Yes, we cure

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YES, WE CURE Il protagonismo delle associazioni di pazienti

YES, WE CURE Il protagonismo delle associazioni di pazienti

di NICLA PANCIERA

YES,

WE CURE Il protagonismo delle associazioni di pazienti di Nicla Panciera

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Vita Società Editoriale S.p.A. impresa sociale www.vita.it

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direttore: Stefano Arduini

La cura diventa circolare: cinque casi scuola nel

volontariato di salute

Finalmente anche il nostro Paese sta adeguando il contesto normativo di riferimento per il riconoscimento della partecipazione dei pazienti alle decisioni, come già avviene in altri Paesi. Da tempo, infatti, le agenzie di salute sostengono che l’individuo debba essere protagonista delle scelte di salute che lo riguardano e debba essere coinvolto anche nella ricerca clinica, nei processi regolatori di approvazione e messa in commercio dei farmaci e nei percorsi sanitari e nella loro valutazione.

Il termine empowerment fa riferimento proprio al fatto che «cittadini, pazienti e professionisti siano attivamente coinvolti, come singoli, organizzazioni e comunità, nelle decisioni che riguardano la propria salute e la pianificazione, gestione e valutazione dei servizi per la salute» (dal sito di Agenas La promozione dell’empowerment in sanità). Il coinvolgimento dei cittadini in sanità è piuttosto recente e affonda le sue radici nell’attivismo gay statunitense per l’Hiv. Negli anni Ottanta del secolo scorso, il mondo dell’attivismo di salute nasce proprio grazie ai movimenti omosessuali e a quelli delle donne che iniziano ad aggregarsi e mobilitarsi per una causa comune,

rispettivamente l’Hiv e il tumore al seno. Il passaggio da gruppi di pressione, che rivendicano diritti e bisogni, a protagonisti della ricerca e delle policy, insieme e al pari degli altri decisori, è durato decenni e nel nostro Paese la sua completa realizzazione non è ancora stata raggiunta, anche se ci sono casi positivi come raccontiamo in queste pagine.

Si deve, in particolare, al movimento gay sia la nascita delle cosiddette attività di Patient advocacy, termine inglese per l’attività di lobbying dei diritti dei malati, che si occupa anche dell’individuazione di percorsi di cura virtuosi e dell’ideazione di adeguate gestioni delle problematiche socio-assistenziali, sia il delinearsi della figura di paziente esperto, che possiede le competenze, come le conoscenze e il linguaggio specialistico, adatte al dialogo con tutti gli interlocutori, dalla cittadinanza, ai clinici e alle istituzioni.

Oggi, le associazioni portano avanti le istanze dei pazienti con un livello di rappresentatività tale da essere parte attiva nei processi riguardanti la ricerca, i trattamenti e le nuove tecnologie, contribuendo anche alla generazione delle evidenze scientifiche necessarie all’avanzamento delle conoscenze in questi ambiti. Coloro che hanno esperienza di malattia e i loro rappresentanti sono chiamati a dare il proprio reale contributo su tanti aspetti diversi: le priorità della ricerca, la validità degli obiettivi stabiliti, lo sviluppo e gli esiti degli studi, le vie di ottimizzazione delle procedure e l’efficacia dei trattamenti nella vita reale, il cosiddetto real

world, quello che esiste al di fuori dei trial controllati e che è fatto di comorbidità, politrattamenti, scarsa aderenza, difficoltà economiche e contesti sociali. Infine, il coinvolgimento deve riguardare la fase della disseminazione dei risultati. Insomma, si tratta di un livello di partecipazione crescente che va dal cosiddetto tokenism iniziale, dall’inglese token che è il gettone di presenza, quando il paziente era solo una figura invitata ai tavoli decisionali di cui al massimo si raccoglieva l’opinione, fino al coinvolgimento alla pari in una vera e propria co-progettazione.

Da tempo, poi, nella storia della partecipazione dei pazienti sono stati superati i noti ostacoli del loro essere portatori di istanze individuali, dalla spiccata connotazione emotiva, del non essere rappresentanti di una comunità e dell’essere in conflitto di interesse o portatori di interessi commerciali.

Oggi, le associazioni si muovono su tre fronti principali. Il primo è la ricerca, collaborando con i centri clinici e gli istituti di ricerca, contribuendo all’avanzamento della conoscenza della storia naturale delle malattie e al miglioramento della qualità della vita dei pazienti, sostenendo l’inserimento degli esiti riferiti dai pazienti, i cosiddetti Pro (Patient reported outcome), negli endpoint primari degli studi clinici e nelle valutazioni dell’efficacia di un farmaco; contribuendo all’istituzione dei Registri di malattia; fornendo un supporto economico soprattutto negli ambiti meno redditizi, quindi di scarso interesse per le aziende

farmaceutiche; e sostenendo progetti di ricerca indipendente come quella comparativa sull’efficacia clinica di due o più trattamenti medici, servizi o pratiche sanitarie, per aiutare le istituzioni a prendere decisioni informate. Il secondo ambito di azione delle associazioni di salute riguarda l’interlocuzione con le istituzioni, svolgendo attività di patient advocacy, contribuendo alla stesura e all’aggiornamento dei Percorsi diagnostico terapeutici assistenziali (Pdta) e ai processi valutativi di nuovi farmaci, presidi e dispositivi.

Infine, l’attività forse più nota riguarda il supporto ai propri associati, pazienti e famiglie, con copertura di servizi, trasmissione di informazioni e condivisione delle esperienze e altre iniziative relative alla dimensione di vita quotidiana personale e sociale.

Oltre alle competenze acquisite in questi tre ambiti, le associazioni hanno un grande valore perché costituiscono i nodi di varie reti: quella tra domicilio e centri clinici diagnostici e riabilitativi, tra domicilio e aziende, tra istituzioni cliniche e istituzioni politiche, sanitarie e sociali.

Tuttavia, solo il possesso di specifiche capacità e conoscenze permette il raggiungimento dei traguardi di salute per i quali le associazioni di pazienti si impegnano ogni giorno. La loro partecipazione attiva alle politiche sanitarie e ai processi decisionali nazionali e regionali passa anche da una formazione strutturata, con la nascita di master e proposte formative organizzate o promosse dalle stesse associazioni,

che forniscono strumenti per una maggior efficacia e consapevolezza d’azione. Ne sono un esempio il master in patient engagement organizzato a Pavia dall’ateneo cittadino, Agenas e Fondazione the Bridge, pensato proprio per le associazioni, e il master patient advocacy e international patient advocacy management del centro Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari Altems di Roma, destinato a una platea più vasta rispetto al Terzo settore, essendo aperto a tutti coloro che operano nel contesto delle organizzazioni che rappresentano gli interessi dei pazienti e dei cittadini nel settore salute.

Secondo il Patient Advocacy Lab dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica, che ha redatto la prima fotografia della realtà italiana della patient advocacy, quella delle associazioni «è una realtà in movimento sulla quale investire per aumentare la qualità e la sostenibilità del servizio sanitario». Spesso il valore delle associazioni e del loro attivismo civico è intangibile e agisce a livello culturale e sociale. Quantificare il controvalore dell’operato gratuito dei volontari, che oltre al proprio tempo donano le proprie competenze professionali, è importante per riconoscerne la professionalità e dar forza alle loro istanze. Il primo Rapporto sulla valorizzazione della rete dei volontari alleati per la salute, che fornisce una rendicontazione analitica e trasparente del valore economico e sociale generato da cinque associazioni di pazienti in ambito salute, parla

di 20 milioni di euro solo nel solo 2021: questo il valore di 1,2 milioni di ore di lavoro svolte da 20mila volontari, 400 dipendenti e quasi 59mila persone assistite. Le associazioni considerate sono: l’associazione nazionale contro leucemie, linfomi e mieloma (Ail), l’associazione italiana scompensati cardiaci (Aisc), l’associazione nazionale persone con malattie reumatologiche e rare (Apmaar), Europa Donna Italia e Federazione italiana malattie rare (Uniamo). Nel contesto di grande frammentazione, dove le organizzazioni sono tante e non sempre collaborative, l’alleanza che ha richiesto la stesura del rapporto ha avuto anche il merito di favorire l’interazione strutturata e la condivisione di idee e buone pratiche.

La costante e intensa attività delle associazioni di pazienti e dei loro rappresentanti ha reso possibile il raggiungimento di importanti traguardi in vari ambiti, che si aggiungono al ruolo fondamentale di mantenere sempre bene accesi i riflettori sul diritto alla salute, inserito nella Costituzione italiana che all’articolo 32 recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».

Il riconoscimento del contributo che arriva al Servizio sanitario nazionale dall’attivismo civico, senza il quale le grandi mete che la sanità si prefigge nel prossimo futuro non saranno raggiungibili, ha portato alla creazione di importanti strumenti di lavoro che consentono la piena realizzazione del ruolo di sussidiarietà delle associazioni dei pazienti e

loro rappresentanti. Nel documento redatto dal Gruppo di lavoro di Agenas sull’assistenza territoriale, alla voce Casa di Comunità hub si menziona la «partecipazione della comunità e valorizzazione della co-produzione, attraverso le associazioni di cittadini e volontariato». L’atto di indirizzo del ministero della Salute del 28 settembre 2022, frutto del lavoro di un Gruppo di studio sulla partecipazione delle associazioni di cittadini operanti in ambito sanitario, stabilisce le modalità di partecipazione delle associazioni ai processi decisionali. La partecipazione dei pazienti è prevista anche dal Dm 77/22, con il quale si indicano linee di azione per attuare quanto il Piano nazionale di ripresa e resilienza Pnrr prevede per lo sviluppo della medicina di prossimità.

Infine, il nuovo Regolamento Aifa, adottato lo scorso aprile, sull’organizzazione e il funzionamento della sua Commissione scientifico-economica, prevede all’articolo 11 che «al fine di ampliare il quadro conoscitivo nell’ambito dei processi decisionali, la Commissione ha la facoltà di convocare in audizione associazioni o Società scientifiche maggiormente rappresentative in relazione alle tema che in discussione».

Grazie al possesso di una visione e al forte coinvolgimento in prima persona di ogni membro, le associazioni non solo sono state protagoniste di grandi battaglie e successi di salute — in questa pubblicazione ne raccontiamo cinque fra i più significativi — ma sono costantemente rivolte al futuro facendo da traino a importanti cambiamenti per il bene di tutti.

1. Test and Treat contro l’Hiv

Testare è l’unica via per far emergere il sommerso. Le associazioni e i check point possono offrire screening e test rapidi per Hiv e per altre malattie trasmissibili. La loro strategia di prossimità e l’erogazione di servizi orientati alla comunità sono molto efficaci nel contrasto alla diffusione dei contagi, ma mancano finanziamenti strutturali

Il ruolo decisivo delle associazioni nel bloccare l’epidemia

Quando si parla dell’attivismo di salute, quello che si aggrega, discute e negozia, non si può non partire dal primigenio: il movimento omosessuale nato intorno all’Hiv, negli Stati Uniti, negli anni della crisi dell’Aids. Esso ha cambiato la storia di questa malattia contagiosa e letale e ha dato origine a un attivismo fatto di aiuto, supporto, abbattimento dello stigma e cambiamento delle sperimentazioni cliniche. È allora, negli anni Ottanta, che si diffonde il concetto di credibilità degli attivisti e prende forma la consapevolezza della necessità di inserirsi nei luoghi istituzionali dove le decisioni vengono prese, per orientarle secondo l’interesse dal paziente. Tutto ciò avviene con l’accoglienza favorevole di Anthony Fauci,

allora direttore del National institute for allergy and infectious diseases. Nel Vecchio Continente, nel 1982 nasce la prima charity britannica, la londinese Terrence Higgins Trust, oggi composta da molte associazioni. Il suo presidente, alla 25esima conferenza internazionale sull’Aids a Monaco, nella prima sessione plenaria dedicata al ruolo cruciale del volontariato e della comunità civile per fermare l’epidemia di contagi, ha definito il Terzo settore «sottofinanziato e poco apprezzato» e ha ricordato che l’Hiv non è una questione squisitamente sanitaria, perché «i determinanti sociali della salute incidono molto sulla diffusione del virus, almeno un 40%». Come ricorda l’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta all’Aids, Unaids, le leggi, le politiche e le pratiche che puniscono, discriminano e stigmatizzano donne e ragazze, e altre comunità emarginate, violano i diritti umani e ostacolano l’accesso alla prevenzione, ai test, al trattamento e alle cure dell’Hiv.

«L’associazionismo ha sempre avuto una visione, anticipando l’evoluzione della pandemia Hiv, e una strategia contemporanea di prossimità che ancora manca allo Stato e agli stessi clinici, tutti fermi alla consuetudine ospedalocentrica che sappiamo non funzionare nel contrasto alla diffusione dei contagi» riflette Rosaria Iardino, presidente di Fondazione The Bridge, che lavora su più fronti per la tutela del diritto inalienabile alla salute. Per individuare le persone inconsapevoli di aver contratto l’Hiv (detection) e, dopo la diagnosi, garantirne il mantenimento nel programma di cura (retention in care) sono, infatti,

L’associazionismo ha sempre avuto una visione e una strategia di prossimità che ancora manca allo Stato e spesso agli stessi clinici

necessari modelli innovativi di erogazione dei servizi orientati alla comunità, in tutto il continuum di cura. Le associazioni forniscono tutta una serie di servizi, dai test rapidi alle consulenze, che sarebbero di competenza dello Stato e «investire sulle quali non sarebbe solo eticamente giusto ma anche conveniente economicamente». Quindi, denuncia Iardino, «non è più tollerabile che il Terzo settore venga sfruttato senza alcun riconoscimento; è un tema di sostenibilità delle attività. Anche perché, in assenza di un finanziamento statale o regionale strutturale che consentirebbe una programmazione a lungo termine, le realtà del Terzo settore possono operare solo con il sostegno economico delle aziende che, e siamo al paradosso, le porrebbe, secondo galanti funzionari regionali, in una situazione di conflitto di interesse tale da determinarne l’esclusione dai tavoli decisionali». Insomma, le leggi non bastano. Bisogna finanziare i servizi: «Una delibera di Regione Lombardia, fatta insieme alle associazioni di pazienti, prevede di stanziare un milione di euro per l’acquisto da parte degli ospedali dei test per l’Hiv che verranno consegnati alle associazioni che operano sul territorio. Si parla tanto di co-progettazione, ma è la prima volta che accade». Per porre fine all’epidemia da Hiv come minaccia di sanità

pubblica entro il 2030, l’Oms ha stabilito l’obiettivo 95-95-95, secondo cui il 95% di tutti i casi di Hiv deve essere diagnosticato, il 95% delle persone che vivono con Hiv deve avere accesso alle terapie antiretrovirali e il 95% delle persone trattate deve ottenere la soppressione della carica virale. In Italia, ci sono poco più di 140mila persone che vivono con Hiv, di cui circa 10mila inconsapevoli del proprio stato di infezione. Le diagnosi a malattia conclamata sono troppe, in crescita dal 2015. Oggi sono tardive più della metà delle nuove diagnosi di Hiv. Secondo i dati più recenti, a cura del centro operativo Aids dell’Istituto superiore di sanità, nel 2022 l’infezione è stata scoperta in stato avanzato nel 58,1% dei nuovi casi, di cui il 42% presentava già sintomi correlati all’Aids. Avere il virus in circolo senza saperlo, oltre a consentire una sua diffusione nella popolazione, ha delle conseguenze di salute. All’aumento degli anni in cui la persona è stata viremica, infatti, corrisponde una diminuzione dei benefici dei farmaci antivirali. Quando l’infezione da Hiv è scoperta in una fase avanzata di immunodeficienza, la persona ha un rischio di morte quintuplicato rispetto a chi riceve la diagnosi in stadio precoce.

Tra le cause della diffusione del virus e delle diagnosi tardive nel Paese «possiamo sicuramente citare la mancanza di informazione e di promozione del benessere sessuale, legata ad una scarsità di servizi specifici, semplici nell’accesso e gratuiti per i diversi tipi di popolazione per favorire e garantire un accesso universale

alla salute. Più in generale, a mancare è una visione ampia e più serena della salute sessuale, che inserisca il tema delle infezioni sessualmente trasmissibili Ist in modo meno stigmatizzante, avvicinando le persone ai luoghi di cura e prevenzione» si legge in una lettera firmata anche da Sandro Mattioli, presidente di Plus associazione di persone Lgbtqia+ che vivono con Hiv, che a Bologna gestisce il primo check point d’Italia, il Blq check point, nato nel 2015.

Delle 1.888 nuove diagnosi di Hiv segnalate in Italia nel 2022, oltre il 40% nasce da un test fatto per sospetta patologia Hiv o presenza di sintomi Hiv correlati, solo il 24,3% è legata a un test fatto per “comportamenti sessuali a rischio di infezione” e appena l’8,9% da controlli di routine o iniziative di screening a seguito di campagne informative. La proporzione di nuovi casi attribuibile a trasmissione eterosessuale è del 43%, quella in maschi che fanno sesso con maschi 40,9% e quella attribuibile a persone che usano sostanze stupefacenti 4,3%. «Permane un immaginario frutto dell’ignoranza, ancorato ai baci e agli spazzolini da denti come se fossimo ancora negli anni Ottanta» ci dice Mattioli. «All’ignoranza generalizzata, si aggiungono la sessuofobia, il considerare il sesso un tabù e il fatto che tenersi controllati non sia una cosa da macho. Questi e altri aspetti culturali non fanno che dare una spinta alla diffusione dell’Hiv». Manca inoltre l’abitudine di includere il test come esame di routine per persone sessualmente attive.

I check point sono centri community based, peer oriented, con un coinvolgimento attivo della popolazione target che ne decide la gestione

Uno dei modelli raccomandati dall’Oms per facilitare gli accessi ai test e screening sono le esperienze all’esterno dei contesti sanitari, come i check point, centri informali con iniziative di supporto alla pari. «I check point sono centri community based, peer oriented, con un coinvolgimento attivo della popolazione target che prende decisioni sulla gestione del centro» spiega Mattioli. Il primo centro con questo nome è nato ad Amsterdam nel 2002, sono gestiti dalle associazioni che, se necessario, avviano verso i centri infettivologici specializzati. I check point forniscono anche un servizio di consulenza per la profilassi pre-esposizione Prep, farmaci per persone sieronegative che hanno un alto rischio di contrarre l’infezione, e un servizio di test di screening sulle infezioni sessualmente trasmissibili anonimi e gratuiti in un ambiente non giudicante. Non fare il test per l’Hiv significa non sapere di essere positivi, non mettersi in cura rischiando di ammalarsi e di trasmettere ad altri l’infezione.

L’esperienza europea ha mostrato l’importanza di agire al di fuori degli ambienti ospedalieri, spesso evitati anche a causa dello stigma che ancora colpisce chi ha contratto il virus. Il check point può abbattere molti ostacoli all’accesso ai test,

Ancora mi stupisco di come riusciamo a restare attivi e garantire la fornitura dei servizi il Terzo settore non è sostenuto

intercettando molte infezioni precocemente, nella fase acuta. «Ancora mi stupisco di come riusciamo a restare attivi, aperti due volte a settimana per tre ore, oggi come agli inizi. Il terzo settore non è sostenuto» commenta Mattioli, che chiede provocatoriamente «Forse si ritiene che, in quanto gestito da volontari, non abbia spese? Il check point di Berlino, sostenuto pubblicamente, ha ricevuto all’apertura 3 milioni di euro per l’avvio, noi da cinque anni circa riceviamo 35mila euro, ma servirebbe un impegno duraturo per garantire la fornitura dei servizi». Che, attualmente, solo i check point sono in grado di fornire: «Parlando con le persone, intercettiamo molte situazioni altrimenti non note, di chemsex e di comportamenti a rischio».

Molto si potrebbe fare e gli esempi non mancano: quello di Barcellona ha aperto nel 2006, in un decennio è arrivato a fare il 50% delle diagnosi di tutta la Catalogna, e ha avviato nel 2017 anche un Prep-Point in cui offrire la Prep e condurre studi clinici, con migliaia di utenti.

Infatti, non ci sono solo i test. Una survey condotta dal Blq check point con l’Università di Bologna rivela che fino al 10% dei rispondenti ha ammesso di assumere la Prep ma senza essere seguito da alcun centro e da alcun medico, una situazione di Prep

sauvage, come la chiamano i francesi. «Il farmaco per la profilassi, negli Usa, è in uso dal 2012, mentre in Europa si è dovuto attendere il 2016 e Aifa ne ha stabilito la rimborsabilità solo nel 2023, anno in cui Ema ha dato il via libera alla Long acting Prep, Prep orale a lunga durata, da assumere solo due volte l’anno, che ora speriamo arrivi anche qui» dice Mattioli, ricordando le conseguenze sulla diffusione dei contagi di tutti questi ritardi. Tanto che accelerare l’accesso alla Prep è quanto chiedono le nuove raccomandazioni diffuse in occasione del congresso di Monaco.

In previsione della sua approvazione, con la lungimiranza tipica dell’associazionismo, c’è chi sta già valutando lo scenario nazionale e i potenziali utilizzatori: «Ci stiamo concentrando sulle popolazioni chiave più fragili e marginalizzate, meno presidiate, come i senza fissa dimora e le persone con fragilità mentale, key population maggiormente esposte al rischio di contrarre l’infezione da Hiv e altre Ist» svela Rosaria Iardino.

«Lavoreremo a Milano e Roma, in collaborazione con la Federazione italiana organismi per le persone senza fissa dimora, per un’analisi di fattibilità con tutti gli stakeholder della Long acting Prep, per avere un quadro della situazione quando verrà approvata anche in Italia».

Ci sono poi le unità di strada, organizzate dalle associazioni per un’altra popolazione fragile, le sex workers transessuali. Per portare i test per l’Hiv e favorire l’accompagnamento ai servizi sanitari, i volontari di Ala Milano, associazione laica che si occupa di

tutela della salute, inclusione sociale e lotta alle discriminazioni, sono andati un po’ ovunque, dai luoghi della movida alle scuole. Ma, soprattutto, nelle case. «Avviciniamo e aiutiamo le persone più invisibili, le prostitute trans che esercitano anche in casa e corrono molti rischi sanitari, come quello di contrarre temibili infezioni come Hiv e Hcv, perché spesso sono ricattate economicamente dai clienti, per lo più giovani e adulti padri con famiglia, che in cambio di un rapporto senza preservativo pagano anche il quadruplo» ci racconta Vincenzo Cristiano, presidente di Ala Milano. Anche qui, torna il tema dello stigma, cui si aggiunge «l’ipocrisia di non curarsi di un fenomeno che pure esiste, si espande in occasione dei grandi eventi milanesi, e ha delle pesanti conseguenze di salute».

Ala Milano ha creato un partenariato con l’Unità operativa di malattie infettive dell’ospedale San Gerardo di Monza: «Inizialmente, il personale medico sanitario usciva in auto con i volontari dell’associazione» racconta «Con la pandemia abbiamo iniziato a eseguite anche noi i test». Sconfiggere l’Hiv entro il 2030, raggiungendo l’obiettivo zero infezioni stabilito da Onu e Oms, non è possibile senza la società civile e l’associazionismo.

Si pone come tramite tra istituzioni e associazioni di pazienti, società di ricerca scientifica e sociale, accademia, mondo clinico e industria per agevolarne il corretto confronto, facendosi garante del rispetto di valori fondanti e irrinunciabili: universalismo, equità, innovazione responsabile, sostenibilità, sensibilizzazione alla diversità, inclusione e pluralismo.

www.fondazionethebridge.it

Organizzazione laica che si occupa di tutela della salute, inclusione sociale, lotta alle discriminazioni e cooperazione sia sul territorio nazionale che internazionale.

www.alamilano.org

Associazione nata con l’intento di far sì che le persone Lgbt sieropositive abbiano la possibilità di essere tutelate sia come persone Lgbt che come persone sieropositive, in un contesto in cui la formazione e l’informazione scientifica viene promossa e portata avanti in un clima paritario, da professionisti, operatori e volontari che condividono lo stesso background sociale ed esperienziale degli utenti.

www.plus-aps.it

Plus
Ala Milano
Fondazione The Bridge

2. I farmaci salvavita per l’Epatite C

Una vicenda drammatica: disporre di un farmaco essenziale, ma decidere per ragioni unicamente economiche di non rimborsarlo a decine di migliaia di malati clinicamente “non troppo gravi”. La battaglia dell’associazione EpaC, punto di riferimento dei pazienti, per l’accessibilità ai farmaci antivirali e l’approvazione del piano nazionale di screening

La lunga battaglia per rompere il muro dell’inacessibilità

La drammatica vicenda dell’epatite C sarà difficilmente dimenticata e non soltanto da chi l’ha vissuta sulla propria pelle. Non era mai accaduto di avere a disposizione un farmaco salvavita e dover decidere per ragioni unicamente economiche di non rimborsarlo a decine di migliaia di malati clinicamente “non troppo gravi” stabilendo un accesso al trattamento che, di fatto, ha imposto alla maggioranza di attendere la progressione di malattia fino a un peggioramento tale da rientrare nei criteri di accesso alla cura definiti per legge. Grave è stato anche il prendere la decisione di non consentire l’accesso a un farmaco salvavita sulla base di stime inaccurate del numero di pazienti candidabili alla cura: «Dati che in realtà nessuno

aveva, non l’agenzia del farmaco Aifa, non l’Istituto superiore di sanità (Iss), non il ministero della Salute, non le società scientifiche. Tutti impreparati. Nessuno aveva stime ragionevolmente accurate del numero di pazienti da curare, ma c’erano solo stime elevatissime che si sono rivelate successivamente irrealistiche, come riuscimmo a dimostrare noi in seguito» ricorda Ivan Gardini, presidente dell’associazione EpaC. Proprio EpaC, in prima linea nella battaglia per l’accesso di tutti al farmaco, è stata il grande punto di riferimento dei pazienti e il motore di mobilitazioni importanti. EpaC è stata anche promotrice e finanziatrice dello studio che ha fornito la stima corretta del numero di pazienti da curare, che ha poi portato alla rimozione delle barriere al farmaco (avvenuta anche grazie alla rottura del monopolio dell’azienda produttrice del primo farmaco a disposizione, con l’arrivo di altri trattamenti di efficacia sovrapponibile). «Il primo farmaco sofosbuvir, nome commerciale Sovaldi, aveva un costo al pubblico elevatissimo, si poteva arrivare anche a 100mila euro, per dire addio all’epatite una volta per tutte. Naturalmente il Servizio sanitario nazionale lo pagò molto meno, ma erano pur sempre costi elevati considerato il numero complessivo di pazienti da curare» commenta Gardini. Le stime di prevalenza, oltre un milione di casi, facevano temere un costo complessivo tale da minacciare la tenuta del sistema sanitario, sulla base dei prezzi proposti da Gilead, l’azienda (unica in quel momento) produttrice di questo straordinario farmaco.

L’epatite C è una malattia silenziosa e subdola, che decorre

spesso in modo asintomatico perché chi contrae l’infezione può non manifestare segni di malattia anche per molti anni, ma nel frattempo il virus Hcv danneggia progressivamente il fegato in modo irreversibile portando a fibrosi, cirrosi e tumori epatici, oltre a malattie extraepatiche come crioglobulinemie e linfomi.

Ricordo lo shock quando ci venne detto che i farmaci sarebbero stati rimborsati solo ai pazienti più gravi. Una decisione senza precedenti

Fino a dieci anni fa, c’era un unico trattamento, la combinazione interferone – ribavirina, gravato da numerosi effetti collaterali e utilizzabile solo da una parte dei malati, difficile da tollerare tanto che un certo numero di pazienti in cura erano costretti alla sua sospensione. Il 5 dicembre 2014, anche in Italia è stato approvato il primo di una serie di potentissimi farmaci antivirali, farmaci salvavita, con un tasso di guarigione definitiva superiore al 98% in grado di eliminare il virus dell’Hcv in poche settimane senza effetti collaterali significativi, indipendentemente dal genotipo virale, dalla severità della malattia del fegato e dalle comorbidità associate. «Ricordo ancora lo shock della convocazione in Aifa, quando ci venne comunicato che i farmaci sarebbero stati rimborsati solo ai pazienti più gravi. Una decisione senza precedenti», racconta Ivan Gardini.

Secondo i criteri stabiliti inizialmente da Aifa, i pazienti candidabili al trattamento dovevano avere una gravità specifica della

malattia e furono suddivisi in gruppi (ad esempio cirrosi, precirrosi, trapiantati). I costi elevati del farmaco hanno portato all’apertura di un’indagine anche negli Stati Uniti, dove era stato approvato nel dicembre 2013. «L’allora ministro della Salute Beatrice Lorenzin intervenne in maniera esemplare. Come prima cosa, nel dicembre 2014 stanziò un fondo da un miliardo di euro per due anni per la cura dei pazienti con epatite C, ovvero per i primi 50mila pazienti» spiega Gardini. «Successivamente, quando iniziammo a ricevere dai pazienti segnalazioni di ritardi nell’erogazione delle cure, Lorenzin organizzò un incontro con il Nucleo antisofisticazione (Nas) che ci consentì di inviare le segnalazioni stesse ai Nas territoriali affinché le somministrazioni avvenissero puntualmente e regolarmente. D’altra parte, erano fondi extra budget regionale, e non c’erano motivi per rallentare le terapie, peraltro su pazienti con malattia avanzata».

Nel frattempo, la decisione di non rimborsare le terapie a tutti, ma di contingentare i farmaci per via del loro costo e l’elevato numero di pazienti, aveva fatto esplodere il turismo sanitario perché i pazienti non intendevano restare semplicemente in attesa di peggiorare ed erano comprensibilmente alla ricerca del farmaco a tutti i costi, pagando cifre enormi di tasca propria o andando fuori dall’Europa per procurarselo. La stampa raccontava casi di collette familiari, vendite di beni, indebitamenti. «Il nostro centralino suonava continuamente, chi

cercava di acquistare a proprie spese il farmaco nelle farmacie di San Marino e di Città del Vaticano, chi intraprendeva viaggi in India, dove il farmaco veniva effettivamente prodotto, per poterlo acquistare liberamente in farmacia a cifre quasi irrisorie, spesso con ricetta di un medico indiano». Ad un certo punto, alcune agenzie di viaggi, fiutato l’affare, organizzarono dei veri e propri tour turistici incluso visita medica e acquisto del farmaco, per consentire ai pazienti di tornare a casa con l’agognato farmaco.

Il problema era che la legge non consente di importare una certa quantità di farmaci, nel nostro caso una terapia completa, se non sono stati autorizzati in Italia. Così, schiacciata tra legge da rispettare e diritti dei pazienti da garantire, EpaC fece analizzare i farmaci che rientravano in Italia nelle valigie, ed effettivamente il principio attivo era lo stesso, mentre si impegnava senza sosta a raccogliere i dati di prevalenza, anche grazie ai quali le restrizioni vennero rimosse. «Sulla base di un lungo lavoro di analisi delle esenzioni per patologia delle Regioni, mostrammo che i pazienti noti da curare erano circa 3-400mila e non oltre un milione come tutti i giornali titolavano» racconta Gardini. L’appello ai rischi del fai-da-te non ha molto effetto su chi ha nel corpo un virus che può essere direttamente o indirettamente fatale. «Nel 2016, mentre era in corso un esodo verso l’India per acquistare i farmaci generici, c’era ancora una forte resistenza ad ampliare la fascia dei pazienti curabili. Nel 2017, dopo due anni dall’arrivo dei farmaci, i pazienti curati con i nuovi medicinali

erano circa 65mila e furono stanziati altri 1,5 miliardi in 3 anni per la cura dei pazienti con epatite C».

In sintesi, sin dall’inizio fu una lotta giorno dopo giorno, anno dopo anno, con iniziative e proteste di ogni tipo anche in piazza, quasi sempre solo dei pazienti. «Fu un periodo durissimo» ricorda Gardini che quotidianamente seguiva la trattativa per commercializzare il primo farmaco antivirale ad azione diretta, perché «toccava attendere i tempi del negoziato con l’azienda produttrice, anche in ragione dei legittimi interessi dello Stato a strappare un buon prezzo». Era frustrante anche perché curare un paziente con una patologia ormai in stato avanzato non è la stessa cosa rispetto ad una patologia lieve o moderata; la negativizzazione del virus in una patologia avanzata non modifica di molto l’aspettativa di vita, perché resta il danno epatico e la regressione del danno non è garantita. Solo successivamente, quando furono approvati antivirali di altre aziende, ed il costo delle terapie scese drasticamente, le stesse furono rimborsate per tutti i pazienti.

La negativizzazione del virus in una patologia avanzata non modifica molto l’aspettativa di vita perché resta il danno epatico

L’apprezzamento del ruolo determinante come associazione di pazienti venne da più parti. «Lo disse Mario Melazzini, allora direttore di Aifa, riconoscendo l’encomiabile lavoro delle

Il riconoscimento più importante e più gratificante per l’associazione è che il 90% dei nostri sostenitori di allora sono stati curati

associazioni dei pazienti nel far emergere i veri bisogni del paziente e nel collaborare con le istituzioni per mettere a disposizione tutte le evidenze disponibili che potessero fornire dati concreti su cui elaborare un piano di azione e dare accesso alle terapie a tutti i pazienti indistintamente. «Anche i mass media, lentamente, iniziarono a parlare delle nostre stime sui pazienti da curare, alquanto diverse da quelle ipotizzate inizialmente. Ma il riconoscimento più importante e più gratificante per l’associazione», commenta Gardini, «è che il 90% dei nostri sostenitori di allora sono stati curati. Oggi, continuiamo a ricevere il loro 5 per mille, seppure siano guariti da molti anni: una riconoscenza che parla da sola». Dal 2018, con la rimozione delle restrizioni, quasi tutti i pazienti noti sono stati guariti ma esiste ancora un certo numero di persone infette senza saperlo, il cosiddetto sommerso. Per questo motivo l’eliminazione dell’infezione da virus dell’epatite C a livello mondiale è l’obiettivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità da raggiungere entro il 2030. D’altra parte, oggi contrarre l’infezione da epatite C è sempre meno probabile e ciò è in gran parte dovuto al miglioramento delle condizioni igienico sanitarie e alla maggior sicurezza nelle trasfusioni, ma anche al fatto che sono stati curati ormai circa 250.000 pazienti portatori del

virus, e questo spezza le catene di contagio. Restano serbatoi circoscritti come gli utilizzatori di droghe endovena, i detenuti e le persone fragili con stili di vita a rischio.

A fronte di ciò, per poter davvero perseguire l’obiettivo di eliminazione dell’Hcv in Italia, nel 2020 il Governo ha stanziato 71,5 milioni di euro per effettuare uno screening nazionale gratuito dell’epatite C, individuando come target i nati dal 1969-89 nella popolazione generale, persone afferenti ai SerD e soggetti in detenzione (senza limiti di età). «Però il fondo dedicato allo screening dell’infezione da Hcv viene ancora, di proroga in proroga, rinnovato ogni anno e le Regioni non stanno utilizzando con la rapidità necessaria le risorse che hanno ricevuto per lo screening» dice Gardini. «Per questo ci stiamo battendo». Inoltre, per ridurre quel serbatoio di infezioni che poi alimentano la diffusione del virus, spiegano gli specialisti, lo screening va esteso anche alle persone sopra i 50 anni e successivamente a tutta la popolazione generale. Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, i fattori di rischio per contrarre l’infezione sono le procedure estetiche e i tatuaggi eseguiti in ambienti non controllati, in ambito ospedaliero, e, in generale, tutte le situazioni in cui c’è contatto con il sangue infetto, quindi la condivisione di rasoi, spazzolini, strumenti per la manicure e pedicure, scambio di siringhe. Spiega Gardini, «la chiave per essere credibili ed essere presi in considerazione presso le istituzioni è dotarsi di una struttura associativa stabile, ovvero personale adeguatamente retribuito che lavora a tempo pieno o

part-time, formato, informato, in grado di sviluppare attività e documentazioni e di poter dialogare con chiunque sulla materia». Infine, un’amara considerazione: «Non sembra che si sia appresa la lezione: i database regionali non sono collegati in rete e la legge sulla privacy molto restrittiva impedisce a volte di estrapolare i dati di prevalenza necessari alle istituzioni. Temo quindi che la fatale sovrastima dei pazienti da curare accaduta con l’epatite C si possa ripetere, ad esempio, con una patologia emergente di natura metabolica, il cosiddetto “fegato grasso”, di origine alcolica e non, che colpisce un numero elevato di cittadini anche di giovane età, in particolare persone con diabete e obesità. Presto arriveranno farmaci specifici e l’impreparazione sui numeri reali potrebbe creare problemi da noi già vissuti».

EpaC

Nata nel 1999, l’Associazione EpaC onlus è un’organizzazione al servizio dei cittadini presente su tutto il territorio nazionale, membro della World Hepatitis Alliance, Socio dell’Associazione Italiana Studio Fegato e Fondatore dell’Alleanza contro l’Epatite. La principale attività quotidiana è il counselling. Inoltre si occupa di: Informazione, prevenzione, sensibilizzazione istituzionale e manifestazioni di piazza a tutela dei malati. Ha effettuato oltre 200.000 consulenze gratuite, conta 40mila di iscritti alla newsletter e 2-3 mila sostenitori. È attivo uno sportello informativo, ci sono cinque o sei gruppi Facebook attivi che forniscono una fonte autorevole e sicura di informazioni.

www.epac.it

Email: info@epac.it Numero verde: 800031657

3. Il diritto di fermare la Sma

I farmaci contro l’atrofia muscolare spinale proteggono dalla malattia e garantiscono al bambino un neurosviluppo normale solo se assunti precocemente. Dalla loro approvazione, le associazioni di genitori si battono per lo screening genetico universale, per una diagnosi tempestiva precoce

In prima linea per i diritti: dagli ausili allo screening neonatale

Un cambiamento tanto radicale e veloce è difficile anche solo da immaginare. Prima, ai convegni, i genitori arrivavano con i loro piccoli allettati e attaccati al ventilatore oppure in carrozzina. I messaggi dei clinici erano promettenti: forse sarebbe arrivata presto una tal molecola che sembrava essere efficace. Poi, in pochi anni, «una rivoluzione». A parlare è Anita Pallara, presidente di Famiglie Sma dal 2020, associazione nata nel 2001 a Roma da un gruppo di genitori per sostenersi a vicenda e raccogliere fondi a favore della ricerca di una cura per l’atrofia muscolare spinale (Sma). Per Famiglie Sma, che è diventata presto un punto di riferimento nazionale per familiari e per clinici, la priorità iniziale è stata

quella di creare una rete di medici formati che potesse garantire la presa in carico dei piccoli pazienti; quindi, quella di fornire loro gli ausili necessari per respirare, muoversi, comunicare. In seguito, il lavoro associativo è stato finalizzato all’approvazione prima e all’accessibilità delle terapie. Oggi, un’altra battaglia si è aggiunta: lo screening neonatale, perché quei farmaci potenti sono efficaci nel garantire lo sviluppo del bambino solo se assunti tempestivamente.

Grazie a tali farmaci che hanno cambiato la storia della malattia, oggi ai convegni i bambini arrivano con le proprie gambe, corrono e salgono da soli sulle sedie. Pallara ripercorre in poche frasi anni di impegno e attività: «In questo nuovo scenario, Famiglie Sma ha riorientato il proprio lavoro associativo, che è passato dall’approvazione della terapia e dalla sua accessibilità nel nostro Paese all’estensione dello screening genetico neonatale universale per una diagnosi tempestiva». Le nuove strategie terapeutiche impongono di effettuare una diagnosi precoce, per poter iniziare il trattamento il prima possibile. Infatti, la terapia genica è efficace nel consentire al bambino con diagnosi di Sma uno sviluppo neuromotorio del tutto confrontabile a quello dei bambini senza una diagnosi, ma solo se è assunta tempestivamente e prima della comparsa dei sintomi irreversibili.

La Sma è una patologia neuromuscolare rara e grave, caratterizzata dalla progressiva perdita delle capacità motorie. È la prima causa di morte genetica infantile, che si verifica quando risulta mancante o difettosa la versione di un gene necessario alla

La neurodegenerazione inizia prima della nascita e avanza rapidamente.

È irreversibile. Il tempismo degli interventi è decisivo

produzione di una proteina essenziale, nota come proteina di sopravvivenza dei motoneuroni (Smn). I motoneuroni sono cellule che trasportano i segnali dal sistema nervoso centrale ai muscoli. La loro neurodegenerazione inizia prima della nascita e si intensifica rapidamente, facendo perdere le capacità motorie, rendendo progressivamente difficili gesti quotidiani come sedersi, stare in piedi e, nei casi più gravi, deglutire e respirare, senza che il processo non possa essere invertito. Per questa ragione, il tempismo degli interventi è tutto. In Italia, nascono ogni anno circa 40-50 bambini con questa patologia, la cui gravità varia attraverso uno spettro di forme. La Sma 1 è molto grave perché, se non viene trattata, porta alla morte o alla necessità di ventilazione permanente entro i due anni di età in oltre il 90% dei casi. Con la Sma 2, dove i sintomi che compaiono tra i 6 e i 18 mesi di età, il bambino non camminerà mai, potrà andare incontro a scoliosi ingravescente e insufficienza respiratoria e nel 30% dei casi morirà entro i 25 anni. L’accesso alla terapia genica, inizialmente consentito ai bambini con Sma tipo 1, è stato di recente allargato anche agli Sma tipo 2.

La rivoluzione terapeutica di cui parla Pallara è stata piuttosto rapida, con l’approvazione in pochi anni di ben tre farmaci

innovativi, in grado di cambiare la storia naturale della malattia. Il primo è stato nusinersen (Spinraza), arrivato negli Stati Uniti nel 2016 e l’anno seguente in Europa. Il farmaco, che appartiene alla categoria degli oligonucleotidi antisenso, è capace di modulare la produzione della proteina salva motoneuroni da parte del gene Smn2, una delle due forme del gene Smn. A Spinraza fa seguito, nel 2022, un altro farmaco della stessa classe, il Risdiplam, a somministrazione orale. Nel marzo 2021, nel frattempo, era stato approvato un farmaco di terapia genica, Zolgensma, basato su un vettore virale adeno-associato che agisce sulla causa genetica della malattia e fornisce una copia completamente funzionante del gene umano Smn. Per questo, è sufficiente un’unica somministrazione.

I farmaci, tuttavia, bloccano la malattia allo stadio in cui si trova. Solo un’assunzione tempestiva consente, nonostante i difetti genici tipici della malattia, il raggiungimento delle importanti tappe motorie dello sviluppo, come il controllo della testa, la posizione seduta, il gattonamento e il cammino. «Questo significa che i bambini cui è stata diagnosticata la malattia alla nascita, potranno assumere il farmaco e cresceranno e diventeranno adulti in maniera assolutamente normale» spiega Pallara. «Siamo riusciti ad ottenere lo screening neonatale in alcune Regioni, ma è inaccettabile che il luogo di residenza faccia la differenza nel destino di questi bambini. Di fronte alle rivoluzioni terapeutiche che stiamo vivendo, riusciamo a

percepire l’efficacia dei nostri sforzi, di quelli della comunità scientifica e delle aziende farmaceutiche. Al contempo, grazie a questi epocali cambiamenti, mutano le aspettative e i bisogni dei pazienti. È questo un capitolo tutto da scrivere, ma la Sma esiste ancora: è, quindi, fondamentale la diagnosi precoce perché oggi abbiamo la possibilità di cambiare radicalmente la vita delle persone ma bisogna arrivare in tempo. La mancanza di uno screening neonatale esteso in tutta Italia crea dei bambini di serie A e bambini di serie B a seconda della regione di nascita. Questo è inaccettabile. Pensiamo al dramma di chi sa dell’esistenza del farmaco ma arriva alla diagnosi quando ormai è tardi. Tutto il sistema che ruota intorno alla Sma deve mobilitarsi per questo».

La comunità dei pazienti Sma e delle loro famiglie si stanno battendo per questo. Gli screening consistono in un piccolo prelievo di sangue eseguito al neonato nei primi giorni di vita proprio per diagnosticare alcune malattie. Si tratta di test obbligatori dal 2016, quando la Legge 167/2016 li ha inseriti nei Lea. Sono attualmente 49 le patologie sottoposte a Screening neonatale esteso e nel 2021 il gruppo di lavoro sullo screening neonatale esteso, nominato dal ministero, ha dato parere positivo all’introduzione della Sma in quegli esami. Il Parlamento ha anche stanziato fondi per finanziare l’estensione. «Una situazione drammatica» sottolinea la presidente di Famiglie Sma. «Non ci possono volere anni, come è stato, per firmare un decreto previsto dalla legge e che serve a salvare vite».

Il dicembre scorso, 65 realtà, tra associazioni e federazioni, tra cui Famiglie Sma, hanno inviato una lettera-appello alla Presidente del Consiglio, al ministro della Salute Orazio Schillaci e al sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato, in cui si legge: «Se alcuni bimbi nascono senza avere le stesse opportunità degli altri non è certo colpa di chi, seguendo i progressi della scienza, è andato avanti, ma della mancanza del decreto ministeriale di aggiornamento del panel, tantissime volte sollecitato, a diversi Governi, e anche a questo. Ed è inaccettabile che strumenti terapeutici già in uso e in grado di salvare delle vite non siano ancora accessibili a tutti e ovunque, a causa di ritardi burocratici od organizzativi». Meno di un mese dopo, il gennaio scorso è stato firmato il decreto che estende a livello nazionale gli screening neonatali per la Sma, ora il testo dovrà passare alle commissioni Parlamentari. «Mi viene il dubbio che la sacralità della vita sia una lucina di Natale a intermittenza che si accende e si spegne in base al credo politico, all’appartenenza regionale e alla vicinanza a certe vicende» aveva detto Pallara, commentando la tragica vicenda di Ettore, morto a 35 giorni di vita nel novembre scorso per una Sma 1 non diagnosticata e, quindi, non trattata in tempo perché nato in Veneto dove non c’era screening

È inaccettabile che terapie salvavita già in uso non siano ancora accessibili a tutti e ovunque, per ritardi burocratici od organizzativi

neonatale esteso, attivo solo dal primo gennaio 2024. Infatti, in linea con l’autonomia delle regioni in ambito di sanità, i territori si sono organizzati negli ultimi anni per l’inclusione della Sma attraverso progetti pilota. Sono attualmente 13 le Regioni in cui si esegue: Abruzzo, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Liguria, Puglia, Piemonte e Valle D’Aosta, Trentino, Toscana, Veneto, Sicilia. Tre Regioni sono in partenza: Basilicata, Marche e Sardegna. Non risultano invece attualmente attive, né in partenza, iniziative per lo screening della Sma in Calabria, Emilia – Romagna, Molise e Umbria.

Famiglie Sma

Famiglie Sma è un’associazione che raduna affetti e genitori di affetti da Atrofia Muscolare Spinale, familiari e simpatizzanti. Nata nel 2001, dalla tenacia di un papà, da anni in prima linea per combattere l’Atrofia Muscolare Spinale, malattia genetica rara, è cresciuta sino a diventare un punto di riferimento per medici e ricercatori scientifici e per tutte le famiglie di bambini e adulti con Sma. Collabora con alcuni dei più prestigiosi centri clinici e di ricerca del nostro Paese, ha sviluppato un importante circuito di relazioni con le maggiori associazioni di malattie neuromuscolari in Italia e fa parte, inoltre, di importanti reti nazionali e internazionali: è affiliata all’associazione di pazienti statunitense CureSma, leader mondiale nel supporto alla ricerca sulla Sma; è co-fondatrice insieme ad associazioni di pazienti Sma di altri paesi, tra cui Usa, Canada, Germania, Regno Unito e Francia, dell’International Alliance for Sma Iasma.

Numero Verde Stella, numero gratuito dedicato alle persone con malattie neuromuscolari, a tutti i loro famigliari, agli operatori socio assistenziali e scolastici: 800.58.97.38 www.famigliesma.org - Email: stella@famigliesma.org segreteria@famigliesma.org - Tel. 345 2599975

4. Test genomici per le donne

Le associazioni, che si sono battute per l’approvazione di un fondo per il rimborso dei test genomici, ora puntano al loro inserimento nei Livelli essenziali di assistenza. Si tratta di analisi necessarie all’individuazione delle terapie oncologiche più appropriate, ma ancora non vengono assicurate a tutte le donne che ne avrebbero diritto

Le donne per le donne malate: sorellanza ad alto impatto

Itest genomici per stabilire il rischio di recidiva di certi tumori al seno sono ancora poco utilizzati. Sono test che consentono di valutare l’opportunità di evitare la chemioterapia, indicando le donne che non ne trarrebbero alcun vantaggio, con un notevole risparmio di inutili sofferenze date da cure aggressive e invalidanti. Eppure, in alcune Regioni del Sud, le donne che ne hanno beneficiato non superano l’1% o il 2% delle aventi diritto, secondo i dati più recenti.

Molte sono le criticità all’origine di questa situazione che è un vero e proprio diritto negato, come evidenzia Europa Donna Italia, rete di oltre 190 associazioni di volontariato per le pazienti con tumore al seno, fautrice di una lunga battaglia, fatta

di tavoli di lavoro, mappature dei vari centri senologici, iniziative verso i luoghi di cura, verso le pazienti e verso le istituzioni e le amministrazioni locali, proprio per l’utilizzo dei test genomici e, oggi, per il loro inserimento nei Livelli essenziali di assistenza Lea, che introdurrebbe un certo automatismo e garantirebbe una certa equità di accesso. «Serve uno stanziamento strutturale, per abbattere le diseguaglianze. È basilare, infatti, che in caso di tumore al seno, tutte le donne siano a conoscenza della possibilità dei test e che chi ha le caratteristiche stabilite nel decreto ministeriale possa usufruirne, cosa che purtroppo ad oggi non accade» dice Rosanna D’Antona, dal 2010 presidentessa di Europa Donna Italia, che ricorda il grande lavoro di messa in rete dei territori. «La sanità è regionale ma le nostre istanze riguardano tutte le donne: il radicamento nei territori è quindi fondamentale per conoscere le problematiche su cui intervenire ma anche per poter agire unite. L’autorevolezza del Terzo settore presso istituzioni e società scientifiche è ormai indiscussa e tutti ci vogliono al loro fianco».

L’esecuzione dei test, per alcune forme di tumore al seno, è un diritto: sono, infatti, erogati in regime di rimborsabilità. Oggi la rimborsabilità è prevista per tutte le donne con un tumore del seno in stadio precoce e positivo ai recettori per l’estrogeno (Er+), quindi responsivo alle terapie ormonali e negativo per Her2, sulla base di robuste evidenze relative alla possibilità, in alcuni casi, di evitare la chemioterapia dopo l’intervento chirurgico, risparmiano così inutili tossicità alle pazienti e inutili

spese al Sistema sanitario nazionale. Con decreto ministeriale, nel 2021 è stato stanziato un fondo di 20mila euro, sulla base della stima che in Italia 13mila donne potrebbero averne bisogno. È questo un traguardo della costante battaglia e straordinaria mobilitazione femminile. Dopotutto, l’attivismo in tema di salute e malattia nasce proprio con il movimento delle donne con tumore al seno negli Stati Uniti, dove insieme a quello degli omosessuali per l’Aids dà il via a forme di organizzazioni che si basano su una condizione di salute condivisa.

Il 22 marzo di quest’anno è stata una data importante. Europa Donna Italia ha celebrato i suoi 30 anni di attività al fianco delle donne con tumore al seno. «La nostra forza è data dalla rappresentatività di un movimento corale e delle associazioni territoriali, frutto di un lavoro teso a coagulare forze diverse, un lavoro di condivisione tra una miriade di associazioni che operano nel proprio territorio di competenza» dice Loredana Pau, vicepresidente di Europa Donna Italia e responsabile del coordinamento della rete associativa, capillarmente presente ovunque nel paese. «Rendere ogni realtà rappresentativa, al di là del proprio orticello e al di là dei personalismi, è la leva vincente per essere ascoltate». Fare massa critica è necessario ma non sufficiente, ci vuole una strategia efficace ed efficiente: «Avere la forza di andare oltre le dinamiche di carattere politico e amicale, inevitabilmente presenti nell’associazionismo, significa aver fatto un lavoro di tipo diverso, essere partiti dal

Gli obiettivi sono due: la difesa del diritto delle donne alla prevenzione e quella del diritto delle pazienti a essere curate nei centri adeguati

basso ed essersi concentrati sugli obiettivi fondamentali. Che per noi sono due: la difesa del diritto delle donne alla prevenzione per la diagnosi precoce e la difesa del diritto delle pazienti a essere curate nei centri adeguati. A prescindere dal codice di avviamento postale di residenza». Ecco che «portando avanti le istanze non del singolo o di un numero ristretto di persone e avendo una grande rappresentatività, di fronte a delle iniziative di coinvolgimento istituzionale, non tutti possono permettersi di bypassare il contributo di Europa Donna Italia». Che è capace di far convergere le energie di molti e aggregare tante realtà diverse, non solo delle sue proprie associazioni. Un esempio è stato, nel 2021, la campagna social Chemio se posso la evito e raccolta firme di Europa Donna per la rimborsabilità dei test genomici in tutte le regioni, che ha avuto un enorme successo e l’adesione di società scientifiche e associazioni, tra cui l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom), la Società Italiana di Anatomia Patologica e di Citopatologia Diagnostica (Siapec), Cittadinanzattiva, Eurama, Fondazione Insieme Contro il Cancro, Lilt, Fondazione The Bridge, Komen e Senonetwork.

Dopodiché, la mobilitazione delle donne è fatta di tante storie personali, tasselli di vita di un mosaico complesso.

«L’associazionismo è una forma di democrazia non indifferente: la difesa dei diritti è un esercizio di democrazia, che parte dalle istanze dei singoli che, tutte insieme, costituiscono un fiume. Non metterle a sistema significa raccogliere un grido di dolore, che pur essendo una testimonianza importante da sola non crea azione strategica che cambi le cose» spiega Pau. «Invece, tramite un processo attivo di condivisione, le istanze, le azioni e i pensieri acquisiscono una struttura che punta a possibili soluzioni».

L’associazionismo è una forma di democrazia: la difesa dei diritti è un esercizio di democrazia, per mettere a sistema le istanze dei singoli

Ogni donna porta la sua individualità, le proprie competenze anche professionali e la sua esperienza di malattia, dal momento la maggioranza delle associazioni affiliate a Europa Donna sono presiedute da pazienti e da ex pazienti.

«Le donne decidono di elevare il proprio vissuto al servizio di una causa comune e fare squadra; è un cambio di paradigma, dal grande valore anche culturale» riflette Pau. «Certo, non è semplice. Ma, in un certo senso, è qualcosa di catartico, perché aiuta a dare un senso a qualcosa che non ne ha, come il tumore».

Un test genomico analizza un campione di tumore e valuta il livello di attività di determinati geni che influiscono sulla probabilità di crescere e diffondersi e di rispondere alla chemio, dando quindi indicazioni sull’opportunità di ricorrere a questo

trattamento. I test sono inclusi nelle linee guida internazionali, supportati da evidenze robuste ottenute con studi prospettici dai lunghi follow up. A disposizione ve ne sono di tipi diversi per capacità prognostica e predittiva in merito al beneficio ottenuto dalla chemioterapia.

Quali sono le ragioni alla base della mancata realizzazione di un diritto? Questioni principalmente burocratiche, criticità legate all’implementazione regionale della legge e al rispetto delle tempistiche mediche, che nella prima fase di rodaggio potevano portare a iniziare la terapia sulla base dei soli risultati dell’esame istologico. In alcuni casi, tra le cause del sottoutilizzo c’è anche la scarsa preparazione dei clinici. «Ignoranza e burocrazia non possono ostacolare il godimento di un diritto. Oltre a monitorare i servizi dei vari centri senologici, in un’ottica di implementazione delle Breast Unit, quando una nostra sentinella sul territorio ci segnala la mancata esecuzione dei test o un loro sottoutilizzo, interveniamo per collaborare con clinici, amministrazioni ospedaliere e istituzioni regionali all’individuazione degli ostacoli che impediscono il raggiungimento dell’obiettivo e ci mettiamo a disposizione per la loro risoluzione» spiega Rosanna D’Antona, che ribadisce «l’inserimento dei test genomici nei Lea sarebbe un passaggio cruciale. Risolverebbe anche un altro aspetto attualmente problematico: il rimborso extraregionale per le pazienti che migrano per farsi curare». Europa Donna non si ferma. Oltre all’inserimento nei Lea dei test genomici,

prosegue la grande battaglia degli screening mammografici: «Ci sono 12 milioni di donne di età compresa tra i 45 e i 75 anni nel nostro Paese: solo la metà di loro vi aderisce e permangono forti disomogeneità territoriali. Tutto questo non solo ha delle ricadute di salute, dal momento che la malattia intercettata tempestivamente ha percentuali alte di guarigione, ma in termini di costi per il servizio sanitario».

Europa Donna Italia

È la sede italiana di Europa Donna Breast Cancer Coalition, movimento di respiro internazionale che rappresenta presso le istituzioni pubbliche i diritti delle donne alla prevenzione e alla cura del tumore al seno. Fondata nel 1994 a Milano su intuizione dell’oncologo Umberto Veronesi e per iniziativa della European School of Oncology, Europa

Donna è oggi presente in 47 Paesi.

Europa Donna Italia oggi unisce una rete di 190 associazioni su tutto il territorio. In questi trent’anni le sue campagne hanno dato voce alle donne, contribuendo a cambiare profondamente la storia della malattia e il livello delle cure. Tre i principali ambiti in cui opera: sensibilizzazione sul tumore al seno; prevenzione, per migliorare in ogni regione l’adesione delle donne ai programmi di screening mammografico; cura, per promuovere l’istituzione e il monitoraggio della rete nazionale dei centri multidisciplinari di senologia Breast Unit con un’attenzione speciale ai diritti delle pazienti metastatiche.Tra le sue attività, Europa

Donna Italia si è distinta per l’impegno sull’approvazione di un fondo nazionale per l’erogazione gratuita dei test genomici, e per la loro introduzione nei percorsi di diagnosi e cura delle pazienti.

www.europadonna.it

Email: segreteria@europadonna.it Tel. 02.36709790

5. L’oblio oncologico è legge

Un successo collettivo, una norma che sancisce il diritto delle persone guarite di non fornire informazioni né subire indagini in merito alla propria pregressa condizione patologica. Un provvedimento che protegge dalle discriminazioni, la cui portata innovativa prima che giuridica è culturale perché sancisce il principio che di cancro si può guarire

Così un diritto è nato grazie alla mobilitazione delle associazioni

Dai tumori si può guarire e, grazie agli avanzamenti della ricerca biomedica e alle diagnosi precoci, lo si fa con sempre maggior successo. Sono oltre 3,6

milioni gli italiani vivi dopo una diagnosi di tumore sulla via della guarigione; di questi, circa un milione può considerarsi guarito. Queste persone, se obbligate a dichiarare la propria malattia pregressa, sono a grande rischio di discriminazione nella vita sociale, professionale e familiare. Per tutelarle da questo rischio, esiste oggi la legge del 7 dicembre 2023 n. 193, titolata Disposizioni per la prevenzione delle discriminazioni e la tutela dei diritti delle persone che sono state affette da malattie oncologiche, chiamata legge sull’oblio oncologico, considerata da tutti un

indubbio grande successo dell’associazionismo. Entrata in vigore il 2 gennaio 2024 dopo un iter relativamente breve, stabilisce il diritto di non fornire informazioni e di non subire indagini in merito a una pregressa patologia oncologica a 10 anni dal termine dei trattamenti in assenza di recidiva di malattia in questo periodo. Tale limite scende a cinque anni quando la diagnosi è antecedente ai 21 anni. Questo traguardo è stato raggiunto grazie ad anni di battaglie del volontariato oncologico, affiancato poi dalle società scientifiche e dalle istituzioni.

Di cancro si può guarire. «È una legge che sancisce un diritto importante ma la cui portata innovativa prima che giuridica è culturale perché, normandolo, sancisce nero su bianco il fatto che di cancro si può guarire, concetto non ancora del tutto entrato nel sentire comune» sottolinea Elisabetta Iannelli avvocato e segretario generale della Federazione delle associazioni per i malati oncologici Favo, costituita da oltre 500 associazioni di volontariato, 25mila volontari e 700mila iscritti, e vicepresidente dell’Associazione italiana malati di cancro (Aimac), nata nel 1997 con lo scopo di fornire informazioni ai malati di cancro e ai loro familiari attraverso una strategia multimediale.

Favo e Aimac hanno dato il via, due decenni fa, alla battaglia nata dalla necessità di evitare discriminazioni nell’accesso ai servizi bancari, finanziari e assicurativi, alle procedure concorsuali, al lavoro e alla formazione professionale. «È stata una battaglia di civiltà, che colpisce un anacronistico quanto

inaccettabile stigma che ancora affligge chi ha avuto una diagnosi oncologica, la quale ancora incute tanto terrore», dice Iannelli. Che una persona con la stessa probabilità statistica di morte e la stessa aspettanza di vita di un’altra di pari sesso e di pari età non debba dichiarare di aver avuto la malattia è una questione di equità sociale.

Tutto nasce dalle segnalazioni di difficoltà di accesso a mutui e assicurazioni per gli ex pazienti, forme di odiosa discriminazione

Una maratona con sprint finale. «Il percorso che ha portato a maturazione il progetto di legge sull’oblio oncologico nasce da molto lontano, quando le associazioni dei malati di cancro hanno cominciato a sollevare il problema. All’inizio degli anni 2000 dapprima con Aimac e poi con Favo in occasione di eventi e convegni sono state segnalate le difficoltà di accesso a mutui e assicurazio -

ni per gli ex pazienti oncologici che si tramutavano in forme di odiosa discriminazione, veri e propri ostacoli al ritorno alla vita dopo un tumore. La lettera scarlatta stampata sul corpo degli ex malati finiva per essere un ostacolo anche sul lavoro e per le adozioni di minori» si legge nel 16° Rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici del 2024. «La necessità di assicurare il diritto all’oblio dell’ex malato di cancro è stata sollevata per la prima volta in Italia da Favo, nel 2017 con particolare riferimento all’accesso alle polizze vita, appurando che per

una persona già affetta da una patologia oncologica era quasi impossibile stipulare un’assicurazione sulla vita».

Le discriminazioni hanno iniziato a emergere e accumularsi tramite le associazioni federate e tramite l’help-line di Aimac, dando il via alla battaglia per il riconoscimento di questo diritto ormai due decenni fa. «Sulla base delle segnalazioni sempre più frequenti, inizialmente relative soprattutto ai mutui e agli aspetti assicurativi, ma poi riguardanti anche la tutela sul lavoro e le adozioni, abbiamo individuato l’esistenza di un problema» racconta Iannelli, ricostruendo «le drammatiche difficoltà che emergevano, in particolare tra i giovani adulti».

Il progetto ha poi via via preso velocità, anche con l’aggregazione di altre forze, come quella della società scientifica Associazione italiana oncologia medica (Aiom), di Fondazione Aiom, di Fondazione Veronesi e della Rete oncologica pazienti Italia (Ropi). «Il cambio di passo è avvenuto non solo grazie al pressing normativo effettuato dalle associazioni ma anche in virtù degli avanzamenti nella ricerca biomedica» puntualizza Iannelli, ricordando la richiesta avanzata proprio da Favo che i dati epidemiologici del cancro comprendessero non solo il numero dei nuovi casi e dei decessi l’anno, ma includessero anche i lungosopravviventi e i guariti. «Sono state le evidenze emerse dai dati del Registro nazionale tumori a rendere ragione della nostra urgenza» dice Iannelli, i cui interventi come quello sulla rivista Iustitia potevano sembrare allora in anticipo sui

tempi, quando i dati di sopravvivenza rendevano un progetto di vita dopo la malattia oncologica difficilmente immaginabile. Un attento monitoraggio epidemiologico è, però, fondamentale. Si pensi al monitoraggio dei fattori di rischio di origine professionale per la tutela dei lavori e il loro risarcimento in caso di malattia. L’Associazione italiana registri tumori (Airtum) opera dal 1996, ma solo nel 2019 è stato istituito il Registro nazionale tumori, la Rete nazionale dei registri dei tumori e dei sistemi di sorveglianza dei sistemi sanitari regionali, che tuttavia ancora nel 2024 non copre tutto il territorio del Paese.

Una vita davanti. Le costanti discriminazioni in termini di accesso al lavoro, ai mutui bancari, alle polizze assicurative e alla richiesta di adozioni sono di grande ostacolo per la realizzazione dei propri progetti di vita soprattutto per chi ha avuto un cancro in età pediatrica, quando i tumori mediamente guariscono di più, e quelli che non lo fanno sono molto aggressivi. Ci sono molti lungosopravviventi che raggiungono l’età adulta. «Dalle segnalazioni ricevute, fin dall’inizio si andava delineando in particolare l’esigenza di poter condurre la propria vita, realizzando i propri progetti familiari e professionali, molti dei quali richiedono l’apertura di un mutuo e la stipula di un’assicurazione» spiega Iannelli «Questo riguardava in particolare i giovani che avevano superato la malattia, quindi con auspicabilmente molti anni davanti, e andavano messi nelle condizioni di realizzare il proprio progetto di vita». Non ha alcun senso che queste

persone paghino ad esempio un prezzo aggiuntivo sull’assicurazione perché devono dichiarare per legge la propria malattia pregressa da decenni.

Criteri per la guarigione. Si chiamano “sopravvissuti” gli ex pazienti che, dopo una diagnosi di cancro, hanno la stessa aspettativa di vita di coloro che non hanno dovuto mai affrontare una malattia oncologica. Il loro numero è in crescita e si stima siano oltre 3,6 milioni, con un aumento del 3% l’anno, coloro che stanno per arrivare senza malattia alla fatidica soglia dei dieci anni stabiliti dalla legge oltre la quale saranno considerati guariti. Dal momento che il rischio di recidiva diminuisce con il tempo (la maggior parte delle recidive, infatti, avviene nei primi anni dopo la diagnosi) e che tale riduzione dipende anche dal tipo di tumore, in alcuni casi che sono stabiliti dai decreti attuativi si può godere del diritto all’oblio oncologico anche in tempi inferiori ai dieci anni. Le tabelle sono state elaborate con gli epidemiologi e basate sui dati Airtum dei registri tumori italiani e andranno regolarmente, per tenere il passo con gli avanzamenti della medicina.

Sono oltre 3,6 milioni e in aumento coloro che stanno per arrivare senza recidiva alla fatidica soglia dei 10 anni stabiliti per legge

La campagna mediatica. Un appoggio nella comunicazione,

Alla campagna mediatica con Fondazione Aiom sul diritto all’oblio hanno aderito moltissime associazioni

proprio per spiegare a tutti i cittadini l’iniziativa e la sua importanza, è venuto da Fondazione Aiom con una massiccia campagna mediatica sul diritto all’oblio oncologico #iononsonoilmiotumore. Hanno aderito alla campagna moltissime associazioni: Incontra Donna, Associazione pazienti Italia melanoma (Apaim), aBrcadabra (associazione nazionale che rappresenta i diritti dei soggetti portatori della mutazione genetica Brca1 o Brca2), Alleanza contro il cancro, Associazione nazionale donne operate al seno (Andos), Lega italiana per la lotta contro i tumori (Lilt), Favo, Ail, Collegio italiano dei primari oncologi medici ospedalieri (Cipomo), Cittadinanzattiva, Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica (Aieop), Rete oncologica pazienti Italia (Ropi), Insieme contro il tumore ovarico (Loto).

Una soddisfazione in più. Il 28 febbraio 2022, è stato depositato in Senato il primo disegno di legge sul diritto all’oblio. Successivamente, nella nuova legislazione, sono stati ripresentati altri disegni di legge che hanno portato al testo unico. Con il 28 giugno è arrivata l’adozione del testo unificato della legge sull’oblio oncologico in commissione Affari sociali e salute. «Con la presentazione dei primi progetti di legge, nella vecchia e nella

nuova legislatura, c’è stata una notevole accelerazione» racconta Iannelli «La spinta finale è venuta da parte di tutte le forze dell’arco costituzionale, tutti gli schieramenti hanno garantito piena adesione e un concreto supporto e l’approvazione della legge è avvenuta all’unanimità. Questo per noi è stato un ulteriore motivo di grande orgoglio».

Una questione europea. In quali Paesi l’oblio oncologico è già legge? Francia, Lussemburgo, Olanda, Belgio e Portogallo, Spagna e Romania sono Stati che hanno emanato leggi per garantire agli ex pazienti il diritto a non dichiarare informazioni sulla propria malattia. La Francia è stata la prima: nel gennaio 2016 viene introdotta nell’ordinamento transalpino in materia di sanità pubblica una nuova norma che rafforza la tutela dei diritti dei pazienti oncologici. Anche Oltralpe, una griglia di riferimento stabilisce l’elenco delle patologie che non presentano un eccesso di rischio rispetto alla popolazione generale; esiste dal 2016 e viene regolarmente aggiornata con gli avanzamenti terapeutici.

Le associazioni di pazienti hanno agito anche a livello europeo, facendosi sentire anche al congresso di oncologia medica (Esmo) e presso le istituzioni comunitarie. Proprio grazie alle loro pressioni ma anche per via delle ultime proiezioni secondo cui l’Europa conta circa 20 milioni di sopravvissuti al cancro con un incremento del 45% dal 2010 al 2020, la questione del diritto all’oblio ha catturato l’attenzione dei policy maker europei,

intenzionati a promuovere soluzioni politiche e giuridiche che tengano conto della necessità di porre fine alla discriminazione contro i sopravvissuti al cancro. Nel “Piano europeo di lotta contro il cancro” del 2021 tra gli obiettivi da raggiungere figura la tutela del diritto all’oblio oncologico, anche definito Right to be forgotten. Nel 2022, il Parlamento europeo, con risoluzione del 16 febbraio, ha chiesto a tutti gli Stati membri di garantire entro il 2025, attraverso la propria legislazione nazionale, il diritto all’oblio oncologico ai “sopravvissuti al cancro”, per evitare discriminazioni. Se ne continua a parlare, tanto che all’ultimo Esmo dell’ottobre scorso, è stato diffuso un comunicato nel quale si fa appello a tutti gli stati membri ad adottare la nuova Consumer Credit Directive, direttiva europea sul credito al consumo, per garantire un livello più elevato di protezione dei consumatori nella concessione dei crediti al consumo (approvata il 18 ottobre 2023), che all’art.14 recita: «Gli Stati membri dispongono che i dati personali relativi alla diagnosi di malattie oncologiche dei consumatori non siano utilizzati ai fini di una polizza assicurativa collegata a un contratto di credito dopo un periodo di tempo stabilito dagli Stati membri, non superiore a 15 anni dalla fine delle cure mediche dei consumatori».

L’appello proveniente da Esmo denuncia come la maggior parte dei sopravvissuti al cancro si trovi ancora attualmente ad affrontare numerose forme di discriminazione, tra cui «l’impossibilità di adottare un bambino, barriere nel mercato del lavoro e,

Non si tratta di un privilegio per alcuni, ma di un apripista per molti: questa innovazione potrà essere estesa ad altre patologie guaribili

in effetti, premi più alti o il rifiuto di accesso al credito, ai prodotti bancari e/o a qualsiasi servizio assicurativo». I prossimi passi. Per completare l’iter attuativo della legge saranno necessari altri passaggi, manca infatti un decreto relativo all’emissione del certificato di guarigione, per il quale la norma prevede anche il coinvolgimento delle organizzazioni di pazienti oncologici iscritte nella sezione Reti associative del Registro unico nazionale del Terzo settore, e due deliberazioni del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio e dell’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni. «Non si tratta di un privilegio per alcuni, ma di apripista per molti: questa innovazione potrà essere estesa ad altre patologie, gravi ma che possono guarire» conclude Iannelli. Il pensiero va a precedenti innovazioni normative ottenute dalla Favo per i soli malati oncologici e poi estese ad altre patologie, come è stato «per il diritto di chiedere e di ottenere il part-time mantenendo il posto fino a quando la salute non consentirà al lavoratore di tornare a tempo e retribuzione pieni». Per quanto riguarda il tema del lavoro e delle politiche attive, dovranno riguardare non solo i guariti ma i cronici e qui si amplia la platea del diritto all’oblio.

La possibilità di guarigione, stabilità dal diritto all’oblio,

costituisce un cambio radicale di paradigma culturale, da «cancro male incurabile» a «cancro unica patologia cronica da cui si può guarire». Ciò è destinato a condizionare molti aspetti. A partire delle ricadute pratiche nella ricerca, nell’organizzazione e nella sorveglianza, ad esempio con la riduzione di accertamenti inutili, la definizione di protocolli di sorveglianza su effetti collaterali a lungo termine, gli effetti tardivi delle terapie e le seconde neoplasie e la prevenzione, diagnosi e trattamento delle comorbidità.

La tutela dei diritti dei malati oncologici, cui Aimac ha dedicato una pubblicazione, dovrà concentrarsi sulla cronicità oncologica, quel numero crescente di persone che pur non essendo definibili guariti con la malattia convivono per degli anni e magari devono solo sottoporsi a dei follow up molto distanziati nel tempo.

Stabilire che cancro non è sinonimo di morte e che si può avere un’aspettativa di vita simile a quella di chi il cancro non l’ha mai avuto ha una forza dirompente su chi convive con la malattia e chi la malattia l’ha superata, persone su cui pesa l’incertezza sul futuro. Infine, andrà potenziata la diffusione in questa fascia di popolazione dei corretti stili di vita raccomandati da tutte le agenzie di salute. Bisogna pensare al reinserimento al lavoro dei guariti, ma anche fare cultura, adottare una diversa comunicazione, battersi per i diritti dei cronici e di chi necessita di cure palliative e di assistenza domiciliare.

Favo

Nasce nel 2003 come “associazione delle associazioni” di volontariato a servizio dei malati di cancro e delle loro famiglie e mira a creare sinergie fra le associazioni di volontariato e assicurare una rappresentanza istituzionale per il riconoscimento di nuovi bisogni e di nuovi diritti. Costituita da oltre 500 associazioni di volontariato, 25.000 volontari e 700.000 iscritti (sono elencate qui), assicura una rappresentanza unitaria delle esigenze dei malati nei confronti delle istituzioni. Nel 2009 Favo ha istituito l’Osservatorio sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, cui nel tempo hanno formalmente aderito: il sistema delle Associazioni del volontariato oncologico, attraverso la Favo, il Centro Nazionale delle Ricerche (Cnr), l’Associazione italiana degli oncologi medici (Aiom), l’Associazione italiana di radioterapia oncologica (Airo), la Società Italiana di Ematologia (Sie), Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (Int), Federsanità-Anci, la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (Fimmg), la Società Italiana di Psico Oncologia (Sipo), la Società Italiana di Chirurgia Oncologica (Sico), l’Associazione Italiana Registri Tumori (Airtum), la Fondazione per la Medicina Personalizzata, il Coordinamento Generale Medico-Legale dell’Inps, la Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere (Fiaso) e la Direzione generale del Sistema informativo del Ministero della Salute.

www.favo.it

Aimac

L’Associazione Italiana Malati di Cancro, parenti e amici Aimac nasce nel 1997 con lo scopo di fornire informazioni ai malati di cancro e ai loro familiari attraverso una strategia multimediale. È un’associazione di volontariato attivo cui aderiscono malati, parenti di malati, docenti universitari, ricercatori, medici, psicologi, psicoterapeuti, imprenditori, giornalisti. Nella battaglia contro il cancro obiettivo primario è proprio l’informazione: sapere vuol dire poter combattere perché oggi di cancro si può guarire.

www.aimac.it

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