Dreams n.24

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Direttore responsabile Fabio Setta

Direttore editoriale Dario Guadagno

Contributi

• Valentina Todesca

• Adele Rispoli

• Fabio Setta

• Ely

• Giulio Cocina

• Gennaro Sepe

• Ornella Giordano

• Daniele Fornaro

• Maria Minotti

• Michele D’Eboli

Design e Layout

Maria Minotti

Pubblicato da Wonderlab SRL via Staibano, 3 Cap 84124, Salerno Tel. 0890978476

info@wonderlab.it

Tavola dei Contenuti

DIGITAL & AI

Accanto a vampiri e zombie, si aggira un nuovo protagonista delle notti di Halloween: l’intelligenza artificiale 6

REALTÀ AUMENTATA E VIRTUALE

Il concetto psicologico di presenza: la AR e la VR strumenti importanti per familiarizzare con sé stessi 8

EVENTI E OPPORTUNITA’

Nuove opportunità per le piccole e medie imprese: tutte le informazioni utili e i link per presentare domanda 11

APP E VIDEOGIOCHI

Call of Duty Warzone: mira, tattica, riflessi e collaborazione diventano strumenti per la sopravvivenza 18

MARKETING E COMUNICAZIONE

Il racconto televisivo degli scioperi di inizio ottobre apre una riflessione su comunicazione e censura 20

SALERNO

La neve è stata una delle maggiori protagoniste nell’economia della città di Salerno: la storia delle nevère 22

Fabio Setta

Direttore responsabile

Guardiamo un video, ascoltiamo una voce, ammiriamo una foto Oggi è ancora possibile, ma tra poco il dubbio sarà sempre più legittimo e sempre più complicato sarà rispondere alla domanda: quello che vedo è esiste davvero o è stato generato? Per secoli, la distinzione tra vero e falso si basava su prove tangibili, su testimonianze affidabili e sulla fiducia, più o meno fragile, a seconda dei tempi, nelle istituzioni che mediavano l'informazione.

Negli ultimi anni, la linea che separa ciò che è reale da ciò che è generato si è fatta sempre più sottile. Le immagini create da un algoritmo, le voci sintetiche indistinguibili da quelle umane, gli ambienti virtuali immersivi: con le nuove tecnologie c’è il concreto rischio di trasformare la percezione in un territorio tanto scivoloso quanto manipolabile La realtà, in parte oggi, ma lo sarà sempre di più, non è qualcosa che si vive ma un qualcosa che si costruisce e che si programma, non su una classica agenda o sul calendario ma a computer. L’intelligenza artificiale generativa ha compiuto, in tal senso, il passo decisivo, rendendo la creazione del falso banalmente accessibile a chiunque Con pochi prompt si può inventare un volto, una notizia, un luogo.

Stiamo entrando davvero all’interno di un’epoca in cui la verità non dipende più da ciò che accade, ma da ciò che viene mostrato? Sembra di sì e lo stesso concetto di realtà sintetica quale nuovo orizzonte in cui l’intelligenza artificiale diventa architetto percettivo, appare confermarlo

L’AI non si limita a riprodurre il mondo ma lo reinventa, con una credibilità tale da rendere la distinzione tra verità e simulazione sempre più sfumata La credibilità di un’informazione, di un video o di una testimonianza non risiede più nella fonte, ma nella qualità dell’illusione Il tutto genera poi un evidente paradosso: più diventiamo capaci di simulare la realtà, meno riusciamo a fidarci di essa.

Accanto all’AI c’è poi la realtà virtuale che offrirà l’illusione perfetta di essere “dentro” qualcosa che non esiste. Due tecnologie diverse, ma convergenti: una plasma i contenuti, l’altra plasma la percezione ma insieme ridisegnano i confini dell’esperienza umana

Se le piattaforme che gestiscono questi mondi dettano le regole di interazione, di economia e persino di identità (attraverso gli avatar), allora chi controlla la tecnologia controlla le coordinate del vivere sociale Le nuove tecnologie quindi sempre di più andranno a modellare i parametri di ciò che possiamo vedere, sentire, provare e credere, controllando la narrazione collettiva e influenzando la capacità di percezione. Il controllo si sposta dalla manipolazione dei fatti alla modellazione dell'esperienza.

La domanda di fondo è una: chi controlla questi strumenti, controlla la nostra idea di realtà?

E poi, siamo davvero destinati ad essere degli automi controllati e indirizzati da un potere tecnologico nelle mani di pochi che sovrasterà tutto e tutti? Diventeremo tutti “schiavi” delle aziende Big Tech? La soluzione c’è Non si tratta di rifiutare in toto le nuove tecnologie, ma diventerà sempre più importante riappropriarsi del proprio potere percettivo, analizzare criticamente i contenuti, comprendere il meccanismo con cui ci raggiungono e, soprattutto, allenare il nostro spirito critico. La nostra realtà è mediata tanto da ciò che è, quanto da ciò che siamo disposti ad accettare. Il primo passo deve partire da ciascuno di noi, ritrovando autonomia cognitiva, riscoprendo il valore del dubbio per arrivare alla verità. Senza farsi anestetizzare dall’algoritmo di turno, perché la verità in futuro sarà una scelta e non più un dato oggettivo.

Ogni ottobre, tra zucche illuminate e maschere inquietanti, ci divertiamo a giocare con la paura. Ma oggi, accanto a vampiri e zombie, si aggira un nuovo protagonista delle nostre notti di Halloween: l’intelligenza artificiale. Non ha denti aguzzi né artigli, eppure ci spaventa più di un mostro classico, perché tocca una paura molto più profonda: quella di perdere il controllo sulle creature che abbiamo inventato

Da Frankenstein a Ex Machina, la cultura ha sempre raccontato il momento in cui la creazione sfugge al suo creatore. Oggi quella fantasia è diventata realtà quotidiana: le macchine parlano, scrivono, dipingono, creano volti e voci che sembrano umani. La nostra inquietudine non nasce tanto da ciò che l’AI fa, ma da

ciò che ci costringe a chiederci: cosa resta, allora, autenticamente dominio umano?

L’intelligenza artificiale abita quella che la psicologia chiama uncanny valley, la “valle perturbante” dove qualcosa sembra vivo ma non lo è del tutto È il disagio che proviamo davanti a una voce sintetica troppo reale o a un volto digitale che ci guarda con espressione familiare.

Halloween è il momento perfetto per riflettere su questa ambiguità: dietro ogni maschera c’è il desiderio di comprendere ciò che ci spaventa. Forse dovremmo fare lo stesso con l’AI, smettendo di considerarla un mostro e iniziando a leggerla come un linguaggio da conoscere.

Perché non è la tecnologia in sé a essere buona o cattiva, ma l’uso che ne facciamo e i valori che le trasmettiamo.

E mentre riflettiamo, nel mondo l’AI entra di diritto nella festa In Irlanda, migliaia di persone si sono ritrovate nel centro di Dublino, in Irlanda, per una parata di Halloween generata da un sito web creato

Valentina Todesca

interamente con contenuti di intelligenza artificiale un evento mai esistito, che ha mostrato quanto la disinformazione digitale possa ormai travestirsi da realtà. In altre parti del mondo, l’AI è usata in modo più ludico: piattaforme come PixelDojo o Pippit permettono di generare costumi, inviti e poster horror in pochi minuti; app di fotoritocco trasformano i selfie in vampiri o fantasmi digitali, e software come Seedream ricreano l’utente in versione “spettrale” per i social.

Negli Stati Uniti, gli algoritmi di streaming suggeriscono maratone horror personalizzate, mentre nei parchi a tema da Orlando a Tokyo voci sintetiche e effetti visivi generati da AI animano attrazioni e labirinti dell’orrore

Persino i brand la utilizzano: campagne pubblicitarie “spooky” create con AI propongono storie su misura per il pubblico, trasformando la paura in curiosità. Nelle scuole e nei laboratori creativi, invece, i bambini imparano a

progettare maschere digitali e racconti interattivi con l’aiuto di programmi di intelligenza artificiale.

Forse è proprio questo il senso del nostro rapporto con l’AI: anche quando ci inquieta, finiamo per giocarci, come facciamo con la paura a Halloween.

La tecnologia diventa il nostro specchio più fedele, perché non riflette solo i nostri desideri, ma anche le nostre ombre.

Halloween ci ricorda che per affrontare un mostro bisogna prima guardarlo in faccia. Così dovremmo fare con l’intelligenza artificiale: toglierle la maschera, capirne i limiti e riconoscerne le possibilità. Non è un’entità oscura che ci ruba l’anima o il lavoro, ma uno strumento che amplifica ciò che già siamo. Forse, in fondo, l’AI è un dolcetto e uno scherzetto insieme: un po’ magia, un po’ specchio.

E, come in ogni leggenda di Halloween, il mostro più affascinante resta sempre quello che ci somiglia di più.

Quasi sempre le tecnologie di realtà aumentata e virtuale, vista la notevole diffusione in questi ambiti, vengono istintivamente associate al mondo dei videogiochi e del metaverso Ma, contrariamente a quanto si pensi, questi non sono solo gli unici ambiti di utilizzi. Per cogliere appieno la portata di questa evoluzione tecnologica, occorre pensare l’AR e VR non solo dal punto di vista tecnologico, ma soprattutto psicologico basato sull’esperienza umana.

Un aspetto affascinante e paradossale di questo fenomeno è proprio il concetto psicologico di presenza. Il sentirsi parte di uno spazio artificiale non dipende esclusivamente dal grado di fedeltà con cui la tecnologia riesce a rappresentare spazi e stimolare i nostri sensi per simulare il mondo fisico, ma principalmente dal

contenuto narrativo della simulazione e dal livello di coinvolgimento cognitivo ed emotivo che tale contenuto è in grado di generare nell’utente.

Recentissimi studi sono volti a valutare come la realtà virtuale possa essere utilizzata per il trattamento dei disturbi dell’alimentazione, nello specifico nel correggere tale errore di integrazione sensoriale permettendo di costruire un ambiente che offre la possibilità di inserirsi “fisicamente in un modo virtuale” in grado di poter generare sensazioni, emozioni e valutazioni uguali a quelle generate dagli ambienti reali.

Una delle caratteristiche chiave della realtà virtuale è la sua capacità di favorire l'incorporazione - embodiment - del proprio avatar, ovvero di promuovere la sensazione di “abitare” il corpo virtuale o, detto in altri termini, di sperimentare il corpo virtuale come il proprio corpo Ecco quindi che l'interazione con un avatar consente di sperimentare in prima persona modifiche

Adele Rispoli

corporee in modo sicuro, oltrepassando i limiti delle esperienze fisiche. In questo contesto, la realtà virtuale può fungere da preparazione emotiva, consentendo ai pazienti di affrontare cambiamenti nel corpo attraverso esperienze virtuali controllate, riducendo l'ansia associata alla realizzazione di tali modifiche nella vita reale. Due delle applicazioni più promettenti della realtà virtuale nel trattamento dei disturbi alimentari e dell’immagine corporea sono la mirror exposure virtuale (esposizione allo specchio virtuale) e i training di familiarizzazione con il cibo Con la mirror exposure virtuale i pazienti possono osservare il proprio avatar in uno specchio virtuale, affrontando gradualmente il timore di confrontarsi con la propria immagine corporea e riducendo l'ansia legata all’auto-percezione e a migliorare l’accettazione di sé, specialmente nella gestione della paura legata al cambiamento del peso. Nei processi di training di familiarizzazione con il cibo, invece, la persona viene immersa in mondi

virtuali che riproducono gli ambienti dove quei cibi vengono consumati e può entrare in contatto in maniera controllata con il cibo “fobico” toccandolo ed interagendo con esso, ad esempio tagliarlo in modi diversi. In un processo di familiarizzazione del cibo infatti è stato scoperto che tagliando diversamente il cibo questo risultava meno fobico da parte della persona.

In questo contesto quindi l’AR e VR diventano soprattutto strumenti per poter riscoprire sé stessi attraverso l’ascolto delle proprie emozioni e del proprio corpo “digitale” in ambienti controllati. In ottica futura, la VR oltre che nella cura degli altri disturbi alimentari (come ad esempio la PICA, il disturbo da ruminazione e il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo), potrebbe essere utilizzata anche nel trattamento del Disturbo da dismorfismo corporeo (BDD) in quanto la variabile di distorsione dell’immagine corporea è anche in questo caso componente fondamentale per la diagnosi di disturbo.

Marchi+2025, misura delMIMITperlatutela deimarchiall’estero

La misura Marchi+2025 è l’intervento del MIMIT che intende supportare le imprese di micro, piccola e media dimensione nella tutela dei marchi all’estero mediante agevolazioni concesse nella forma di contributo in conto capitale. Due le misure agevolative previste: Misura A - Agevolazioni per favorire la registrazione di marchi dell’Unione europea presso EUIPO (Ufficio dell’Unione europea per la Proprietà Intellettuale) attraverso l’acquisto di servizi specialistici esterni; Misura B - Agevolazioni per favorire la registrazione di marchi internazionali presso OMPI (Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale) attraverso l’acquisto di servizi specialistici esterni La dotazione finanziaria è pari a 2 milioni Domande a partire dal 4 dicembre Per info clicca qui

Supporto per l’acquisto di servizi specialistici finalizzati alla valorizzazione economica di un brevetto

A partire dal 20 novembre sarà possibile presentare le domande per la misura del MIMIT, Brevetti + 2025, finalizzata a favorire lo sviluppo di una strategia brevettuale e l’accrescimento della capacità competitiva delle micro, piccole e medie imprese, attraverso la concessione ed erogazione di incentivi per l’acquisto di servizi specialistici finalizzati alla valorizzazione economica di un brevetto in termini di redditività, produttività e sviluppo di mercato, al fine di accrescere la capacità competitiva dell’impresa proponente La dotazione finanziaria è pari a 20 milioni di euro Tra i costi ammissibili Progettazione, ingegnerizzazione e industrializzazione; organizzazione e sviluppo; trasferimento tecnologico Maggiori informazioni qui

Agevolazioni

a supporto delle PMI per valorizzazione di disegni e modelli

La misura del MIMIT Disegni+2025 è l’intervento che intende supportare le PMI nella valorizzazione di disegni e modelli attraverso agevolazioni concesse nella forma di contributo in conto capitale La dotazione finanziaria è pari a 10 milioni di euro Le agevolazioni sono concesse fino all’80% delle spese ammissibili, entro l’importo massimo di euro 60.000,00 e nel rispetto degli importi massimi previsti per ciascuna tipologia di servizio. Le agevolazioni sono concesse sulla base di una procedura valutativa con procedimento a sportello. La domanda di partecipazione, a pena di esclusione, è presentata a partire dalle ore 12:00 del 18 dicembre 2025 e fino alle ore 18 00 Tutte le info qui

Considerato uno dei migliori romanzi horror mai scritti, “L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson (1959) è un capolavoro di terrore psicologico. Un viaggio nelle zone più oscure dell’animo umano, dove la casa infestata diventa specchio della mente e della solitudine. Shirley Jackson crea un’atmosfera di suspense opprimente, con un linguaggio elegante ma spietato, carico di tensione psicologica che rende la casa una vera e propria entità maligna, lasciando sempre l’ambiguità su quanto di ciò che accade sia reale o frutto dell’immaginazione dei personaggi Il vero terrore, in fin dei conti, non ha bisogno di fantasmi urlanti o sangue a fiotti Spesso, la paura più grande si annida nella nostra stessa psiche, nel silenzio inquietante di una casa "non sana" che fa eco alla nostra solitudine interiore. Una casa che diventa un simbolo della mente umana.

In questo autentico classico del genere gotico, Eleanor Vance, giovane e tormentata donna che non ricorda di essere mai stata felice in tutta la sua vita, viene assoldata dal sinistro professor Montague, aspirante cacciatore di

fantasmi, per un soggiorno sperimentale a Hill House, in compagnia di altri due ospiti: Theodora, il suo opposto, vivace e disinvolta e Luke Sanderson, l’erede della casa. Giunta a destinazione, Eleanor si trova davanti una casa che rivela, ben presto, la sua natura inquietante tra porte che si chiudono da sole, rumori inspiegabili e scritte sui muri.

La vera protagonista, quindi, è proprio Hill House con i suoi angoli sbilenchi, le sue stanze strane e i suoi corridoi che sembrano non portare da nessuna parte. La casa viene descritta come fosse un’entità vivente e maligna, la cui architettura distorta non è un difetto, ma un riflesso della sua natura disturbata, ma soprattutto un'entità che si nutre delle debolezze di chi la abita

Ciò che rende questo romanzo un classico senza tempo è l'abilità di Jackson nel confondere il confine tra ciò che è reale e ciò che è frutto della mente fragile di Eleanor. La prosa crea un'atmosfera di tensione costante e claustrofobica. La paura non scaturisce da un singolo evento, ma da un senso di minaccia sempre presente, un silenzio opprimente che può essere rotto solo da un rumore inspiegabile, da un tocco inaspettato o, ancora peggio, dal crollo mentale della protagonista.

Fabio Setta

Quando la tecnologia incontra il corpo umano, nascono strumenti capaci di amplificare la forza e ridurre la fatica Gli esoscheletri rappresentano una delle innovazioni più affascinanti della robotica moderna: un aiuto concreto per chi lavora, si riabilita o sogna di camminare di nuovo. Negli ultimi anni, l’esoscheletro è passato dal mondo della fantascienza alla realtà quotidiana. Si tratta di una struttura meccanica indossabile che sostiene o potenzia i movimenti del corpo umano. Grazie a sensori, motori e software di controllo, questi dispositivi sono in grado di percepire i movimenti di chi li indossa e reagire in tempo reale, fornendo supporto e stabilità. Dietro il funzionamento c’è un’elegante sinergia tra meccanica, elettronica e informatica. I sensori registrano dati come angoli, velocità o pressione, che vengono elaborati da un microprocessore attraverso algoritmi di controllo. In molti modelli, questi algoritmi sono programmati in C++ o Python, e impiegano logiche di Machine Learning per adattarsi gradualmente ai movimenti dell’utente, rendendo l’esperienza sempre più naturale. Tra i prodotti più interessanti oggi disponibili c’è il CarrySuit, esoscheletro passivo per la parte superiore del corpo pensato per operai e magazzinieri Non utilizza batterie né

motori, ma una combinazione di leve e molle che alleggerisce fino al 40% del peso percepito sulle spalle. Si indossa come uno zaino e costa circa 2 100 euro, un investimento sostenibile per aziende attente alla salute dei lavoratori. Nel campo medico spiccano esoscheletri più complessi come il ReWalk, progettato per restituire la possibilità di camminare a chi ha subito lesioni spinali. Attraverso sensori di inclinazione e attuatori elettrici, il dispositivo replica il passo umano, controllato da un software che coordina ogni movimento con precisione millimetrica Il prezzo è elevato ma il suo impatto sulla qualità della vita dei pazienti è straordinario. Esiste poi il SuitX Phoenix, esoscheletro leggero (meno di 13 kg) dotato di un sistema programmabile e batterie ricaricabili. Il software consente di personalizzare la forza e la velocità del movimento, adattandosi alle esigenze del singolo utente. Oltre alla pura tecnologia, però, gli esoscheletri sollevano anche nuove questioni etiche e sociali. Se oggi vengono usati per assistere o riabilitare, in futuro potrebbe servire a potenziare chi è già sano, aprendo un dibattito su quanto sia giusto superare i limiti naturali del corpo umano. La sfida non sarà solo tecnica, ma anche morale: imparare a convivere con la tecnologia che può rendere l’uomo più forte di ciò che è Gli esoscheletri dimostrano come la tecnologia non serva solo a semplificare la vita, ma anche a restituire possibilità. Attraverso la programmazione e l’intelligenza artificiale, la macchina impara dal corpo umano e diventa un suo alleato Il futuro è già iniziato: e forse, molto presto, l’espressione “camminare con la tecnologia” non sarà più solo una metafora..

Gennaro Sepe

C’è una melodia che vibra sotto la superficie della vita, impercettibile ma costante, fatta di attimi, emozioni e silenzi. Soul prova a catturarla, a darle forma e suono, attraverso una narrazione che intreccia note jazz e visioni ultraterrene, filosofia e animazione, leggerezza e profondità. È un film che non si accontenta di raccontare una storia, ma vuole esplorare il senso stesso dell’esistenza, ponendo domande che spesso evitiamo, ma che ci tormentano da sempre. Con una delicatezza rara, Soul ci guida in un viaggio che non parla solo di ciò che facciamo, ma di ciò che siamo. Ci ricorda che la gioia non nasce necessariamente dal raggiungimento di uno scopo, ma può emergere dal semplice fatto di esistere, di respirare, di osservare un cielo al tramonto o ascoltare una melodia che ci tocca nel profondo. È una storia che si rivolge a chiunque abbia mai sentito di essere “fuori tempo”, a chi si è chiesto se basti vivere per sentirsi vivi. Soul è un film che si distingue per la sua maturità emotiva e filosofica, pur mantenendo uno stile visivo e narrativo accessibile anche ai più piccoli. Non è forse tra i migliori capolavori Pixar, ma riesce comunque a lasciare un segno profondo, soprattutto in chi si trova in un momento di stallo esistenziale. È una pellicola che non ha paura di affrontare temi complessi come la morte, lo scopo della vita, il talento e la passione, ma lo fa con una leggerezza che non banalizza, bensì rende tutto più umano La trama ruota attorno a Joe Gardner, un insegnante di musica con il sogno di diventare un jazzista professionista Per Joe, la musica non è solo una passione, bensì la sua ragione di vita, il suo scopo, la sua identità. Quando, poi, finalmente Joe ottiene l’occasione che ha sempre desiderato, un imprevisto lo catapulta in una dimensione ultraterrena, arrivando a perdersi nel luogo dove le anime vengono preparate per la vita sulla Terra Da qui inizia un viaggio che lo porterà a riconsiderare tutto

ciò che pensava di sapere su sé stesso e sul significato dell’esistenza. Dal punto di vista tecnico, l’intera pellicola è una vera sperimentazione visiva. Sono mescolate diverse tecniche di animazione per distinguere il mondo reale da quello spirituale: New York è rappresentata con dettagli realistici e vibranti, mentre l’aldilà è un luogo astratto, etereo, popolato da entità stilizzate e concetti visivi. In particolare, l’animazione dei mentori richiama l’essenzialità grafica del celebre cartone italiano “La Linea”, con tratti semplici ma espressivi. Questa scelta stilistica non solo differenzia i due mondi, ma sottolinea la distanza tra ciò che è tangibile e ciò che è concettuale. Il film affronta il tema della vita e della morte in modo delicato e asettico, evitando qualsiasi riferimento religioso esplicito. Nonostante la sua profondità, il film presenta alcuni difetti. La narrazione sembra deviare più volte, come se volesse raccontare qualcosa di diverso da ciò che mostra. Ci sono momenti in cui la storia sembra perdere il fuoco centrale, per poi ritrovarlo con fatica. Il finale, in particolare, risulta troppo sbrigativo e poco incisivo: un epilogo più oscuro e potente avrebbe forse rafforzato il messaggio. Un aspetto che può far riflettere, anche se non direttamente legato al significato del film, è il contesto socioeconomico del protagonista. Joe vive a New York, una delle città più costose al mondo, e riesce a condurre una vita dignitosa senza apparenti sacrifici Questo dettaglio avrebbe potuto essere arricchito da una breve riflessione più universale sulla bellezza della vita anche in condizioni meno privilegiate. Sarebbe stato interessante vedere, come la gioia di vivere possa esistere anche dove la quotidianità è segnata dalla difficoltà In definitiva, Soul affronta con estrema sensibilità il più grande mistero dell’esistenza: non la morte, ma ciò che viene dopo. E lo fa ricordandoci che ogni giorno è diverso dal precedente, che la vita non è lineare, e che siamo qui per viverla, non per capirla del tutto. È un film che emoziona, che ci invita a guardare dentro di noi e a trovare la bellezza anche nei momenti più ordinari

Ely’s in Wonderlab

App e software per i teenager visti e commentati da una teenager

Danganrompa 2 Goodbye Despair: nuovi

minigiochi e rompicapi più difficili

Ely

Ciao a tutti! Oggi vi parlerò di un altro gioco della serie

Danganronpa:

Danganronpa 2 Goodbye Despair. Danganronpa è una serie di videogiochi

Visual Novel basata sull' investigazione e comprende tre capitoli principali e due spin off. In questo capitolo troviamo più minigiochi e rompicapi più difficili. La storia ruota intorno a sedici studenti tutti nuovi, tra cui Hajime Hinata (il protagonista di questo capitolo), un ragazzo normale che però non riesce a ricordare quale sia il suo talento La storia è intrigante e i personaggi sono l'uno

diverso dall'altro, ognuno ha il suo talento e il suo carattere e, a parer mio, è uno dei giochi con i personaggi caratterizzati meglio. Danganronpa 2 è sicuramente uno dei giochi più amati dai fan e può vantarsi di avere due versioni della storia: la versione Videoludica e la versione Animata (che consiglio di vedere solo dopo la fine del gioco, poiché contiene degli spoiler importanti sul finale del videogioco) Da poco è stato anche annunciato un remake, che dovrebbe uscire nel 2026, un remake che non solo darà di nuovo vita a questo franchise, ma creerà a tutti gli effetti un nuovo gioco in cui ci saranno una serie di eventi nuovi con nuovi killer e nuove vittime

In apparenza non hanno molto in comune: una cameriera di una Waffle House dell’Alabama che si ritrova milionaria, due giocatori che smascherano un difetto nel software di video poker, e un passeggero che per mesi pranza gratis in una lounge aeroportuale senza mai volare. Eppure, messi uno accanto all’altro, questi episodi raccontano la stessa cosa: quando la fortuna bussa, non basta aprire la porta, bisogna saperci convivere, capirne i margini, e talvolta proteggersi da ciò che porta con sé.

Nel 1999 Tonda Dickerson serve una colazione a Grand Bay, Alabama. In mancia riceve un biglietto della lotteria: una cortesia qualunque che, pochi giorni dopo, diventa un titolo da prima pagina Dieci milioni di dollari non comprano però la quiete Tonda rifiuta l’incasso immediato e opta per una rendita annuale, una decisione prudente, quasi scolastica Ma la vera lezione arriva dopo, quando la vincita diventa un magnete per cause legali, rivendicazioni, persino violenza domestica. Colleghi la trascinano in tribunale rivendicando patti informali; l’uomo che le ha lasciato il biglietto pretende un camion nuovo; l’ex marito la rapisce e finisce ferito. Per anni si aggiunge un contenzioso fiscale estenuante. Il punto non è stabilire se Tonda abbia fatto bene o male: la sua storia mostra come la fortuna, esposta al pubblico, si trasformi in un bene conteso. L’asse centrale è la visibilità: sapere di un tesoro lo rende subito un campo di battaglia. La prudenza economica funziona; quella sociale, la protezione della sfera privata, arriva troppo tardi. È la maledizione discreta dei colpi di fortuna: non il denaro in sé, ma la scia di pretese che trascina.

Un decennio dopo la fortuna cambia forma. Non è più un numero pescato a sorte ma una sequenza di pulsanti John Kane e un amico capiscono che una macchina IGT di video poker “ricorda” una mano vincente e permette di ripeterla È un bug, non una truffa con magneti o lamette Da lì, vincite gonfiate in diversi casinò, un arresto che parla di hacking e un processo che si domanda se si possa violare una regola semplicemente premendo tasti previsti dal costruttore. La causa si sgonfia, il caso viene archiviato, ma resta il quesito: cos’è barare quando è il sistema stesso a concedere la scorciatoia? La differenza tra astuzia e illecito si misura su un confine sottile, quello dell’intenzione. La macchina aveva un difetto: i giocatori l’hanno cercato, trovato e sfruttato. Non hanno manomesso l’hardware: hanno giocato meglio della macchina. La morale è ambigua, ma la lezione tecnologica è chiara: in un mondo digitale la fortuna raramente è pura, ma spesso è la capacità di individuare una regola non scritta nella logica del software.

Il terzo episodio sembra una barzelletta zen. Un uomo in Cina compra un biglietto di prima classe, entra nella lounge, mangia, poi rinvia il volo. Il giorno dopo, di nuovo. Per oltre trecento giorni. Alla fine, cancella e si fa rimborsare. Nessun trucco, nessun reato: solo una condizione commerciale, pensata per i viaggiatori premium, trasformata in abbonamento gastronomico È un exploit in chiaro, un bug di policy La compagnia aerea offre un beneficio e lui lo usa fino al limite logico del regolamento, mostrandone l’ingenuità La scena illumina il nostro tempo più della caricatura del furbetto: sistemi tariffari, bonus e programmi fedeltà cercano efficienza e marketing, ma ogni beneficio è una porta: se non ha un sensore, qualcuno entrerà più volte.

Che cosa tiene insieme queste tre storie?

Anzitutto la visibilità della fortuna. Tonda impara che la ricchezza, una volta sotto i riflettori, diventa vulnerabilità. Negli altri due casi la visibilità è rovesciata: non c’è clamore, c’è discrezione operosa; meno si vede, più

funziona. Poi ci sono le regole come infrastruttura della sorte. La lotteria ha confini chiari ma produce caos sociale; il video poker ha regole tecniche imperfette che generano profitti inattesi; il biglietto di prima classe vive di regole commerciali che, combinate, creano un paradosso La fortuna non è più solo caso: è un’emergenza di sistema, l’effetto collaterale di architetture fragili Infine, c’è la responsabilità, che si distribuisce tra individui e istituzioni. A chi spetta chiudere il bug, al giocatore che se ne accorge o al costruttore che l’ha lasciato? Il passeggero ha torto o semplicemente usa ciò che ha pagato? E la vincitrice della lotteria: quanto deve alla comunità, e quanto la comunità deve alla sua sicurezza? Da queste vicende emerge anche un piccolo vademecum implicito per l’era degli exploit. La discrezione è un’assicurazione quando capita un colpo di fortuna: prima di raccontarlo, conviene preparare il dopo consulenza legale e fiscale, protezioni della sfera personale, attenzione alla propria impronta digitale. Ogni sistema ha una fessura, e trovarla è spesso possibile; la domanda non è solo se sia legale sfruttarla, ma se sia sostenibile farlo senza danneggiare l’ecosistema che ne trae valore Le regole, infine, vanno progettate e lette come codice: non sono brochure, sono software sociale, e come ogni software hanno edge case, combinazioni inattese, comportamenti razionalmente furbi ma organizzativamente distruttivi La fortuna è spesso raccontata come una lotteria cosmica Queste tre storie suggeriscono altro: la fortuna è un’interfaccia. C’è chi la clicca, chi la firma, chi la condivide suo malgrado. Il mondo che abbiamo costruito, fatto di algoritmi, termini e condizioni, reti sociali, non distribuisce solo occasioni, ma anche percorsi nascosti. La vera domanda non è più “capiterà a me?”, bensì “se capita, quale sistema sto aprendo, e chi entra insieme a me?”.

Daniele Fornaro

UNO SPARATUTTO TRASFORMATOSI IN UNA COMMUNITY

La guerra è la soluzione estrema dell’uomo quando ogni dialogo fallisce. Da sempre la temiamo e la ripudiamo, eppure ne restiamo affascinati. Nel corso della storia, l’umanità ha costruito istituzioni, trattati e alleanze con l’obiettivo di evitarla, ma allo stesso tempo ne conserva un’eco profonda: la tensione, l’adrenalina, l’idea di combattere per un obiettivo comune. Forse è per questo che la “guerra simulata” trova nel videogioco il suo terreno più fertile Call of Duty: Warzone rappresenta uno degli esempi più emblematici di questo richiamo. È uno sparatutto in prima persona, ambientato in scenari bellici realistici, dove il giocatore vive l’azione con la prospettiva diretta del proprio alter ego digitale. La sua modalità più celebre, il Battle Royale, mette circa 100 giocatori su una mappa che si restringe progressivamente fino a decretare un solo vincitore o una squadra sopravvissuta Mira, tattica, riflessi e collaborazione diventano strumenti per la sopravvivenza, ma anche per la socialità. Durante la pandemia, Warzone è diventato più di un gioco: un luogo d’incontro. In un periodo in cui il mondo reale era chiuso, milioni di persone si sono ritrovate virtualmente in una “zona di guerra” per sentirsi di nuovo parte di qualcosa Lì tra le discussioni in chat vocali, piani strategici improvvisati e obiettivi condivisi, si sono formate amicizie, routine serali e persino piccoli rituali digitali che colmavano il vuoto della distanza. In quella guerra senza morti, il senso di appartenenza era più vivo che mai. Dal punto di vista tecnologico, Warzone è un caso di studio interessante anche per chi si occupa di informatica e reti. L’implementazione del cross-play tra PC, PlayStation e Xbox ha unito piattaforme diverse in un’unica infrastruttura online, ottimizzando latenze e sincronizzazioni in tempo reale tra milioni di utenti La community di Warzone, nata dall’unione tra veterani del gaming competitivo e nuovi giocatori attratti dalla semplicità d’accesso, riflette perfettamente la tensione tra abilità e inclusione, tra competizione e convivialità. Se per alcuni le nuove meccaniche con un bilanciamento più “morbido” riducono il livello tecnico, per altri rappresentano un invito a partecipare Forse è proprio qui che risiede il segreto del suo successo: una guerra senza dolore, ma piena di vita In questo mondo digitale ognuno può essere eroe, stratega o semplice compagno di squadra. E quando il match finisce, restano i ricordi e quella sottile nostalgia per un campo di battaglia virtuale dove ci siamo sentiti di nuovo vicini.

Venerdì 3 ottobre 2025, l’Italia si è fermata – in parte – per lo sciopero generale convocato in solidarietà con Gaza dopo l’intercettazione della Global Sumud Flotilla. Sui numeri, le cronache divergono: Reuters parla di “decine di migliaia” in oltre 100 città, con disagi soprattutto sui treni; AP riferisce di una partecipazione che avrebbe superato i due milioni di persone. In ogni caso la mobilitazione c’è stata, ampia e diffusa Nelle piazze sventolavano bandiere sindacali e palestinesi, si discuteva di diritti umani e di embargo sulle armi; tuttavia, il governo ha ampiamente criticato l’iniziativa, definendola ideologica e dannosa.

Nelle edizioni dei telegiornali e nei talk dei giorni a ridosso dello sciopero, il tema dominante è stato quello dell’ordine pubblico. Le immagini prescelte? Tumulti, subbugli e scontri. Un servizio del Tg2 ha riassunto così la vicenda: cortei, sit in e “scontri a Milano tra

Maria Minotti

manifestanti e polizia”; la narrazione che si arena sul conto dei feriti e sui disagi ferroviari

Anche gli approfondimenti mattutini hanno insistito sulla “guerriglia urbana”: Agorà ha costruito un racconto in cui l’episodio milanese diventava l’immagine icona della protesta, con otto arresti e decine di feriti tra le forze dell’ordine.

Sul fronte privato, TGCom24 ha titolato sulla “guerriglia” alla Stazione Centrale cittadina, vetrate rotte e caos, inneggiando all’equivalenza tra protesta e disordine. È certamente una scelta legittima sul piano giornalistico (i fatti di cronaca vanno raccontati), ma è anche una scelta editoriale: mettere in luce gli attriti più “spettacolari” orienta lo sguardo del pubblico e nasconde il contesto.

Nei palinsesti, poco spazio è stato dedicato alle richieste avanzate da sindacati e movimenti sociali: sospensione delle forniture di armi, tutela del diritto di associazione e una condanna coerente delle violazioni del diritto internazionale. Cgil –che parlava di oltre 100 manifestazioni e ricordava le prestazioni essenziali garantite – è stata spesso criticata, ad esempio per non aver rispettato l’avviso di sciopero (cosa rivelatasi poi falsa), anziché lodata per ciò che ha generato

Ancora più carsica la copertura delle vicende accadute nei porti italiani: la presenza dei lavoratori portuali a Genova, Livorno, Trieste, con le loro azioni simboliche contro navi legate a interessi israeliani, ha avuto una eco quasi esclusivamente internazionale (quindi su stampa estera), più che italiana. Infine, la scala della mobilitazione. Alcune testate hanno sottolineato la dimensione capillare dello sciopero, altre hanno preferito ancorare il racconto a stime conservative o ai soli focolai di tensione. L’esito è una percezione pubblica della vicenda estremamente frastagliata, in cui il dato “tanti, ovunque, per motivi politici

chiari” lascia il posto a “pochi, violenti, disagiati”.

La copertura televisiva è stata alimentata –e a tratti guidata – dalla polemica di governo. La premier Giorgia Meloni ha bollato l’agitazione come un’operazione opportunistica (“rivoluzione” e week end lungo non stanno insieme - il senso? -), fissando un modello ripreso poi da molti, in TV: il cittadino spettatore come vittima dei disagi.

Sui social, invece, l’onda è stata meno unidirezionale: al post di Fratelli d’Italia contro gli scioperi, migliaia di commenti hanno ribaltato l’accusa (“i danni li fate voi”), segno che parte dell’audience cerca narrazioni alternative a quella dominante in TV.

Come se tutto ciò non bastasse, il giorno successivo allo sciopero, a Roma è andata in scena una manifestazione oceanica: gli organizzatori hanno parlato di oltre un milione di partecipanti, la questura di centinaia di migliaia Gli scontri di un piccolo gruppo (poco più di duecento persone) hanno monopolizzato l’attenzione, con arresti e immagini forti che hanno rimpiazzato, nei titoli, la portata inedita della mobilitazione Anche qui: la notizia è duplice (la grandezza e gli incidenti), ma la TV ha spesso scelto di raccontare una sola metà.

Il punto non è che la TV “non racconta” gli scontri – cosa che dovrebbe fare. Il punto è l’asimmetria: quanto tempo va a incidenti e blocchi, e quanto a quella che è, in realtà, la realtà? La domanda è delicata. Da anni, osservatori italiani e internazionali segnalano rischi di ingerenza politica nella RAI: nel 2024 gli stessi giornalisti del servizio pubblico hanno scioperato contro “interferenze” del governo; Bruxelles, con il nuovo European Media Freedom Act, chiede criteri stringenti di indipendenza e trasparenza nelle nomine, con l’Italia accusata di ritardi nell’adeguamento. Non è un dettaglio: quando c’è conflitto sociale, la

fiducia nel racconto dipende anche da queste garanzie istituzionali

La TV italiana non ha di certo “inventato” gli scontri: li ha ingranditi fino a farli diventare il punto focale di tutto. In tal modo si perde il contesto (in questo caso, il perché si sciopera) e si consolida una narrazione del conflitto ridotta a mere problematiche di ordine pubblico È una questione di pluralismo e di equilibri editoriali – che chiama in causa i vertici delle reti, la politica e noi spettatori.

La domanda allora è una soltanto: stiamo forse scivolando verso una nuova stagione di censura della tv nazionale?

Forse, siamo ancora in tempo per pretendere regole - e pratiche - di indipendenza reale.

Non tutti sanno che il toponimo di una delle stradine più conosciute del centro storico della città – il Vicolo della Neve – famoso per un locale di ristorazione, trae origine da un’antica attività legata al freddo che si svolgeva in quei luoghi. Fino alla scoperta della produzione del freddo artificiale, la neve è stata una delle maggiori protagoniste nell’economia della città: per la conservazione del cibo e per altre necessità comprese quelle sanitarie per la presenza della Scuola Medica e delle sue prescrizioni

In tutti i centri abitati, al piano interrato di alcuni edifici, erano realizzati locali particolari dedicati alla conservazione della neve, denominati “nevère” nel Regno di Napoli e “neviere” nel resto dell’Italia. Essa veniva trasportata dalle montagne vicine e immagazzinata nei locali sotterranei in strutture in muratura, in origine fatte a forma di tronco capovolto; ai primi caldi veniva opportunamente protetta con rami, foglie e paglia.

A Salerno il suo commercio fu particolarmente significativo per la presenza dei medici dell’antica Scuola che prescrivevano la neve come efficace terapia del contrasto caldo/freddo nelle febbri, ferite, emorragie ed infezioni. Il gestore privato che si aggiudicava l’appalto del commercio veniva obbligato dagli amministratori di Salerno ad assicurare la neve alla città sia di giorno che di notte, pena gravi sanzioni.

Le regole erano molto ferree: gli spacci dovevano essere aperti fino alle due di notte per venire incontro alle esigenze sanitarie, la neve doveva essere venduta a prezzi prefissati e si dovevano utilizzare bilance con il piatto bucato per evitare

di pesare anche l’acqua.

Oltre che nei siti urbani, la neve veniva accumulata anche nelle aree di montagna –. generalmente a quote elevate – e nelle zone della costiera amalfitana. A Scala, ad esempio, risulta dai documenti che nevère erano presenti sull’altopiano di Santa Maria dei Monti tanto che il borgo più antico della costiera amalfitana divenne famoso per gli artigiani specializzati nella produzione dei sorbetti.

Tra il XV ed il XVII secolo la neve fu anche protagonista di un culto di devozione mariana che si diffuse rapidamente favorito dall’instaurarsi di celebrazioni locali Molte le cappelle edificate nel salernitano tra cui la più importante è quella della Madonna della Neve nel Parco Nazionale del Cilento, sulla vetta del monte Cervati, ricavata in una grotta naturale e che fu la più grande nevèra del Cilento e dell’intero territorio

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