifesterà con tutta la sua forza. A metà del brano arriva il tipico adagio, in cui il delicato suono di un violoncello (presumibilmente suonato da Rudess con una delle sue diavolerie), introduce un tema che, verrà riproposto poco più avanti da John Petrucci... soluzione che, nelle precedenti suite dei DT, solitamente veniva utilizzata come gran finale, mentre qui è solo un preludio all’ultima parte del brano. Dopo l’inevitabile - e graditissima - sezione strumentale in cui la band dà il meglio di sé, arriva il finale che si chiude in una maniera alquanto inaspettata; dove infatti eravamo tutti pronti a sentire il classico assolo di JP o la tipica orchestrazione di JR, arriva un finale che invece ricorda più quello di Finally Free, dove la band esegue un complicato pattern all’unisono (dalla metrica quasi incomprensibile!) in cui è Mike Mangini a spiccare sul resto dei musicisti, costruendo un finale trionfale, ma che sembra volutamente incompleto e che, soprattutto la prima volta, riesce a spiazzare l’ascoltatore. Ma questo è solo uno dei tanti motivi per cui, arrivati a questo punto, sarete tentati da premere nuovamente il tasto “play” per riascoltare da capo il disco. Dal punto di vista puramente tecnico, ciò che colpisce maggiormente di questo lavoro è il mix realizzato da Andy Sneap, che rende perfettamente chiara e riconoscibile ogni singola nota presente nel disco e che restituisce l’immagine di una band in splendida forma, sia tecnica che compositiva. Su John Petrucci e Jordan Rudess c’è poco da aggiungere: sono sempre ai massimi livelli, ma questa volta sembra che i due solisti della band, talvolta accusati di voler “strafare” (accusa che nel mondo del prog metal lascia un po’ il tempo che trova...), abbiano fatto un piccolo passo indietro. Non ci riferiamo, ovviamente, a discorsi qualitativi: intendiamo dire che i due strumenti, anche nei momenti in cui sono i protagonisti, non arrivano mai al punto di sopraffare la band, anzi risultano sempre al servizio dei brani anche durante i loro assoli, mai troppo lunghi o prolissi. Mike Mangini ha finalmente messo a tacere tutti quelli che da anni sostengono che il “nuovo” batterista dei DT sia poco più che un esecutore, tecnico-ma-senza-cuore. In questo album MM mette in mostra tutta la sua personalità, valorizzata da quello che a tutt’oggi è il miglior suono di batteria da quando è entrato nella band. Consigliamo di ascoltare il suo lavoro con un impianto audio di buon livello o con cuffie di qualità, in modo da apprezzare al massimo tutte le sue finezze, che vi faranno sentire quasi “circondati” dal suo drumset. Capitolo John Myung: se già in Distance Over Time il bassista era riuscito a trovare un timbro 14


decisamente interessante, in questo disco utilizza un suono ancora più “tagliente”, frutto del suo nuovo strumento signature, con cui buca il mix e riesce a farsi sentire con chiarezza anche nelle parti in cui normalmente verrebbe coperto dalle frequenze della chitarra. Purtroppo, sono ormai lontani gli anni in cui il bassista ci deliziava con intro, assoli, armonici o momenti in cui il basso si prendeva il suo piccolo momento di gloria; pertanto neppure in questo disco non sentiremo JM al di fuori di quello che è il suo ruolo di “accompagnatore” (termine chiaramente riduttivo, vista la complessità delle parti che si ritrova a suonare), ma ciò non deve assolutamente essere vista come una critica: JM si rivela una delle colonne portanti di tutti i brani. Poter sentire il suo basso in maniera così presente e chiara, fa sì che, insieme alla batteria, si vada a formare una delle sezioni ritmiche più rocciose mai sentite in un disco dei DT. Menzione speciale per James LaBrie: dopo una serie di dischi in cui la sua voce veniva relegata quasi in secondo piano, sommersa di effetti e filtri, qui invece appare cristallina, corposa e definita (fatta eccezione per The Alien, dove i filtri vocali sono funzionali all’argomento trattato nel brano). Da una parte è indubbiamente frutto del lavoro di Sneap, ma il merito va soprattutto a James che, in questo disco, sceglie di cantare su registri leggermente più bassi, più consoni al suo attuale registro vocale, i quali gli hanno permesso di recuperare un controllo della voce e della melodia che, effettivamente, mancavano all’appello da molti anni. Questo risultato è dovuto al fatto che James, seguendo il percorso sperimentato con Distance Over Time, ha avuto un ruolo molto più attivo nella stesura dei brani e questo ha fatto sì che il cantante abbia potuto cucirsi addosso le linee vocali, anziché trovarsi a dover eseguire e riadattare quelle fornitegli da altri. Siamo abbastanza sicuri che questo album riuscirà a far cambiare idea a tutti quei fan che, negli ultimi tempi, erano stati molto critici (spesso e volentieri in maniera gratuita) verso il cantante canadese. In conclusione, A View From The Top Of The World è un album che non dovrebbe faticare a far breccia nel cuore dei fan, dato che al suo interno troverete tutte le caratteristiche che amate della band, ma anche la modernità di un gruppo che, arrivato al quindicesimo disco, non ha voglia di ripetersi. Come già detto, forse lo troverete un po’ ostico le prime volte, ma è un disco per il quale vale la pena dedicare il proprio tempo con ascolti multipli, dandogli la possibilità di svelarsi in tutti i suoi aspetti. Allo stesso modo è un disco che dovrebbe - o almeno così ci auguriamo - finalmente riappacificare i fan che, a partire dall’album omonimo, non avevano gradito particolarmente le deviazioni che la band aveva intrapreso con i due album successivi. E poi, ovviamente, ci saranno gli eterni incontentabili, quelli che da dieci, se non vent’anni, sono ancora in attesa di sentire un disco che “suoni come...”, quelli convinti che la forza dei Dream Theater risieda nei suoi ex componenti e che, ormai per principio, non riuscirebbero a spendere una buona parola per un loro nuovo disco nemmeno se fosse composto da brani scritti negli anni 90 e rimasti chiusi negli archivi di John Petrucci. Non ci aspettiamo che questo disco riesca a far cambiare loro idea, non vogliamo mettere in discussione il loro giudizio, che è legittimo quanto il nostro, ma l’unico consiglio che possiamo dar loro è quello di mettere sul piatto Images and Words o Scenes From A Memory e riascoltarli per la millesima volta (cosa che, comunque, non fa mai male...) in modo da poter continuare a godere della musica dei DT, senza per forza dover screditare gli album successivi e, soprattutto, i gusti di chi li apprezza. Per tutti gli altri, speriamo che questa nuova fatica della band newyorkese possa piacervi quanto è piaciuta a noi e che possa allietare le vostre giornate in attesa di poter finalmente tornare a sentire i Dream Theater dal vivo. Johnny 15


Jordan’ sonic world:

Quando ci si imbatte in un’analisi di un album dei Dream Theater è sempre una intrigante e stimolante opportunità per approfondire l’eclettico universo di questa band. Un elemento fondamentale alla base della loro alchimia è sicuramente il “keyboard world” di Jordan che ormai è l’ossatura portante del sound theateriano. In questo album Rudess porta ancora una volta in auge un vero e proprio arsenale di strumenti districandosi in un maestoso “Sonic Party”. Cardine ormai fedele dell’universo rudessiano è la sua “nave ammiraglia” quella Korg Kronos con cui ormai è in perfetta simbiosi, ma sa anche deliziarci con un perfetto connubio di sintesi analogica e digitale che passa da strumenti di assoluto prestigio quali lo storico monofonico Mini-Moog (tornato finalmente tra gli scaffali del suo studio dopo una magistrale opera di restauro), il più moderno poly-analogico MoogOne, lo strabiliante synth digitale a 16 voci bi-timbrico Waldorf Iridium ormai punta di diamante tra i synth digitali moderni ed una serie di Virtual Instruments e librerie di campioni quali Spectrasonic Omnisphere, Synthegy Ivory Piano altra costante del panorama jordaniano, sapientemente gestiti mediante software dedicati (come ad esempio Unify) con cui creare layers e orchestrazioni di ogni genere. Non poteva altresì mancare il giusto tocco di “vintage” apportato oltre che dal Moog anche dall’inconfondibile suono di Hammond XK5 in perfetta accoppiata con il sistema Leslie; in direzione totalmente differente, l’ultra modernità dei suoni generati da un altro suo cavallo di battaglia e di cui ne è principale artefice, Geo Synthesizer. 16


sempre al Top Of The World Che tutte queste meraviglie siano state magistralmente sfruttate da Jordan, lo si è capito sin dai primi ascolti dell’album e ciò che rende più accattivante il tutto, è il modo in cui questi strumenti si alternano e si rincorrono in un continuo botta e risposta tra due mondi, quello analogico e quello digitale, mai contrapposti tra loro ed in perfetta sintonia. The Alien ne è già valido esempio, sin dalle prime battute infatti Jordan si presenta con uno dei suoi suoni più caratteristici, lo “Snarling Pig” la cui anima giace nelle più disparate catene di effetti sonori di Kronos (wave shaper, talking modulator, stereo flanger, ecc.) che danno vita al caratteristico “Pig sound”. In risposta alla modernità lo stesso tema viene successivamente riproposto con un classico suono di Moog prima di giungere alle ampie sezioni di accompagnamento in cui i suoni di pianoforte e di Hammond si intrecciano con ariosi strings pad in perfetta sintonia fino all’epico finale. Ed è proprio in questo che Jordan fa la differenza; nell’abilità in cui riesce ad orchestrare le sue composizioni, sublimando il tutto con combinazioni di archi, cori e suoni percussivi, magistralmente amalgamati con la giusta dose di effetti. In Alien Jordan si diverte anche a riproporre il suo caratteristico suono di lead che da anni viene presentato in numerose versioni differenti; divertente quel particolare “vibrato” che si avverte a metà del solo, anch’esso frutto di abile programmazione del pitch bending di Kronos. Nel secondo brano Answering The Call emerge in maniera più nitida la potenzialità dell’Iridium, strumento di straordinaria bellezza e fratello minore del mostruoso Quantum in grado di generare suoni sfruttando la sintesi granulare con cui, partendo da piccoli frammenti sonori (per l’appunto definiti “grani”) e regolandone le singole curve di inviluppo è possibile plasmare vere e proprie “nuvole” sonore di notevole densità ed efficacia. Jordan abilmente sfrutta Iridium sia nelle parti introduttive sia in accompagnamento, laddove spesso è possibile ascoltare suoni particolarmente scintillanti che si diramano all’interno del brano. Il resto è qualcosa a cui siamo già stati ampiamente abituati, suoni percussivi (percussive plucks) in ribattuta sulla ritmica di Petrucci e sulle fiondate di Myung e poi un successivo tripudio di strings pad, choirs pad e piano pad che emergono durante le strofe e nella chiusura finale. 17


Anche in questa circostanza, c’è una differente ricerca sonora nel solo di lead, ancora una volta espresso in un’altra veste, resa quasi indistinguibile dalla chitarra di Petrucci, come a voler dare la sensazione che a suonare sia un unico strumento. Con Invisible Monster brano che, a conferma della tematica trattata, risulta carico di inquietudine e di tensione emotiva, Jordan riesce a creare atmosfere sonore di un realismo tale da proiettare chi ascolta all’interno del brano; impossibile non fissarsi a mente il tema principale, più volte ripreso da Petrucci e successivamente riproposto da Jordan con il più classico dei suoni Moog. Giungiamo dunque alla quarta traccia dell’album, Sleeping Giant, brano che in molti spunti strizza l’occhio alle sonorità di The Astonishing; ancora una volta è Jordan che dà l’incipit con un tema dal retrogusto fortemente gotico prima di lasciar spazio a John che avvia la completa apertura del pezzo; il seguito è un tripudio musicale, in marcato stile progressive in cui la fase strumentale ne è protagonista. In questa occasione l’equilibrio tra vintage e moderno sembra propendere a favore del primo con i caratteristici suoni dalla “ciccia” analogica del Moog in connubio con l’inconfondibile organo Hammond. Una menzione particolare, ancora una volta, la merita la sezione orchestrale con cui Jordan accompagna in un progressivo crescendo la vera e propria esplosione musicale del ritornello. Il pezzo più breve dell’album, Trascending Time è anche quello dal sapore più retrò. Dopo un attacco iniziale che sembra una autocelebrazione di canzoni come Surrender To Reason, ecco emergere nuovamente l’inconfondibile MiniMoog che disegna un tema di chiara ispirazione Rush (ma anche Six Degrees) e il che può solo che essere un bene. Il brano in sé ha sonorità molto meno cupe del precedente, attestandosi di fatto su motivi più carichi di speranza a conferma dell’attitudine più radiofonica del pezzo. Non mancano le solite orchestrazioni, seppur meno pronunciate in questa occasione, ma una menzione particolare la meritano i perfetti incastri di pianoforte, dal suono puro e cristallino che Jordan ricama con delicatezza fino al finale in dissolvenza. Awaken The Master di contro, torna a proporre riff decisamente più cupi su tonalità più gravi, merito anche della tanto attesa otto corde di Petrucci; Jordan torna alla carica con lo “Snarling pig” che sorregge il pesante riff di chitarra rendendo la fase introduttiva un vero e proprio ode al “metallo”, in cui si amalgamano perfettamente anche i lead del MoogOne e i fraseggi dell’Hammond. Dopo quasi un paio di minuti di delirio iniziale, the Wizard mette ancora una volta tutti in riga con magiche progressioni di accordi di pianoforte che preparano l’arrivo di Petrucci. Le fasi successive del brano vedono nuovamente Jordan protagonista di epicità con imperiosi pad a supporto della strofa e del ritornello. La title track, come era prevedibile, risulta essere quella più articolata dell’intero album ed in 18


questa circostanza si può apprezzare la massima espressione del lavoro di Jordan in supporto alla band. La parte introduttiva con inserti strumentali di archi, trombe ed arpe è di chiara espressione cinematografica, preludio alle ritmiche possenti di Petrucci che accompagnano i suoi splendidi fraseggi. Sopraggiunge quindi una sezione ritmica complessa e densa di cromatismi (schema già adottato in altre canzoni del passato quali Dark Eternal Night, A Nightmare To Remember, ecc) in cui Jordan sfoggia un classico piano “detunato” che genera anche in questo caso atmosfere più gotiche; il successivo passaggio sfocia in una prolungata ed emozionante fase acustica che coinvolge nuovamente strumenti ad arco e delicatissime note di pianoforte che danno enfasi alla voce di James ed alla profondità del testo. Dopo tale momento di calma apparente, la ripresa è adrenalina pura; tornano i fraseggi in “botta e risposta” tra John e Jordan, riprendono ritmiche galoppanti arricchite anche da un intermezzo di chiara espressione Mozartiana, fino ad un finale carico di tensione emotiva e di epicità che sfocia in una chiusura in dissolvenza, sopraggiunta in maniera alquanto inaspettata. A view from the top of the world rappresenta un album molto intenso, ricco di una enorme quantità di materiale sonoro e con tutta probabilità uno dei lavori più riusciti della attuale line-up. Di certo necessiterà di numerosi ascolti anche al fine di poter cogliere ogni minimo dettaglio. Il ruolo svolto da Jordan si colloca tra quelli più riusciti nell’ultima decade, ormai rappresenta un cardine della band sia in fase compositiva che in fase di continua ricerca sonora e, semmai ce ne fosse stato bisogno, ha dimostrato ancora una volta che ad oggi risulta essere uno dei migliori tastieristi della scena mondiale. Ignazio Verzicco

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Voglio usare una metafora. C’è un termine che viene usato molto spesso nel basket, sport che amo alla follia fin da piccolo, per definire tutte quelle giocate poco visibili, se non da occhi più attenti, che portano a trarre indiscussi vantaggi alla squadra ma che non smuovono il tabellino personale degli atleti: INTANGIBLES. Mi spiego: un rimbalzo catturato, un canestro realizzato, una stoppata inflitta all’avversario son tutti ‘atti evidenti’ che vengono registrati sul tabellino del singolo atleta che compie il gesto. Uno scivolamento difensivo sul lato debole, il piegare le ginocchia per tenere in difesa sul portatore di palla avversario, un raddoppio sullo stesso o sull’avversario ricevente in scarico, al contrario, non finiscono sul tabellino per cui i giocatori che si rendono protagonisti di queste azioni agli occhi del profano, o del poco attento, potrebbero venir considerati poco importanti per il successo della propria squadra. Vuoi mettere Tizio che ha segnato 30 punti? O Sempronio che ha catturato 12 rimbalzi? INTANGIBLES, ossia intanbigili, non evidenti. Perché scrivo di basket in una recensione su un disco dei Dream Theater? Semplice: mai come questa volta bisogna porre l’attenzione sul gioco di squadra. Siamo tutti tentati, ascoltando un loro disco, a soffermarci sui solo di John o di Jordan, sui tempi dispari di Mike (e prima ancora dell’altro Mike), sui giri di basso dell’amico coreano e sulla voce (che fu) di James. È la prima cosa che fai, così come un tifoso di basket fa col tabellino di una partita. Poi, però, ti tocca studiare se non vuoi accontentarti di un giudizio sommario, fuorviante. Il primo singolo, “The Alien” faceva presagire una certa continuità con il predecessore Distance Over Time, fortunatamente, almeno per il sottoscritto, non è stato così. Quanti di voi concorderebbero con questa mia affermazione: AVFTTOTW è una sorta di sunto della seconda parte della loro carriera, quella post Portnoy? Nel corso dei 7 brani vi sono continui richiami agli altri album, il più clamoroso dei quali lo si ascolta nella parte finale di Sleeping Giant dove i riferimenti a The Astonishing sono molto evidenti. Provate ad ascoltare i passaggi meno evidenti, meno eclatanti. Ci troverete fraseggi in cui i cinque componenti sembrano essere uno solo, per un perfetto gioco di squadra. Detto questo non voglio fare la recensione del disco, su queste pagine verrà curata da altri, ma soffermarmi brevemente sul lavoro di John Petrucci. Non dal punto di vista tecnico, perché questo disco non sposta minimamente il giudizio su uno dei chitarristi più influenti degli ultimi decenni, ma da quello emozionale. Sarà anche merito dell’ottimo lavoro di mixaggio di Andy Sneap ma l’amico John sembra aver tratto linfa nuova sotto questo aspetto, 20


perché è vero che il suo stile non è variato nel corso degli anni ma un conto è se il suono risulta impastato, fiacco, disturbato ed uno se la pulizia del suono risulta essere praticamente perfetta. Fin dalle prime note della prima traccia, la sensazione è quella che John, nelle vesti di produttore, abbia voluto indirizzare subito l’ascoltatore sui binari di un sound più diretto: niente intro, niente suspence, dritto verso i timpani di tutti noi. Personalmente adoravo il loro approccio al nuovo disco cominciando da dove avevano finito il precedente ma questa scelta l’hanno abbandonata da un pezzo e mi sta bene così. Così come ho apprezzato la scelta di convogliare le migliori attenzioni su brani, e per brani non intendo canzoni intere ma frammenti ben definiti in ognuna di loro, più spiccatamente melodici ed orecchiabili. Se proprio non vogliono farmi contento con sperimentazioni decise, come fu per SDOIT, album a mio avviso troppo, troppo sottovalutato ma che nella mia personale classifica staziona tra le primissime posizioni, almeno riescono a sfamare la mia indole più romantica. Menzione a parte la voglio fare per Trascending Time da più parti osannata per la sua spiccata attinenza a sonorità ‘proprietarie’ dei Rush. Si, condivido l’entusiasmo dei più e concordo sulle affinità di cui sopra, ma io vorrei puntualizzare che in più occasioni è un’altra storica band a fare ‘capolino’ in quel brano, gli Yes. L’unico dubbio lo nutrivo su Awaken The Master: i rumors sull’uso della 8 corde erano ben definiti da mesi e temevo più un abuso che un uso limitato come abbiamo riscontrato alla fine. Meglio così: più un vezzo, anche di natura commerciale. Per un attimo ho temuto masturbamenti Djent e questo lo lasciamo volentieri alle nuove leve che giocano a chi ce l’ha più lungo. Matteo Santoro

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Genius and the machine Nel momento in cui mi è stato chiesto di scrivere questo articolo “sulla batteria e su Mangini” sono stato pervaso da diverse sensazioni, dall’emozione, nonché l’onore, di tornare a scrivere per la fanzine dopo tutti questi anni, al piacere di poter affrontare pubblicamente un argomento che mi appassiona e che tanto anima le discussioni sui Dream Theater da almeno dieci anni a questa parte. Dover guardare la band rinnovata, con il peso dei ricordi dei primi anni, dal fan club ai clinic alle varie esperienze con alcuni componenti, è stata davvero una prova impegnativa, ma anche se lo scossone del primo momento è stato forte, ciò che si è ottenuto è comunque qualcosa di nuovo e diversamente stimolante. L’abbandono di Portnoy è stato pesante per tutti, si è sentito quasi da ogni punto di vista, ma come si dice... non tutto il male vien per nuocere! I Dream Theater di oggi giungono da un periodo di evoluzione le cui differenze, di anno in anno, da album ad album, si sono sempre più assottigliate. Hanno saputo fare grandi cose, hanno saputo ripetersi spesso, guadagnandosi quel mare di critiche che solo le grandi band riescono a smuovere tanto quanto smuovono le emozioni, nella musica, nelle aspettative, nelle sensazioni che provocano ogni volta che escono con un pezzo nuovo. Hanno provato anche a rimettersi in discussione, con un concept direi “ingombrante”... hanno fatto un ulteriore passo avanti più “aziendale” organizzando il Dream Theater HeadQuarter - che è una di quelle cosette che ogni bravo musicista sotto sotto sogna di avere... – e da lì hanno sperimentato un modo nuovo di lavorare alla composizione, ed hanno a che fare, oserei dire ormai in modo endemico, con un musicista gigantesco: Mike Mangini. Dai primi lavori, forse più da session-man, dove si trovava ad eseguire le parti del suo predecessore, ad album come Distance Over Time, l’evoluzione del suo drumming in chiave Dream Theater è stata progressiva e inarrestabile, e di sicuro il nuovo Mike con questo ultimo lavoro dimostra di aver fatto un ulteriore, enorme, passo avanti nella sua ormai ultimata integrazione con la band. Checché ne dica lui stesso - nei commenti ad alcuni suoi post sulla sua pagina facebook, dove incalzato da qualche utente che gli dice che stavolta ha suonato diversamente ed ha finalmente il groove che molti gli contestano di non avere, risponde molto seriamente dicendo: “I have not played any differently since Set the World on Fire. Every DT album has the same groove, swing between the notes, heads, velocities, patterns, sounds, drums, cymbals and hitting despite minor changes like arrangement of stuff, slight tom shell diffs.. really nothing” - il suo drumming non è affatto più come una volta. Sarà anche così come dice lui, addirittura rimandando agli Annihilator di quasi 30 anni fa, ma sta di fatto che in A view... si sente un Mangini che va oltre sé stesso, perfettamente in sinergia con la band, sicuramente sempre coi suoi momenti virtuosi, ma in generale al lavoro con e per la musica in un modo che, francamente, molti stanno notando essere rinnovato e migliore. Diversamente dai lavori passati noto quasi un “less is more” (l’antica regola del musicista!) più presente del solito, con soluzioni ritmiche e melodiche che da un lato sono sicuramente il suo marchio di fabbrica, ma dall’altro rendono pregio ai pezzi, a livelli che i Dream Theater, a mio personalissimo avviso, ancora non avevano raggiunto almeno in questo nuovo corso. Mangini è sempre al centro di discussioni sul groove, sul fatto che risulti “freddo”, sul suo essere una “drummachine”, sull’essere insomma poco apprezzato da chi cerca quel feeling un po’ “sanguigno e sudato” di un certo rock più rustico ed emozionale. Ma secondo me chi lo osserva in questo modo compie un errore enorme, e si perde almeno metà del godimento. Io stesso, fino all’occasione di questo articolo, non mi ero reso davvero conto della portata del personaggio, e di quanto 22


realmente non tolga ma aggiunga valore alla musica odierna dei Dream Theater. Il vero problema, io credo, è che per inquadrarlo bene occorre un certo... paradigm shift! Egli non è probabilmente un musicista immediato, che trasmette subito quel groove “pastoso” che spesso si percepisce da band più orientate verso un approccio carico di rock-blues. Ma è anche vero che lo stesso genere che ora suona non ha sempre nelle sue mire principali questo aspetto... I Nostri sono musicisti d’eccezione, che riescono a portare all’estremo ogni cosa che fanno. Nel nuovo album abbiamo suoni e melodie un po’ diverse dal solito; abbiamo Petrucci che si presenta anche con la 8 corde, creando grande aspettativa per il pezzo il cui le fa suonare; abbiamo Mangini che riconfigura il set, riducendone la dimensione verso una soluzione forse più essenziale, operando una disposizione più oculata e “progressista” di ogni elemento. Mangini nella sua storia ha sempre avuto a che fare con soluzioni originali riguardo il suo setup. Proprio ancora ai bei tempi degli Annihilator ci appariva con un set Remo (i più anziani ricorderanno l’Acousticon, il materiale con cui erano fatti i set Remo, usati anche dal compianto Vinnie Paul dei primi Pantera) con due belle casse ed una distesa di Rototom al posto dei classici fusti (una cosa sicuramente curiosa, essendo una soluzione più tipica di certo progressive rock dei decenni precedenti ed essendo gli Annihilator una thrash band perfettamente in linea col suo tempo). E già a quei tempi usava disporre gli elementi in modo speculare, per suonare “open”, rendendo onore a pietre miliari della didattica batteristica come The New Breed di Gary Chester e portandone i concetti probabilmente al loro livello più estremo. Coi Dream Theater lo ritroviamo con un set mastodontico, sempre speculare, con 4 hi-hat, pedali ovunque, e lui con tutto sotto controllo con una maestria ed un tocco pazzeschi. Roba che sotto sotto fa invidia a chiunque, più di quanto non facesse già il vecchio Portnoy coi suoi “Monster”. Non è ancora ben chiaro come lo vedremo in tour, con quale set-up si presenterà sul palco, ma possiamo presumibilmente averne una certa anteprima osservando i suoi video online. Ha tolto la doppia cassa, ha ridotto il “castello” attorno a sé, ha messo due octoban a sinistra dei tom, più integrati nel set, diciamo, tradizionale e non più disposti su in alto come opzione anche un po’ scenica. Ora chiunque suoni la batteria e sia almeno un po’ attento all’ergonomia di un set-up in relazione al musicista che lo suona, non potrà non accorgersi dell’ulteriore passo avanti evolutivo che Mangini ha fatto con lo strumento, e quindi anche con le sue parti nel nuovo album. Già nell’ultimo tour disponeva i piatti in modo decisamente originale, a dimostrare anche quanto la batteria possa essere uno strumento estremamente personalizzabile. Pensiamo per esempio agli hi-hat posizionati in alto, suonabili col braccio quasi disteso... Senza contare che la sua ambidestria e la sua indipendenza totale degli arti qui nuovamente viene sfruttata a pieno, rendendoci soluzioni ritmiche (l’uso degli hi-hat sopra a tutti) e melodie di sicuro pregio. Ad esempio la prima strofa di Trascending Time, con quel groove “hi-hat + rim shot” che solo 23


Mangini sa davvero realizzare grazie al suo controllo delle bacchette. Ma basta ascoltare anche solo tutto il blocco degli assoli in The Alien per rendersi conto e per archiviare anche una volta per tutte quella faccenda di mancanza di groove. Ma certo non è il solo esempio possibile. Ci sono brani come Answering The Call (notare la bellezza del pattern iniziale e poi finale, con tutte quelle ghost notes, che poi viene ripetuto qua e là anche nel pezzo con diverse interpretazioni) oppure Sleeping Giant che smuovono l’emozione… (sì, sono sicuramente i miei preferiti di quest’album!) ma potrei citarli tutti, alla fine. La prima cosa particolare che salta all’orecchio, distribuita in modo abbastanza omogeneo per tutto l’album, sono gli hi-hat ed il loro uso ragionato a creare groove che porta con sé anche una melodia, che alla fine si integra nella musica come se fosse un quinto strumento melodico invece che prettamente ritmico. Awaken The Master per esempio ha un inizio che strizza l’occhio pesantemente a gentaglia come Emerson, Lake & Palmer, con una parte di batteria molto più moderna e decisa, e finito l’intro eccolo con un groove che da solo potrebbe portare il pezzo senza necessità di chitarre o tastiere. Lavora coi pattern e li usa per far girare i suoni, rubando a piene mani dai principî melodici di Terry Bozzio. Se vi si alza la pelle d’oca almeno la metà di quanto viene a me… ecco dove sta il vero groove di Mangini! E guardarlo suonare è secondo me altrettanto interessante: basta osservarlo per capire come ogni singolo colpo che suona è perfettamente ragionato e sotto il suo totale controllo, dinamico e temporale e a completare il tutto ci sono i suoni, forse addirittura migliori di quanto già non fossero in DOT. Ma per centrare meglio quanto sto cercando di evidenziare, ricordiamoci la citazione di prima: “…Every DT album has the same groove, swing between the notes, heads, velocities, patterns, sounds, drums, cymbals and hitting despite minor changes like arrangement of stuff…”. È in questo senso che dobbiamo, secondo me, considerare il drumming di Mangini. Ciò che ascoltiamo di lui non è, insomma, frutto del lavoro di un batterista virtuoso come tanti che si diverte a trovare soluzioni sceniche d’impatto col suo set, ma il risultato di un lavoro professionale preciso e ragionato, forse maniacale, su ogni singolo aspetto lo riguardi: il set, l’ergonomia, l’indipendenza, i suoni… la mente. Ed è qui secondo me il punto focale. Mike è autore di alcune pubblicazioni didattiche (Rhythm Knowledge I & II e pare che il vol. III sia in arrivo!) che non sono molto simili a quelle di molti altri suoi colleghi. Non si tratta di un lavoro fatto sempre di esercizi didattici su cui lavorare, bensì ci presenta un discorso molto più orientato sul cervello, sul cambiamento comportamentale allo strumento basato sulla scienza cognitiva, su come insomma ognuno di noi – batteristi, ma forse anche non solo - può elaborare concetti e lavorare sul suo cervello per ottenere un maggiore controllo del suo corpo ed un migliore approccio al suo strumento. Chi ha avuto la fortuna di vederlo in clinic ha sicuramente potuto percepire questo suo aspetto, che è qualcosa che molto spesso viene trascurato o di cui ci si rende conto molto poco, ma che alla fine può davvero fare molta differenza anche solo nel risultato di molti semplici esercizi didattici. Mangini scrive di concetti di applicazione allo strumento ed allo studio che sono probabilmente noti anche a molti altri grandi batteristi, ma che in generale vengono sempre un po’ trascurati a vantaggio di argomentazioni diciamo più “pratiche”. Analizza, scompone, cataloga, approfondisce all’estremo ogni singolo componente di un concetto più ampio, e ne crea un Metodo comportamentale probabilmente applicabile, con qualche leggera interpretazione, anche a discipline diverse dallo studio della batteria. Un altro batterista che affronta più o meno lo stesso argomento, anche se in modo abbastanza diverso, è Benny Greb. Austriaco, di estrazione musicale molto differente, è autore del libro: 24


“Effective Practice For Musicians”, orientato alla metodologia di approccio allo studio. Praticamente un vademecum basato sulle sue esperienze da studente poi evolute nel ruolo di insegnante. Mangini invece, pur mantenendo un approccio sempre allegro e stimolante, affronta l’argomento molto profondamente, talvolta difficile da comprendere fino in fondo... ma lo si ritrova tutto quanto in ciò che poi gli sentiamo fare con le bacchette in mano. Tutto questo è ciò che fa di Mangini un personaggio a cui porre sicuramente molta attenzione. È anche probabilmente la stessa cosa che a molti non piace, perché tende a rendere effettivamente il suo drumming un po’ più “asciutto” di quello di molti altri, ma è nel contempo il suo gran pregio e sicuramente un ottimo spunto, un faro a cui puntare se ci si addentra nello studio di questo meraviglioso strumento. I Dream Theater sono sempre stati una band che riesce a portare a livelli estremi ogni cosa, dalla strumentazione di cui si circondano, ai concetti musicali e la loro stessa musica. Sono una band che ancora dopo 30 anni dà ispirazione a tanti musicisti, che oggi come allora cercano di seguirne le tracce, così come per i giovani che si avvicinano ad uno strumento riescono ad affascinare ed essere un esempio tra i tanti da poter seguire. M.M. in questo non è diverso, come invece riesce ad esserlo rispetto a molti suoi colleghi, ed è anche per questo che si distingue così tanto insieme ai suoi attuali compagni. La forse eterna diatriba tra chi dice che era meglio Portnoy e chi invece sostiene che sia meglio Mangini, probabilmente non finirà mai di riempire le pagine del web, anche – fatemelo dire – in modo abbastanza inutile... Per come la vedo io, i nostri beniamini hanno fatto la storia con un batterista d’eccezione che tutt’ora continua a riempirci di musica attraverso decine di altri progetti con un sacco di altri musicisti, ma ora sono ampiamente all’interno di un periodo storico dove il loro sound non è più come quello dei vecchi tempi e Mangini è il batterista perfetto per loro, grazie al quale ora ci ritroviamo tra le mani questo A View From The Top Of The World che, personalmente... mi azzardo un po’ a dirlo... secondo me sarà con buona probabilità l’Images And Words di questo decennio. Tutto, insomma, sta come deve essere. Dunque meglio Portnoy o meglio Mangini? Beh… meglio Mike!!!

Viviano Crimella

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E anche stavolta è andata, finalmente siamo riusciti a pubblicare un nuovo numero della fanzine, un uscita interamente dedicata al nuovo album A View From The Top Of The World. Speriamo che la lettura vi sia piaciuta, che abbia stimolato curiosità, interesse e perché no anche qualche riflessione. Vi aspettiamo come sempre sui nostri canali per commenti, approfondimenti e se vorrete, critiche e consigli su come migliorare ulteriormente. Vogliamo ringraziare per il contributo alla riuscita di questo numero della fanzine: Matteo Santoro, Ignazio Verzicco, Viviano Crimella, Gabriele Pirovano, Kim Arthur Sakariassen e Dream Theater World, Thomas Waber, Freddy Palmer e InsideOut Music ed ovviamente, come sempre i Dream Theater per questo lungo, bellissimo sogno che non vuol finire mai. Ringraziamenti speciali agli Azzurri, tutti quanti, di tutti gli sport. Special no thanks invece, ai rossi, che non sono i comunisti ma quelli della Ferrari che in quest’annata straordinaria dove abbiamo vinto di tutto e di più, forse anche alle corse delle lumache, facendo sventolare ovunque il nostro tricolore, loro sono clamorosamente mancati. Dallo staff del fanclub per quest’anno è tutto, auguriamo a tutti i Dreamers italiani e nel mondo di passare delle serene feste natalizie e vi diamo appuntamento al nuovo anno, speriamo tutto da vivere con la nostra passione, finalmente di nuovo all’insegna della musica dal vivo dei Dream Theater, con il ritorno dei concerti nella prossima primavera. Un abbraccio Andrea

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