E noi come vivremo?

Page 1


Giada Lonati

Giuseppe Milanese

Anna Mondino

Francesca Pasinelli

Mario Calabresi

Rosy Russo

Maria Laura Conte

Anna Granata

Cleophas Adrien Dioma

Angelo Moretti

Stefano Barrese

Laura Orestano

Giovanni Azzone

Giulio Salvadori

Lisa Noja

Maria Chiara Roti

Paolo Bonassi

Daniele Novara

Roberta Vincini

Rachele Furfaro

Mario Cucinella

Alessandro Maggioni

Carlo Cerami

Guido Bardelli

Barbara Nappini

Marco Lucchini

Luisanna Messeri

Maura Gancitano

Stefano Granata

Chiara Violini

Silvano Petrosino

Anna Detheridge

Paolo Venturi

Franco Arminio

Una domanda che ha sfidato tanti protagonisti della vita civile del nostro Paese che si sono ritrovati in occasione dei 30 anni di Vita. Questo numero nasce da quell’incontro, diventato un vero e proprio think tank sul futuro

Numero speciale con gli interventi di

CRISI DELLA PARTECIPAZIONE?

ATTENZIONE AGLI ABBAGLI

Cinquant’anni fa, il primo febbraio 1975, Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera pubblicava “Il vuoto del potere”, un pezzo passato alla storia con un altro titolo: “L’articolo delle lucciole” (come venne ribattezzato sul volume Scritti Corsari, pubblicato lo stesso anno). Si tratta di rappresentazione magistrale del passaggio da un’epoca (quella di una società ancorata a un conservatorismo paleocaopitalista, talvolta reazionario, a trazione democristiana) verso una fase inedita di un capitalismo nuovo che doveva fare i conti con il movimento operaio e le sue rappresentanze. Un processo che stava avvenendo senza che la classe dirigente ne avesse contezza e ne capisse le dinamiche. La scomparsa delle lucciole coincide quindi con un mutamento radicale. Il vuoto del potere, cui il titolo originale dell’articolo si riferisce rimanda appunto alla completa inconsapevolezza del regime politico dominante di un tale cambiamento e quindi alla completa incomprensione del Paese e della società.

Oggi quella divaricazione fra processi sociali e capacità di governo risulta forse ancora più clamorosa di allora, amplificata dai nuovi strumenti di comunicazioni digitali.

Mai prima d’ora era emersa una distanza tanto larga fra il desiderio di una dimensione collettiva autentica e l’individualizzazione forzata delle nostre vite di consumatori. I dati sulla partecipazione elettorale sono lì a dimostrarlo: in Emilia Romagna, una delle regioni con tassi di civismo più elevati in Italia, ha partecipato al voto il 45% degli aventi diritto. Il 55% ha considerato ininfluente esprimere una scelta. Percentuale che sale al 70% fra chi ritiene di vivere una condizione economica di difficoltà. Elezione dopo elezione, la partecipazione elettorale è in picchiata. E la cosa non sembra preoccupare i politici. Torneremo alle democrazie dell’Ottocento fondate sul censo e la ricchezza che funzionavano sulla base di poche migliaia di persone? Non sarà così.

Dentro il vuoto di potere del Pasolini di 50 anni fa si sta aprendo un varco una gene -

razione di cittadini attivi che sta ritessendo reti di identità collettive solide e generative, capaci di interpretare l’interesse generale a partire dalla propria comunità. I soggetti impegnati sono tanti. E soprattutto sono in crescita. Lo dimostra, per esempio, il boom delle adesioni ai circoli Arci. E lo racconta il decimo rapporto Iref-Acli sull’associazionismo sociale dato alle stampe poche settimane fa. Sostengono i curatori (Cristiano Caltabiano, Tommaso Vitale e Gianfranco Zucca) sulla base anche di un’analisi sul campo condotta in quattro grandi città, Milano, Firenze, Roma e Napoli: «In Italia, la partecipazione associativa appare in diminuzione, e anche la partecipazione multi-associativa è ridotta. Tuttavia, il fenomeno non indica una crisi dell’impegno, ma una sua trasformazione. Molte associazioni si concentrano ora sulla coproduzione, rendendo i beneficiari protagonisti consapevoli e attivi. L’associazionismo è così una scuola di formazione civica, creando spazi di partecipazione anche per le classi popolari che trovano così modo di confrontarsi e impegnarsi per la cosa pubblica». E di seguito: «L’impegno associativo risulta sempre più orientato verso il riconoscimento reciproco: gli attivisti, infatti, non cercano solo di incidere sulle politiche, ma considerano prioritario il giudizio e il feedback della comunità in cui operano. Empiricamente l’indagine conferma l’ipotesi che aveva fatto Filippo Barbera in Piazze Vuote di una “reciprocità dissonante”, in cui i volontari dedicano tempo e risorse per costruire un rapporto paritario con le per-

Sta emergendo una generazione di cittadini attivi che sta ritessendo reti di identità collettive solide e generative.
Una generazione che va riconosciuta e raccontata

sone che aggregano, valorizzandone il ruolo e incoraggiando la partecipazione attiva. In questo modo, il volontariato non è un’azione a senso unico ma sempre più una collaborazione». Nella scuola, nei centri di salute mentale, nelle reti dell’organizzazione dei lavoratori della cultura, affiorano dunque importantissimi segnali di rinnovo e cambiamento. L’associazionismo oggi in Italia rappresenta un potente contromovimento di demercificazione sociale. Un movimento che la società dei consumi con i suoi schemi comunicativi (il Natale è un successo, se i consumi voluttuari sono maggiori dell’anno precedente) non è in grado di leggere. Ci sono sempre più persone, spesso giovani, a cui non basta poter contare su un reddito per soddisfare i propri desideri materiali, ma cerca comunanza, riconoscimento, convivialità e persino partecipazione politica (che però difficilmente diventa partitica).

Simone Cerlini (uno dei contributors di vita.it), grande esperto del mercato del lavoro nota come in Italia stia nascendo «una nuova antropologia positiva, fondata sulla natura collaborativa di uomini e donne; una nuova economia, che valorizzi la missione verso il bene comune dell’impresa; una nuova idea di valore che supera

una mera quantificazione monetaria; una nuova idea di lavoro che ne mette in luce la funzione di risposta ai bisogni degli altri, che ne riconosce l’utilità al consorzio umano, come diceva Primo Levi; una nuova idea di fine collettivo, che promuove la lotta alle diseguaglianze e la tutela del pianeta. Infine, forse, finalmente, una nuova idea di comunità, talmente tanto vasta da abbracciare le generazioni future. Si intuiscono i primi vagiti di questa creatura nuova: da più parti nascono proposte per una fiscalità più giusta, che possa tassare i grandi patrimoni, che ripensi le tasse di successione e premi il lavoro sulle rendite. Si scorgono barbagli di una nuova sensibilità nelle nuove generazioni per l’attivismo civico e climatico, per la coerenza valoriale con le aziende presso cui si lavora, per un consumo sostenibile e per un fare impresa inclusivo. C’è un disperato bisogno di senso». Un attivismo che merita di essere riconosciuto e raccontato. Lo faremo anche sulla base delle sollecitazioni che ci arrivano da questo numero speciale che riprende i contenuti del trentennale di Vita, che vi invito a leggere nelle pagine che seguono, perché costituiscono un’ipotesi concreta di futuro migliore da costruire insieme.

La redazione di VITA augura alle lettrici e ai lettori

BUON NATALE E FELICE 2025

Il prossimo numero della rivista sarà in distribuzione da inizio febbraio Su vita.it continuano gli aggiornamenti quotidiani

RIPORTIAMOLIINCLASSE

Ogni numero di VITA magazine racconta una storia sempre attuale

Abbonati a VITA, da oggi potrai accedere a tutto l’archivio digitale*

Se hai già un abbonamento attivo vai nella tua area riservata per leggere gli ultimi 5 anni di VITA

*L’archivio digitale, 52 numeri, parte da gennaio 2020. L’accesso all’archivio è previsto solo per chi sottoscrive un abbonamento annuale o chi ne è già in possesso

Abbonati a VITA. Inquadra il QR CODE

IMPRESE e TERRITORI

Ti sosteniamo nel fare impresa, con prodotti e servizi dedicati. Cresce la tua azienda, cresce il nostro Paese. bancobpm.it

Messaggio pubblicitario con finalità promozionale. Per le condizioni contrattuali ed

Sharing

idee sulla weconomy

PREZZI DINAMICI, FREGATURA IN ARRIVO?

Da qualche anno ci siamo abituati ai prezzi variabili per aerei, treni e biglietti dei concerti. Il principio è semplice: all’aumentare della richiesta, un algoritmo fa aumentare il prezzo. Questo crea situazioni inedite: se in passato l’acquisto da parte di un cliente di un certo quantitativo di un prodotto o servizio consentiva di ottenere sconti, oggi invece comporta un prezzo unitario superiore.

Questo stesso meccanismo pare che possa diffondersi anche nei negozi e nei supermercati. Walmart ha annunciato che entro il 2026 introdurrà le etichette dei prezzi digitali in 2mila negozi. Gli schermi sono collegati attraverso tecnologia Bluetooth a dispositivi mobili, che permettono di modificare i prezzi anche in modo automatico.

Walmart ha giustificato questa innovazione sulla base di un criterio di efficienza e di sostenibilità ambientale. Hanno stimato che la sostituzione dei prezzi dei prodotti di un supermercato, che in passato poteva chiedere fino a una settimana di lavoro di un dipendente, ora può essere effettuata in pochi secondi, con un aggiornamento dell’inventario in tempo reale e una riduzione del 40% dei rifiuti cartacei. Inoltre, le etichette digitali dei prezzi possono includere un QR code con informazioni aggiuntive sul prodotto.

Al momento, Walmart non ha ancora introdotto i prezzi dinamici, ma Pbs News ha rilanciato le dichiarazioni delle associazioni dei consumatori, preoccupate che possa succedere a breve, anche perché negli Stati Uniti non ci sono limiti legali. Non negano che questo meccanismo potrebbe favorire gli sconti, per esempio legati alla data di scadenza dei prodotti, ma temono che venga utilizzato prevalentemente per aumentare i prezzi al crescere della domanda. I precedenti non mancano: negli anni 90 Coca Cola ha introdotto alcuni distributori automatici che variavano i prezzi del prodotto all’aumentare della temperatura; a seguito delle proteste, li hanno ritirati dal mercato. Chissà se anche in questo caso i consumatori avranno la forza di far sentire la loro voce.

Scuola futura

finestra con vista sulle aule di oggi e di domani

DA MANZI A SCHETTINI: IL SEGRETO DELL’INNOVAZIONE

Alla biblioteca del ministero della Cultura

è stata allestita una mostra dedicata al maestro Alberto Manzi, quello che negli anni 60 aveva dato vita a quella straordinaria trasmissione televisiva: Non è mai troppo tardi

Di recente Paolo Mazzoli, ex direttore generale dell’Invalsi, ma prima ancora direttore didattico e maestro, ha riproposto il “manifesto pedagogico” di Manzi. Un manifesto pedagogico di chi non ha mai scritto o voluto scrivere di pedagogia preferendo dedicarsi a quella che oggi viene chiamata “editoria parascolastica”: quaderni con esercizi, domande, proposte di lavoro, indovinelli logici e linguistici, pensieri su argomenti vari con cui provocava il lettore con domande, spesso bizzarre. Una scelta che va nella stessa direzione di tanti grandi educatori, insegnanti, “artigiani dell’educazione”, ciascuno impegnato ad “inventare” soluzioni, strumenti, metodi diversi per accendere l’interesse dei loro alunni e coinvolgerli nel percorso dell’apprendimento.

La trasmissione Non è mai troppo tardi, ha rappresentato in qualche modo anche la spallata finale alla lotta all’analfabetismo; una sfida che aveva caratterizzato ed impegnato per un secolo l’intero sistema scolastico. Dopo Manzi volta pagina e propone: Educare a pensare in 13 puntate rivolte ai docenti.

Mazzoli ci racconta che «Manzi presentò una serie di attività didattiche, svolte con gruppi di bambini di alcune scuole romane, compresi quelli del suo ultimo ciclo scolastico della scuola Fratelli Bandiera. Nelle ultime puntate di Educare a pensare Manzi comparve con alle spalle un grande cartellone riassuntivo, scritto a mano da lui stesso, con una sintesi dei diversi passaggi necessari per promuovere l’apprendimento». La sequenza prevede sei azioni didattiche:

Condizione preliminare: Creare una tensione cognitiva

Avvio: Cosa pensi su un determinato argomento

Ricerca: Fare…

Discussione: Discutere su…

Aderenza alla realtà: Verifica

Concettualizzazione: Formazione di un nuovo concetto

Nel suo testamento educativo ci sono frasi illuminanti che ogni insegnante dovrebbe sempre ricordare: «Non

si impara a parlare se non si parla», «bisogna far parlare senza intervenire» e «contestare l’uso della parola imparata ma non capita».

Infine, nell’ultima riga, Manzi ci propone una sintesi critica del “concetto”: «Il concetto non può essere presentato come si presenta l’oggetto; non può essere acquisito come si acquisisce una notizia. Ogni nuovo concetto aiuta a riordinare, pertanto a riesaminare ogni altro oggetto».

L’innovazione ha, in Italia, una bella storia, un patrimonio di esperienze che soprattutto nella scuola primaria dovremmo prima di tutto conoscere e poi saper interpretare. Una delle responsabilità che hanno i percorsi di formazione universitaria per i futuri docenti, è quella di non riuscire a trasmettere questo patrimonio ma di ridurlo ad una pagina di “storia della pedagogia”.

Il tema quindi è sempre lo stesso, cambiano magari tecnologie e linguaggi, ma se non coinvolgi i tuoi studenti in un percorso attivo di costruzione del sapere, tutto rischia di rimanere un “sapere insegnato” che ha poche possibilità di trasformarsi in competenza. Chi però è in grado di attivare questo interesse, ottiene anche oggi grande successo e seguito dagli studenti: il professor Vincenzo Schettini, con i suoi brevi video in rete e con la trasmissione televisiva La fisica dell’amore riesce a calamitare l’attenzione degli studenti su una materia che tradizionalmente rappresenta un vero e proprio ostacolo duro da superare. Un’attenzione che Manzi chiamerebbe una “ tensione cognitiva”.

M. PISCITELLI
Il professor Vincenzo Schettini

L’altra città

nuovi percorsi per periferie e dintorni

COSÌ IL GIOCO TIENE

ACCESI I BAMBINI

Tutti i giorni le cronache ci restituiscono l’immagine di una società rosa dall’ansia o meglio dalle ansie. Genitori in ansia per l’impossibilità di sapere e dunque controllare in che mondo vivono i propri figli, ciò che li rende apatici o distanti. Dal canto loro i ragazzi dalla generazione Z in poi (e cioè i giovani nati dopo il 1995) cresciuti nella rete, già cellulare dipendenti in età pre-adolescenziale, spesso accusano sintomi di malessere difficili da comprendere. I genitori pronti a dare la colpa a tutto ciò che non possono controllare comprese le istituzioni, in capo a tutte la scuola; i figli colti da crisi evolutive mal comprese, con un disagio che alla luce di oltre quindici anni di studi e ricerche, dimostra alcuni sintomi comuni a molti Paesi: depressione, dipendenza, solitudine, paura del confronto sociale e talvolta psicodinamiche di ritiro da una vita normale di relazione.

Le ansie si potrebbe azzardare sostituiscono i desideri. E se il desiderio rappresenta una promessa che si potrebbe realizzare attraverso la sfida con se stessi affrontando il rischio, il buttare il cuore oltre l’ostacolo, lo sfruttamento commerciale della nostra umana “natura desiderante” nel world wide web, diventa fonte di indicibili sofferenze in quanto il desiderio non viene mai appagato.

La generazione ansiosa è il titolo di un saggio di Jonathan Haidt appena pubblicato in italiano da Rizzoli. Riferito soprattutto alla generazione Z,

La sintonia dei giochi dei bambini e delle bambine, come saltare la corda, ripetere filastrocche, battere le mani sono una preparazione per il futuro. Giocare insieme genera senso di comunanza: una sorta di elettricità sociale

con il sottotitolo come i social hanno rovinato i nostri figli, il libro è un’approfondita analisi attraverso ricerche documentate non soltanto statistiche, ma anche sociologiche, psichiatriche, neurologiche. Haidt riferisce un improvviso aumento di episodi di depressione negli adolescenti a partire dagli anni 2010-15, periodo in cui si rileva un incremento di due volte e mezzo, mentre il tasso di atti autolesivi dei pre-adolescenti è quasi triplicato tra il 2010 e il 2020.

Si tratta di disturbi internalizzati, ansie legate soprattutto alle paure. Se la paura viene definita come la risposta emotiva a un’imminente minaccia reale o percepita, l’ansia è l’anticipazione di una minaccia futura. Tutti gli indizi portano a un cambiamento importante nella vita dei giovanissimi all’inizio degli anni 2010. L’arrivo degli smartphone introdotti nel 2007 ha cambiato la vita di tutti. Ma a osservare la

storia, le persone non cadono in depressione quando affrontano collettivamente un pericolo, la paura collettiva compatta le comunità; cadono in depressione, secondo Haidt, quando si sentono isolate o impotenti.

Tra i problemi principali che Haidt individua e mette in relazione con l’iperconsumo di internet da parte dei bambini e degli adolescenti, è che i bambini non giocano più in modo sintonizzato. Gli esseri umani sono configurati per connettersi sincronizzando i movimenti e le emozioni con gli altri. La sintonia dei giochi dei bambini e delle bambine, come saltare la corda, ripetere filastrocche, battere le mani sono una preparazione per il futuro. In ogni società i rituali in cui tutti si muovono insieme servono a rinnovare la fiducia e ripristinare le relazioni sociali. Emile Durkheim parla di elettricità sociale generata da rituali fondamentali per favorire un senso di comunanza.

Non solo, ma il gioco libero non strutturato né sorvegliato secondo Kevin Stinehart del progetto Let Grow (www.letgrow.org) permette in maniera diretta di stringere amicizie, imparare l’empatìa, apprendere la regolazione emotiva, tutte doti interpersonali che danno potere ai bambini, aiutandoli a trovare un posto sano nella loro comunità scolastica.

In ogni continente e in ogni tempo, meno il nostro, i bambini trovano il modo di giocare non sorvegliati, anche rischiando. Per crescere bambini sani non basta bandire i telefonini, ma sarà necessario combattere la tendenza degli adulti all’iperprotezione nel mondo reale. Coltivare l’antifragilità dei più giovani vuol dire, a suo parere, offrire più gioco libero non strutturato, ciò che avveniva nei cortili e negli spazi vuoti o pubblici di tutto il mondo, oggi sempre più rari.

Ma per i più grandi sarà difficile contrastare una vita sociale spesa quasi interamente sul web. Nel mondo dei social i giovani sono spesso esposti a una “sfera pubblica” nociva, che svilisce il loro “valore” agli occhi degli altri. La

coercizione mentale e psicologica dei social viene esercitata da una massa di contenuti banali, pagati da chi ha interesse a farlo, dove la merce sono gli adolescenti. Costruiscono un conformismo inappellabile su temi che riguardano intimamente i più giovani, come ad esempio un’idea di bellezza stereotipata e falsa, realizzabile come “sogno”, mettendosi nelle mani di ciarlatani senza competenza e senza controllo. Le vittime prescelte di tale violenza sono sempre le stesse, i più fragili e i più poveri: le ragazze che condividono più facilmente emozioni e disagi e che non si piacciono, i ragazzi insicuri della propria prestanza, dei loro corpi ancora indeterminati e in crescita.

Il mondo adolescenziale odierno è invece sempre più chiuso, si rispecchia esclusivamente negli altri adolescenti, non ancora in grado di esprimere identità individuali formate e privi di un reale contatto con altri mondi.

Tristan Harris ex analista di Google, oggi fondatore del Center for Humane Technology spiega come le società digitali nella spietata corsa all’occupazione del nostro tempo sfruttino le vulnerabilità psicologiche per catturare l’attenzione, una «corsa al ribasso del tronco encefalico» nelle parole di Harris, perché «se una di esse omette di sfruttare una debolezza psicologica a disposizione si pone in una posizione di svantaggio rispetto a una concorrenza con meno scrupoli».

In questo mondo gli utenti sono soltanto prodotti, ma ancor peggio, a mio parere, è che lo spazio pubblico fisico rispetto a quello virtuale è diventato un luogo di spillover ossia uno spazio secondario, residuale. Se la nostra vita sociale viene consumata dentro il web e sui social, i nostri costumi, la violenza verbale, il clima incontrollato di aggressività verso le persone diventa la nuova norma che non potrà che irrompere nell’ex-spazio pubblico della realtà, fuoriuscire nelle parole e nelle azioni dei politici, come nelle relazioni disgregate dei molti, al solo uso e consumo di pochi.

Infosfera

l’informazione nell’era di internet

CURARE LE DEMOCRAZIE AI

TEMPI DI TRUMP

La democrazia è un processo delicato. Le persone che la amano la devono curare. Devono aiutarla ad adattarsi al cambiamento, nella società, nell’economia, nella cultura, nei media. Se la danno per scontata viene erosa da forze contrastanti. E può anche lasciar nascere il suo contrario. Quando questo succede, chi ama la democrazia deve prepararsi al dopo. Con fiducia. Con spirito di servizio. Con immaginazione. Sapendo che non sarà facile. Le democrazie devono imparare ad adattarsi, approfondendo la consapevolezza dei loro principi di fondo, cambiando ciò che è necessario cambiare. Intanto, i potenti si allineano. E i deboli si dividono tra gli illusi che saranno delusi e gli ideologici che affermeranno le loro emozioni. I potenti delle BigTech, nel 2016, sono andati a rendere omaggio alla corte del futuro presidente Donald Trump, come racconta Kara Swischer nel suo magnifico libro, Burn Book (Feltrinelli, 2024). Ma questo non significa che la cultura digitale e chi ci lavora siano d’accordo, visti i risultati elettorali di California e Washington. Del resto, la distinzione tra potenti e lavoratori probabilmente vale anche per la finanza, visti i risultati di New York.

Purtroppo siamo in guerra, le forze della divisione sono all’opera. E anche le forze dell’unione sono tentate di concentrarsi solo sull’opposizione al nemico, dimenticando di valorizzare ciò che i cittadini hanno in comune. Una morale di questa storia è che nei contesti divisivi, polarizzati, culturalmente confusi, probabilmente prevalgono le emozioni più basilari. Chi vuole erodere la democrazia può giocare su tutto quanto divide, alimenta l’odio, fa perdere di vista il bene comune. Chi vuole ricostruire la democrazia deve unire, rispettare gli avversari, ma anche imparare a compiere le azioni che unendo e rispettando portino a vincere le elezioni successive. Chi ama la democrazia deve tenerci, non darla per scontata. Per quanto riguarda i media, la questione non è quella di lamentare il declino dei vecchi sistemi dell’informazione. Se il 39% della popolazione si dà da fare attivamente per evitare di incontrare le notizie giornalistiche e solo il 3% dei messaggi scambiati su Facebook cita i giornali (come hanno detto a Meta giustificando il blocco dei giornali in Canada) vuol dire che il vecchio modello non è l’unico punto di riferimento per comprendere come costruire l’avvenire. La questione è quella di immaginare, progettare e costruire i prossimi.

Contropiede

non sempre vince chi attacca

L’ORA DELLA RIVOLTA

SOCIALE (MA DIVERSA DA QUELLA DI LANDINI)

La recente evocazione della rivolta sociale da parte del segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha scatenato una ridda di reazioni da parte del mondo politico e dei commentatori a vario titolo, che ha dato vita ad un animato dibattito che sembra aver interessato molta parte dell’opinione pubblica.

Inutile sottolineare come il cuore della discussione si sia presto incentrato rispetto al ritorno di uno possibile scenario che ha caratterizzato in maniera tanto drammatica almeno un decennio di storia del nostro Paese.

Purtroppo credo che si sia persa l’ennesima occasione per andare a fondo delle questioni reali, affidandoci a sterili schieramenti di parte, piuttosto che a grossolane riletture del recente passato. Sono convinto, infatti, che il contesto attuale non solo sia profondamente differente dal punto di vista politico, economico e sociale, ma sia segnato da una coscienza collettiva quantomeno labile. Oggi siamo molto più sollecitati dalle ingiustizie individuali piuttosto che da quelle collettive: pensiamo a quanto sia sentito il tema dei diritti civili e invece quanto poco trattate questioni sociali che riguardano intere categorie di persone o di interesse generale. Certamente paghiamo anni di cieco individualismo, di inesorabile pronazione verso un consumismo che ha oggettivamente

Oggi siamo molto più sollecitati dalle ingiustizie individuali piuttosto che da quelle collettive: pensiamo a quanto sia sentito il tema dei diritti civili e invece quanto poco trattate le questioni sociali che riguardano intere categorie di persone o di interesse generale

arrangio come posso, penso a salvare me stesso o al massimo chi è strettamente vicino a me.

Una dolorosissima esperienza di solitudine, accompagnata da un profondo senso di frustrazione e di impotenza, che si materializza con la netta percezione che non si possa cambiare affatto una realtà ormai inossidabile.

Ciò che rende ancora più drammatica la prospettiva, è il rimando di grandissimo disagio che ci stanno restituendo le nuove generazioni: quale eredità gli stiamo consegnando?

Spesso mi interrogo riguardo al senso del gran operare della società civile in questo Paese, soprattutto se riferito alla sua reale efficacia. Oltre che tamponare i guasti e le ferite, non dovremmo essere portatori autentici di una speranza di un cambiamento possibile?

Forse dovremmo essere interpreti di una vera rivolta sociale. Significherebbe abbandonare gli egocentrismi imperanti, la presunzione delle minoranze illuminate, il moralismo di stare sempre dalla parte dei buoni, l’esigenza irrinunciabile di godere del riconoscimento a qualsiasi costo. Il primo impegno dei mondi del Terzo settore credo debba proprio essere quello di avere la determinazione e la perseveranza di ricostruire una coscienza collettiva, capace di includere, valorizzare, prendersi cura l’uno dell’altro, regalare spazio

mutato non solo il nostro vivere, ma anche le nostre coscienze.

Rileggere Pasolini a distanza di 50 anni impressiona quanto tutto fosse già determinato al di là delle travolgenti trasformazioni tecnologiche.

In virtù di una siffatta evoluzione, concetti come “antagonismo”, “dissenso”, “protesta”, vengono vissuti con una certa riluttanza dal sentimento comune e non riescono a trovare spazio in un ambito comunitario.

Oggi contestare non si estrinseca più attraverso un confronto, bensì con un allontanamento: mi disinteresso, non voto, mi

Certo già accade, ma con grande onestà dobbiamo ammettere che non è sufficiente. Risvegliarsi dal torpore nel quale siamo immersi, scuotersi dal senso di assuefazione, è il primo passo, agirlo insieme è la condizione fondamentale. Divenire consapevoli che riportare al centro le grandi questioni come la pace, la giustizia sociale, la salute, la cura dell’ambiente, l’accesso alla cultura, potrà divenire il salvacondotto per regalare un presente che valga la pena di essere vissuto ed un futuro che fortemente desideriamo.

Allora sì che la rivolta sociale può diventare la grande speranza collettiva.

Storyboard

retoriche, storie, comunicazione

SIAMO NELL’ERA DEL BULLISMO ETICO?

Aproposito del suo ultimo film, Parthenope, in una recente intervista a Vanity Fair il regista

Paolo Sorrentino (in foto) ha dichiarato:

«Questo film, se fosse stato fatto da una donna, probabilmente avrebbe suscitato reazioni diverse. E probabilmente sarebbe stato fatto diversamente e anche meglio, devo essere onesto. Ma non è questo il punto: oggi esiste un sospetto sulla libertà artistica. A me pesa tantissimo questa nuova ideologia, la

Oltre la siepe

l’economia sociale fuori dal giardino di casa

LA DIFFERENZA COOPERATIVA

Gianluca Salvatori segretario generale di Euricse

Quest’anno si celebrano i 170 anni dalla costituzione della prima cooperativa di consumo italiana, “Magazzino di previdenza” nata a Torino nel 1854 per iniziativa dell’Associazione generale degli operai, dieci anni dopo la

deriva del politically correct. Per me è diventato molto difficile scrivere, non solo per la censura che c’è oggi ma peggio, per l’atteggiamento censorio che scatta con me stesso. Oggi molte persone che aderiscono alla nuova ideologia lo fanno con molta più paura, perché qualsiasi cosa può risultare un’offesa. E poi c’è il problema del punto di vista. Venendo al film Parthenope, per esempio, il fatto che io sia maschio, bianco e che decida di raccontare una donna a modo mio, per alcuni è un problema. Dieci anni fa non lo era». È sintomatico che proprio mentre accusa una specie di costrizione culturale, Sorrentino faccia precedere le sue ragioni da una precisazione inutile e goffa, che sembra frutto proprio di quell’autocensura automatica che lui stesso denuncia: «Questo film se l’avesse fatto una donna l’avrebbe fatto diversamente e anche meglio...» Ma perché? Non è mica detto. L’avrebbe fatto diversamente, questo sì. Anch’io l’avrei fatto diversamente. Ma meglio, perché? Perché è una donna? Perché solo le donne possono raccontare di altre donne? Persino quando si critica il politicamente corretto, la forza di penetrazione di questa ideologia è così pervasiva che non possiamo esimerci dal precisare, dal mettere le mani avanti, dal “segnalare” perché di questo si tratta che siamo dalla parte giusta, dalla parte “sana” della società, quella che preme per il progresso, per la parità dei diritti, per l’emancipazione dei valori, in una parola per il woke C’è un’altra cosa che stride. Sorrentino sembra chiedere una specie di emendamento per gli artisti. Se sei un artista,

costituzione a Rochdale, nel Regno Unito, della prima cooperativa al mondo. Una storia così lunga è inusuale per un’impresa e indica la capacità di rispondere ad un bisogno che attraversa stagioni e fasi diverse mantenendo una sua identità. Malgrado ogni previsione contraria, infatti, il modello cooperativo si mantiene vivo e prospera. Si pensava che fosse destinato a scomparire

lentamente, con l’avvento di forme più moderne di organizzazione imprenditoriale, ma invece così non è stato e i numeri lo indicano, tanto a livello nazionale quanto europeo e mondiale.

Fin dalla sua nascita, il movimento cooperativo è stato caratterizzato da un approccio distintivo. Le cooperative hanno reso possibile l’accesso a servizi o mercati ad individui e comunità che altrimenti ne sarebbero stati esclusi. Questo è il movente che ha portato alla formazione della cooperazione di consumo. L’impulso iniziale è consistito nella ricerca di strumenti per mitigare il limitato potere contrattuale del singolo acquirente. Il principio cooperativo ha permesso la formazione di veri e propri “gruppi di acquisto”, fornendo un’alternativa ai canali convenzionali. In aree con un’offerta locale limitata e l’assenza di opzioni competitive, i singoli consumatori privi dei mezzi per controbilanciare il potere

devi avere la libertà di esprimerti senza condizionamenti. E se non sei un artista? Se fai il ragioniere, il bancario, l’insegnante o lo spazzino?

Ho partecipato a un festival dedicato al marketing. Uno degli invitati ha iniziato la sua relazione specificando che non avrebbe parlato di “innovatori” ma di “innovatrici”, intendendo con questo termine non solo persone di sesso femminile ma anche quelle di sesso maschile. Motivo?

Contrastare il sessismo nella lingua che si esprime

del venditore si associavano in cooperativa per reagire a mercati imperfetti in cui il meccanismo della concorrenza sui prezzi era del tutto inefficace.

Si può dire quindi che l’avvento della cooperazione è stato orientato da quella che Amartya Sen definisce la creazione di “capacità”, ovvero di un insieme di opportunità per favorire la realizzazione personale e il perseguimento del proprio benessere. L’attrattiva principale per i suoi primi membri non era principalmente economica, ma consisteva nel superamento dei vincoli, materiali e non materiali, che riducevano le capacità individuali, consentendo di esercitare attivamente un potere di scelta sulle direzioni della propria vita. Capabilities, e non solo benefits. Rispetto alle origini però il quadro è profondamente cambiato. Con la trasformazione delle condizioni storiche ed economiche è mutata anche la centralità del principio cooperativo come strumento

nell’uso del “maschile universale” (si chiama “genere non marcato”, in realtà, ma sorvoliamo). Nessun problema per me, l’importante è intendersi. La lingua è un codice. Se mi dici che hai intenzione di usare il “femminile universale”, e che lo fai per “segnalare” una situazione di non ancora perfetta parità tra uomini e donne, ti seguo. Ti seguo limitatamente al tuo speech che vuole “segnalare” qualcosa di giusto. Poi tornerò alle regole dell’italiano condivise da 60 milioni di persone. Intanto tu mi avrai fatto pensare a un tema, quello della parità, che è giusto ricordare sempre, perché è tanto facile dimenticarsene. Ti ringrazio per questo. C’è un problema però. Se in quello stesso speech, a un certo punto, per portare avanti le tue ragioni, dici: «Poniamo che ci sia uno spacciatore, un evasore delle tasse, un ladro, un fascista, un assassino, un pedofilo...». Ecco, qui non ti seguo più. Perché sei tornato al “maschile universale”? Se si parla di persone virtuose usi il femminile e in caso contrario il maschile? C’è qualcosa che non torna. Il mondo è devastato dall’odio per chi è diverso, per chi è povero, soprattutto, e per chi è semplice. Sì, per chi è semplice e non sta dietro a tutte queste prescrizioni morali che trova artificiose e complicate. E noi ci adagiamo su quello che nel suo ultimo saggio, Il follemente corretto, Luca Ricolfi chiama virtue signalling: «Il linguaggio politicamente corretto, specie se usato nei confronti di qualcuno che parla e scrive in modo naturale (non artificioso), funziona come una forma di bullismo etico, un modo per segnalare la propria sensibilità morale, o la propria superiore virtù».

In che cosa oggi la cooperazione si distingue dalle attività filantropiche o di responsabilità sociale delle imprese tradizionali? Governance e comunità: la risposta va cercata qui

di lotta alla povertà, intesa come privazione delle capacità. La grande disponibilità di beni e servizi in grado di soddisfare le diverse esigenze dei consumatori, compresi quelli appartenenti alle fasce di reddito più basse, oggi è la caratteristica di un mercato in cui ai consumatori è offerta una gamma ampia di opzioni e fornitori. L’accesso a mercati e a prodotti

abbordabili non è più l’ostacolo che ha dato spinta alla prima cooperazione. Di conseguenza, per giustificare l’adesione a una cooperativa di consumatori, oggi è necessario prendere in considerazione altri fattori che non siano solo monetari o di beneficio diretto, ed è anche indispensabile ridefinire le capabilities di cui si sente la mancanza. Specialmente in un tempo in cui anche le aziende non cooperative hanno imparato che la relazione con i clienti deve essere emotivamente coinvolgente e favorire un senso di appartenenza duratura, e al tempo stesso queste stesse imprese si propongono come partner per progetti sociali, istituiscono fondazioni con scopi filantropici, affermano di impegnarsi per la diversità, l’equità e l’inclusione, e dichiarano di essere guidate da criteri di sostenibilità. Per distinguere i benefici che le cooperative offrono ai propri soci da quelli delle imprese convenzionali

è quindi essenziale concentrarsi sulle aree in cui il divario è più difficile da colmare. In primo luogo, la governance: la partecipazione democratica è l’elemento più potente per distinguere un’impresa cooperativa da altre forme di business. Si tratta di un potere che aiuta i soci a sentire di avere il controllo su una parte della loro vita economica. La rivitalizzazione della governance democratica, soprattutto nelle grandi cooperative, e l’effettiva partecipazione dei soci al processo decisionale e alla formulazione delle strategie rappresentano un’area prioritaria che richiede approcci innovativi e creativi. Una seconda area, poi, è quella del rapporto con la comunità e, più in generale, l’impegno su questioni di rilevanza sociale e di pubblica utilità. Non basta dotarsi di un’agenda di attività sociali sporadiche e unilaterali, ma serve stabilire un impegno radicato e a lungo termine. Ciò implica che il metodo con cui vengono scelti e realizzati i progetti non può essere quello di un ente filantropico o della funzione Csr di un’impresa di capitali, ma deve basarsi sulla condivisione dell’intero processo: dalla definizione degli obiettivi e degli strumenti alla valutazione dei risultati. Investendo su un impegno autentico e non opportunistico. Le società contemporanee oggi sono alle prese con una serie di sfide più complesse e diffuse che impongono un cambio di passo. Il modello cooperativo, inclusa la cooperazione di consumo, deve rispondere alle esigenze di maggiore coesione sociale e solidarietà che riguardano tutti i settori della società. È evidente che i benefici incentrati sui vantaggi materiali e individuali debbano essere allora sempre più integrati da benefici intangibili offerti a una comunità che non necessariamente coincide con la base dei soci. Le cooperative hanno il potenziale per svolgere un ruolo di creazione di senso e di promuovere una visione condivisa, in un contesto sociale in cui questi valori sono stati erosi o del tutto persi. Se la prospettiva è durare ancora decenni, questo è un passaggio obbligato.

il valore aggiunto del mutualismo

IL RITRATTO DELL’ECONOMIA SOCIALE MADE IN EUROPE

Sergio Gatti direttore generale di Federcasse

Undici milioni di persone lavorano in Europa nel settore dell’economia sociale. Si tratta del 6,7% del totale degli occupati dell’Unione. Nonostante ciò, di questo settore non si ha ancora una rappresentazione sistematica e coerente a causa di una rilevante disomogeneità nelle definizioni e nella raccolta e classificazione dei dati. Ma poiché le principali istituzioni dell’Unione europea (e anche il Rapporto Letta Much more than a market) hanno individuato quel settore come il motore indispensabile per accrescere la coesione sociale, per ridurre le disparità di servizi e di opportunità nelle quali si trovano porzioni rilevanti della popolazione, la galassia dell’economia sociale va conosciuta meglio. Ecco allora che “l’Analisi comparativa dei risultati socioeconomici dell’economia sociale nell’Unione Europea” promossa dalla Commissione di Bruxelles individua cinque tipologie di soggetti che debbono attivarsi in almeno sette ambiti di miglioramento. E ad essi indirizza un nutrito set di puntuali raccomandazioni.

Le sette aree sulle quali lavorare sono le seguenti: accrescere la comprensione del settore; migliorare la visibilità dell’economia sociale e favorire una visione comune; sostenere la produzione e la

diffusione di dati statistici; adottare una definizione statistica condivisa e produrre statistiche confrontabili a livello nazionale e coerenti a livello europeo; definire indicatori comuni e la combinazione di diverse metodologie di raccolta dei dati; adottare classificazioni comuni; coinvolgere i diversi stakeholders nel processo statistico. A fronte di questi ambiti di miglioramento, il Rapporto affida una serie di raccomandazioni alla Commissione europea e all’Eurostat; ai Governi nazionali e regionali; agli istituti nazionali di statistica; alle organizzazioniombrello dell’economia sociale; alla comunità scientifica. Dunque, occorre cominciare con l’armonizzare la tassonomia, gli strumenti di lettura e le metriche di valutazione.

La ricerca curata per la Commissione europea da un consorzio guidato da Euricse e composto anche da Ciriec International e Spatial Foresight propone un ritratto numerico composto da statistiche e da stime: oltre 4,3 milioni i soggetti dell’economia sociale che occupano, come detto, almeno 11,5 milioni di persone. La Germania (con 3,4 milioni), la Francia (quasi 2,6 milioni), l’Italia (più di 1,5 milioni) e la Spagna (poco meno di 1,4 milioni) sono gli Stati membri con i numeri più alti. Il settore sanitario e dell’assistenza sociale impiega

3,3 milioni di persone, l’istruzione 702mila nell’istruzione, 622mila lavorano nel settore delle arti, cultura e intrattenimento.

Il rapporto suddivide poi i 27 Paesi dell’Unione in due grandi gruppi. Da una parte: il Belgio (soprattutto la Vallonia), la Francia, il Portogallo e la Spagna accomunati da un consolidato riconoscimento dell’economia sociale. Ad essi si aggiungono il Lussemburgo e la Polonia che recentemente hanno adottato politiche di riconoscimento dell’Economia sociale. In Francia, Portogallo, Polonia e Spagna, la rilevazione statistica di organizzazioni ben individuate dell’economia sociale è regolata da uno specifico quadro normativo o da un Piano di sviluppo. In questi Paesi, vi sono osservatori permanenti (Belgio-Vallonia, Francia, Spagna) o pubblicazioni periodicamente aggiornate da parte degli istituti nazionali di statistica (Francia, Lussemburgo, Polonia, e Portogallo). Dall’altra parte ci sono 21 Paesi che non dispongono di una rappresentazione statistica omogenea e coordinata. Tuttavia, in alcuni di essi, come nel nostro, «è possibile con diversi gradi di difficoltà e di approssimazione raccogliere dati da fonti differenti». Per quanto riguarda l’Italia, il rapporto evidenzia come l’analisi delle diverse fonti Istat (Asia-imprese, Asia-agricoltura,

Una ricerca voluta dalla Commissione europea fornisce interessanti dati e tendenze sulla social economy: nel continente gli addetti sono in totale 11,5 milioni (1,5 in Italia, terzo Paese nella Ue)

quinta le imprese sociali presenta soggetti aventi forme giuridiche diverse. Nonostante i numeri ragguardevoli, il potenziale di questa galassia continua ad essere sottostimato, soprattutto nei Paesi nei quali essa non è appropriatamente riconosciuta e nei settori dove solo recentemente è divenuta progressivamente rilevante (come la salute, il turismo e l’energia rinnovabile).

Censimento permanente delle istituzioni non profit) e di fonti amministrative (come il Runts) abbia consentito di individuare oltre 406mila soggetti rientranti nel perimetro dell’economia sociale, che impiegano oltre 1,5 milioni di lavoratori (di cui la maggioranza, 875mila, donne) e coinvolgono più di 4,6 milioni di volontari. Ma il quadro non è completo. Quattro sono le principali “famiglie” dell’economia sociale europea: le associazioni, le fondazioni, le imprese cooperative, le società di mutuo soccorso. La

La forte differenziazione fra le diverse componenti «ostacola, in alcuni Paesi membri, la coesione sociale interna e lo sviluppo di una comune identità». In altri, i ricercatori nazionali tendono a escludere dal perimetro le cooperative, soprattutto quelle più grandi o quelle che operano nei settori finanziario e assicurativo. Queste lacune in attività fondamentali come la raccolta, la sistematizzazione e l’analisi dei dati dovranno essere superate con determinazione dal Piano di azione nazionale sull’economia sociale che anche il Governo italiano è tenuto a varare entro il novembre 2025, sulla base della Raccomandazione del Consiglio Ue del novembre 2023. I tre marcatori essenziali per decidere se un soggetto può essere inserito nel perimetro sono: a) il primato delle persone, del fine sociale o ambientale, rispetto al profitto (che generalmente non può essere distribuito tra i soci se non in minima parte e che comunque rimane rilevante per garantire la patrimonializzazione e quindi la “continuità” dei soggetti, soprattutto quelli aventi forma d’impresa); b) il reinvestimento degli utili (integralmente o prevalentemente) per perseguire le proprie finalità sociali, culturali o ambientali e svolgere attività nell’interesse dei propri soci/utenti («interesse collettivo o mutualità interna») o della società in generale («interesse generale o mutualità esterna»); c) la governance democratica o partecipativa. Nel nostro Paese, anche le banche cooperative a mutualità prevalente, ad esempio, soddisfano tutti e tre i requisiti. Nell’interesse generale, è necessario unire gli sforzi per promuovere un quadro definitorio normativo e regolamentare coerenti e favorevoli.

Nel mirino

il mister X del mese

IL TIE-BREAK INFINITO

DI JANNIK SINNER

del Foglio

Ho rivisto sui social, ora che anche la Coppa Davis è archiviata dopo le Finals di Torino e per gli sciagurati della Wada si aspetterà febbraio (dunque un discreto buco mediatico nell’ossessione collettiva), le foto della grigliata di Jannik Sinner, maglietta e immancabile cappellino in testa alle prese con il barbecue. Ho visto sulla metropolitana di Milano, e non era nemmeno giornata di gare, due ragazzetti abbigliati e soprattutto pettinati (tinti non so) da vere “carote”, i capelli rossi e persino il ciuffo.

Dunque i Carota Boys sono ormai un fenomeno che circola anche fuori dalle arene degli Atp, come i Teddy Boys nella Tube di Londra di tanto tempo fa.

Tutto concorre al bene, come diceva San Paolo ai Romani, e chissà che si possa applicare anche agli altoatesini. Più laicamente, diremo che tutto concorre a creare un’immagine totale, pervasiva e multi-iconica, nessun pixel sarà risparmiato, dell’atleta e ragazzo magnifico del momento, che è apparso prima al mondo e poi all’Italia, Paese di invidiosi e distratti, e ha costruito (lo sta ancora facendo) l’intera sua carriera sull’opposto di tutto questo: essere non una star ma un normal one, parlare poco e solo se interrogato, non vestirsi strano e non debordare alle festicciole e nei talk show (celebre qualche suo ben sostenuto “no”). Insomma il ragazzo che voleva essere solo un ragazzo di montagna che gioca molto bene a tennis (che s’era messo in agenda di vincere tutto, nel tennis) e per il resto molta famiglia, molta zia Margith salutata con commozione

Se invece di essere il prototipo del ragazzo tutto maso e sport, fosse l’esito di un grande sforzo per costruirsi un personaggio a misura di sponsor?

dopo la vittoria agli Us Open, qualche fidanzata di cui hanno parlato più gli altri che non lui.

Invece, e al di là del fantastico percorso sportivo, nemmeno a parlarne, Sinner è diventato quasi senza volerlo un’icona globale, un personaggio in cui anche più che per altri sportivi è ormai impossibile scindere l’atleta dal ragazzo, dal suo ologramma planetario e dal popolo dei suoi fans. Quasi senza volerlo, forse. E allora si spiegherebbe da sola una parte maggioritaria dell’affetto che a poco

a poco lo ha avvolto, superiore pure alla brutta canea di quelli che lo detestano persino certuni corsivisti da prima pagina perché guadagna troppo, perché (non) paga le tasse a Montecarlo, perché se è senza peccato qualcosa di certo l’avrà pure combinata (ah, la Wada).

O invece, ed è un’ipotesi plausibile, più che “senza volerlo”, Sinner è diventato un’icona globale esattamente nello stesso modo in cui gioca a tennis: nascondendo, quasi rendendo invisibile lo sforzo, la fatica, la tensione della mente e dei muscoli, l’allenamento e il perfezionismo, la tenacia. Il controllo persino un po’ spietato che esercita sul campo e sugli avversari. E se invece di essere semplicemente un all-mountain boy, il prototipo del ragazzo altoatesino tutto maso e sport, tutta vita sana e sentimenti senza traumi infantili (no padri devastanti alla Agassi), Sinner fosse anche il risultato di uno sforzo tremendo, faticoso come un tie-break infinito, per presentare agli “altri” al pubblico, ai fans, ma anche agli sponsor che decisamente gli garbano (ah, troppi sponsor!, accusano i nemici) l’immagine perfetta, un po’ olimpica, genere apollineo, del giovane eroe? Chissà. Fosse anche costruzione e allenamento, e non solo dono di natura e bacio della vita, Sinner ce l’ha fatta e va ammirato lo stesso, così. Al massimo, ci possiamo associare alla strepitosa battuta del suo grande disistimatore Nicola Pietrangeli (ma ormai è un po’ parte dello spettacolo anche lui): «Sinner è il più grande tennista italiano di tutti i tempi. E forse austriaco».

AVALON/SINTESI

Il futuro, come lo vogliamo

Il film del trentennale di Vita (“E noi come vivremo?”) rivisitato attraverso le voci più ascoltate dagli oltre mille partecipanti alla due giorni del 25 e 26 ottobre

“E noi come vivremo?”: evento a cura di Sergio De Marini e Giuseppe Frangi, con la collaborazione di Vittoria Caprotti. Servizio fotografico di Stefano Pedrelli

Outro di Franco Arminio Intro di Riccardo Bonacina e Stefano Arduni Impatto sociale dialogo con Paolo Bonassi (Intesa Sanpaolo) di S. Arduini

1 Giorno 2

01. Come cureremo? 02. Come comunicheremo?

Come investiremo? 03. Come accoglieremo? 05. Come ci muoveremo? 10. Come penseremo? 09. Come lavoreremo? 08. Come mangeremo? 06. Come educheremo? 07. Come abiteremo?

Interventi di Giada Lonati, Giuseppe Milanese, Anna Mondino e Francesca Pasinelli

Interventi di Mario Calabresi, Rosy Russo e Maria Laura Conte

Interventi di Anna Granata, Cleophas Adrien Dioma e Angelo Moretti

Interventi di Stefano Barrese, Laura Orestano e Giovanni Azzone

— Interventi di Giulio Salvatori, Lisa Noja e Maria Chiara Roti

Interventi di Daniele Novara, Roberta Vincini e Rachele Furfaro

Interventi di Mario Cucinella, Alessandro Maggioni, Carlo Cerami e Guido Bardelli

Interventi di Barbara Nappini, Marco Lucchini e Luisanna Messeri

Interventi di Maura Gancitano, Stefano Granata e Chiara Violini

Interventi di Silvano Petrosino, Anna Detheridge e Paolo Venturi

INTRO

a festa per i 30 anni di Vita che a partire dal febbraio scorso immaginammo come un vero festival su due giornate, s’è chiusa sabato 26 ottobre coinvolgendo le realtà non profit che come Vita festeggiavano compleanni a cifra tonda, dalle Acli alla Lega del Filo d’Oro, da Save the Children a Exodus, da Agesci a Banca Intesa per il sociale, e in particolare la “generazione 94”, Forum Terzo Settore, Banca Etica, Emergency, Progetto Arca e tanti altri. Un segno di come Vita si sia sempre concepita realtà a servizio di una community ben definita: quella delle organizzazioni della società civile. Nell’ottobre 1994 il debuttante settimanale nasce esattamente da un patto, recepito nello stesso statuto della società editoriale, tra giornalisti e attivisti che condividono la necessità di portare le istanze del vivere civile nell’agone pubblico e politico. “E noi come vivremo?”, il titolo della due giorni (ispirato a un romanzo di Genzaburō Yoshino) è un altro segno distintivo della trentennale avventura di Vita, quella della volontà di guardare avanti, di immaginarsi il futuro, sognarlo prima per poi costruirlo. Non solo, il titolo esplicita una profonda

convinzione, il non profit, il Terzo settore, prima di essere una community di organizzazioni giuridicamente definite, esprime una visione della vita e del mondo, una visione di un futuro desiderabile, più giusto, sostenibile, persino fraterno. In tanti ci avete chiesto di poter ritornare sui contenuti della due giorni e rivivere quelle giornate che sono state una vera fabbrica di contenuti necessari per immaginare il prossimo futuro. Lo facciamo in queste pagine. Le domande in cui si è articolato il palinsesto e le risposte date dagli ospiti diventano per noi un piano editoriale e di attivazione sociale che ci impegniamo a sviluppare nel corso dell’anno che ci aspetta. Franco Arminio nella sua performance esplosiva intitolata Canti della gratitudine (e per raccontare i 30 anni di Vita non c’è parola più adeguata e precisa) ha letto una delle sue poesie brevi che dice così: «Si sta vicini per fare miracoli, non per ripetere il mondo che già c’è, che già siamo». È esattamente questa scommessa che dobbiamo assumerci, quella di una vera ripartenza, quella di una scintilla nuova capace di generare nuovi miracoli. Facendo affidamento sulla rinnovata coscienza che proprio il festival dei 30 anni ci ha regalato.

di Riccardo Bonacina e Stefano Arduini

Più cura dentro le case dei pazienti, perché la solitudine è una malattia

Per capire come cureremo dobbiamo partire innanzitutto dal chiederci chi sono le persone che cureremo. È importante ricordare che noi siamo all’interno di una grande transizione demografica, perché siamo sempre più anziani, e sanitaria, perché abbiamo sempre più malattie croniche. La nostra sanità invece è strutturata per gestire l’acuzie. Un altro elemento interessante è che i medici si laureano dopo una lunga frequentazione degli ospedali, ma senza aver mai visto le case delle persone malate, che è dove i malati prevalentemente vivono. Un terzo dato da tener presente è che certamente viviamo più a lungo, ma la vita in salute si ferma prima dei 60 anni: se anche ci regalassero l’immortalità, questa certamente non sarà l’eterna giovinezza. Quando parliamo di cure palliative, generalmente si pensa alla malattia oncologica ma oggi sempre di più incontriamo la grave cronicità, che porta con sé l’aspetto della perdita dell’autonomia. Una delle patologie che più frequentemente arrivano alle cure palliative è la demenza: in Italia oggi sono più di 2 milioni le persone affette da demenza e nel 2050 si immagina che nel mondo saranno più di 130 milioni. Per curare bisogna innanzitutto prevenire: per la demenza ci sono almeno 14 fattori di rischio da tenere sotto controllo. Però in Italia tra il 2022 e il 2023 il 18% dei cittadini over65 ha rinunciato a sottoporsi a un esame o a una visita: perché non ce l’ha fatta, perché l’ospedale è troppo lontano, perché i costi sono troppo alti, perché ci sono liste d’attesa infinite. Da figlia di due novantenni, aggiungo anche che talvolta le persone anziane rinunciano a prenotare una visita perché con i meccanismi digitali sono a disagio o perché bisogna fare un

HANNO PARTECIPATO

Giada Lonati medico palliativista, direttrice sociosanitaria di Vidas

Giuseppe Milanese presidente di Confcooperative Sanità e presidente di Osa

Anna Mondino direttrice scientifica di Fondazione

Airc

Francesca Pasinelli membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Telethon

Partiamo dalle esigenze di chi ha bisogno

Stare nel mercato della sanità come soggetto di Terzo settore significa partire dal complemento oggetto: “chi” abbiamo da assistere? Questo implica riconoscere che ci sono 14 milioni di italiani che hanno bisogno di essere curati nelle proprie case: senza un sistema di sanità territoriale non si va da nessuna parte. L’anziano che ha bisogno di cure domiciliari, come entra nella filiera? Come è possibile che riceva una valutazione e dei servizi in maniera facile? Come superare tutte le differenze regionali che esistono, inaccettabili? Tra le proposte che facciamo, c’è anche quella di una figura nuova, l’assistente infermieristico: una figura marcatamente socio sanitaria, da formare in breve tempo. Perché anche la telemedicina non potrà nulla senza risorse umane formate.

Dalla ricerca alla cura ad personam

Senza ricerca, non c’è cura. Oggi siamo in un momento molto bello perché c’è un convergere di conoscenze e tecnologie che ci permette di studiare il tumore del singolo paziente e di disegnare una terapia personalizzata. In Italia abbiamo una ricerca ottima e una pratica clinica altrettanto buona, ma dobbiamo migliorare sugli studi clinici, sull’organizzazione, sull’infrastruttura. Il punto è creare l’ecosistema giusto, cioè triangolare enti del Terzo settore, il profit e il pubblico, stringendo partnership molto forti. Questo sarà fondamentale per far sì che la ricerca di laboratorio possa trasferire i risultati raggiunti al letto del paziente, superando la “valle della morte”, in cui la maggior parte delle ricerche si ferma.

giro infinito nei call center: la nostra non è una medicina amica delle persone fragili, non siamo organizzati per sostenere le persone fragili.

Qui viene il grande tema della fragilità. La fragilità, nella scienza dei materiali, è inversamente proporzionale alla forza dei legami. I legami sono evidenti, lo sentiamo anche noi. Vivek Murthy, surgeon general degli Stati Uniti, quando nel 2021 ha assunto questo ruolo ha fatto un grande viaggio attraverso tutti gli Stati per capire di che cosa c’era bisogno e ha scritto un libro che non a caso si intitola Together. Cosa ha capito? Che il vero bisogno trasversale, indipendentemente dall’età, dalle patologie, a volte anche dal reddito, la vera malattia che stiamo attraversando è la solitudine. Questa è una dimensione importante anche in Italia.

A Milano per esempio abbiamo quasi il 50% di famiglie monocomponenti. Il 40% dei cittadini milanesi con più di 65 anni vive solo. Per prenderci cura di queste persone noi dobbiamo intanto ricordare che esiste una dimensione sociale delle persone, che la medicina tende un po’ a non percepire mentre in realtà la dimensione sociale fa parte del processo di cura. Quindi dobbiamo immaginare una medicina della cronicità, che è inevitabilmente una medicina che si fa in équipe. Qui io gioco facile, perché nelle cure palliative che non sono la medicina palliativa noi curiamo sempre in gruppo.

Le cure palliative sono il paradigma della complessità e della complessità ci si prende cura insieme: la competenza per prendersi cura delle persone più fragili non si esaurisce in una figura professionale. Servono nuovi modelli di cura. Si diceva prima dell’integrazione socio sanitaria. In questo noi siamo meravigliosi

di Anna Mondino

perché abbiamo tutta una serie di percorsi paralleli, che al di là delle dichiarazioni d’intenti non sanno cogliere il bisogno dell’integrazione. In Lombardia, se è attiva l’Assistenza domiciliare integrata-Adi, non possono essere attive le cure palliative. Se un paziente è ricoverato in Rsa, non ha diritto alle cure palliative: ma in Rsa l’8% delle persone muore nel primo mese di ricovero, il 20% nel primo anno di ricovero, è evidente che sono pazienti che avrebbero bisogno di cure palliative. I modelli sono rigidi, le persone no: hanno bisogno che i modelli si adeguino a loro. C’è bisogno di équipe multiprofessionali, dobbiamo diventare più plastici e più elastici.

Dobbiamo immaginare nuovi luoghi di cura perché certamente il domicilio è il luogo elettivo della cura ed è un posto in cui è meraviglioso curare, ma non tutte le case possono essere trasformate in luoghi di cura. Allora, forse, serve anche immaginare luoghi di cura nuovi, diversi da quelli che abbiamo immaginato finora, che siano più rispondenti a un bisogno che non è soltanto clinico. Dobbiamo prenderci cura di chi cura. Abbiamo un esercito di caregiver indifesi, lasciati soli, che si devono inventare le risposte. E poi credo anche che si debba lavorare sulla dimensione culturale, perché dobbiamo imparare – parlo anche per noi operatori sanitari – a promettere cura invece di promettere una salute che coincide con la felicità: a volte siamo i

Una triplice alleanza per terapie nuove

Telethon nasce dai pazienti con malattie rare, trascurati dagli investimenti pubblici e privati, sotto il motto “ogni vita conta”. Abbiamo finanziato programmi di ricerca scientifica molto innovativi, che hanno permesso l’avvio di alcune terapie “di frontiera” che lavorano sul difetto del singolo gene: terapie geniche, editing genetico, terapie mRna, terapie cellulari. Tali tecniche oggi rappresentano la frontiera più avanzata della cura, anche per malattie molto più diffuse.

Negli anni Telethon ha sostenuto i costi di ricerca e sviluppo di diverse terapie, confidando che l’industria a quel punto potesse sostenere i costi di produzione e diffusione.

Siamo stati delusi. Nonostante il prodotto esistesse, fosse sicuro ed efficace, salvasse vite, il fatto di essere rivolto ad un numero molto basso di pazienti in tutto il mondo lo ha reso così poco interessante da venire abbandonato. Per questo due anni fa abbiamo scelto di farci carico anche di questo ultimo pezzo di percorso, cioè la produzione e la distribuzione di un farmaco.

Oggi cosa occorre? Uno sforzo congiunto per mettere a punto modelli originali di sviluppo, perché le regole attuali prevedono costi che chi lavora in una dimensione totalmente non profit con il solo fine della fruibilità della terapia non può sostenere. Il futuro delle terapie personalizzate, che non riguardano solo le malattie rare, passa da una triangolazione fra pubblico, privato e Terzo settore che impari a parlare la stessa lingua, avendo in mente che il fine di qualunque progresso è la persona.

primi a costruire un equivoco. Nel 1948, l’Oms ha dato la definizione di salute come uno stato completo di benessere fisico, mentale, psicologico, emotivo e sociale: quanti di noi si sentono in salute rispetto a questa definizione? Io no. Un articolo pubblicato sul British Medical Journal nel 2011 prova a ridefinire la salute come una capacità di adattamento e di autogestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive. In questa definizione io mi ci ritrovo di più.

Sapete qual è il contrario di fragilità nella scienza dei materiali? Non è né forza né resistenza: è duttilità. Allora io, forse da sognatrice, immagino che il futuro del verbo curare sia disegnare un mondo che sappia insegnarci, fin da piccoli, che siamo degli esseri finiti: che si recuperi un’educazione alla finitudine, che ci faccia incontrare il nostro limite con un po’ meno aspettative. Mi immagino anche un mondo in cui saremo capaci di costruire delle “comunità curanti” perché la salute come salvezza si può costruire solo come comunità. (testo raccolto da Sara De Carli)

in collaborazione con Unipol Gruppo S.p.A.

La tua sanità integrativa a partire da 300€ l’anno

perché? PERCHé SEI SOCIO

scopri le offerte

Hacking Diversity Nel laboratorio dei giovani progettisti per l’inclusione sociale

Michele Andrea Tagliavini ha 27 anni. Dopo una laurea magistrale in International Management a Venezia, oggi lavora come ricercatore universitario a Ca’ Foscari. Lui era nel team che ha dato vita a DiverCity, un format sul tema dell’inclusione, che prevede un festival itinerante, oltre allo sviluppo di contenuti video e audio.

Simona Riccardi di anni ne ha 20 e studia Biotecnologie per la Salute all’Università Federico II di Napoli. A lei è venuta l’idea di creare, insieme al suo gruppo, un’app, Safe Space, che aiuta le persone con disabilità ad avere un network di relazioni, in un ambiente sicuro.

Michele e Simona sono due dei partecipanti di Hacking Diversity, il primo hackathon di Vita, organizzato in occasione dei 30 anni della nostra testata, in collaborazione con Junior Achievement Italia e Intesa Sanpaolo per il Sociale, in cui si sono sfidati 40 ragazzi dai 18 e 27 anni, divisi in sei gruppi, ognuno guidato da un mentor.

Il progetto DiverCity si è aggiudicato la vittoria, mentre Safe Space ha vinto il premio della giuria popolare.

«Con il nostro progetto, abbiamo voluto invitare le persone a fruire di esperienze che le facciano mettere nei panni di chi ha una disabilità, per immedesimarsi con chi affronta

ogni giorno delle difficoltà a cui la maggior parte di noi non pensa» racconta Tagliavini. Che aggiunge: «Per lavoro mi capita di organizzare hackathon con l’università, ma non ero mai stato dall’altra parte ed è stato stimolante. Io ero il più grande del mio team, gli altri erano tutti ragazzi del liceo ed è stato bello vedere la sensibilità che le nuove generazioni hanno sul tema della disabilità».

Il team di Michele, denominato UniVersi (e composto da Elisa Benussi, Filippo Dorigo, Maria Victoria Galicia, Lijun Lin, Michele Andrea Tagliavini, Luna Troiani, Matteo Zuccarino) era guidato da Simone Avenoso, che lavora nello Sviluppo Risorse Umane dell’Associazione italiana sclerosi multipla-Aism. «Mi è piaciuto il fatto che ogni ragazzo ha messo al servizio del gruppo le sue competenze:» dice Simone, «una ragazza che ha esperienza con i software di grafica, ha disegnato il logo, un altro ha studiato il piano finanziario. E poi c’è anche chi nel gruppo ha trovato forza, come una ragazza timida che, incoraggiata dai compagni, è riuscita a fare un pitch, cioè ad esporre il progetto, in modo convincente, davanti alla giuria».

«Nel gruppo si è venuta a creare una dimensione magica» prosegue Simona Riccardi, con una voce piena di allegria, che per partecipare all’hackathon è arrivata a Milano da Napoli: «Grazie all’abilità del nostro mentor, ci siamo aperti su un tema delicato come quello del binomio “disabilità e sessualità”, di cui nessuno parla, quasi come se le persone con disabilità fossero asessuate. Quattro anni fa mi è stata diagnosticata la sclerosi multipla, oggi sto bene, ma voglio sviluppare le mia competenze e favorire l’inclusione di chi si trova in una condizione di difficoltà. Questo hackathon per me è stato davvero formativo».

Vittorio Montixi, educatore e progettista di percorsi di vita indipendente, è il mentor del gruppo che ha creato Safe Space, denominato Unity Sparks (e composto da Jacopo Accorsi, Giorgia Bettoni, Simone Bollini, Davide Bonacina, Imen Bouhdid,

Ilaria Galbusera capitana della nazionale

Pallavolo

Sorde

Tutti hanno “curiosato” nei panni delle persone con disabilità

Daniele Cassioli campione del mondo di sci nautico

Pietro Giovenzana, Simona Riccardi). Con l’entusiasmo di chi ama aiutare i gruppi a generare idee concrete, spiega: «Ho apprezzato il coraggio che hanno avuto i ragazzi a lavorare su un argomento che è un tabù. Con la freschezza e lo slancio che solo a quella età si può avere, hanno parlato delle loro esperienze e hanno dato vita a un progetto interessante, che li ha coinvolti emotivamente».

«La sfida del nostro hackathon consisteva nel creare un progetto imprenditoriale innovativo e i risultati sono stati notevoli: i partecipanti si sono messi alla prova, hanno lavorato come una vera impresa sociale, con l’obiettivo di creare un impatto tangibile e rendere la società più equa e accessibile» spiega Giulia Marzagalli, chief development officer di Vita (che ha curato l’evento insieme a Elena Marzi): «Stimolante è stato anche incontrare due role model, Ilaria Galbusera, capitana della nazionale di pallavolo sorde e Daniele Cassioli, pluricampione del mondo di sci nautico, cieco dalla nascita. Entrambi hanno spiegato che cosa significa per loro essere persone con disabilità e le potenzialità che la disabilità porta con sé».

«Abbiamo messo a disposizione il nostro know-how specialistico e il metodo del design thinking che favorisce la creatività attraverso l’empatia, l’analisi strutturata delle problematiche sociali e l’intelligenza collettiva che si sviluppa lavorando in team.», prosegue Miriam Cresta, ceo di Junior Achievement Italia, «I risultati ci hanno sorpreso: organizziamo molti hackathon, ma questo ci è rimasto nel cuore».

I progetti sono stati valutati da una giuria tecnica, composta da Giuseppe Ambrosio, (ceo di Vita), Aurora Caporossi (founder e presidente Animenta e founder di Comestai), Tiziana Ciampolini (PhD Inclusive Innovation Expert, Training and education for transformative communities), Miriam Cresta (ceo Junior di Achievement Italia) e Andrea Forghieri (executive director di Intesa Sanpaolo per il Sociale).

(Diletta Grella)

comunicheremo?

Bisogna tornare a raccontare le storie giuste. Ma per trovarle serve silenzio

Partiamo dal silenzio. Quando pensiamo alla comunicazione, dovremmo pensare a chi vogliamo comunicare, cosa vogliamo comunicare e se c’è qualcuno che ci ascolta. E in questo mondo pieno zeppo di rumore è sempre più difficile comunicare le cose, farle passare. Nei prossimi giorni, mesi, anni, gli algoritmi dell’intelligenza artificiale generativa ci daranno sempre con più esattezza quello che a noi piace, stupisce o interessa. Così i nostri spazi saranno ancora più ridotti. In molti oggi si informano solo sui social e di fatto ricevono soltanto comunicazioni che gli confermano quello che pensano, che gli confermano i desideri o che gli confermano le paure. Riuscire a parlare in un mondo in cui tutto è sempre più polarizzato è difficile, perché tutti ascoltano la loro cassa di risonanza. Per comunicare, per informare, per raccontare bisogna cambiare alcuni paradigmi. Però credo sia comunque possibile riuscire a parlare anche al di fuori dello schema di chi ti ascolta, a patto che la comunicazione sia autentica.

Credo tantissimo nelle storie. Ci credo perché faccio una newsletter che si chiama Altre/storie, faccio un podcast che parla di storie. Ci ho scommesso molto. Ma raccontare non significa semplicemente fare la collezione delle storie di tutti i giorni. Così le storie si logorano, si usurano, non camminano, non vanno da nessuna parte. Le storie che camminano sono quelle autentiche, simboliche, rappresentative e credibili di qualcosa che sta accadendo. Solo quando hai individuato il cuore della comunicazione che vuoi fare e che cos’è per te importante comunicare, allora puoi trovare una storia che sia esattamente rappresentativa

HANNO PARTECIPATO

Maria Laura Conte direttrice della comunicazione di Fondazione Avsi

Mario Calabresi giornalista, scrittore, cofondatore di Chora Media
Rosy Russo presidente di Parole O_Stili
di Mario Calabresi

Tutti i “se” della buona informazione

Potrà esistere un’informazione rispettosa della realtà? Sì, ma dipenderà da ciascuno. Ho fatto un piccolo decalogo su quali potranno essere i “se” che ce lo permetteranno. Se crederemo profondamente che le relazioni sono il cuore della nostra vita. Se accorceremo le distanze. Se saremo consapevoli del fatto che i social e il digitale sono una cultura da abitare. Se cureremo le parole, che ci definiscono e raccontano chi siamo. Se sapremo abitare le domande, nostre e degli altri. Se ascolteremo con lo sguardo. Se ci ricorderemo del dolore. Se avremo cura di come facciamo sentire le persone. Se ci ricorderemo che anche il silenzio comunica. Se la comunicazione sarà rispettosa del cuore di ogni persona.

Realtà vs noia: si vince con un clic

I mezzi di comunicazione oggi si sono smaterializzati. Sono agganciati ai nostri sensi per diventare sempre più pervasivi, per entrare nelle nostre giornate, per essere attaccati al nostro corpo. Devono accaparrarsi la nostra attenzione. Il nemico numero uno della comunicazione di oggi, e di domani, è la noia. Ma la realtà è la vera protagonista. La realtà dura, solida, testarda che si impone nonostante noi. E noi abbiamo bisogno delle storie senza ridurle a categorie di pensiero. Io faccio questo esercizio: riconosco che sono davanti a una bella storia, una storia vera, una storia che rispetta la realtà, quando nell’ascoltarla sento che nel mio cervello qualcosa fa clic, sento che quella storia ha cambiato qualcosa nel mio modo di pensare e di vedere le cose.

di quello. Allora quella storia ha valore. E torniamo al silenzio: per trovare le storie giuste bisogna essere capaci di stare in silenzio. Interrogare il mondo. Avere la pazienza di ascoltare. Quando si ha la pazienza di ascoltare si trovano le storie forti. E perché le storie sono importanti nel mondo di oggi? Non perché, come qualcuno sostiene, siamo in una fase di regressione e come i bambini abbiamo bisogno di narrazione, delle favole della buonanotte. Abbiamo bisogno di storie perché abbiamo troppo rumore attorno. “Bomba su una scuola nella Striscia di Gaza. Sette morti, dieci morti, quindici morti”. Quante ne abbiamo sentite di notizie così in questi giorni? “Bomba su un campo profughi: 150 morti”. Tutte queste notizie ci dicono qualcosa? No, non riescono più a passare queste informazioni, sono ondate di numeri.

Paolo Giordano, che è uno scrittore ma fa anche lavori giornalistici, tende ad andare nei luoghi quando le cose sono già successe. Lui mi faceva notare una cosa sul libro Preghiera per Černobyl di Svjatlana Aleksievič. Ad un certo punto di questo lavoro l’autrice racconta e tocca i cuori di come molta gente scappando dopo il disastro avesse lasciato nelle case, perché pensava che vi avrebbe fatto presto ritorno, gli animali domestici. Cani, gatti, pesci, uccellini. Poi che succede? Ad un certo punto passano delle squadre che entrano in tutte le case ed eliminano gli animali perché erano contaminati. Tu leggi il libro e ti resta impressa l’idea che qualcuno entra in casa, cerca il cane che è lì affamato, e lo sopprime. Qui potrebbe nascere la domanda: «Ma come, ti preoccupi degli animali e non degli esseri umani che sono morti per spegnere l’incendio della centrale nucleare?». Però dobbiamo vederla anche

in un altro modo, così come l’ha usata Svjatlana Aleksievič e come me l’ha fatta notare Paolo Giordano: spesso noi siamo difesi di fronte ai drammi. Siamo difesi perché abbiamo paura di emozionarci, abbiamo paura di sentire che cosa sta succedendo in Ucraina, nella Striscia di Gaza, in alcuni Paesi dell’Africa, sul confine tra il Messico e gli Stati Uniti, nel Mar Mediterraneo. E allora la connessione tra la nostra testa e il nostro cuore passa spesso per altre cose. Però ritorniamo su Černobyl, ripensiamo a cosa è successo lì. Attraverso gli animali Svjatlana Aleksievič ha raccontato che in quelle case la gente non c‘è più. Che le famiglie non ci sono più.

Facciamo anche un altro esempio, torniamo ai giorni della fuga da Kyïv. Tutti hanno raccontato per giorni quella fuga. A me invece ha colpito molto quando nel podcast Stories la giornalista Cecilia Sala ha raccontato la storia di una bambina che nella stazione della capitale ucraina discuteva con la madre. Dovevano scappare, con il treno, verso Ovest. Ma la bambina non voleva lasciare il suo pupazzo gigantesco. E la madre le diceva: «Sul treno non c’è posto per la gente, non c’è posto per il tuo pupazzo». E la bambina rispondeva: «Mamma io senza il mio pupazzo non parto». E alla fine la madre acconsentiva: «Va bene. Ci stringeremo. Lo abbraccerai molto per fargli occupare il meno spazio

possibile». Quella puntata ha fatto un numero di ascolti altissimo per un prodotto che dura dieci minuti. E anche qui potreste dirmi: «Ma cosa stai dicendo? Che dobbiamo parlare di un pupazzo?» No, sto dicendo che dobbiamo parlare della rottura. Quella bambina non voleva partire senza, perché la notte abbracciava il pupazzo per gli incubi dei bombardamenti. Questa storia qui apre un varco, una crepa, in cui può passare il senso di una cosa. E il senso che si voleva comunicare era che in quel momento c’erano famiglie, c’erano migliaia di persone, che stavano scappando per sfuggire ai missili russi sulla città. E anche in questo caso dare solo il numero delle persone che scappavano non bastava. Dopo un po’ i numeri non vogliono dire più niente. Allora può darsi che tu debba passare attraverso un pupazzo, un animale, una persona, un fiore, un anziano, per raccontare quello che sta succedendo, per illuminare un fenomeno più grande. Perché quello ci parla. Ma devono essere storie autentiche, non costruzioni della nostra testa. Tu devi essere lì, in quel momento, in ascolto della realtà, in ascolto delle persone. E quando tu sei in ascolto incontri le cose che vale la pena raccontare, che fanno la differenza, che illuminano le cose.

Quando ero il direttore di Repubblica mi colpiva sempre quando i giornalisti arrivavano e mi dicevano: «C’è scontro in Parlamento sull’emendamento che ha a che fare coi soldi per le liste d’attesa negli ospedali». O ancora «È scontro sulle liste d’attesa». Ma questa roba qua a chi interessa? Chi tocca? Io chiedevo sempre, ma sostanzialmente non veniva mai fatto, di andare a cercare una persona che è in una lista d’attesa e che deve aspettare un’ecografia 85 giorni. Bisogna andare da quella persona, tirare fuori l’ansia e la paura che hai in quegli 85 giorni di attesa che possono diventare 115. Comunicare significa trasmettere quello che le persone sentono, solo così può diventare comprensibile il peso che ha quell’emendamento nella vita delle persone. E solo allora quell’emendamento avrà un peso, un corpo, avrà una centralità nell’informazione. Altrimenti è scontro politico, interessa 3mila, 4mila, 5mila, persone che vivono intorno al Parlamento, oppure che gestiscono gli ospedali. Ma non parlerà alle persone. (testo raccolto da Anna Spena)

in collaborazione con SEC Newgate Italia

accoglieremo?

Ci siamo inventati una parola falsa: migrante. Dobbiamo imparare a smettere di usarla

C’è un tempo in cui, in una certa parte del mondo, abbiamo deciso di inventare una parola. Questa parola è “migrante”. Migrante non è una parola di per sé problematica, problematico è l’uso che ne facciamo. Nessuno nasce migrante. E quando parliamo di bambini migranti, dentro i nostri nidi o nelle nostre scuole, c’è un po’ un’anomalia. Spesso questi bambini, o questi ragazzi, non hanno mai neanche vissuto l’esperienza della migrazione. E ancora: quando chiamiamo migranti persone che da 20 o 30 anni vivono in Italia, persone che probabilmente hanno anche ottenuto la cittadinanza, dovrebbe sorgere una domanda profonda. Che cosa le distingue dalle “persone del posto?”. Quando quei migranti potranno diventare “persone del posto”?

Fermiamoci un momento sull’Accordo Italia Albania (firmato nel novembre del 2023), a seguito del quale sono stati costruiti due centri Shengjin e Gjader per le persone migranti. Nelle due strutture dovrebbero venir vagliate, sul suolo albanese ma sotto giurisdizione italiana, le richieste di asilo delle persone migranti, e verrebbero trattenute le persone in attesa di espulsione e rimpatrio (con un’applicazione extraterritoriale della detenzione amministrativa, ndr). Oggi, alla luce di questo Accordo, facciamo fatica ad esercitarci nell’immaginazione di cosa può cambiare quando parliamo di accoglienza e immigrazione. Facciamo fatica, per esempio, a capire cosa ci può portare fuori da quell’immagine così forte, così drammatica, così oscena di quelle 16 persone (il 14 ottobre scorso la nave della Marina Militare Libra è partita alla volta dell’Albania con 16 migranti, 10

HANNO PARTECIPATO

Anna Granata professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze Umane per la formazione

“Riccardo Massa”, Università degli Studi di Milano Bicocca

Cleophas

Adrien Dioma presidente di “Italia Africa Business Week” e dell’associazione Le Réseau

Angelo Moretti presidente del Consorzio Sale della Terra e referente della Rete dei Piccoli Comuni del Welcome

Qui da 30 anni e mi chiamano “migrante”

A volte sembra che l’unico problema dell’Italia sia la presenza dei migranti. Persone che arrivano in questo Paese perché cercano futuro, possibilità, opportunità. Eppure noi siamo qui da più di 30 anni. Abbiamo figli e nipoti nati in Italia. Per diversi anni ho lavorato come educatore a Parma. E mi ricordo perfettamente lo scambio con un ragazzo di origine ghanese: «Mio padre ha costruito una casa in Ghana con tante stanze», mi aveva raccontato. E poi: «Ma io non voglio emigrare in Ghana». Per lui tornare in Ghana non significava tornare a casa, nel Paese di suo padre. Casa sua era l’Italia. Si continua a pensare che le persone di origine straniera non siano italiani. Ma si può avere un’origine straniera e sentirsi, ed essere, italiani.

Immigrazione, e se non fosse un problema?

Nessuno di noi può “risolvere” il fenomeno dell’immigrazione, e forse non va risolto, perché è un fenomeno naturale. Ma ognuno di noi può fare la sua piccola parte in questa grande storia. In Italia oltre il 70% dei comuni ha meno di 5mila abitanti. Comuni che vivono il problema dello spopolamento, dell’invecchiamento, dell’emigrazione. Il “welcome” non riguarda solo i migranti, un comune o è accogliente o non lo è. L’accoglienza è un modo di essere, un modo di fare. Oggi oltre 70 piccoli comuni hanno aderito alla Rete e, inevitabilmente, l’accoglienza e il welfare confluiscono anche nelle forme economiche di cui beneficiano tutti: il bar che riapre, il parco che viene rimesso a posto, la scuola che ricomincia ad avere le aule piene.

bengalesi e 6 egiziani selezionati su 80 intercettati su barchini la notte in acque internazionali da motovedette delle autorità italiane, ndr) che abbiamo allontanato dal nostro Paese deportandole in Albania. Ora sappiamo che sono tornate in Italia e possiamo dire che quella è stata una messinscena. Però questa messinscena ci lavora dentro, ci entra dentro come uno spazio possibile.

È possibile che qualcuno abbia compiuto un viaggio dall’Egitto attraverso il Mediterraneo attraverso quelle barche che abbiamo bene in mente? O magari è possibile che qualcuno abbia attraversato il deserto per arrivare nel continente dei diritti e poi venga trasportato fuori? Prima di pensare a come accoglieremo dobbiamo prendere consapevolezza del momento in cui siamo: un clima in cui è possibile deportare i migranti, in cui è possibile accompagnare via, fuori dalla patria dei diritti, qualcuno come fosse appunto colpevole di qualcosa. E purtroppo questa realtà non la vediamo solo a livello macro attraverso le azioni del nostro Governo, ma la vediamo anche in una dimensione più micro. Ci sono Comuni che per esempio lasciano per strada i minori stranieri non accompagnati, o che li allontanano verso altri territori dove si spera che siano altri ad accoglierli. Abbiamo scuole dove dalle dirigenze dicono “non c’è posto”. Credo che questo clima molto opprimente di retroguardia ci attraversi un po’ tutti, anche chi tra noi e mi metto anch’io in prima linea pensa di essere parte di un’altra storia, di un’altra vicenda. Ma dobbiamo comunque guardare al futuro, pensare a come accoglieremo, e per farlo torniamo anche al passato. Abbiamo sempre avuto persone in movimento. La Bib -

di Angelo Moretti

bia è piena di persone che si muovono. Ed è bellissima, per esempio, quella ambiguità della parola ospite in cui non si capisce chi accoglie e chi è accolto. Forse perché oggi sono io che ti posso accogliere, domani sarai tu che potrai accogliere me. Il filosofo francese Emmanuel Lévinas ha scritto che abbiamo inventato l’espressione migrante, e questo migrante turba la nostra quiete. Decidere di ospitarlo, fino anche ad amarlo, è il criterio dell’umano. Ecco, a me sembra sempre che questo criterio dell’umano sia quello che ci deve guidare anche nella prospettiva futura. Per dirvi quando ho capito qualcosa di più sull’accoglienza che è quel moto che tutti noi possiamo attivare in qualsiasi momento verso persone vicine o lontane sarebbe inutile raccontarvi il movimento di ricerca o di studio su questi temi.

Per spiegarvi che cos’è l’accoglienza devo tornare a un’esperienza personale, a un gesto, che nella mia vita ha segnato un prima e un dopo. Questo gesto è stato aprire la porta di casa mia. Era il 2017, in Italia si era registrato un numero elevato di sbarchi, tra loro anche molti minori. Ragazzini, adolescenti, giovani che mancano così tanto nella nostra terra, che non ci sono quasi più nei nostri luoghi, anche dell’istruzio -

ne, dove cominciamo a chiudere le classi e talvolta anche le scuole. Ecco l’arrivo di questi ragazzini mi ha interpellato in prima persona, mi ha interpellato come famiglia, come casa. Quando ho aperto la porta di casa avevo in braccio il mio figlio più piccolo, aveva un anno. Davanti a noi c’era Babacar, arrivava dal Gambia. Aveva vissuto in una comunità per minori. Ma appena compiuti i 18 anni, lì per lui non c’era più posto. Babacar era uno sconosciuto assoluto per me. Io e la mia famiglia eravamo perfetti sconosciuti per lui. Non so chi fosse più impaurito ed emozionato, ma in una settimana insieme e poi in un anno intero insieme in casa, abbiamo subito compreso che quella barriera, noi loro, autoctoni migranti, che costantemente agiamo come categoria, si è sfaldata. E lo ha fatto perché Babacar era parte della mia casa, perché era parte della mia famiglia. La famiglia non è il sangue, sono le relazioni, perché è esattamente questo diventare famiglia, non esserlo in partenza, ma diventarlo.

Quindi pensando a come accoglieremo non potevo che partire dalla mia esperienza personale. Credo che oggi ci manchi, come società, l’istinto. Per fare accoglienza bisogna muovere l’istinto. Un istinto profondamente umano a “fare casa”, l’istinto di sapere che “dove mangiano in tre, mangiano in quattro”. In tutte le pratiche di accoglienza noi dobbiamo muovere questo istinto che non chiamo né materno né paterno, lo chiamo umano perché penso che riguardi tutti noi indiscriminatamente. Oltre all’istinto anche l’immaginazione. È una capacità che abbiamo tutti in maniera fortissima, da quando siamo piccoli. Immaginare significa trovare le vie, le strade, soluzioni anche complesse non fermandosi a un’idea precostituita, o a un “si è sempre fatto così”, dobbiamo uscire da una gabbia mentale che ci impedisce di immaginare altri modi di vivere insieme. E insieme all’istinto e all’accoglienza abbiamo anche bisogno di professionalità, il cuore da solo non basta. Ma questa viene messa a repentaglio da tantissimi punti di vista. Dobbiamo restituire professionalità ai medici, agli educatori, ai nostri giovani che vogliono fare gli educatori e che hanno il diritto di scegliere questo mestiere col riconoscimento sociale ed economico. Noi dobbiamo riportare al centro tutte le nostre professionalità che dentro questa partita dell’accoglienza possono davvero fare la differenza.

(testo raccolto da Anna Spena)

La mostra 50 illustratori per 150 copertine: così Vita ha ridisegnato il sociale

La prima è di quelle che non si dimenticano. Novembre 2012, sulla copertina di Vita appare un Mario Monti formato Dracula disegnato da Francesco Poroli. A tema del numero c’era infatti un bilancio di 12 mesi di governo tecnico. Difficile rendere l’idea con una foto. Di qui la scommessa di provare una strada nuova. Ci voleva un’immagine sintetica ed efficace per restituire il giudizio su un percorso politico che stava portando «allo smantellamento del Terzo settore». Per la prima volta avevamo fatto ricorso alla creatività e libertà di un illustratore. Subito si era capito che quella era una strada molto promettente da perseguire. Da

quel momento le copertine di Vita sono state sempre affidate alla creatività del disegno, coinvolgendo i migliori talenti italiani e non solo, sotto la mia guida nelle vesti di art director del magazine. È stata un’esperienza, in alcuni casi entusiasmante, grazie alla quale i temi dell’attualità sociale sono stati riletti con la fantasia e la capacità di invenzione degli illustratori. Per questo, all’interno della due giorni per i 30 anni di Vita, è stata allestita una mostra per ripercorrere nei suoi capitoli più significativi la storia delle copertine del mensile, a partire da quel novembre 2012. La scommessa è stata quella di rinnovare il linguaggio con il quale i temi del sociale vengono proposti all’attenzione del pubblico, ma soprattutto è stata una scommessa che ha puntato ad allargare l’attenzione sui temi di volta in volta affrontati. Il valore aggiunto che gli illustratori portano con la loro fantasia e con la loro manualità (che resta manualità anche se le immagini sono create in digitale) è quello di restituire immagini capaci di raccontare in modo inaspettato il tema affrontato. Nella mostra oltre alla presentazione delle copertine abbiamo voluto anche raccontare il “cantiere” che sta a monte e che vede ogni volta un dialogo stretto tra gli illustratori e la redazione del giornale per mettere a fuoco in modo sempre più chiaro ed efficace l’immagine finale. Quello per le copertine è davvero un’affascinante fucina creativa, che in occasione della due giorni è stata raccontata in un affollatissimo workshop tenuto insieme a Federico Demartini di Paw Chew Go, il più importante Festival dell’illustrazione che si tiene in Italia. È stato un momento che ha riaffermato questa bellissima alleanza, consolidata in 12 anni con quasi 150 copertine che hanno visto alternarsi oltre 50 illustratori. La mostra allestita alla Fabbrica del Vapore è stata pensata come una proposta agile e riproponibile anche in altri contesti, in particolare le scuole. Chi fosse interessato e volesse avere altre informazioni può scrivere a eventi@vita.it. (Matteo Riva)

“Un’alleanza creativa”: mostra a cura di Matteo Riva e Antonio Mola. Testi di Giuseppe Frangi e supervisione di Sergio De Marini e Vittoria Caprotti

investiremo?

Dai mutui per i precari ai prestiti ponte per gli studenti : l’altra faccia

dell’impatto

sociale

La banca è un’istituzione che si fonda sulla fiducia. Fiducia che le viene riconosciuta dagli azionisti e dai clienti. Vogliamo essere un ponte che connette questa fiducia, grazie al risparmio, con la possibilità di creare impatto. L’impatto si crea su chi deposita che, dando fiducia, si aspetta che quel risparmio sia preservato e si accresca. Quindi l’impatto dipende dalla capacità di un’istituzione di riuscire a gestire il risparmio, migliorandone la performance. Dall’altro lato, l’impatto si crea nella società e nell’economia reale impiegando il risparmio raccolto, e gli impieghi hanno una destinazione che sono le persone e le aziende. Come operatore finanziario posso giocare due ruoli chiave: indirizzare gli operatori economici verso la sostenibilità attraverso scelte premianti per chi la persegue ed essere un elemento di unione da chi fornisce risorse a chi le utilizza a impatto sociale. Per generare impatto e benessere nelle comunità è importante sostenere il Terzo settore, fondamentale per tutta l’assistenza che dà al mondo del sociale che noi come Intesa Sanpaolo assistiamo e supportiamo da 20 anni. Attraverso la Direzione Impact infatti serviamo, grazie ai 600 colleghi dedicati che operano nei cento punti operativi presenti su tutto il territorio nazionale, oltre 100mila clienti non profit cui abbiamo erogato oltre 2 miliardi.

Il nostro credito d’impatto, oltre ai finanziamenti per il Terzo settore, include strumenti come mutui accessibili per giovani e famiglie, prestiti agli studenti senza garanzie, e finanziamenti per imprese che dimostrano attenzione alla sostenibilità sociale e ambientale

Stefano Barrese responsabile della Divisione Banca dei Territori, Intesa Sanpaolo
Laura Orestano ceo di SocialFare
Giovanni Azzone presidente di Fondazione Cariplo
HANNO PARTECIPATO

Investire cioè lasciare un’impronta

L’esercizio di futuro che facciamo quando ci domandiamo come investiremo significa quale impronta vogliamo lasciare, chi vogliamo essere, quali scelte vogliamo fare, qual è il colore dei soldi e verso che cosa vogliamo investire, in modo coraggioso e soprattutto autentico. La Stanford Social Innovation Review, già nel 2015, poneva la domanda: “Qual è il nostro obiettivo? Quale impronta vogliamo lasciare?”. Ha costituito un punto di riflessione molto importante, non solo per gli innovatori sociali, gli imprenditori sociali di tanta parte del mondo occidentale, ma ha anche dato il via a quello che oggi consideriamo l’investimento a impatto sociale.

Bilanciare emergenza e sviluppo

Investiamo le risorse sul territorio, nella società, in quella che è a tutti gli effetti un’infrastruttura sociale. Qui abbiamo, il vero dilemma delle fondazioni di origine bancaria: quanto investire sull’emergenza di oggi o quanto investire per evitare l’emergenza di domani?

Se si ascolta l’elenco delle situazioni drammatiche del nostro territorio, verrebbe voglia di usare tutte le risorse per intervenire sulle emergenze, sulla casa, sul cibo, sulla povertà educativa. Una parte di razionalità però dice che, se operiamo così, continuiamo a mantenere le stesse criticità e a non risolverle nel tempo. Una quota delle nostre risorse deve andare sulle emergenze, ma dobbiamo mantenere la capacità di incidere sulle cause che le generano.

Qui subentra un aspetto importante per tutte le società che generano profitti e cioè se quel profitto è responsabile e socialmente sostenibile. E in questo il nostro ruolo, come banca di riferimento, è fondamentale per connettere il risparmio con l’impatto generato dagli impieghi, quindi dal credito, generando profitti socialmente responsabili.

Un mutuo per i lavoratori atipici, per i giovani che abbiano un reddito stabile o no, con distribuzioni temporali lunghe che consentano loro una rata accessibile fino a 40 anni, fatto con un long to value, quindi con la possibilità di prendere debito fino all’importo della casa, possiamo definirlo credito d’impatto. L’80% dei nostri mutui sono stati erogati agli under 35, ossia la categoria più colpita dalle difficoltà dell’housing.

Un altro esempio di credito d’impatto è la possibilità di offrire educazione qualificata e formazione a chi vuole migliorare il suo posizionamento nella società che è come creare una startup, nel senso che la prima startup è quella che ogni individuo costruisce, decidendo di voler migliorare la sua posizione nella società . E il primo passo è un’educazione qualificata, la laurea, o anche un corso di studi importante, che abbia un profilo professionale significativo.

Qui di nuovo torna il tema del credito d’impatto sociale con il nostro prestito d’onore. Un sostegno economico per far fronte a tutte le spese legate allo studio che riduce le differenze socio-economiche delle famiglie, fattore di maggiore impatto sui percorsi di istruzione dei giovani italiani. La restituzione può iniziare due anni dopo la laurea, esiste cioè un “periodo ponte” durante il quale il giovane può trovare lavoro e quindi iniziare a rimborsare il presti-

to, che è possibile restituire in un arco di 30 anni. Tutto questo consente di avere una rata sostenibile. L’unica garanzia richiesta a fronte di questo tipo di prestito per gli studenti è di essere in regola con gli studi! Oltre 40mila studenti stanno realizzando i loro obiettivi formativi grazie ai finanziamenti erogati da Intesa Sanpaolo, per un controvalore di mezzo miliardo di euro. Anche il credito che eroghiamo a favore delle aziende possiamo definirlo credito d’impatto, in particolare quando è a supporto di progetti sostenibili che guardano non solo al profitto ma dimostrano attenzione alla sostenibilità sociale e ambientale. Per questo abbiamo strumenti finanziari innovativi, premianti per investimenti che generano il benessere delle persone che lavorano all’interno dell’azienda e valore per la comunità e all’ambiente in cui opera, criteri a cui guardiamo e che sono attenuatori del rischio e indicatori della qualità aziendale. Essendo la nostra una banca che copre tutti i settori, ci dobbiamo confrontare con la volatilità derivante dall’andamento del mercato e dei vari comparti. Ma, di nuovo, abbiamo un elemento che ci consente di fare credito e di farlo con un profilo di grande attenzione sociale: la possibilità di utilizzare, dove disponibili, i prestiti di impatto che consentono di poter arrivare grazie al capitale che la banca decide di rischiare a distanze molto lunghe, anche ventennali. È chiaro che, in questi casi, la lettura del rischio effettuata sull’azienda deve tener conto di alcuni profili considerati come “attenuatori” del rischio stesso. L’impegno verso le comunità, sul sociale, l’attenzione all’ambiente sono dei marker della qualità dell’azienda nel perseguire i suoi obiettivi e nel rendere, essa stessa, sostenibili i suoi profitti e quindi la possibilità di ripagare il credito offerto dalla banca.

Questo è il modo con il quale la nostra banca investe i suoi soldi, i soldi degli azionisti, i soldi dei depositanti, creando impatto nella società. È chiaro che questo è, dal punto di vista della dimensione e dal punto di vista dell’approccio, un unicum e lo vediamo nella sostenibilità dei risultati. La sostenibilità dei risultati, ossia la qualità del credito, è infatti l’elemento che ci consente di continuare e accelerare con un approccio che mira a coniugare risparmio e credito con soluzioni che creano valore duraturo, favorendo profitti responsabili e sostenibili, e rispondendo alle esigenze sociali in modo innovativo e inclusivo.

Come Banca dei Territori, siamo molto attenti ai bisogni delle comunità locali e le sosteniamo anche con un fondo interno alimentato da ogni operazione bancaria. Da aprile 2021 utilizziamo un meccanismo che chiamiamo “Formula”, perché è la formula del bene: per ogni attività dei nostri clienti che si tratti di un’operazione di investimento per preservare e gestire il risparmio o che si tratti di finanziamenti e prestiti Intesa Sanpaolo ha deciso di destinare una parte delle commissioni a questo fondo rivolto a finanziare singole iniziative sul territorio. Chiunque può contribuire: “Formula” è accessibile dalla nostra piattaforma online di raccolta fondi For Funding, per promuovere in tutto il territorio italiano iniziative dedicate alla sostenibilità ambientale, all’inclusione sociale e a favore dell’accesso al mercato del lavoro delle persone in difficoltà, attraverso azioni nell’ambito dell’assistenza agli anziani, al mondo dell’infanzia, della riqualificazione di edifici o di spazi pubblici per destinarli ad attività sociali e di inclusione. For Funding ha generato più di 50 milioni di euro dal 2017 in interventi a favore di 400 progetti non profit, anche attraverso il sostegno diretto della banca (grazie a “Formula”) che hanno un impatto sociale e inclusivo sulle comunità a conferma ulteriore della nostra volontà di essere un’istituzione che connette l’interesse dei nostri clienti con l’esigenza di creare un impatto positivo sull’intera società.

Questi sono gli elementi che creano e rafforzano il nostro radicamento sui territori e l’affezione con i nostri clienti, le persone che ripongono in noi la fiducia per la creazione del bene comune. (testo raccolto da Giampaolo Cerri)

in collaborazione con Intesa Sanpaolo

La ricerca Come gli italiani vedono il Terzo settore di oggi e quello di domani

indagine realizzata da Swg per il trentennale di Vita ha voluto esplorare la percezione che gli italiani hanno del Terzo settore e la sua evoluzione nel tempo. Il quadro che ne emerge è ricco di chiari-scuri ed evidenzia, come, nonostante il grande lavoro fatto fino ad oggi, ancora molto ci sia da fare.

Un primo aspetto rilevante riguarda proprio la dimensione della conoscenza e della percezione. Da questo punto di vista gli italiani non hanno dubbi: il Terzo settore rappresenta un insieme di soggetti fondamentali che hanno svolto e svolgono tutt’ora un ruolo chiave sia in campo sociale che economico. Un “esercito dei buoni”, dunque, che abita la solidarietà e integra le carenze nei servizi di welfare, soprattutto in contesti complessi come la disabilità, gli anziani, l’accoglienza dei migranti, la protezione civile. Soggetti che si qualificano soprattutto per l’assenza di una prospettiva di lucro, che li colloca quindi al centro delle relazioni sociali e di comunità. I primi promotori dei concetti di inclusione e responsabilità sociale, ai quali oggi fa riferimento in maniera sempre più rilevante anche il mondo profit. A metà tra profeti e partigiani della resistenza sono visti come coloro che da un lato curano le disfunzioni del sistema, dall’altro promuovono una visione alternativa, solidaristica, comunitaria. Un brodo di cultura di valori che in realtà appaiono sempre più lontani dai vissuti individuali, la cui centratura sull’io, sulle proprie libertà e sui propri diritti è sempre più forte. E qui si pone un primo elemento di riflessione e di rischio per il futuro del Terzo settore: quello di diventare una sorta di “delegato alla solidarietà”, ovvero di soggetto in qualche modo altro rispetto all’esperienza individuale, ma che ha il compito di occuparsi a livello collettivo di quei temi e problemi che a livello individuale non si sa e non si vogliono affrontare. A conferma di questo rischio anche i dati sui modelli di partecipazione, che devono fare i conti con i sistemi di riferimento fluidi e relativistici dei nostri tempi:

% di intervistati in accordo con le affermazioni riportate

79

le organizzazioni del Terzo settore producono un effetto sociale positivo per il Paese

75

le organizzazione del Terzo settore svolgono un ruolo fondamentale per il Paese

67

le organizzazioni del Terzo settore producono un effetto economico positivo per il Paese

42

le organizzazioni del Terzo settore sono troppo politicizzate

39

le organizzazioni del Terzo settore dovrebbero pagare le tasse come tutti gli altri

24

le organizzazioni del Terzo settore rappresentano più un costo che un vantaggio per il Paese

la partecipazione tradizionale di tipo volontaristico, organizzata e continua, è sempre più travolta da una partecipazione estemporanea, emotiva che trasforma la visione stessa dei suoi protagonisti da volontari a sostenitori/attivisti. Questa forte dimensione di emotività nella percezione e nei vissuti attorno al Terzo settore alimenta anche un atteggiamento di fondo che si osserva in molti altri ambiti e che porta alla costruzione di veri e propri schieramenti di individui che si pongono come tifosi di fronte alle diverse questioni. Anche in questo caso, quindi, a fronte di un’ampia maggioranza di sostenitori del Terzo settore, emerge una quota non irrilevante (circa un italiano su quattro) di veri e propri detrattori che, non solo non riconoscono l’importanza del Terzo settore, ma lo accusano di eccessiva politicizzazione, di eludere le tasse e di rappresentare essenzialmente un costo per la collettività.

Se la percezione è quella descritta, la conoscenza di dettaglio di questo mondo è davvero bassissima. Solo il 30% degli italiani sa definire correttamente il concetto di Terzo settore e una quota irrisoria è in grado di indicare correttamente il numero di volontari, di dipendenti o il fatturato complessivo generato. In prospettiva futura ci si immagina che tra 10 anni il Terzo settore avrà ancora come ruolo prevalente la fornitura di servizi di welfare, ma in misura minore rispetto ad oggi, mentre crescerà la sua funzione “profetica” ed educativa nella direzione di sviluppare un’economia più inclusiva. Un cambiamento di prospettiva che non appare destinato (almeno nella percezione che ne hanno gli italiani) a diminuire l’importanza che il Terzo settore potrà avere per la società italiana. Non solo. Nell’ottica del prossimo decennio gli italiani vedono prospettive del tutto positive per il Terzo settore anche dal punto di vista della capacità di coinvolgere nuovi volontari ed attrarre finanziatori.

In uno scenario globale in cui la sostenibilità è un pilastro delle strategie istituzionali e imprenditoriali, il Terzo settore si pone, quindi, come precursore di nuovi modelli di impresa innovativa che risponda ai bisogni sociali, senza trascurare la sostenibilità economica. Tutte queste considerazioni si traducono in un altro, sorprendente, aspetto che emerge dalla ricerca Swg: l’apertura di una parte significativa della popolazione all’idea di lavorare nel Terzo settore, per ragioni che vanno oltre la semplice retribuzione. Circa due italiani su cinque sono attratti dall’idea di lavorare in un’organizzazione del Terzo settore

Le ragioni di questa scelta sono spesso associate a benefici non materiali, come livelli inferiori di stress e una maggiore soddisfazione personale. Questi aspetti positivi sono bilanciati, però in negativo da una minore sicurezza occupazionale rispetto al settore for profit che rende comunque la scelta incerta.

Il futuro del Terzo settore appare quindi ricco di opportunità, ma anche di nuove sfide. La crescente attrattività che esercita su chi cerca una carriera più soddisfacente, meno orientata al profitto e più attenta ai

Il ruolo più importante del Terzo settore?

Fornire servizi di welfare e assistenza

Sviluppare un’economia più inclusiva

Promuovere la cooperaz. tra le persone e le comunità

Mobilitare politicamente per i diritti civili e sociali

Educare la società su tematiche importanti

Altro

Il Terzo settore non ha alcuna importanza

Come è destinata a cambiare l’importanza del Terzo settore nei prossimi dieci anni?

Importanza per il funzionamento della società

Capacità di coinvolgere i volontari

Capacità di attrarre finanziatori

Riconoscimento dello Stato

bisogni sociali, suggerisce che il Terzo settore potrebbe assumere un ruolo centrale nella trasformazione dei modelli di sostenibilità ed innovazione nel panorama del lavoro Allo stesso tempo, occorre però prestare attenzione al rischio di “marginalizzazione per delega” che si sta correndo. Non basta che il Terzo settore goda della buona considerazione di gran parte della popolazione o che venga percepito come una interessante opportunità occupazionale, se perde la sua capacità di mobilitazione e coinvolgimento che non vuol dire andare verso nuove forme di movimentismo, ma mantenere il suo valore civico e di civilizzazione della società in cui è inserito a tutti i livelli: economico, istituzionale, politico e di presenza viva nella quotidianità di tutti i cittadini.

muoveremo?

Fra auto elettrica, smart road, guida autonoma: vi racconto la mobilità del futuro

Per rispondere alla domanda su come ci muoveremo porterò una prospettiva più tecnologica. Questa ci porterà a toccare anche sfere di natura sociale, in quanto la tecnologia può aiutare molto a migliorare la mobilità di tutti. Da decenni non assistevamo a così tanti trend innovativi, che stanno completamente cambiando il settore della mobilità: dalla micromobilità alle auto, al trasporto pubblico. Assistiamo in primo luogo a un passaggio progressivo dalle auto e dalla micromobilità tradizionale a veicoli sempre più connessi, in grado di inviare dati verso l’esterno, attivando servizi di valore. Dati che, tra l’altro, rappresentano un’enorme opportunità per tante nuove aziende. In secondo luogo, c’è il progressivo passaggio imposto dalla normativa dai motori a combustione a quelli ibridi o elettrici e, terzo, il progressivo spostamento dal possesso all’uso dei veicoli a noleggio condivisi, soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione e per chi abita nelle città medio grandi. L’altro grande tema emergente è la guida autonoma. Vediamo dunque insieme tre elementi che, oggi, abbracciano questi trend: la sostenibilità ambientale, le infrastrutture e, appunto, la guida autonoma.

Partiamo dal mercato automobilistico in Italia e dall’invecchiamento del parco auto. Non è solo la popolazione a invecchiare, anche il parco veicoli segue la stessa linea, con circa dieci milioni di veicoli di classe euro quattro o inferiore, con più di 18 anni di età. Questo, da un lato, significa un maggior inquinamento ma, dall’altro, un avvio di progressiva sostituzione con un parco di veicoli elettrici o ibridi. Com’è noto, il mercato stenta a decollare, siamo intorno al 7% delle immatricolazioni: l’elettrico è

HANNO PARTECIPATO

Giulio

Salvadori direttore degli Osservatori di innovazione

digitale del Politecnico di Milano

Lisa Noja consigliera in Lombardia, coautrice del manifesto Live for all

Maria Chiara

Roti

direttore generale della Fondazione

Ronald McDonald Italia, in collegamento da Karpathos, in Grecia

Parliamo di diritti non di assistenza

Tutti i dati sulla diminuzione e l’invecchiamento della popolazione ci dicono che la parte più fragile degli abitanti delle nostre città, composta da persone anziane, spesso sole e meno autosufficienti, sarà sempre più maggioritaria. La prima cosa da fare è decidere se vogliamo che a muoversi sia tutta la famiglia umana o se una parte può restare esclusa. Una bussola in questa direzione è la Convenzione Onu che ha infranto tre tabù: considerare la disabilità come una questione sistemica e non individuale; valorizzare le persone con disabilità come l’espressione della diversità e ricchezza del genere umano; guardare la disabilità non come un tema di assistenza ma di tutela dei diritti umani.

Viandanza, nuova forma di conoscenza

Sono felice di condividere questo compleanno con voi, portando la prospettiva del camminare e del cammino come strumento di coesione sociale. La viandanza e il pellegrinaggio sono una forma rinnovata di turismo, che porta a conoscere culture, sapori, immagini, luoghi e persone in luoghi remoti e lontani dalle grandi mete commerciali. La mia è una riflessione personale, perché questo cammino coinvolge anche la mia famiglia, e collettiva, perché il camminare possa diventare uno strumento di crescita e conoscenza per tutti. È una passione che ho portato anche nel mio lavoro. Nel cammino si porta per scelta un peso, lo zaino. Le famiglie che portano i figli nelle nostre case di accoglienza vicine agli ospedali pediatrici portano un peso che non hanno scelto. La condivisione di questa fatica è la strada che si fa insieme.

una via, probabilmente non l’unica, per rendere la mobilità del futuro più sostenibile dal punto di vista ambientale. Ma resta un’opportunità per il Paese: in Italia arranchiamo, mentre a livello globale, non solo nel mondo asiatico, le immatricolazioni elettriche sono già al 16%. Guardando all’obbligo normativo che al 2035 prevede solo l’acquisto di auto elettriche in Europa, ci siamo chiesti quale impatto potrà avere in termini di sostenibilità ambientale. Guardando l’intero ciclo di produzione fino allo smaltimento della batteria, con l’elettrico si stima una riduzione di emissioni gas serra tra il 15 e quasi il 30% rispetto a un’auto tradizionale. La percentuale varia in base a diversi fattori, quali la taglia e il mix energetico del Paese di produzione. Produrre un’auto elettrica in Cina è più inquinante che produrla in Europa, dove le fonti rinnovabili rappresentano il 40% del totale. Ci siamo poi domandati se la rete elettrica nazionale reggerebbe il consumo energetico dei nuovi veicoli. La risposta stimata è molto positiva: ipotizzando sei milioni di veicoli elettrici in circolazione al 2030 che corrisponde all’obiettivo che ci siamo dati come Paese l’impatto aggiuntivo sulla rete sarebbe del 4%: un dato pienamente assorbibile, anche grazie agli investimenti di modernizzazione della rete elettrica previsti dal Pnrr. Un altro tema molto delicato è quello della batteria: oggi le auto elettriche o ibride non vengono vendute per via di un’esperienza utente ancora frammentata. L’autonomia effettiva non è uguale a quella dichiarata, l’invecchiamento è del 3-4% annuo e il tempo di attesa alla ricarica è troppo elevato: la nuova generazione di batterie potrebbe ridurre queste problematiche. Con un’altra indagine su un campione di mille consumatori italiani abbiamo chiesto

loro se sono disposti ad acquistare un’auto elettrica ibrida in futuro. Permangono forti dubbi: solo uno su tre è intenzionato a comprarla nei prossimi anni, due su tre non ne vogliono ancora sapere. Chi si dichiara favorevole, lo è soprattutto per gli incentivi (una persona su due), per le agevolazioni alla circolazione (ad esempio poter entrare nell’area C a Milano) e in parte per un’attenzione all’ambiente. Chi non ne vuole sapere, invece, lo fa per la frammentazione citata prima: prezzi elevati, limitata autonomia della batteria e scarsa diffusione dei sistemi di ricarica.

In questo contesto, c’è un tema più ampio legato alla mobilità, con progetti di gestione intelligente del traffico e dei parcheggi. Pensiamo alla possibilità che un semaforo possa comunicare con l’ambulanza o i Vigili del fuoco, facendo scattare il verde quando necessario. Non è un progetto fantasioso, ma una sperimentazione in atto in alcune città italiane. Tuttavia, a parte in alcune grandi città, i cittadini sono insoddisfatti di come il proprio comune affronta questi problemi. Nonostante si dichiarino intenzionati a cambiare progressivamente il proprio modo di vivere la mobilità in città, rendendo più sostenibili gli spostamenti, non vedono ancora una risposta da parte delle amministrazioni. Eppure, il 40% degli intervistati si dichiara intenzionato a minimizzare gli spostamenti in auto, monitorando le proprie abitudini di guida e utilizzando mezzi pubblici o mezzi di trasporto alternativo. Un altro dato rilevante è la differenza

tra i cosiddetti boomer di età tra i 55 e 74 anni, che puntano più sul mantenimento dell’auto di proprietà, magari cambiando un po’ le proprie abitudini e i più giovani, la generazione Z, che puntano sui mezzi di trasporto alternativi. Si parla sempre più spesso di mobility as a service, con progetti di integrazione, all’interno di un’unica piattaforma, di quanti più mezzi di trasporto possibili per giungere a destinazione: sharing, trasporto pubblico, auto private con un solo biglietto integrato acquistabile tramite un’unica applicazione. Gli investimenti sono tanti: nel Pnrr ben 34 miliardi di euro sono dedicati alla mobilità.

Il secondo elemento importante è quello delle infrastrutture. Non basta che i veicoli siano connessi, elettrici e sostenibili. Servono infrastrutture in grado di dialogare con il veicolo. Il classico esempio è quello della colonnina che deve poter ricaricare un veicolo nel modo più veloce e intelligente possibile. Tra i progetti censiti dall’Osservatorio, uno di cui si parla ancora poco è l’infrastrutturazione intelligente delle nostre strade. A livello mondiale si sta diffondendo una serie di progetti definiti Smart road: strade intelligenti in grado di comunicare direttamente con i veicoli per una maggior sicurezza (ad esempio avvisare gli automobilisti di un incidente a pochi metri o di una buca molto profonda). Oppure per informazioni legate al comfort di guida, con la possibilità di identificare la stazione di ricarica più vicina integrando i dati con la carica residua della batteria a bordo, in modo da ridurre “l’ansia da esaurimento” della batteria. In Italia abbiamo contato già una ventina di progetti in tal senso, da nord a sud, sulla A4 come sulla Salerno-Reggio Calabria.

Chiudiamo con il tema della guida autonoma. Sembra futuristico, in realtà, già oggi tutti i veicoli di nuova immatricolazione sono dotati di un certo livello di intelligenza: non parliamo di guida completamente autonoma ma di sistemi automatici di frenata in caso di attraversamento di un pedone o di visione dell’angolo cieco. Queste funzionalità riducono la possibilità stimata di incidente intorno al 15-20%. Immaginiamo di rinnovare l’intero parco veicoli e l’impatto rispetto al numero di incidenti, morti e feriti sulle nostre strade.

Guida autonoma non significa solo portare una persona da un punto all’altro: qui in Lombardia, abbiamo sperimentato la possibilità di portare a casa di un anziano i medicinali, andandoli a

prendere in farmacia con una Fiat 500 a guida autonoma. In un altro esperimento abbiamo dotato un’auto di un sensore per il monitoraggio delle fughe di gas, facendole percorrere le vie di un intero quartiere nelle ore notturne. A livello tecnologico, la guida autonoma inizia dunque a prendere piede e bisognerà adeguare anche le normative. Oggi il codice della strada permette, di fatto, solo all’uomo di guidare un veicolo ma sappiamo che il ministero dei Trasporti è al lavoro su questo. Le resistenze al cambiamento dipendono anche da fattori estrinseci. Se capita un incidente con la guida autonoma, l’impatto mediatico sarà forse pari a quello di un milione di incidenti con l’auto tradizionale. Pensiamo a un caso accaduto qualche tempo fa a San Francisco che ha fatto il giro del mondo. Ci sono quindi dei rallentamenti, anche se, come abbiamo visto, il numero di incidenti si ridurrebbe molto. Certe notizie fanno sorgere dubbi: ad oggi solo il 15% degli intervistati dice di essere assolutamente sicuro di voler salire su un’auto a guida autonoma, mentre il 19% non ha intenzione di farlo e due su tre nutrono forti dubbi per paura di non avere il controllo della vettura. Chiudo con il titolo dato all’ultimo convegno dell’Osservatorio: “Accelerare verso una mobilità connessa e sostenibile. È tempo di cambiare marcia”: tutti gli attori in gioco nel panorama mobilità devono vedere queste trasformazioni più come un’opportunità che come una minaccia.

(testo raccolto da Nicola Varcasia)

Banche e welfare Bonassi (Intesa Sanpaolo): «L’impatto sociale? Si costruisce insieme»

Paolo Bonassi, Chief Social Impact Officer di Banca Intesa Sanpaolo è stato uno dei protagonisti dell’incontro che quest’area di governo del maggiore istituto di credito italiano e gli enti membri del comitato editoriale e partner di Vita. Un dialogo che si è tenuto all’interno del palinsesto del trentennale della nostra testata ed è stato l’occasione per mettere a fuoco l’approccio strategico di Intesa Sanpaolo nei confronti del Terzo settore e dei soggetti sociali. Focus che ripercorriamo in questa intervista con lo stesso Bonassi.

Da aprile è nata una nuova area di governo della banca: l’area Chief Social Impact Officer. Con quali obiettivi interni ed esterni nasce questa area dentro cui si colloca Intesa Sanpaolo per il Sociale? Le disuguaglianze ostacolano la crescita e compromettono lo sviluppo di questo Paese, è inaccettabile che le povertà, alimentare, educativa, sanitaria, siano ancora così diffuse. Per questo Carlo Messina ha voluto creare l’area di governo Chief Social Impact Officer: per dare organizzazione e coordinamento al ruolo che Intesa Sanpaolo ha come motore del cambiamento sociale. Non è solo una questione formale, la nuova funzione serve per consolidare il nostro posizionamento ai vertici

Terzo settore, istituzioni e attori territoriali sono nostri partner naturali

mondiali come Impact Bank. Coordiniamo tutte le attività del Gruppo in ambito sociale attraverso una struttura dedicata, “Intesa Sanpaolo per il Sociale”. L’obiettivo è diventare un riferimento per il Terzo settore, per le istituzioni, per gli attori sul territorio e di creare tutti insieme un impatto positivo duraturo sulla società. È la naturale evoluzione di un impegno che trae origine dalla vocazione storica della Banca e delle Fondazioni azioniste. Impegno che dal 2018 è entrato nel Piano di Impresa, questo significa che per Intesa Sanpaolo è un obiettivo strategico, a fianco di

quelli di business. Internamente lavoriamo per promuovere una cultura aziendale in cui i principi di inclusione, equità e impatto sociale e ambientale siano sempre più parte integrante delle decisioni aziendali. Come si pone Intesa Sanpaolo nei confronti del Terzo settore e con quale offerta e servizi?

Intesa Sanpaolo per il Sociale vuole essere un interlocutore progettuale per tutti gli attori del sociale. Il nostro modus operandi è lavorare insieme a favore delle comunità e dei territori, del loro sviluppo sia in termini sociali sia economici. Le disuguaglianze ostacolano la crescita e compromettono lo sviluppo di questo Paese, è inaccettabile che le povertà, alimentare, educativa, sanitaria, siano ancora così diffuse. Per noi è molto importante collaborare con tutti quei soggetti dell’economia civile che svolgono il ruolo di “antenne” sui territori e che ci aiutano a intercettare i bisogni e a progettare soluzioni. È un cambio di paradigma, che passa dall’assistenzialismo, necessario ma non risolutivo, a una logica di intenzionalità e programmazione, dove ogni intervento è pensato per creare valore e generare un cambiamento strutturale. In questo ci aiuta la Direzione Impact con cui lavoriamo in modo funzionale e che si occupa principalmente di fare la banca per il Terzo settore,

con prodotti e servizi dedicati e specifici. In occasione del trentennale di Vita avete accennato a una strategia da co-progettazione nei confronti dei soggetti sociali nei territori. Come cambierà e sarà impostata la relazione con i soggetti del Terzo settore nel prossimo futuro?

Non ci limitiamo solamente a erogare risorse, lavoriamo fianco a fianco degli attori sociali per identificare le priorità dei territori e progettare interventi insieme.

Da sinistra: Guido Cisternino (responsabile Strategia e Presidio del Sociale), Sofia Narducci (responsabile Programmi di Coesione e Inclusione Sociale), Paolo Bonassi (Chief Impact Officer di Banca Intesa Sanpaolo), Federica Cameli (responsabile Educazione e Occupabilità) e Andrea Forghieri (Executive Director Intesa Sanpaolo per il Sociale)

Condividiamo esperienze e conoscenze in una continua coprogettazione con tutti i soggetti coinvolti in un progetto, un dialogo continuo che arricchisce reciprocamente e che costruisce reti, un’infrastruttura sociale che dovrebbe caratterizzare il Terzo settore ma che è ancora troppo debole. Noi vogliamo contribuire a rendere questo intreccio un tessuto più solido e compatto, che non si sfilacci facilmente. Abbiamo avviato un Osservatorio, avrà il compito di individuare le aree tematiche

a maggiore criticità e costituire una base di analisi su argomenti urgenti come l’invecchiamento della popolazione e l’accesso alla salute. E siamo molto attenti anche alle aree geografiche, per il nostro impatto positivo, soprattutto in quelle ad alto rischio sociale e di marginalizzazione.

Pensate (se sì come) di implementare strumenti di misurazione dell’impatto sociale prodotto dalla Banca?

La misurazione d’impatto è uno strumento indispensabile per costruire una credibilità e dimostrare che le iniziative non sono solo frutto di buona volontà o dichiarazioni d’intenti, ma producono effetti reali e misurabili. E questo non solo verso l’esterno ma anche come timone per le nostre decisioni. Dal 2018 abbiamo introdotto indici di performance relativi al sociale, costantemente monitorati e comunicati all’esterno in occasione dei risultati trimestrali. Stiamo integrando queste logiche con elementi di misurazione del cambiamento sociale, così da gestire in modo ordinato e trasparente la valutazione delle iniziative da sostenere, attraverso misure quantitative e descrizioni qualitative. La Banca ha maturato diverse esperienze, come la misurazione del Social Return on

Investment per alcune progettualità, ma soprattutto dell’impatto sociale relativo ai finanziamenti, l’Impact Counter. Una ricerca condotta dalla Direzione Impact ha evidenziato che ogni euro finanziato al Terzo settore raddoppia il suo valore in termini di benefici sociali. È però fondamentale ricordarsi sempre che non si tratta solo di numeri, ma di storie e cambiamenti reali nelle vite delle persone.

Può indicare un progetto/due progetti sociali innovativi che esemplificano bene l’approccio

che volete avere su un tema chiave come il contrasto alle disuguaglianze?

Con il Piano d’Impresa abbiamo dato continuità a progetti di lungo termine già consolidati, tra cui “Giovani e Lavoro” e “Aiutare chi Aiuta”. Con il primo, abbiamo chiesto alle imprese quali fossero le loro esigenze in termini di competenze e creato corsi di formazione ad hoc per i giovani under 35. Oggi il programma è attivo in 15 regioni, ha coinvolto 2.400 imprese e formato più di 4.600 giovani, l’80% di loro ha un lavoro stabile che prima non aveva. Con un impatto reale sull’aspirazione delle persone, quindi, oltre che sulla loro situazione economica.

Con “Aiutare chi aiuta” in collaborazione con Caritas Italiana abbiamo coinvolto oltre 80 Caritas diocesane e dato aiuto a più di 32mila persone in situazione di fragilità. Si tratta di un modello di innovazione sociale, basato sulla condivisione di tutte le fasi di progettazione e una “cabina di regia” congiunta per individuare di volta in volta priorità e soluzioni più efficaci: è nato per far fronte all’emergenza durante la pandemia, poi si è evoluto in un’azione di lungo periodo generando una rete virtuosa di inclusione sociale e interventi capillari sui territori. (Stefano Arduini)

educheremo?

Educare parte sempre da un sogno: imparare a litigare bene, per liberarci dalla violenza

Più che su “come educheremo”, a me pare importante interrogarci su “come vogliamo educare”, cioè sul cosa vogliamo combinare con l’educazione. Il tema è scottante, in quanto quale sia il fine dell’educazione non è cosa condivisa né scontata. Nella nostra società, specialmente nelle scelte politiche, non si usa mai il criterio dell’educazione come criterio decisionale: non assumiamo mai l’educazione come criterio fondativo.

Prendiamo il caso del “bambino difficile” a scuola: una volta era la sfida per l’insegnante e per i compagni, in termini educativi. Improvvisamente, intorno a quindici anni fa, tutto cambiato. Il bambino difficile ha smesso di essere visto in termini educativi, come è sempre stato e come dovrebbe essere, ed è stato consegnato alla neuropsichiatria. È stato trasformato in un’etichetta diagnostica. In Lombardia l’etichetta prevalente è quella di Adhd, in Emilia Romagna quella di “disturbo dello spettro autistico”: esiste addirittura il disturbo da rivalità fra fratelli. Passare i problemi educativi alla neuropsichiatria è il fallimento della scuola: questo deve essere chiaro, altrimenti ci prendiamo in giro, anche se lo facciamo usando la retorica dell’inclusione.

Se la pedagogia non sta a fondamento delle scelte educative, saltano fuori le teorie più stravaganti e valgono tutte: per esempio sta tornando di moda una teoria che speravo fosse abbandonata, quella dell’accompagnamento, per cui i bambini che siano figli o alunni possono fare qualsiasi cosa, basta accompagnarli. Un papà mi ha telefonato davvero dicendomi «dottore, mio figlio mi ha rubato il cellulare e guarda un film porno, cosa faccio?».

HANNO PARTECIPATO

Daniele Novara pedagogista, fondatore del Cpp di Piacenza

Roberta Vincini presidente del comitato nazionale Agesci

Rachele Furfaro fondatrice della scuola paritaria “Dalla parte dei bambini”

Com’è difficile educare alla felicità

Esperienza, avventura, responsabilità, felicità, comunità sono parole che caratterizzano lo scautismo da più di cent’anni. A queste però vorrei aggiungere delle sfide che caratterizzano il contesto attuale e il fatto che oggi nell’educazione si mette molto l’accento sull’affetto, ma si fatica ad accompagnare i ragazzi e le ragazze a saper scegliere in autonomia. Ci pare essenziale educare a “immaginare l’inimmaginabile”: mettersi in gioco rispetto al mondo e agli altri, vivere esperienze vere, in un contesto sfidante com’è la natura e poi portare quelle competenze nella vita di tutti i giorni. In questo mondo frammentato, una sfida è “educare all’intero”: educare insieme la testa, il corpo, il cuore. Dobbiamo aiutare bambini e ragazzi ad uscire dalla dimensione orizzontale di un presente che finisce in se stesso: l’educazione deve farmi scoprire chi sono e dare una spinta verticale, verso il futuro. Dobbiamo educare persone “interindipendenti”: il percorso scout aiuta a capire chi sono e chi voglio diventare, ma dice chiaramente che non lo posso fare se non insieme agli altri. Ci sta a cuore l’uscire dal “siamo tutti uguali” per dire che “siamo tutti unici” e ciascuno deve assumersi la responsabilità di prendere in mano ciò che è per inventare insieme ciò che ancora non è. Ci sta a cuore educare al sogno. Educare persone felici.

Come possiamo rispondere a queste sfide? Camminando insieme, contemplando la possibilità del fallimento, perché fallire è la possibilità di ricominciare e non la fine di qualcosa. Mettendo al centro le relazioni. Sapendo che la funzione di chi educa non è quella di indicare la strada, ma di accompagnare, capaci di ascoltare e di dare continuamente fiducia.

Questo è il risultato di trent’anni di abbandono di ogni criterio educativo. No, non basta “stare vicini”: educazione è dire che esistono cose giuste e cose sbagliate e cercare in linea di massima di fare quelle giuste.

In Italia la pedagogia è stata abbattuta. Siamo il Paese della Montessori, di Pestalozzi, di don Milani… la pedagogia moderna è italiana, ma oggi non è rimasto niente. Se c’è un problema di bullismo, la scuola non chiama il pedagogista: chiama la Polizia postale. Quello che vorrei sottolineare è che tutte le grandi esperienze pedagogiche nascono da un desiderio ed è il desiderio quello che dobbiamo coltivare anche noi oggi, chiedendoci “come educheremo”.

Maria Montessori che desiderio aveva? Quello di trovare un metodo per insegnare ai bambini che venivano considerati “deficienti”. E ce la fa. Johann Heinrich Pestalozzi aveva il desiderio di fare scuola anche con tanti bambini e pochi maestri e inventò il mutuo-insegnamento che sta alla base della pedagogia moderna: ma chi lo applica a scuola il mutuo-insegnamento? Chi se lo ricorda che l’apprendimento non è l’insegnamento? L’apprendimento è vita, esperienza, è fare qualcosa: e così vi ho detto anche il desiderio di John Dewey. E arriviamo a Paulo Freire, che ha il desiderio di alfabetizzare rapidamente i contadini poveri del Nordest del Brasile: ci riesce in 40 giorni, una cosa stratosferica. Don Milani ha il desiderio di fare una scuola senza selezione sociale e scrive la celebre “Lettera a una professoressa” per dire sostanzialmente una cosa sola: non bocciare. Gli intitoliamo le scuole ma intanto continuiamo a bocciare. Baden Powell ha il sogno di usa-

Cambiare la scuola dipende da noi

Nei Quartieri Spagnoli di Napoli il 30% dei ragazzini abbandona la scuola tra gli 8 e i 14 anni. “Dalla parte dei bambini” è una scuola nata per mostrare che un’altra strada è possibile: a dieci anni dalla sua nascita accoglie 800 bambini ma soprattutto e questo secondo me è il futuro di “come educheremo” è un luogo di comunità. Come educheremo dipenderà dal contesto in cui ci troveremo, per questo la priorità è riaprire il futuro delle nuove generazioni, oggi bloccate dalla paura del futuro. Per farlo è necessario cambiare radicalmente il paradigma, abbandonare l’idea delle facili semplificazioni o delle categorie contrapposte e indirizzare il pensiero al riconoscere la complessità. Ci piaccia o no, siamo in un mondo complesso e dobbiamo educare alla complessità. Dare vita a un’educazione nuova, paradossalmente, è un’azione che oggi ha più a che fare con il disfare che con il tessere. Le conoscenze non vanno trasmesse: la conoscenza accade solo quando viene co-costruita nel piacere e cresce nella felicità. La scuola deve essere un’avventura in cui i bambini non perdono mai il piacere della scoperta. Cambiare la scuola non significa riempirla di software e device: c’è bisogno di fare esperienze e di rielaborarle, perché solo se metto in moto una pratica riflessiva l’esperienza diviene conoscenza. La scuola, come dice Philippe Meyzie, deve aiutare a crescere in umanità: occorre creare luoghi di contaminazione sociale in cui aiutare bambini e ragazzi a tirare fuori ciò che hanno dentro.

Come fare? C’è bisogno che tutti noi insegnanti ci mettiamo in una dimensione di continua ricerca e sperimentazione. Assumiamoci la responsabilità di cambiare la scuola, perché come sarà la scuola del futuro dipende da noi.

re la natura come laboratorio pedagogico. Oggi qual è il nostro desiderio, come Paese? Cosa vogliamo fare con l’educazione? A volte mi pare che l’unico nostro desiderio sia tornare al libro Cuore. C’è stato il sogno della “scuola digitale”, ma la scuola è una comunità in carne ed ossa, ha bisogno di essere una comunità di persone che si guardano, si sentono, si vedono, si odorano. Io un desiderio ce l’ho ed è quello su cui ho lavorato tutta la vita come pedagogista: saper litigare bene per liberare le persone dalla violenza. I ragazzi oggi spesso sono carenti conflittuali. Occorre dare una chiave di lettura educativa a fenomeni come il bullismo, la violenza tra pari, il femminicidio, non continuare a cercare risposte solo nella psichiatria. Se aiutiamo i bambini a litigare bene, se aiutiamo noi stessi a litigare bene, possiamo apprendere che si può stare assieme nella contrarietà, nella divergenza, nella discussione, nel contrasto. Il problema dei nostri ragazzi è l’isolamento, non le cattive compagnie: quelle in adolescenza le abbiamo avute tutti, ma se tu sei isolato non vivi. Litigare bene non è solo l’antidoto alla violenza è anche l’antidoto all’isolamento. E allora ricordiamo Danilo Dolci, con la sua famosa frase che riguarda tutti noi: «Ognuno cresce solo se sognato». (testo raccolto da Sara De Carli) in collaborazione con Fondazione Bracco

100 metri quadrati a 100mila euro: ricostuire l’architettura sociale si può e si deve

Parlare del futuro nell’edilizia mette sempre in imbarazzo, perché nessuno di noi può dire come sarà. Molto spesso il futuro di cui parliamo è soltanto una proiezione del presente. Il futuro ha un vantaggio enorme: non sappiamo cosa succederà. È inutile che ci mettiamo a fare disegni apocalittici, stiamo soltanto proiettando quello che stiamo facendo adesso in un tempo futuro. L’imprevedibile poi è sempre alle porte. Sull’edilizia abitativa dispiace che negli ultimi decenni si sia persa anche la cultura dell’architettura della casa sociale. Ricordo che abbiamo avuto stagioni pubbliche molto importanti: nel Dopoguerra venivano chiamati non gli amici degli amici, ma categorie di architetti che poi hanno fatto la storia dell’architettura italiana.

La stagione della cultura della casa è sparita completamente. Eppure la scenografia urbana è fatta dall’edilizia tutta, non solo di quella ricca, ma anche di quella accessibile. Credo che manchi in questo momento proprio un progetto di architettura della casa sociale ma credo anche che oggi, con la tecnologia e gli strumenti digitali che abbiamo, progettare una casa a basso costo sia assolutamente alla nostra portata. È una questione di industrializzazione del prodotto? È vero. In Francia stiamo lavorando ad un progetto di partenariato pubblico privato, in cui c’è una parte speculativa e una parte che viene destinata alle cooperative e al sistema sociale. Costruiamo a 1.500 euro al metro quadrato: non è banale e non è semplice. Però, l’obiettivo del pubblico che siede al tavolo del dialogo col privato (io ho fatto una gara con dei privati, ma il mio interlocutore non era

HANNO PARTECIPATO

Carlo Cerami vicepresidente di Confindustria Assoimmobiliare

Guido Bardelli assessore alla Casa del Comune di Milano

Mario Cucinella Founder & Design Director di Mca
Alessandro Maggioni presidente di Confcooperative Habitat
di Mario Cucinella

Abiteremo male. A meno che...

Come abiteremo? La prima risposta, sinceramente? Andando avanti in questa traiettoria, è: abiteremo di merda. Si abiterà molto di più in strada. Diffido molto dalle sicumere predittive che arrivano da quelli che hanno le verità e la scienza infuse: che poi sul medio periodo vengono spesso smentiti. Certo, la tecnologia è un elemento che non aiuterà ad abitare meglio. Nella dialettica del perduto e nella zona tra “solitudine senza isolamento” e “collettività senza la festa”, c’è lo spazio dove ci si deve insinuare per riumanizzare l’abitare. La cooperazione, realtà nata nel 1860, oggi è di un’attualità abbacinante. La cooperazione, in quanto società di persone e non di capitale, che ha come come fine lo scambio mutualistico nella risposta a un bisogno senza finalità di lucro, tutelata dall’articolo 35 della Costituzione (dobbiamo essere non profit perché è la Costituzione che ci vigila e ci dice che non possiamo fare lucro). Ecco, questa cosa andrebbe riscoperta e rilanciata in maniera strutturale.

Penso che oggi l’aspetto sociale più insostenibile sia l’avidità: è questo il primo principio di insostenibilità sociale e quindi anche ecologica. La redistribuzione è il punto fondamentale. La cooperazione però non è che fa solo parole. Stiamo sul mercato, facendo case. Lo facciamo in maniera radicale, frazionando i costi. L’edilizia residenziale sociale si può fare, basta ridurre le aspettative di profitto in cambio di più inclusione e giustizia sociale.

il privato. Era il pubblico, era il comune di Montpellier, che diceva se andava bene o no, e che fissava le regole anche per il progetto privato) è garantire una qualità dell’architettura ad un prezzo accessibile. Quindi, il ruolo del pubblico non è soltanto un ruolo di finanziatore (magari tornasse la stagione della casa pubblica) ma è quello di costruttore di partenariati: qui il pubblico può giocare una partita importante attraverso un dialogo con il mondo privato, fissando le regole del gioco. Abbiamo speso 220 miliardi per il superbonus 110%, per 450mila immobili. Il Green deal per la casa prevede, al 2030, 5 milioni di immobili. È praticamente impossibile con la finanza che abbiamo oggi raggiungere quell’obiettivo. Era giusto mettere a posto il sistema dell’edilizia, che aveva bisogno di un adeguamento termico. Siamo d’accordo che gli obiettivi erano giusti. Il tema però è sfuggito di mano, completamente. Sulla qualità del prodotto finale, poi, non so se qualcuno abbia fatto un monitoraggio, se quei soldi siano serviti veramente per abbassare le emissioni di CO2 e se in conclusione abbiamo migliorato le performance abitative.

Isolare troppo le case inoltre è un problema tecnico, perché le case hanno bisogno di respirare e non di essere isolate. Quindi, ci troveremo nell’arco di un po’ di tempo anche con degli altri problemi. È possibile che in una società ricca come la nostra, con strumenti di ogni tipo, con la conoscenza che abbiamo a disposizione, non riusciamo a fare un piano strategico sulla casa in cui ci sia una relazione positiva fra il pubblico e il mondo che investe, l’impresa privata, per migliorare la qualità del prodotto edilizio?

Nel 2011 abbiamo lanciato, provocatoriamente, l’idea di una casa a 100mila euro, mille euro al metro quadrato. Nessuno l’ha voluta fare. Perché? Perché costava troppo poco. Eppure in alcune zone del Sud Italia si costruisce anche a meno, facendo case semplici con il tufo. Il progetto della casa a mille euro al metro quadrato è stato lanciato nel momento in cui c’erano gli incentivi per la produzione energetica. Tali, per cui la metà della casa te la pagavi con gli incentivi per il fotovoltaico.

Per chi è la casa? Le famiglie italiane, le famiglie in generale, come sono fatte? Da uno studio del professor Mario Abis sugli italiani e le loro case viene fuori una fotografia della struttura familiare italiana. E qual è la famiglia italiana? Sono i giovani che cercano una prima casa per poi lasciarla perché magari fanno un figlio e hanno bisogno di una camera in più. Ci sono gli anziani che hanno bisogno di una casa con una struttura diversa. Ci sono i lavoratori. Ci sono quelli che lavorano a casa. Il mercato, il prodotto che noi progettiamo, dunque, per chi è?

Quando abbiamo lanciato la casa da 100mila euro per 100 metri quadri, era un loft vuoto. Era cioè predisposto per metterci gli impianti. Se uno deve accedere ad una casa che ha quel livello di risorse, non ha certo tempo e voglia di spenderli per un bagno piastrellato. Va in uno di questi outlet, si compra quattro pareti e quattro mobili e con 4-5mila euro si fa la casa.

Quindi bisogna anche capire qual è il target, cosa per quel prezzo ti posso offrire. È evidente che la casa di cui sopra aveva tutte le predisposizioni per essere a norma di legge, però bisogna anche lavorare sul prodotto. Dobbiamo cioè lavorare su che cosa possiamo offrire a quel prezzo. Io credo che, come è stato detto prima, se il tema della casa è un tema di calmierazione sociale, è come il lavoro. Il lavoro e la casa sono le due cose per cui si crea una forma di calmierazione a bassa intensità di conflitto. Pensate alle politiche viennesi. Se Vienna riesce a mantenere un livello di conflitto basso è perché l’accesso alla casa dell’immigrazione non è a 30 chilometri dal centro, ma è nel cuore della città. A Londra ci sono le case popolari sul Tamigi. Hanno provato a buttarle giù, ma non c’è riuscito nessuno. Quella mixité sociale di cui si è parlato tanto nei piani urbanistici è fondamentale, perché è l’ecosistema che funziona. Quando fai gentrificazione non aumenti solo i livelli di spe -

Urgente una politica nazionale

L’aumento del costo dell’abitazione dal 2019 ad oggi è del 50%, persino delle abitazioni in affitto e nelle zone periferiche delle città. Un trend cui non è corrisposta una crescita equivalente delle retribuzioni e della capacità di spesa. Il bene casa ha cominciato a erodere una quantità di denaro così elevata, da spingere molte persone a cadere nella povertà. C’è un tema di arretratezza grave nel nostro sistema, mancano le politiche nazionali. Ben vengano iniziative che partano dal soggetto pubblico. Troveranno in noi un interlocutore privilegiato per provare a costruire quel partenariato pubblico-privato in cui ognuno fa la sua parte, per provare a fare anche in Italia una produzione edilizia che soddisfi la domanda delle famiglie della nostra comunità sociale.

Milano? È in un momento drammatico

Milano sta vivendo un momento drammatico. È la prima volta che stiamo assistendo ad una tendenza così violenta di gentrificazione, con un’espulsione continua e molto rapida di persone che hanno un reddito tra i 1.500 e i 2.500 euro al mese. Quello di cui c’è bisogno adesso per capire come abiteremo nel futuro è come non espellere categorie di persone fondamentali per la città, e non solo per una questione etica (che già sarebbe sufficiente). Che cos’è che dobbiamo costruire? Le case che servono per le classi meno abbienti, ma non così povere da accedere all’edilizia popolare. Il comune ha scelto di mettere a disposizione aree, per affittare a non oltre 80 euro al metro quadrato per realizzare case in edilizia residenziale sociale a canone calmierato.

culazione, ma riduci la qualità dell’ecosistema. Hai soltanto un gruppo sociale che vive insieme, e questo non va bene. È proprio questo che genera conflitti, distanze e persone che non si parlano. La mixité sociale è molto importante. Io spero di iniziare un lavoro insieme coi sistemi cooperativi, con i comuni, con le associazioni e l’Ance su un progetto di ricerca che sia poi concreto, per progettare queste case a basso costo. C’è un lavoro tecnico dietro: sulla scelta dei materiali, sulla scelta della tipologia, sulla flessibilità dell’appartamento, insomma, i temi sono molto ampi.

Con il progetto SeiMilano, tra il 2003 e il 2008 abbiamo venduto a un massimo di 3mila euro al metro quadrato in edilizia convenzionata e intorno a 4mila per l’edilizia libera. Abbiamo venduto 500 appartamenti. Un successo. In questo caso si trattava di una fascia media del mercato. In altri contesti abbiamo costruito a 1850 euro al metro quadrato: non banale per una città come Milano. Ecco, bisogna che gli architetti imparino a lavorare su queste fasce di prodotto.

Ho vissuto a Piacenza tanti anni fa in un quartiere Ina-Casa. Sono andato in un asilo, nel cuore di questo quartiere, progettato da Giuseppe Vaccaro (un architetto modernista). Il quartiere Ina-Casa oggi è una meraviglia. Molto meglio di molte cose che sono state fatte dopo: c’era un’idea architettonica, il giardino, il cortile, c’è un parco enorme. E sono case popolari. Ritorno all’idea che la casa popolare debba in ogni caso essere di qualità. Non casermoni dove metterci dentro quanta più gente possibile: questo non è degno di uno dei sette Paesi più ricchi al mondo. Per funzionare questo Paese ha bisogno di rendere l’accesso a case di qualità alla portata di tutti. Per il bene di tutti (anche dei più benestanti). Sembra una banalità, costruire politiche adeguate sull’housing non è semplice, però credo che si possa fare. Ora tocca agli architetti e a tutta la filiera prendere in capo questa responsabilità. (testo raccolto da Alessio Nisi)

in collaborazione con fondazione illimity

di Guido Bardelli

mangeremo?

Mangeremo cibo buono, pulito e giusto perché avremo capito come stare bene

Un dato del rapporto dell’Unctad (la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) dice che i profitti totali delle nove principali aziende produttrici di fertilizzanti, negli ultimi cinque anni, sono passati da una media di circa 14 miliardi di dollari, prima della pandemia, a 28 miliardi di dollari nel 2021, per poi raggiungere la cifra di 49 miliardi di dollari nel 2022. Oggi è così. Come mangeremo domani? Io dico che mangeremo tutti perché la sovranità alimentare sarà un diritto esteso, riconosciuto ed esercitato da ogni Stato. Saranno le popolazioni a determinare le proprie politiche agricole, dunque alimentari. Tutte e tutti avremo accesso ad un cibo adeguato dal punto di vista nutrizionale e ambientale, ovviamente. Ma anche sotto il profilo identitario e culturale perché dal convivio, dalle ricette di casa, dai piatti rituali passa la cultura dei popoli. Mangeremo tutti a sufficienza perché il cibo sarà considerato un diritto inalienabile, non una merce su cui lucrare. Non sarà più prodotto per essere scambiato sui mercati finanziari internazionali, (avviene dopo che negli anni ’90 la Goldman Sachs ha inserito le materie prime alimentari nel borsino azionario). Sarà, invece, prodotto per nutrire il corpo e lo spirito degli esseri umani. Mangeremo tutti perché avremo compiuto la transizione proteica: saremo passati ad un approvvigionamento proteico primariamente vegetale, a base di leguminose. Questo avrà generato fertilità dei terreni perché i legumi sono azotofissatori, arricchiscono i suoli invece di esaurirli. Il cibo avrà ridotto il consumo idrico per le basse esigenze irrigue di queste piante resilienti, oltre a garantire un apporto proteico

Barbara Nappini presidente di Slow Food Italia Marco Lucchini direttore generale di Fondaz. Banco Alimentare
Luisanna Messeri autrice, conduttrice televisiva e cuoca
HANNO PARTECIPATO

Al buon cibo serve creatività

Sul tema “Come mangeremo?” una delle domande più importanti che dovremmo porci è: “Nel futuro, si stima che saremo 10 miliardi. Saremo in grado di sfamare tutti i cittadini del mondo?” Ci sono due questioni. Una è la preoccupazione quantitativa della sufficienza del cibo. Mentre l’Italia e l’Europa affrontano il grande problema della denatalità, in altri Paesi del mondo, in cui c’è già difficoltà ad avere il cibo, aumenta la popolazione. L’accesso al cibo lo intendo come sufficiente, sano, nutriente e sostenibile. Poi c’è un tema di sicurezza, legato al valore nutrizionale, all’igiene e alla qualità di ogni prodotto. Occorre una collaborazione per generare condivisione, creatività, innovazione perché il cibo è un dono per tutti e dobbiamo fare tutto il possibile perché questo lo sia anche nel futuro.

Cambiare testa anche in cucina

Come mangeremo tra 30 anni?

Sarà inevitabile cambiare i paradigmi, il nostro modo di vivere, di pensare e di produrre il cibo. La situazione attuale è disastrosa: impoverimento del suolo, sfruttamento forsennato e indecente degli animali, uso spropositato di tecnologia e chimica in agricoltura, annientamento della biodiversità. Tutto ciò comporta malattie tumorali, che sono molto frequenti. L’idea (che ora si è capito essere un’illusione) era che la Terra e i suoi frutti fossero illimitati, infiniti, che potevano essere piegati alle volontà dell’industria del cibo. Dobbiamo sperare e lavorare per un mondo migliore. Penso a un’alleanza creativa, dobbiamo metterci insieme ad immaginare e preparare giorni migliori, anche in cucina.

adeguato e accessibile ad un maggior numero di persone. Mangeremo tutti anche perché avremo ridotto la quantità di capi allevati, riducendo in maniera proporzionale l’impatto ambientale e climatico. Nel 2024 si è raggiunto il numero più alto da quando gli esseri umani sono comparsi sulla Terra, con delle stime che oscillano tra i 20 e i 90 miliardi di animali allevati. Una riduzione dei capi allevati significherà una diminuzione rilevante di consumo di suolo in pianura perché le enormi stalle degli allevamenti intensivi industriali sigillano il suolo quanto l’edilizia. Ciò avrà effetti positivi sull’uso e la contaminazione dell’acqua, e ridurrà l’emissione di gas climalteranti. Diminuiremo, così, la porzione di terreni agricoli mondiali destinata alla produzione di foraggio (attualmente intorno al 50%), aumentando per contro l’area agricola destinata alla produzione per consumo umano. A quel punto il modello di allevamento sarà prevalentemente al pascolo, più rispettoso dell’etologia animale, e sarà integrato agro ecologicamente nella produzione. I contadini useranno il letame dei loro animali per fertilizzare i suoli e li nutriranno col fieno da loro stessi prodotto.

Mangeremo tutti perché nessuna agricoltura impattante sarà ammessa. La produzione agricola sarà improntata all’agroecologia, non dovrà pagare una certificazione chi non inquina, ma dovrà pagare chi produce conseguenze negative sull’ambiente e sulle comunità.

Le esternalità negative (ambientali, climatiche, sociali, sanitarie) saranno finalmente ricondotte e a carico di chi le produce, non della collettività. Pertanto tutta l’agricoltura sarà biologica o biodinamica.

Mangeremo tutti perché la biodiversità sarà stata incre -

di Luisanna Messeri

mentata, invece che deteriorata dalle monoculture. Grazie alla policoltura, le aziende agricole saranno più resilienti e meno dipendenti dai brevetti sulle sementi prodotte nei laboratori. I contadini saranno in grado di mettere in campo una grande varietà di semi diversi, capaci di resistere meglio ai cambiamenti, grazie a secoli e secoli di ambientamento in un determinato luogo. Gli agricoltori, riproducendo e selezionando i propri semi, non saranno più dipendenti dalle ditte sementiere, che ogni anno vendono loro semi brevettati. In fondo, agli inizi del ’900, i contadini avevano selezionato da qualche millennio le varietà alla base dell’alimentazione moderna.

Mangeremo tutti perché avremo bandito lo spreco. Nel 2024 un terzo del cibo prodotto globalmente si spreca, con quel terzo sfameremo quattro volte il quasi miliardo di persone che non ha regolare accesso al cibo. Lo spreco sarà eliminato perché rappresenta con la fame una colpa insostenibile, un paradosso etico di portata planetaria, una vergogna che danneggia l’intero consesso umano.

Mangeremo tutti perché la ricerca scientifica in agricoltura, dal 2025 in poi, sarà stata orientata massimamente alla produzione di fertilizzanti e anti patogeni compatibili con il regime biologico, con enormi vantaggi per gli ecosistemi e per i contadini, oltre che per tutta la società civile. Avremo messo al primo posto l’obiettivo di integrare le attività necessarie alla nostra sopravvivenza con gli ecosistemi di cui siamo parte. Avremo capito che non saremo noi a salvare la natura, ma casomai lei a salvare noi se la trattiamo (e quindi ci trattiamo) un po’ meglio. Mangeremo tutti perché di fronte allo sconquasso ambientale e climatico che viviamo, ci siamo resi conto che l’agricoltura orientata al massimo profitto, ma in guerra aperta con l’equilibrio degli ecosistemi e delle comunità, ha non più di un secolo di vita. Mentre l’agricoltura praticata dai contadini di tutto il mondo nelle aree rurali ha almeno 10mila anni e quel patrimonio di competenze, pratiche e biodiversità, insieme alla ricerca scientifica e al sapere tecnico odierno, possono produrre finalmente un sistema alimentare giusto, equilibrato, sostenibile, resiliente che non esclude nessuno, che garantisce il nutrimento adeguato per i 10 miliardi di esseri umani che popoleranno questo pianeta.

Mangeremo tutti cibo buono, pulito e giusto. Mangeremo tutti alle nostre tavole cibo che avremo cucinato insieme ad

amici e parenti o anche da soli. Perché se è vero che siamo quello che mangiamo, è vero anche il contrario, che mangiamo per come siamo, considerando il cibo che poi diventa noi (è l’unica cosa che poi diventa noi) una forma di rispetto per noi stessi e per il prossimo.

Un proverbio latinoamericano dice: «Se più persone hanno fame, non costruire un muro più alto, ma un tavolo più grande». Sapremo che ogni volta che compiamo una scelta d’acquisto, stiamo facendo un atto agricolo, «l’ultimo atto agricolo della filiera», questo dice Wendell Berry. Pertanto ogni volta che compriamo cibo (se siamo fortunati, ci capita tre o cinque volte al giorno) stiamo scegliendo quale tipo di produzione sostenere. Mangeremo tutti perché abbiamo capito che solo quando sarà per tutti sarà davvero buono, pulito e giusto. Mangeremo tutti e tutti insieme perché siamo natura, perché crediamo nel diritto ad una vita di pace e prosperità e perché questa è la nostra dichiarazione d’amore per il futuro e per le prossime generazioni.

(testo raccolto da Ilaria Dioguardi)

Il focus book Nella testa e nel cuore dei donatori fedeli

erché dono è un racconto corale. Dentro ci sono le voci di 50 persone reali, donatrici e donatori fedeli di 26 importanti sigle non profit italiane che fanno parte del comitato editoriale di Vita. Oggi è uno strumento open source per chiunque, fundraiser e non, voglia concedersi un tempo per riflettere in modo nuovo sul gesto del dono. Nella panoramica di studi sul giving, esistono diverse analisi quantitative, statistiche e demoscopiche, ma quasi nulla che indaghi dal punto di vista qualitativo la predisposizione alla solidarietà. I fundraiser si chiedono ogni giorno che cosa passi nella testa e nel cuore delle persone che vogliono sostenere un’organizzazione, perché la loro non è mai una mera richiesta di denaro, è il desiderio di far nascere una relazione. A questa domanda (portata da Fondazione Telethon sul tavolo del comitato editoriale), Vita ha risposto con un’indagine giornalistica scaricabile gratuitamente dal sito grazie al supporto di NP Solutions e Società Nazionale di Mutuo Soccorso Cesare Pozzo.

PViaggio nella

e

L’indagine è stata realizzata sotto forma di intervista one to one. Non un questionario, ma un incontro inteso come ascolto e restituzione fedele delle parole, dei silenzi, delle emozioni. Sta forse in questa scelta iniziale uno degli aspetti che rende unico il progetto. Un setaccio a

Perché dono-Viaggio nella testa e nel cuore dei donatori è stato curato da Daria Capitani (in foto in occasione della presentazione del 26 ottobre). Scaricabile gratuitamente dalla sezione Approfondimenti del nostro sito: www.vita.it

maglie larghe riporta le risposte in forma aggregata: perché si dona, perché si continua a farlo nel tempo, perché spesso un donatore è donatore anche di tempo. Il secondo filtro è invece uno zoom di grande precisione su dieci donatori scelti non per l’entità della donazione ma per la storia che raccontano. Ognuno, con la sua sensibilità e le sue motivazioni, porta un vissuto in cui il lettore possa riconoscersi. Il risultato è ciò che il sottotitolo del libro esprime bene in una parola: viaggio. Un viaggio ti mette a confronto con l’ignoto e l’inesplorato. Al ritorno non sei più lo stesso. Lo testimonia il feedback di chi per primo ha lanciato la sfida, Fondazione Telethon, nelle parole di Laura Caserta, responsabile Comunicazione e Raccolta fondi da individui: «Questa indagine offre uno sguardo interessante su due livelli. Da un lato dà un volto, un nome e una voce a chi compie il gesto della donazione, dall’altro contiene storie ispiranti per il valore culturale e civile che si portano dentro». La scintilla. È fondamentale ma non ci sono ricette. La stessa persona, in momenti diversi della vita, può essere sensibile a una pubblicità in tv o trovarla inopportuna, può trovare nell’incontro con un volontario sotto casa la miccia che fa partire un percorso o proseguire senza ascoltare. Ciò che più sembra influire sulle scelte del singolo sono i vissuti personali, il rapporto vis à vis e l’educazione ricevuta.

PERCHÉ DONO
testa
nel cuore dei donatori

Il fuoco. Per continuare a sostenere, ci vuole legna che alimenti il fuoco. Per i donatori contano la comunicazione, la trasparenza, la fiducia, il pilastro su cui si reggono le fondamenta delle motivazioni. I donatori, anche i più scettici, si fidano. Ma soprattutto conta la coerenza: agli occhi del donatore, ci deve essere un’evidente assonanza tra il dire e il fare.

Il filo. Lega il gesto della donazione con il volontariato. Tra gli intervistati ci sono nasi rossi, volontari che si impegnano in un carcere minorile, qualcuno che dona il suo tempo a una mensa per i poveri, una donna che trascorre tutte le notti in un canile rifugio. Controcorrente il percorso di Ugo, che ha iniziato a donare per un ente che l’ha reso partecipe invitandolo nei centri di assistenza, educazione e riabilitazione. E poi ci sono gli ambasciatori del non profit: condividono l’esperienza del giving e se ne fanno promotori, come se fosse una questione che ha a che fare con l’identità prima che con l’appartenenza.

Ai 50 donatori che si sono raccontati abbiamo chiesto di scegliere le parole per definire il verbo donare. Le frasi (che trovate all’interno del libro) sono venute di getto, al termine di chiacchierate e riflessioni. Non c’è autoelogio né bisogno di un riconoscimento dall’esterno, ci sono senso civico e reciprocità. Manca la parola regalare. Al suo posto ritorna il verbo dare, “ trasferire qualcosa da sé a qualcun altro”. Per gli intervistati, donare non assume il significato di “cambiare il mondo”. Al posto, compaiono altre parole: restituire, includere, partecipare, trasformare (un dolore, una paura, una perdita), condividere.

Le donatrici e i donatori non vogliono cambiare il mondo, lo vogliono riparare. Manutentori consapevoli dei bisogni, delle ingiustizie e delle criticità che lo attraversano.

Testa o cuore? Si dona per seguire un esempio, come racconta Amelia,

I donatori non usano mai la parola “regalare”, preferiscono il verbo

grata nei confronti di uno zio che ha attraversato l’oceano per adottare lei e sua sorella rimaste orfane in un incidente stradale. Si dona per amore, incontenibile e irrazionale come quello di Oreste quando sua figlia gli ha confidato di aspettare un bambino. Si dona perché se ne sente l’urgenza sulla propria pelle, come spiega tra le lacrime Alberto, sostenitore di una fondazione che si spende accanto alle famiglie con bambini affetti da patologie gravi o croniche. Come ben sintetizza Laura Caserta, «il cuore è la scintilla e la testa è quella che si attiva nel tempo». L’appetito vien mangiando. Per una fundraiser, leggere il punto di vista dei donatori fa venir voglia «di approfondire ancora, tenere aperta la finestra del dialogo con i donatori». A tutti gli altri, regala un’incredibile voglia di donare.

lavoreremo?

Dobbiamo cominciare a raccontarci un’altra storia. Con al centro il senso e non il merito

Nella fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore al sovrano vengono dati degli abiti nuovi. Lui li indossa, è felicissimo, fa una sfilata per il regno. Tutti sono convinti che i vestiti siano meravigliosi, finché un ragazzino indica il sovrano, dice «L’imperatore è nudo!» e i popolani si accorgono che è così. Io mi ricordavo della dimensione ipocrita dei sudditi, che non vogliono contrastare il potere e fingono di vedere qualcosa che non esiste. In realtà, nella fiaba avviene quello che capita a chiunque di noi quando ascoltiamo un podcast, guardiamo un film o una serie tv: c’è la sospensione dell’incredulità. Pensiamo che quello che vediamo o ascoltiamo sia vero, pensiamo stia accadendo realmente; perciò, anche nel racconto, le persone sono convinte di vedere quei vestiti e lo stesso imperatore è convinto di averli addosso. Poi il bambino dice che il re è nudo e tutti vedono la realtà per com’è. Rispetto al lavoro sta accadendo abbastanza velocemente la stessa cosa, da parte delle generazioni più giovani.

Nella primavera del 2023 ho pubblicato con Andrea Colamedici un libro che si chiamava Ma chi me lo fa fare, proprio su questo.

All’epoca avevamo molta paura che ci fossero delle persone soprattutto “boomer” che si sarebbero alzate durante le presentazioni e avrebbero detto: «Semplicemente non avete voglia di lavorare», ma questo non è accaduto. È accaduto qualcosa di diverso: abbiamo iniziato a vedere quello che prima non vedevamo. Non è così scontato che si parli di questa prospettiva nella sua complessità e nella sua necessità di trovare delle soluzioni, perché veniamo da decenni di retorica secondo la quale chi non lavora a certe condizioni non ha voglia di lavorare. Si è rotto un

HANNO PARTECIPATO

Maura Gancitano saggista, filosofa e co-fondatrice di Tlon

Stefano Granata presidente di Confcooperative Federsolidarietà

Chiara Violini presidente di Fondazione Gi Group

di Maura Gancitano

Il fallimento del sistema competitivo

Il mondo del lavoro rileva solo l’iceberg del problema, il mismatch tra domanda e offerta. Nessuno è risparmiato perché c’è una crisi profonda e una domanda di senso. Viviamo in un’epoca di competitività esasperata, dovuta alla teoria del merito e alla premialità, del più bravo che va va avanti. Questo non ha portato un gran bene, soprattutto alla salute. Si danno sempre risposte individuali, ma la domanda oggi è più collettiva, le persone hanno il desiderio di fare parte di una comunità. C’è un problema di democrazia, di partecipazione alla vita pubblica. Serve un modello organizzativo diverso, incentrato sulla persona e non sul prodotto o il servizio. Solo in quel momento, mi sentirò riconosciuto e darò il massimo, perché sentirò un’appartenenza.

Neet: l’effetto di un modello insostenibile

Lavoro sostenibile significa prima di tutto lavoro dignitoso, continuativo e inclusivo, che non escluda le persone più deboli e salvaguardi le generazioni future. I Neet sono due milioni. È un fenomeno complesso, dovuto a diversi fattori, tra cui povertà lavorativa, disuguaglianza di genere, contratti precari e scarsa connessione tra scuola e lavoro, su cui siamo molto indietro rispetto al resto d’Europa. L’ascolto dei giovani mette in luce la paura di diventare Neet ma anche la difficoltà di individuare percorsi formativi corretti; per questo promuoviamo progetti di orientamento e di formazione, come il Training hub, con cui i giovani vengono prima assunti con contratto di apprendistato per un anno, al termine del quale entrano in azienda a tutti gli effetti.

incantesimo, abbiamo iniziato a ritenere impossibile questo stato di cose: la soluzione deve essere collettiva e transgenerazionale.

È difficile, in questo Paese è complicato riuscire a capirsi e a parlarsi effettivamente. Pensiamo alla frase «Come stai?». È una domanda retorica, di dialogo. Spesso si usa come intercalare, non si vuole sapere davvero come sta l’altra persona. Ancora più interessante è la classica risposta che tanti danno: «Bene, stanco». Ci viene da dirlo tutto attaccato, un po’ come dire che è una condizione costante per molti. La stanchezza fisica, mentale, emotiva è cronica. Un po’ ci sembra di doverci giustificare, per sottolineare che stiamo facendo abbastanza, che non siamo un peso per la società. Che stiamo forse facendo troppo, ma non c ‘è alternativa. Questo, secondo me, ci riporta al fatto che quando parliamo di lavoro parliamo di una domanda di senso. Quella che diamo non è semplicemente una risposta, è una posizione che tante persone stanno prendendo, un “preferirei di no” che prima forse non avevamo il coraggio di esprimere. La dimensione sotterranea rispetto al lavoro è quella del tempo. Un grande autore, Edward Thompson, si è chiesto tra gli anni ’60 e ’70 come il lavoro soprattutto quello organizzato, industriale abbia influenzato il rapporto con il tempo. All’inizio della prima rivoluzione industriale era praticamente impossibile convincere le persone ad andare in fabbrica tutti i giorni agli stessi orari e tenere sempre gli stessi ritmi. Nel 1.700, in una fabbrica inglese, gli operai non avevano orologi e non controllavano ossessivamente l’ora. Magari c’era un orologio, ma poteva essere manipolato, per esempio per sottrarre la pausa pranzo: la dimensione

lineare del tempo era qualcosa a cui non eravamo abituati. Thompson cita una filastrocca dell’Ottocento in cui si parla del ritmo diverso dei giorni della settimana. Se per noi il lunedì è il giorno più faticoso perché si ricomincia e molto spesso veniamo travolti da messaggi e mail, invece all’epoca era il “San Lunedì”; le persone, soprattutto gli uomini, non si presentavano in fabbrica perché erano ubriache, avevano speso tutto durante i fine settimana. Questo è stato un grande problema, perché bisognava avere quattro volte le persone necessarie. Poi si ricominciava lentamente il martedì, poi il mercoledì più velocemente, il giovedì a ritmo sostenuto, il venerdì si rallentava di nuovo. Quello che è accaduto dopo, invece, è che abbiamo cominciato a pensare di essere delle macchine che devono funzionare e performare sempre e ad arrabbiarci se non abbiamo lo stesso ritmo in tutti i momenti dell’anno e della giornata. Questa omogeneità che pretendiamo da noi stessi diventa una disciplina personale, è qualcosa che introiettiamo. Non serve più il padrone che dall’esterno ci dica «Devi fare di più», ce lo diciamo da soli. Questo riguarda anche chi è maggiormente coinvolto dal suo lavoro: spesso il burnout nasce proprio dall’entusiasmo, dall’esaurimento delle energie. Sviluppiamo quello che secondo l’Organizzazione mondale della sanità è dal 2019 un fenomeno “occupazionale”. Questo modo di lavorare è insostenibile. Finché non cambiamo la cultura che sta alla sua base, le storie, le frasi i concetti, non possiamo trovare soluzioni. Le storie che ci raccontiamo sono quelle del merito, della resilienza, il fatto che non dobbiamo essere un peso, che dobbiamo dimostrare di essere sempre abbastanza. Negli ultimi mesi mi è capitato di seguire un corso di pedagogia dell’orientamento, scoprendo che non riguarda solo i giovani. A volte abbassiamo il livello di alcune pratiche; per esempio, il bilancio di competenze è una pratica narrativa, che dovrebbe avere a che fare con la ricapitolazione della propria storia, con un esercizio di filosofia della narrazione. Invece ci siamo costretti nell’idea che il tempo sia solo lineare e che debba essere scandito, riempito. Abbiamo il terrore del tempo vuoto e il bilancio di competenze diventa un file in cui dobbiamo scrivere quello che sappiamo fare e non una dimensione in cui capiamo chi siamo, cosa desideriamo, quale può essere il nostro futuro. Dovremmo pretendere che questo sia disponibile a livello pubblico; per quanto riguarda il bilancio

delle competenze, per esempio, dovremmo poter fare un percorso di 18 o 30 ore con qualcuno che ci accompagni a ricapitolare la nostra storia, se dobbiamo entrare nel mondo del lavoro o rientrarci. L’orientamento non dovrebbe essere limitato ad alcuni momenti della vita in cui viene detto: «Scegli l’università, capisci quali sono i migliori sbocchi lavorativi per te». Questo vale non solo per il lavoro, ma anche per un certo modo di vedere le relazioni, la sessualità, il futuro, l’immaginazione. Siamo costretti a vivere in una dimensione attiva della vita, non esiste una dimensione contemplativa, pensiamo sia solo per stupidi, per persone che non hanno successo, che non sanno stare al mondo e sono un peso per la società. Questo dipende molto da una certa storia che è stata raccontata in particolare negli ultimi 40 anni, che va proprio contro l’idea di collettività. Dobbiamo sempre cercare di pensare a noi stessi, a quello che ci conviene, dimostrando che possiamo farcela. In questo senso l’idea del merito, oltre a essere inefficace, riconferma i privilegi, perché crea una barriera, ma anche la convinzione che tu debba meritarti qualsiasi cosa, persino l’istruzione pubblica. Poi non solo devi meritarti il lavoro, devi ringraziare, qualsiasi siano le condizioni. Devi meritarti il riconoscimento, devi meritarti di non essere abbandonato, devi meritarti l’amore. E questo sta provocando una fragilità e un senso di precarietà assoluta a livello esistenziale che sta colpendo tante generazioni, i giovani ma anche chi ha più di 65 anni.

L’anno scorso c’era un 5% di persone estremamente coinvolte nel lavoro. Significa che il 95% delle persone che lavoravano in Italia si sentiva poco coinvolto. Quest’anno i dati sono più confortanti, non è più il 5% ma è l’8% a sentirsi coinvolto. Comunque un disastro. L’antropologo David Graeber sostiene che non solo i lavori usuranti, ma anche quelli che reputiamo inutili, senza senso, hanno un effetto negativo sulla nostra salute mentale. Il tempo del lavoro non è solo un tempo che deve essere bilanciato con quello della vita, ma è tempo della vita. E non può essere solo un tempo produttivo, qualcosa che dobbiamo quantificare, ma deve avere a che fare con il senso, che non è mai solo individuale, è sempre anche collettivo.

(testo raccolto da Veronica Rossi)

in collaborazione con Gruppo Assimoco

Dal pensiero sul futuro a quello sull’avvenire: dove la ragione vince

sull’intelligenza

Come premessa per cercare di rispondere alla domanda posta da questa sessione mi sembra importante precisare che occorre avere la forza e l’intelligenza per distinguere il futuro dall’avvenire. L’avvenire non è il futuro perché come la tradizione filosofica insegna il futuro è sempre il futuro di un presente: si pensa al futuro a partire dal presente e in questo senso si può pensare di progettarlo. L’avvenire è un pensiero diverso: è ciò che accade e che quindi non si può progettare, è l’improgettabile. Oggi siamo più propensi a tenerci attaccati al futuro piuttosto che all’avvenire. È un grande nodo del nostro tempo. Fatta questa premessa vengo a quello mi premeva dire in questa sede. Parto leggendovi un breve passaggio di Jacques Lacan, tratto da una conferenza tenuta a Roma nel 1974. Dice Lacan, che la psicoanalisi non è apparsa in un momento qualsiasi della storia: è un “piccolo lampo” tra due mondi, tra un mondo passato della religione, luogo in cui “tutto va” e in cui si riesce a trovare un senso a ogni costo, e un “meraviglioso mondo futuro”. La psicoanalisi, sta dicendoci Lacan, è entrata come un piccolo tempo, “un lampo”, tra un mondo passato e uno che sta organizzarsi come “meraviglioso mondo futuro”. “Un superbe monde à venir” si legge nel testo originale francese. Tradurre “superbe” con “meraviglioso” è corretto, ma qui vorrei prendermi la libertà di una traduzione letterale. Quindi “un superbo mondo futuro”. Perché superbo? Perché non ne vuol sapere di non sapere; perché è un mondo che accetta di pensare e nominare l’ignoto ma non sopporta il mistero. È significativa questa ambivalenza tra “meraviglioso” e “superbo”, che non riguarda solo il mondo futuro ma

HANNO PARTECIPATO

Silvano Petrosino professore di Teorie della comunicazione e antropologia religiosa e media

Anna Detheridge critica d’arte, scrittrice, giornalista e docente di arti visive

Paolo Venturi direttore di Aiccon

Usiamo l’arte per aprire gli occhi sul reale

Gli artisti sono gli unici cui viene concessa la patente di liberi pensatori, legittimati a trascendere le discipline, partendo dall’osservazione, dai sentimenti, da un’intuizione fondata sull’esperienza. Dagli artisti possiamo prendere il coraggio di immaginare. Avvicinare il pensare all’agire. In tanti Paesi del mondo hanno messo in campo progetti che rendono visibile lo scollamento tra istituzioni e società civile, rendono visibile ciò che il consenso dominante tende a oscurare. Oggi una molteplicità di pratiche artistiche mirano a dare voce a coloro che sono messi a tacere dall’egemonia esistente. Viviamo in tempi di dolore diffuso e non riconosciuto, soprattutto tra i giovani. La società occidentale è segnata da mille ferite invisibili che non vogliamo riconoscere.

Il pensiero calcolante sbaglia i conti

Organizziamo la vita in maniera predittiva, e per garantirci ci lasciamo guidare dal pensiero calcolante, rinunciando al pensiero pensante. Al pensiero calcolante viene delegato tutto. Il futuro è un’azione che si gioca nel presente e nella nostra capacità di decidere e non di delegare la decisione al potere o alla tecnica, impauriti dall’imprevisto. Nella società del rischio l’unica strada è quella di investire su un pensiero pensante, dove l’imprevisto invece di essere vissuto come fattore di paura diventa fattore di speranza. È da un pensiero pensante che si generano quelle istituzioni pensanti di cui abbiamo tanto bisogno. Lo stesso Terzo settore nasce da un pensiero che non è l’esito ma è la premessa dell’azione sociale.

che è già molto attuale. Basti pensare alle parole chiave più ricorrenti nel lessico degli slogan pubblicitari: “sempre”, “subito”, “tutto”. Sono parole che configurano il mondo della magia e che esautorano altre parole, che sono chiave nella tradizione del pensiero e che sono “libertà”, “responsabilità” e “fede”. Nella magia non c’è bisogno di fede perché si dà per assodato che le cose rivelate accadranno in modo da poterci permettere di progettare il futuro. Non c’è spazio per l’avvenire. Dunque il “superbo mondo futuro” evocato da Lacan è il mondo della magia

Venendo su un piano concreto, ritengo che l’intelligenza artificiale sia un luogo della superbia, in quanto luogo del pensiero calcolante e non del pensiero pensante. Però, con la mia forma mentis da professore, vi invito a fare un’altra distinzione, quella tra ragione e intelligenza. L’intelligenza è cosa diversa dalla ragione. C’è infatti una componente, anzi una modalità della ragione che non è riducibile all’intelligenza, cioè che non è riducibile alla soluzione del problema. La ragione è capace di accettare che il problema non venga risolto, quindi, per tornare al pensiero iniziale, è predisposta al rischio proprio dell’avvenire. Invece l’intelligenza si muove solo nella prospettiva del futuro progettabile. Per questo l’intelligenza artificiale si sta configurando come l’idolatria del “superbo mondo futuro”. Invece la ragione sposa il rischio di un avvenire che non è un futuro e per questo non è riducibile all’intelligenza.

Per capire la non sovrapponibilità tra ragione e intelligenza vi propongo questo esempio semplice. Quando si

di Paolo Venturi

Milano, Fabbrica del Vapore, 25-26 ottobre GRAZIE a tutti i relatori

Franco Arminio, Giovanni Azzone, Guido Bardelli, Stefano Barrese, Lamberto Bertolè, Paolo Bonassi, Mario Calabresi, Federica Cameli, Daria Capitani, Aurora Caporossi, Laura Caserta, Carlo Cerami, Guido Cisternino, Maria Laura Conte, Miriam Cresta, Mario Cucinella, Federico Demartini, Anna Detheridge, Dario Di Vico, Cleophas Adrien Dioma, Andrea Forghieri, Rachele Furfaro, Maura Gancitano, Anna Granata, Stefano Granata, Riccardo Grassi, Giuseppe Guzzetti, Giada Lonati, Marco Lucchini, Alessandro Maggioni, Luisanna Messeri, Giuseppe Milanese, Anna Mondino, Angelo Moretti, Barbara Nappini, Sofia Narducci, Lisa Noja, Daniele Novara, Laura Orestano, Ivana Pais, Francesca Pasinelli, Silvano Petrosino, Giacomo Poretti, Gaia Romani, Maria Chiara Roti, Rosy Russo, Giulio Salvadori, Paolo Venturi, Roberta Vincini, Chiara Violini, Stefano Zamagni

25-26 ottobre 2024

Milano,Fabbrica del Vapore

30.vita .it Scopri il programma

e GRAZIE ai tantissimi che hanno partecipato

gioca una partita a scacchi con un computer, non c’è nessun dubbio che vinca il computer. Ma questo paradossalmente è il suo limite: è stato progettato per risolvere i problemi, quindi per vincere e non sa fare altro che vincere. Invece quando noi giochiamo con nostro figlio o con nostro nipote, puoi anche pensare di giocare per perdere. Cosa che non è affatto facile, perché devi saper far finta di giocare per vincere. Se vogliamo stilare una classifica questo esempio stabilisce la superiorità della ragione sull’intelligenza: la ragione è libera dal voler far tornare i conti o meno. Invece per l’intelligenza di un computer i conti devono sempre tornare, altrimenti accade quel che Stanley Kubrick ci ha raccontato in modo meraviglioso in 2001 Odissea nello spazio: il computer Hal 9000, teoricamente incapace di commettere un errore, quando ne commette uno non ha altra via di uscita che distruggere tutto. Accettare la ragione che non si risolva nell’intelligenza significa accettare la possibilità della distruzione perché solo noi siamo capaci di distruggere. D’altro canto l’uomo è anche capace di amare, ma di questo “il superbo mondo futuro” non ne vuol sapere.

(testo raccolto da Giuseppe Frangi)

in collaborazione con Reale Foundation

Photogallery

A sinistra il professor Stefano Zamagni, l’asessore Lamberto Bertolé, il giornalista

Dario Di Vico e la professoressa Ivana Pais, intervenuti alla presentazione del rapporto Swg sulla percezione del Terzo settore (vedi a pag. 46). Di fianco, in alto Giuseppe Ambrosio, amministratore delegato di Vita

Sotto, Luigi Bobba, padre della riforma del Terzo settore con l’ex direttore della testata, Giuseppe Frangi. In basso foto di gruppo di Vita

A destra in alto la platea ascolta il messaggio audio di Riccardo Bonacina Sotto l’intervento di Giacomo Poretti. Di fianco nella foto in mezzo Mario Calabresi, tra i realtori della due giorni alla Fabrica del Vapore condotta da Giuditta Castellanza e Valeria Ciardiello

Sotto l’art director di Vita Matteo Riva illustra la mostra sulle copertine del magazine (vedi a pag 40)

OUTRO

La sintesi del testo della straordinaria performance dell’artista che ha incantato la platea con i suoi “Canti della Gratitudine”

è un contrasto in questo bellissimo nome che vi siete dati che è Vita. Partiamo da qui: oggi tutti noi abbiamo la necessità di federare le nostre ferite. E ovviamente per federare, per accostarle, bisogna in qualche modo rivelarle. Io credo che confessare le ferite significa renderle più lievi. Ho scritto una poesia che dice che bisogna avere il coraggio di essere fragili e non fa niente se diamo a tanti l’illusione del bersaglio facile, se mostriamo la crepa che gli altri possono allargare; dobbiamo avere il coraggio di farci trovare sempre un po’ in affanno, in disordine, in fuorigioco, lontani dalla vita, in debito di ossigeno, di amicizie. Lontani da ogni porto sicuro. Sperduti anche a noi stessi. Qualcuno prova a nascondere questa idea di fragilità e di debolezza. Ma lo smarrimento c’è ed è diffuso.

Nel mio lavoro, la “paesologia”, ci sono i luoghi fragili. C’è la vita fragile. L’Italia è fragile. Penso alla crisi climatica, ai paesi spopolati nel Nord e nel Sud. Io ho trascorso gran parte della mia vita in quei paesi. E vi voglio dare una notizia. Lo spopolamento ha prodotto desolazione. Ma a guardarla da vicino e con clemenza, è questa stessa desolazione che guarisce. Quello che ci fa bene stare in questi luoghi è proprio la desolazione. Se io guardo ogni cosa come se fosse bella, e non lo è, allora vuol dire che devo guardare meglio. Il solo gesto di avvicinarsi per guardare meglio, ha un grande valore. Perché è la po -

di Franco Arminio

stura corretta che ci porta a cercare l’anima delle cose. Qualunque cosa che abbia un corpo, ha un’anima: le creature viventi, gli alberi, ma anche la pioggia, i lampioni, i muri rotti, i marciapiedi, i mattoni. In questo sono un po’ panteista. Noi possiamo uscire di casa sapendo che saremo sempre in compagnia di qualcosa e di qualcuno. E questa sensazione nel nostro momento storico è fondamentale.

La grande presenza di questa epoca è la solitudine. La solitudine ha sempre accompagnato l’uomo. Ma in realtà la parola più giusta è isolamento. Ed è un paradosso perché viviamo tutti avendo costantemente in mano uno smartphone. Un oggetto che promette connessioni, relazioni, incontri… In realtà il cellulare ha aumentato drammaticamente la nostra solitudine, lo sapete tutti. Un documento ufficiale del ministero della Sanità degli Stati Uniti parla letteralmente di un’epidemia di solitudine con significative ricadute sul piano della mortalità.

Gli americani stanno morendo di solitudine e direi che ormai questo destino coinvolge italiani, francesi, tedeschi e inglesi e tanti altri. In Inghilterra addirittura c’è un ministero della Solitudine. La solitudine o, meglio, l’isolamento non riguarda più l’anziano, il malato, il povero ormai riguarda il sindaco, il poeta, il farmacista, l’architetto, il giornalista… Riguarda tutti. Una volta si diceva non possiamo non dirci cristiani oggi potremmo dire non possiamo non dirci soli. Dobbiamo incominciare da qui per imparare a portare in giro la no -

stra solitudine. Capiremmo che il nostro sconforto è una sorta di polvere superficiale. Se ci avviciniamo, se scaviamo in questa fragilità, appare la vita, appare il bene.

Noi abbiamo il volontariato che è una sorta di bontà disoccupata. Spesso chi non si impegna per gli altri ha vite sciatte, inseguendo chimere insensate, assurde brame di denaro. Trascurano questa bontà disoccupata, che in fondo è il legame che tiene insieme l’universo.

Qualcuno lo chiama Dio, qualcuno lo chiama anima. La parola non è importante. La cosa che conta è che siamo qui. In mezzo a una strada. Ma ovunque siamo è il bene che fa accadere le cose, che fa piovere, che fa fare il pane, che fa scrivere una poesia. Io credo fortemente nella presenza del bene. È il bene che mi fa partecipare al compleanno di una rivista che si chiama Vita.

L’attenzione al dolore è un elemento essenziale. Dovremmo tutti essere un po’ infermieri di comunità. Dobbiamo uscire di casa con l’idea di lenire il dolore. Tutti noi dobbiamo farlo. Ci vuole poco. Io spesso prendo il Frecciarossa, che è il luogo della solitudine per eccellenza: uno sale su quel treno ed è rassegnato a non parlare con nessuno per ore. Ero alla stazione di Napoli e sono salite due donne. Mi hanno detto che erano madre e figlia e dovevano andare a Mantova per un’operazione all’anca. Abbiamo chiacchierato. Erano stupite di poter raccontare la loro storia. Pensavano che non avrebbe -

ro mai detto a nessuno che quel giorno sarebbero andate a Mantova per un problema di salute. Di incontri così ve ne potrei raccontare tanti. Uno potrebbe dirvi: “Ma questo che vuole?”. Certo capita. Ma io dico che conviene arrischiarsi. Vi faccio allora una proposta. Andate in giro per treni, andate nelle pizzerie, andate dove volete e portatevi dietro una poesia. Vi presentate alle persone e chiedete: «Mi scusi le posso leggere una poesia?». Andate la mattina al bar a prendere il caffè e chiedete di leggere una poesia. Andate dal benzinaio e mentre vi fa il pieno leggete una poesia. Pensate poi se la polizia o i carabinieri facessero il posto di blocco poetico. Alt! Poesia. E se non ne hai una, via due punti dalla patente. Oppure in Parlamento. Chi non sa una poesia, viene espulso. Meraviglioso.

Le cose vengono pronunciate quando vengono a mancare. Quando ero bambino non si parlava di comunità, perché la comunità c’era e non c’era bisogno di nominarla. Oggi invece tutti parlano di comunità, proprio perché non c’è più. E allora condividere una poesia è un esercizio comunitario. Recitare insieme una poesia produce vita, produce letizia, la parola detta insieme suscita incantesimo. Nei nostri paesi c’è l’egemonia dello scoraggiato militante, generalmente sta al bar con la birra in mano e ripete a tutti: «In questo paese non c’è niente». Lo scoraggiato è un fallito che si adopera con successo per far fallire gli altri. Noi dobbiamo costituire una cooperativa dell’incoraggiamento. Affermare la poesia, la gentilezza, la clemenza, l’attenzione al dolore. Se ognuno di noi scende in strada con questo atteggiamento facciamo la rivoluzione. Si tratta di fare un’operazione salvavita. In un colpo cacciamo via la noia, il disincanto, il cinismo. Abbiamo una missione, salvare il mondo. E andiamo di fretta.

Ecco due parole importanti: gratitudine e umiltà. L’umiltà di riconoscere che abbiamo bisogno di maestri, di filosofi, di poeti. Ma il maestro può essere un falegname, può essere il tabaccaio, può essere una nonna qualsiasi, uno zio qualsiasi. Può essere un albero, Può essere anche la compostezza di una pietra, il silenzio cocciuto di un ramo. L’importante è uscire con l’idea che possono accadere cose straordinarie. Dobbiamo riprendere confidenza con l’invisibile, con l’anima e con la parte misteriosa del corpo. Ed esserne grati. Il grande crimine di questo tempo è avere in qualche modo confiscato il sacro, l’anima e l’invisibile, e aver così idolatrato appunto le merci, il successo, il consumo. Ma si può essere e fare altro. Buona Vita (testo raccolto da Stefano Arduini)

Accaduto appena ieri

Attivismo e volontariato, a Trento c’è Aria nuova

Si chiude l’anno da “Capitale del volontariato” della città trentina. Dodici mesi che sono serviti per disegnare un nuovo approccio di partecipazione civica

Più di 3mila persone e oltre 500 organizzazioni coinvolte, 276 eventi realizzati, 18 gruppi di lavoro, quattro pilastri di sviluppo. Sono i numeri di un anno fertile per Trento, Capitale italiana ed europea del volontariato 2024, pronta a passare il testimone alla città belga di Mechelen. Maddalena Recla, referente area Promozione e Sviluppo Csv Trentino, è la responsabile del gruppo di lavoro “Giovani nel volontariato”, un progetto collettivo per mettere al centro le nuove generazioni e il loro coinvolgimento.

«Siamo partiti da un dato sempre più diffuso: le modalità di partecipazione si stanno trasformando», spiega. «Il volontariato più tradizionale è meno attrattivo di un tempo tra i giovani, che stanno sviluppando forme nuove di adesione, più frammentate, occasionali o legate a contesti non strutturati». Un tema attualissimo, che ne chiama in causa un altro: attivismo e volontariato sono separati o esiste un minimo comune denominatore? «La risposta che ci siamo dati è che i due mondi possono sembrare distanti ma nascono entrambi da una voglia

di cambiamento, dal desiderio di costruire una società più inclusiva, equa e sostenibile».

Il “Non Manifesto” Occorre guardare all’esistente, in una città come Trento dove sono attive centinaia di associazioni e una persona su cinque fa volontariato, per generare un impatto. Sì, ma come? «Si percepiva una necessità di ossigeno

per agevolare nuove forme di contaminazione tra volontariato e attivismo o semplicemente per far incontrare generazioni diverse», continua Recla. «Così, è nato “Aria”, un primo evento per individuare gli argomenti da discutere e quelli da portare avanti. Da qui, la stesura di un “Non Manifesto” con le basi da cui partire: andare oltre il senso di solitudine, accettare il cambiamento per attivare un dialogo

ALBERTO GIANERA
A Trento ci sono 668 organizzazioni di volontariato. I volontari sono oltre 20mila

Obiettivo 2029: il Modello Trento non finisce qui

di

designer dei processi partecipativi e coordinatrice del Csv Trentino

Da gennaio inizia una nuova avventura per “Trento Capitale europea ed italiana del volontariato”. Si chiude infatti l’anno di investitura, ma prosegue il “laboratorio di pratiche per promuovere e valorizzare la qualità della partecipazione e rendere la gente felice”.

L’abbiamo chiamato Modello Trento per la prima volta proprio sulle pagine di questo mensile. Due sono gli aspetti caratterizzanti alla base del modello. Da una parte l’alleanza tra istituzioni pubbliche e volontariato e in particolar modo tra Comune di Trento e Csv Trentino, un’alleanza che poi si è allargata alla Provincia Autonoma di Trento e alla Fondazione Caritro grazie alla costituzione di un Comitato di Scopo. L’altra è stata la modalità partecipativa perseguita con metodo in ogni passaggio di sviluppo del modello.

Associazioni, singoli/e volontari/ie, cittadinanza attiva, dipendenti pubblici hanno costruito e validato insieme le linee strategiche di sviluppo del volontariato trentino del quinquennio 2024-29. A seguito della nomina si è iniziato quindi a mettere a terra l’impianto strategico in grado di dare priorità alla partecipazione del mondo del volontariato e degli ecosistemi che il mondo del volontariato aveva occasione di attrarre: imprese, fondazioni, università, centri di ricerca, sindacati, istituti di credito cooperativo, cooperazione, altri organismi di secondo livello e di rappresentanza hanno co-costruito un confronto collettivo sulle trasformazioni del volontariato e della cittadinanza attiva. A riprova del fatto che questi temi non sono e non

intergenerazionale, lavorare su una nuova cultura del volontariato, nuovi linguaggi e nuove modalità per esercitare il potere decisionale». Sono seguite formazioni e laboratori, in cui volontari di lunga esperienza hanno condiviso un pezzo di strada con giovani e giovanissimi. La contaminazione è sfociata, un anno dopo il primo evento, in “Nell’aria Il volontariato che cambia”, un processo in divenire, fatto di lavoro di squadra e azione concreta. Il percorso non finisce con la chiusura dell’anno da capitale: «I giovani sono portatori di istanze che ci guideranno anche in futuro. Chiedono conciliazione tra vita e lavoro, ascolto, processi decisionali

Concluso l’anno da Capitale la sfida è quella di essere protagonisti del futuro dello sviluppo del territorio devono essere appannaggio solo dell’ente pubblico o di chi per mission se ne occupa, ma dell’intera comunità nelle sue varie espressioni proprio per la capacità del volontariato di creare benessere collettivo e, quindi, rendere la gente felice.

“ATTIVATI!”

Ci sono vari modi di raccontare il Modello Trento. Il primo, quello utilizzato nei momenti di ragionamento condiviso insieme ad alcuni attori del territorio, utilizzava una storia, quella di un parcheggio che diventa piazza grazie a degli interventi “tattici-strutturali” (divieto di transito, panchine, tavolini) e grazie alle persone e alle realtà che in questo modo iniziano ad animare questa piazza, trasformandola nell’aspetto e nella funzione. Un altro modo di raccontarlo è quello tecnico-processuale, composto da quattro ingredienti.

Il primo è la visione del volontariato del 2029, descritta dai 7 “goal del volontariato per la comunità che cresce”: una chiamata all’azione per l’intero territorio trentino.

Il secondo è composto da una serie di strumenti per supportare il territorio trentino nel raggiungimento dei 7 goal, come l’app Attivati! che fa incontrare associazioni e volontari, il Non Manifesto e la Check-list per rafforzare la presenza e capacità decisionale di chi ha meno di 30 anni nelle nostre organizzazioni, le linee guida per il volontariato d’impresa e per rafforzare gli spazi di cittadinanza, la comunità di pratica di chi porta nelle scuole superiori iniziative di sensibilizzazione al volontariato, le competenze digitali e di digital fundraising diffuse sul territorio che hanno portato a una delle campagne di crowdfunding civico di maggior successo del Trentino.

Il terzo ingrediente è il luogo dove raccogliere e raccontare le iniziative (circa 300 in un anno) con cui il mondo del volontariato contribuisce alla costruzione della visione del 2029, un’occasione dove contarsi e fare vedere il potenziale del territorio.

Infine, il quarto ingrediente sono le linee strategiche quinquennali che ci ricordano che il 2024 è stato solo l’inizio e che i successivi 4 anni ci serviranno a portare la visione, gli strumenti e le iniziative su un unico piano, proprio come le persone, le organizzazioni e gli elementi more-than-human interagivano sulla piazza, della suddetta metafora.

L’APPLICAZIONE CHE METTE IN CONTATTO

DOMANDA E OFFERTA DI VOLONTARIATO

Due bisogni corrono paralleli lungo le rotte del volontariato. Da un lato le persone che vorrebbero mettersi in gioco, dall’altro le associazioni in cerca di nuove energie. A Trento, ora c’è un ponte per connetterle. Per chi vuole fare la differenza nella propria comunità, un servizio per trovare l’esperienza più adatta. Per chi cerca teste e gambe per nuove azioni, uno spazio in cui lanciare la call. Tutto in una app Attivati! (che alla vigilia del lancio aveva già superato 350 download). La piattaforma - finanziata da Comune di Trento e Dolomiti Energia con il supporto di Itas Mutua e Produzioni dal Basso «è il frutto di una design jam che ha coinvolto i partecipanti per rendere il volontariato più accessibile», spiega Andreas Fernandez, referente della comunicazione Csv Trentino. «Il risultato potrà essere replicato ovunque». (D.C.)

trasparenti e aperti, spazi protetti (anche professionali) che siano in grado di accogliere l’emotività, confronto e trasparenza».

Dopo un anno di semina, si raccolgono frutti. «È stato bello vedere persone e organizzazioni partecipare a questo tipo di eventi. Si sono sentite riconosciute», riflette Recla. Il senso dello scambio tra generazioni è racchiuso in una scena: «In uno di questi gruppi di confronto si parlava di buone pratiche nella gestione delle riunioni. Alcuni studenti universitari hanno sottolineato l’importanza di dare valore ai pronomi per far sapere come ci si identifica a livello di genere. Un volontario di un’organizzazione storica, che non aveva mai intercettato questa esigenza, ha deciso di adottare questo approccio. Il rapporto intergenerazionale spesso viene raccontato come conflittuale, ma se il confronto è reale, le sinergie si trovano».

Istantanee da Trento

Elisabetta Ferrari ha 23 anni, studia all’Università di Trento e nello zaino ha una parola in più. Anzi, due: ascolto attivo. Le ha fatte sue partecipando a “Giovani nel volontariato”. «Il tema mi sta a cuore, è al centro della mia tesi di laurea triennale in Sociologia», racconta. «Ascoltare significa dare voce ai bisogni dei giovani per attivare uno scambio, ma anche la disponibilità della mia generazione ad apprezzare ciò che è stato costruito da chi ci ha preceduto».

Elisa Calzà di anni ne ha 18 e da quello stesso percorso si porta a casa un’attenzione nuova verso la comunità, «prendersi il tempo per accorgersi che esistono tantissime persone che hanno voglia di fare qualcosa per il posto in cui vivono». Non si definisce un’attivista, ma attiva sì, «soprattutto a livello di partecipazione studentesca. Da un po’ di anni mi muovo in questo spazio collaborativo di creazione di pensiero, sono una scout e il volontariato fa parte della mia vita». Il gruppo di lavoro è stato per lei la prova che lo scambio intergenerazionale, per funzionare, deve essere reciproco: «Noi giovani abbiamo insegnato la dinamicità e il movimento, ma dal mondo adulto abbiamo imparato che non sempre per cambiare le cose bisogna rompere un muro, lo si può decostruire un mattoncino alla volta».

Quei 500mila italiani senza cure. E non tutti sono poveri

I dati dell’ultimo report del Banco Farmaceutico

sulle persone che non hanno mezzi per curarsi

463.176 persone si sono trovate in condizioni di povertà sanitaria nel corso del 2024. Sette italiani su mille. Sono le persone che hanno dovuto chiedere aiuto a una delle 2.011 realtà assistenziali convenzionate con il Banco Farmaceutico per ricevere gratuitamente farmaci e cure che, altrimenti, non avrebbero potuto permettersi. Rispetto alle 427.177 registrate nel 2023, c’è stato un aumento dell’8,43%. Nel frattempo, per il settimo anno consecutivo, la spesa farmaceutica sostenuta dalle famiglie aumenta, mentre la quota a carico del Servizio sanitario nazionale Ssn è diminuita. Nel 2023 (ultimi dati Aifa disponibili) la spesa complessiva delle famiglie è stata pari a 23,64 miliardi di euro, cioè 1,11 miliardi in più (+3%) rispetto al 2022 (quando la spesa fu di 22,535 miliardi). Tuttavia, “solo” 12,99 miliardi di euro (il 55%) sono a carico del Ssn (erano 12,61 nel 2022, pari al 56%). Restano 10,650 miliardi (45%) pagati interamente dalle famiglie (erano 9,91 nel 2022, pari al 44%). Vuol dire che, rispetto all’anno precedente, le famiglie hanno pagato di tasca propria 731 milioni di euro in più (+7,4%). In sette anni (cioè nel periodo 2017-2023), la spesa farmaceutica a carico delle famiglie è quindi cresciuta di 2,576 miliardi di euro (+31,9%). La quota a proprio carico riguarda tutte le famiglie, anche quelle povere, che devono pagare interamente il costo dei farmaci da banco a cui si aggiunge (salvo esenzioni) il costo dei ticket. Questi dati emergono dalle statistiche sulla povertà sanitaria diffusi dal Banco Farmaceutico col libro Tra le crepe dell’universalismo – Disuguaglianze di salute, povertà sanitaria e Terzo settore in Italia (a cura di L. Pesenti e G. Rovati, ed. Il Mulino). Il volume è curato dall’Osservatorio sulla povertà sanitaria (organo scientifico del Banco). Le persone in condizioni di povertà sanitaria sono prevalentemente uomini (pari al 54% del campione) e persone in età adulta (18-64 anni, pari al 58%). Resta significativa la quota di minori, che sono 102mila (pari al 22%), più degli anziani che corrispondono al 19% (88mila). Sostanzialmente identica è la quota dei cittadini italiani (49%, pari a 225.594 unità) e di quelli stranieri (51%, pari a 237.583 unità). Considerando le condizioni di salute, i malati acuti (65%) superano in misura consistente i malati cronici (35%). Le difficoltà però riguardano anche le famiglie non povere. I dati più recenti di Istat rilevano che, complessivamente, 4,422 milioni di famiglie (16,8% del totale, pari a circa 9,835 milioni di individui) hanno cercato di limitare la spesa per visite mediche e accertamenti periodici di carattere preventivo. Tra queste, 678mila famiglie sono in condizioni di povertà assoluta (31% del totale, composte da circa un milione 765mila persone), mentre 3,774 milioni sono famiglie non povere. (L.A.)

UN ANNO DI “BENE COMUNE”

Ascoltare e accompagnare: viaggio nel Terzo settore

Con Daniele Pedrazzi, responsabile della divisione

dedicata al non profit italiano, un primo bilancio

BPER “Bene Comune”, la divisione di BPER Banca dedicata al Terzo settore e alla Pubblica amministrazione, ha spento la sua prima candelina a luglio. Negli ultimi tre mesi il suo responsabile, Daniele Pedrazzi, ha intrapreso, col proprio team, un lungo percorso nelle aree del Paese che hanno reso famosa l’ex-Popolare dell’Emilia come “banca dei territori”, incontrando molte realtà di Terzo settore appunto. Tracciare un bilancio è utile.

Che Italia sociale ha trovato?

Un’Italia sociale, decisamente viva, senza paura mi verrebbe da dire, perché quotidianamente vediamo un desiderio di continuare a sperimentare soluzioni e a rischiare. Probabilmente, la creatività del Terzo settore è una delle risorse più ricche che ha questo Paese, che non teme di continuare a investire, a prendersi responsabilità, ruoli: una responsabilità e una soggettività sociale realmente agita.

Qualche particolarità?

Ci sono degli elementi che in qualche modo ricorrono e accomunano. Un bisogno fortissimo di essere ascoltati nei propri temi, nelle progettualità, nelle proprie istanze: c’è un grande desiderio di essere davvero incontrati e compresi. Quindi la prossimità che può dare una banca realmente dei territori è una risposta ancora molto apprezzata. Ne discende poi un tema di linguaggio su cui trovare una convergenza semantica, per saper interpretare quelle che sono le vie nuove che il Terzo settore sta sperimentando.

Si cerca credito o anche altro?

Da un lato c’è certamente il tema del grant , con cui il Terzo settore vive una relazione dialogica, perché rap -

Daniele Pedrazzi, a Napoli durante la presentazione di BPER “Bene Comune”

presenta una necessità fondamentale, un’opportunità ma anche un peso da gestire che si porta dietro una complessità crescente. Una parte di enti sconta il fatto che le grandi fondazioni e anche la Pa stiano strutturando molto i processi erogativi, anche con misurazione di impatto, con oneri rendicontativi importanti.

Si parla poco di impatto È un tema che è vissuto in maniera un po’ duale: un’opportunità di farsi leggere meglio e dire anche al sistema profit, che chi sa fare impatto sociale è innanzitutto e soprattutto il Terzo settore. Profit che sta cercando, sotto la spinta degli standard Esg, partner che sappiano realizzare impatto sociale. Quindi la misurazione è un driver importante che, nei prossimi anni può collegare il non profit al profit.

E dall’altro lato?

C’è l’aspetto dell’impatto vissuto come un processo che ricade sulle organizzazioni e che quindi porta su di loro anche impegni importanti di rilevazione e rendicontazione. Come attori dobbiamo essere molto attenti

a non rincorrere la quantità a scapito della qualità: dietro agli indicatori, ci sono storie di persone, ed ognuna vale. Sul versante degli enti pubblici ? Il rapporto del Terzo settore con le Pa, si pone ancora in una prospettiva di committenza e come relazione necessaria. Anche qui la transizione è in atto. C’è una richiesta forte di un soggetto pubblico che sappia parlare in modo diverso e porsi in maniera realmente sussidiaria. Qualcuno tra gli enti incontrati ha provocatoriamente definito l’amministrazione condivisa “uno spettro” ma non in quanto tale, bensì per come viene agita e vissuta in troppe situazioni concrete.

Invece?

Invece è una grande opportunità, ovviamente, per fare le cose in modo diverso e davvero assieme. Implica però un ruolo di promozione verso un reale rapporto di partenariato fra pubblico e privato sociale, che richiede un passaggio culturale fondamentale, su cui possiamo probabilmente anche noi fare la nostra parte.

Per esempio?

Stando dentro ad alcune delle prime esperienze pilota che si stanno sperimentando nei territori. Per esempio, siamo partner di un hub di incubazione sociale promosso dal Comune di Reggio Emilia, che è una bella realtà in cui l’ente pubblico, l’università e il privato sociale stanno co-progettando in maniera interessante, capacitando nuove energie votate all’innovazione sociale.

Quali richieste vi giungono?

Di saperci sintonizzare su una logica di capitale paziente rispetto al finanziamento all’Economia sociale e, al tempo stesso, anche di essere realmente innovativi nelle soluzioni.

Avete avuto partner nel viaggio?

Tre partnership fondamentali. Con CsvNet, grazie ai quali stiamo incontrando tante associazioni; con Legacoopsociali, tramite la quale abbiamo realizzato incontri dedicati alle imprese sociali e quindi con Fondazione Unipolis, che ci ha messo a disposizione, sia nella costruzione del percorso e poi anche in fase interpretativa, il suo know-how in termini di lettura e di comprensione delle questioni sociali più urgenti. (G.C.)

Società Dolce, la ricerca scientifica made in coop

La cooperativa sociale bolognese ha deciso di sostenere

la Fondazione Ricerca Scienze Neurologiche del Bellaria

Un importante passo per Società Dolce, tra le prime dieci cooperative sociali a livello nazionale, 4mila dipendenti che operano in servizi per l’infanzia, anziani, minori, disabilità e salute mentale, fragilità e prima realtà del settore ad avere ottenuto la certificazione di accreditamento sanitario internazionale, Accreditation Canada. Cade così l’ultimo tabù, che vuole la cooperazione sociale relegata al settore socio assistenziale. «La nostra esperienza in ambito sanitario», spiega Pietro Segata, presidente di Società Dolce, «è ormai lunga e ha raggiunto l’eccellenza con l’ottenimento dell’accreditamento. Le nostre Rsa sono oggi piccoli ospedali di territorio, gestiamo l’hospice di Ravenna per le cure palliative, eroghiamo l’assistenza domiciliare integrata in Lombardia e dal nostro centro ambulatoriale di riabilitazione Spazio Salute di Bologna, abbiamo ampliato l’offerta a pazienti fragili in palestra, in acqua

e attraverso la teleriabilitazione». Nasce proprio a Bologna la collaborazione con ospedali e istituti di ricerca che si occupano di pazienti con malattie neurologiche e da qualche settimana Società Dolce è sostenitore della Fondazione Ricerca Scienze Neurologiche, che ospiterà oltre 400 ricercatori, presso spazi inutilizzati dell’ospedale Bellaria, con un sostegno pluriennale alle attività di ricerca e la realizzazione del Bellaria Research Center.

«Non siamo erogatori di prestazioni», continua Segata, «ma soggetti capaci di definire percorsi di cura, con una visione a 360 gradi. Nel progetto Bellaria Research Center, proponiamo la continuità di presa in carico presso il domicilio, con professionisti della riabilitazione e la teleriabilitazione, attraverso metodologie, strumentazioni e protocolli valutati e integrati col Centro di ricerca».

L’accordo è stato sottoscritto dal presidente della Fondazione, Daniele Ravaglia e da Segata, al quale hanno presenziato anche il direttore generale dell’Ausl di Bologna, Paolo Bordon e Raffaele Lodi, direttore scientifico dell’Irccs- Istituto delle Scienze Neurologiche.

«Con una metafora calcistica», interviene Ravaglia, «il Bellaria Research Center è la nostra Champions League: un salto di qualità per un livello superiore, che attraverso la ricerca neurologica mette al centro la città di Bologna. Dobbiamo però trovare le risorse e in questa fase i fondi delle imprese private, unite al finanziamento pubblico, sono indispensabili: la partnership di Società Dolce è importante per la Fondazione Ricerca Scienze Neurologiche. Le malattie neurologiche purtroppo sono in forte aumento e investire nella ricerca può portare a cure sempre più efficaci».

Già le nostre

Rsa sono piccoli ospedali di territorio: ormai abbiamo grande esperienze anche in ambito sanitario

Pietro Segata

La Fondazione coinvolge anche coloro che, in prima linea, ogni giorno operano a favore dei pazienti, Enrico Franceschi, direttore della Uoc di Oncologia del Sistema Nervoso, dell’Istituto delle Scienze Neurologiche, è uno degli ambassador: «Oltre alla cura, ad oggi non ancora risolutiva in tanti ambiti, la ricerca offre ai pazienti la speranza di vita e terapie migliori e resta a tutti gli effetti la fonte principale di avanzamento scientifico dal punto di vista sanitario, per nuove possibilità diagnostiche e terapeutiche».

«Per la ricerca servono risorse, spazi fisici e tecnologie ed essere riusciti a coinvolgere Società Dolce è per noi un vanto, un orgoglio e anche una responsabilità», chiosa Paolo Bordon, direttore generale dell’Ausl di Bologna.

Silvia Vicchi

Da sx: Raffaele Lodi, Daniele Ravaglia, Susanna Messaggio, Federico Bendinelli, Paolo Bordon, Pietro Segata e Gianluca Muratori

FOCUS

L’anima tech della transizione

Attraverso Enilive, Plenitude e la biochimica, Eni sviluppa modelli e soluzioni orientate all’obiettivo strategico della decarbonizzazione

Bioraffinerie alimentate con prodotti di scarto, una tecnologia proprietaria per la produzione di biocarburanti idrogenati che stanno rivoluzionando il settore dei trasporti, la transizione nella chimica per minimizzare l’utilizzo di risorse naturali e valorizzare gli scarti, una filiera delle energie rinnovabili che arriva fino al cliente retail. Le leve di Eni per fare della decarbonizzazione un nuovo modello integrato di sviluppo virtuoso

a cura di MATTIA SCHIEPPATI

La bioraffineria di Venezia, a Porto Marghera, dal 2014 produce biocarburanti idrogenati ottenuti da materie prime biogeniche.

La nuova vita bio delle raffinerie

Gli impianti di Venezia e Gela, alimentati al 98% da materie prime di scarto, sono l’innesco per la decarbanizzazione dei trasporti

La bioraffineria di Venezia, a Porto Marghera, dal 2014, e dal 2019 la bioraffineria di Gela, sono due esempi virtuosi di come si possano costruire percorsi concreti di decarbonizzazione valorizzando asset strategici esistenti e assicurandone una maggiore sostenibilità economica e sociale. I due impianti Eni costituiscono esempi di riferimento a livello mondiale di conversione di una raffineria di petrolio in bioraffineria per la produzione di biocarburanti idrogenati ottenuti da materie prime biogeniche. Con l’esclusione, a partire dal 2022, dell’olio di palma come materiale di carica, entrambi i siti sono oggi alimentati prevalentemente (circa 98%) da materie prime di scarto, come oli esausti da cucina, grassi animali e residui dell’industria agroalimentare per la produzione di biocarburanti, Hvo diesel, bio-Gpl, di bio-jet e di bio-nafta destinata anche alla filiera della chimica. Eni ha siglato accordi e partnership finalizzati alla valoriz-

zazione delle biomasse da scarti e rifiuti, come gli oli alimentari esausti in Italia e all’estero. In Kenya, ad esempio, Eni ha sviluppato una filiera per la raccolta degli oli di cottura usati, lavorando con hotel, ristoranti, catering, aziende di trasformazione alimentare e con piattaforme di food delivery, contribuendo così a gestire un rifiuto alimentare in un’ottica di economia circolare.

Per assicurare l’approvvigionamento sempre più sostenibile delle proprie bioraffinerie, Eni sta sviluppando in diversi Paesi — come ad esempio in Kenya e in Costa d’Avorio — progetti di agri feedstock, cioè di coltivazione e spremitura di semi per la produzione di oli vegetali, con l’obiettivo di raggiungere oltre 700.000 tonnellate l’anno nel 2027 che corrisponderanno a oltre il 35% del feedstock processato nelle bioraffinerie italiane.

Con tale modello verticalmente integrato, Eni garantisce agli agricoltori l’accesso della loro produzione al mercato, senza pregiudicare l’accesso alla terra. CONVERSIONI

L’innovazione di Ecofining

La conversione delle raffinerie di Venezia e Gela in bioraffinerie è stata resa possibile anche dalle innovazioni di Eni in ambito tecnologico: è il caso di Ecofining, tecnologia proprietaria sviluppata in collaborazione con Honeywell-Uop, che consente di trasformare materie prime di origine biologica in biocarburanti idrogenati. Il processo, data la sua grande flessibilità, consente di trattare diversi tipi di cariche di origine biogenica e di produrre una vasta gamma di prodotti: Hvo diesel, bio-Gpl, bio-jet e bio-nafta, e coprire così un ampio spettro della filiera globale dei trasporti, dalla piccola utilitaria alle grandi navi cargo o agli aerei.

Su strada, in mare, nell’aria

In oltre 1.000 stazioni della rete Enilive in Italia, infatti, è disponibile Hvolution, il primo diesel di Enilive prodotto con 100% di materie prime rinnovabili (ai sensi della Direttiva europea sulle energie rinnovabili). Hvolution può contribuire all’immediata decarbonizzazione del settore dei trasporti, anche pesanti, tenuto conto delle emissioni sull’intera filiera del prodotto, perché utilizzabile con le attuali infrastrutture e in tutte le motorizzazioni omologate. Il biocarburante Hvo in purezza è inoltre già in uso da parte di primari operatori della logistica e dai mezzi per la movimentazione dei passeggeri a ridotta mobilità in ambito aeroportuale fino alla logistica. Hvolution viene utilizzato anche dai 100 mezzi dedicati al trasporto passeggeri in Italia della flotta di Itabus, società di trasporto su gomma a lunga percorrenza che fa parte del gruppo Italo. I biocarburanti costituiscono anche un’alternativa concreta per contribuire alla decarbonizzazione del trasporto aereo e marittimo. Per l’aviazione, l’obiettivo è portare la produzione di Eni Biojet Saf (Sustainable Aviation Fuel) a 300mila tonnellate/anno già nel 2025, e a un milione nel 2026. Nell’ambito del trasporto aereo Eni ha siglato accordi con Ita, Dhl, Kenya Airways, Ryanair, Poste Italiane e Volotea. Per l’utilizzo di Hvolution nella nautica, invece, nel 2023 Enilive ha sottoscritto un accordo con il Gruppo Azimut-Benetti che ha rappresentato il primo passo per la fornitura di biocarburanti per la marina. Inoltre, Eni collabora con Rina e Fincantieri per sviluppare soluzioni di decarbonizzazione marittima usando, idrogeno, ammoniaca verde e tecnologie innovative.

Enilive

La transizione dei trasporti

Enilive è la società di Eni dedicata alla bioraffinazione, alla produzione di biometano, alle soluzioni di smart mobility, tra cui il car sharing Enjoy, e alla commercializzazione e distribuzione di tutti i vettori energetici per la mobilità, anche attraverso le oltre 5.000 Enilive Station in Europa.

L’obiettivo della società è fornire servizi e prodotti progressivamente decarbonizzati per la transizione energetica, contribuendo all’obiettivo di Eni di raggiungere la carbon neutrality al 2050.

Le stazioni Enilive, hub della mobilità a 360 gradi

Enilive è presente sulle reti stradali e autostradali con una la rete di oltre 5.000 punti vendita in Europa, di cui 4.000 in Italia, che ogni giorno accolgono oltre un milione e mezzo di persone in movimento per soddisfarne le esigenze in modo sempre più sostenibile.

Con questo obiettivo, le stazioni Enilive si stanno trasformando in hub per la mobilità: offrono nuovi vettori energetici come il biocarburante Hvolution (diesel da materie prime rinnovabili), il biometano, il bio-Gpl, nonché l’idrogeno e l’elettrico (sono previsti circa 2.400 punti di ricarica nelle stazioni Enilive entro il 2027), e rendono disponibili nei punti vendita tanti servizi che i clienti potrebbero altrimenti utilizzare solo con ulteriori spostamenti.

Già oggi nelle stazioni Enilive sono presenti i Telepass Point, il luogo in cui richiedere o sostituire il dispositivo Telepass; è attivo il servizio di pagamento dei bollettini postali, è possibile prelevare denaro contestualmente al rifornimento, ritirare i pacchi dei corrieri; fare una spesa di qualità negli Emporium, i negozi di prossimità, e anche concedersi un momento di ristoro in uno dei quasi 1.200 Eni Cafè in Europa, di cui 600 in Italia dove costituiscono la più grande catena di bar, o in uno store Alt Stazione del Gusto, il format di ristorazione di Enilive in collaborazione con Accademia Niko Romito. Inoltre, alcune stazioni Enilive stanno diventando Enjoy Point nei quali iniziare e terminare i noleggi dei veicoli in sharing.

Enilive ha anche in programma piani di sviluppo per la mobilità elettrica plug-in: Eni, tramite Plenitude, prevede di installare colonnine Hpc (ad alta potenza, high power charger) in 1.000 stazioni di servizio Eni in Italia e 500 della rete estera (Germania, Austria, Svizzera, Francia e Spagna) entro il 2025.

Infine, Enilive sta lavorando anche sull’idrogeno: a giugno 2022 ha inaugurato a Venezia Mestre la sua prima stazione di servizio per il rifornimento di idrogeno per la mobilità, in ambito urbano e aperta al pubblico.

RINNOVABILI

Energia di sole e di vento

Facendo leva su un modello di business che parte dalla produzione di energia da impianti fotovoltaici ed eolici e raggiunge i clienti retail, Plenitude contribuisce alla crescita delle rinnovabili in Europa

Plenitude, società controllata da Eni, presente in oltre 15 Paesi nel mondo, adotta un modello di business distintivo, che integra la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, la vendita di energia e soluzioni energetiche a clienti retail e un’ampia rete di punti di ricarica per veicoli elettrici.

I numeri più recenti danno ragione alla visione che guida questo percorso: nei primi nove mesi del 2024, l’azienda ha fornito energia e soluzioni energetiche a 10 milioni di clienti europei; nel settore delle energie rinnovabili ha superato i 3 GW di capacità installata nel mondo, con focus su Europa e Stati Uniti, registrando nel periodo un incremento della produzione rinnovabile di circa il 20% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno; nel settore della mobilità elet-

trica, la sua infrastruttura di ricarica per veicoli elettrici ha raggiunto i 21.000 punti di ricarica. Plenitude è inoltre leader in Italia nella generazione distribuita da impianti fotovoltaici di piccola taglia.

Lo sviluppo del fotovoltaico

Il primo impianto fotovoltaico di Plenitude in Italia, entrato in esercizio nel 2018, è stato realizzato nell’area del Green Data Center di Ferrera Erbognone (Pavia) per una capacità installata di 1MW: l’energia prodotta contribuisce al fabbisogno elettrico del sito Eni che ospita un avanzato sistema di calcolo e richiede, quindi, una grande quantità di energia. Significativa, in questo percorso di crescita, è stata la realizzazione in Sardegna di due impianti fotovoltaici di taglia rilevante, situati in aree industriali dismesse: un pri-

Sopra, l’impianto di Licata, in Sicilia. Sono 40 i parchi eolici onshore di Plenitude distribuiti tra Sicilia, Calabria, Abruzzo, Basilicata e Puglia.

Nei primi nove mesi del 2024, l’azienda ha fornito energia e soluzioni energetiche a 10 milioni di clienti europei e la sua infrastruttura di ricarica per veicoli elettrici ha raggiunto i 22mila punti di ricarica

mo impianto da 23 MW ad Assemini (Cagliari) è stato completato nel 2018, mentre un secondo impianto da 31 MW, situato a Porto Torres (Sassari) è entrato in esercizio a fine 2019 e inaugurato all’inizio del 2020. A questi impianti si è aggiunto nel 2020, un nuovo parco fotovoltaico da 18 MW a Volpiano (Torino), realizzato all’interno del deposito carburanti di Eni.

Nel 2023 è stato realizzato il primo Sistema di Accumulo (SdA) di Plenitude in Italia sempre in Sardegna, ad Assemini. L’impianto ha una potenza installata di 14 MW, con una capacità di accumulo di 9 MWh, e si è aggiudicato la fornitura di un servizio di regolazione di frequenza ultrarapida alla rete di trasmissione nazionale italiana. La capacità fotovoltaica complessiva di Plenitude in Italia è superiore ai 200 MW distribuita in Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Sicilia, Sardegna, Marche, Calabria, Abruzzo, Veneto, Piemonte e Puglia.

L’eolico onshore

Per quanto riguarda invece lo sviluppo dell’eolico onshore, a settembre 2021 la società ha avviato la produzione del suo primo impianto eolico: si tratta di un cluster composto da tre parchi eolici attigui, costruiti nel Comune di Laterza, in Puglia, con una capacità totale di 35,2 MW, che producono circa 80 GWh annui. Il più recente parco eolico è stato realizzato nel luglio 2024 e ha una capacità di circa 39 MW: è costituito da nove aerogeneratori di ultima generazione e si trova nel comune di Borgia (Catanzaro), in Calabria. A oggi il portafoglio complessivo supera i 700 MW distribuiti su circa 40 parchi eolici tra Sicilia, Calabria, Abruzzo, Basilicata e Puglia.

L’eolico offshore

Plenitude, inoltre, investe in soluzioni tecnologiche innovative come l’eolico offshore galleggiante, per sostenere il processo di transizione energetica. Una delle principali aree geografiche su cui l’azienda sta puntando per lo sviluppo di questa tecnologia è il Mar Mediterraneo, in particolare al largo delle coste italiane, dove Plenitude è presente sia attraverso GreenIt, joint venture italiana (Plenitude 51%, Cdp Equity 49%) sia direttamente. Tra i progetti in stadio di sviluppo più avanzato ci sono, “7seas Med”, parco eolico offshore galleggiante in Sicilia, posizionato a oltre 35 km dalla costa di Marsala, per una capacità totale di circa 250 MW (il primo e ad oggi unico progetto in Italia ad aver ottenuto il parere positivo da parte delle autorità competenti in merito alla valutazione di impatto ambientale), “Ichnusa”, posizionato a oltre 35 km dalla costa Sud Ovest della Sardegna per una capacità totale di circa 540 MW. Altri 5 progetti sono situati al largo delle coste di Lazio, Puglia, Calabria, Sardegna e Toscana.

22mila punti di ricarica entro fine anno e investimenti in stazioni ultra-fast: la forza di On the Road

Con le soluzioni di ricarica “On the Road”, Plenitude è un attore di riferimento nella ricarica di veicoli elettrici, sia in Italia sia in Europa. La rete On the Road di Plenitude conta 22.000 punti di ricarica installati in posizioni strategiche, dalle principali città a selezionate aree private.

L’espansione di Plenitude in questo ambito continua a crescere sia a livello nazionale che internazionale, grazie a partnership strategiche, collaborazioni con le stazioni di servizio Enilive e partecipazioni a gare internazionali di grande rilevanza. Questo sviluppo è il risultato di un costante investimento nell’innovazione tecnologica, che consente di mettere al servizio dei clienti stazioni di ricarica sempre più capillari e ultra-veloci, con potenze fino a 400 kW. Le stazioni AC da 22 kW sono distribuite lungo le principali direttrici urbane, nelle destinazioni turistiche e nei centri commerciali, mentre le stazioni fast e ultra-fast, con potenze da 150 a 400 kW, sono posizionate strategicamente presso le stazioni di servizio Enilive, nelle aree commerciali e lungo le arterie stradali più trafficate.

Plenitude è un operatore integrato che interviene in ogni fase della catena del valore della mobilità elettrica. Come proprietario della rete di ricarica gestisce direttamente la propria infrastruttura e fornisce energia per la ricarica sia a clienti privati che aziendali (B2C e B2B). Come operatore di punti di ricarica gestisce non solo la propria rete, ma anche punti di terzi tramite una piattaforma digitale avanzata.

Infine, in quanto fornitore di servizi di mobilità, grazie all’app “Plenitude On the Road”, offre ai clienti un accesso centralizzato alla propria rete e a quelle dei partner in tutta Europa, permettendo la localizzazione delle stazioni e la gestione dei pagamenti in modo semplice e intuitivo.

Colonnine

CHIMICA

Circolarità e bioeconomia per un nuovo modello di sviluppo

Con Versalis, tecnologie complementari per contribuire a ridurre

l’utilizzo di materie prime tradizionali e valorizzare i rifiuti in plastica

Sganciare il tema dello sviluppo da quello del consumo progressivo e sempre più accelerato di risorse finite e non rinnovabili. Come? La risposta è la circolarità. È questa la filosofia che sostiene l’approccio di Versalis, la società chimica di Eni, ai processi aziendali e produttivi volti a ridurre l’utilizzo di materie prime tradizionali e le emissioni di gas serra, valorizzare i rifiuti in plastica post consumo mediante azioni di riciclo o recupero, ed estendere così la

vita utile dei prodotti e degli asset. Orientata a questo obiettivo, Versalis è impegnata direttamente nello sviluppo di processi complementari di riciclo meccanico e chimico per contribuire a valorizzare le plastiche a fine vita e a raggiungere tutte le applicazioni sul mercato, integrandosi nella filiera di raccolta a livello nazionale, una tra le più avanzate in Europa. Ulteriore elemento chiave della strategia di Versalis per la transizione della chimica verso soluzioni più sostenibili riguarda investimenti e la ricerca nell’ambi-

to della bio-chimica.

Un percorso che risponde agli obiettivi del Piano di trasformazione e rilancio del business della chimica, come preannunciato nel Piano Strategico 2024-2027 di Eni, che prevede 2 miliardi di investimenti nei prossimi 5 anni nei siti Versalis in Italia e un taglio in termini di emissioni di circa 1 milione di tonnellate di CO2 nell’arco di piano, grazie a nuovi impianti industriali coerenti con il percorso di transizione energetica e di decarbonizzazione al 2050 dei vari siti industriali, nell’am-

bito della chimica sostenibile ma anche della bioraffinazione e dell’accumulo di energia.

La circolarità

L’azienda sta realizzando a Porto Marghera un polo di riciclo meccanico avanzato di polimeri per consolidare la leadership europea nel riciclo meccanico. In questo ambito, Versalis ha sviluppato la gamma Versalis Revive, prodotti a diversa base polimerica contenenti plastica da riciclo post consumo, sviluppata nei laboratori di ricerca di Versalis e con partnership di filiera, con associazioni e consorzi. La gamma Versalis Revive è già disponibile da tempo sul mercato. Le applicazioni più comuni riguardano per esempio, il packaging di elettrodomestici, i pannelli per l’isolamento termico degli edifici per il risparmio energetico, il packaging alimentare.

Recentemente la gamma Versalis Revive si è ampliata con materiali elastomerici (gomme), in cui Versalis è riconosciuta per know-how tecnologico e applicativo, e in particolare con una innovativa tecnologia denominata Newer per la purificazione dei polimeri da riciclo meccanico per applicazioni speciali come l’imballaggio a diretto contatto con gli alimenti commercializzati con il marchio Refence.

Chimica da fonti rinnovabili

Nel 2023 l’azienda ha rafforzato il proprio posizionamento nella chimica da rinnovabili tramite l’acquisizione di Novamont, Benefit company certificata B Corporation, importante player nel settore della bioeconomia circolare e nel mercato delle bioplastiche e biodegradabili compostabili.

L’acquisizione di Novamont ha consentito di accelerare la crescita di una delle piattaforme strategiche driver della trasformazione, che contribuirà al riposizionamento del business verso prodotti sempre più decarbonizzati e specializzati, ne settore della chimica da materie prime rinnovabili offrendo al mercato una gamma di prodotti e soluzioni maggiormente sostenibili di origine in tutto o in parte bio (come bioplastiche, biolubrificanti, bioerbicidi) per applicazione ad esempio nei settori del packaging, dell’agricoltura e dell’industria.

Il riciclo chimico con tecnologia Hoop

Hoop, “cerchio” in inglese, nasce da un progetto congiunto con la società italiana di ingegneria

S.R.S. (Servizi di Ricerche e Sviluppo) con l’obiettivo di sviluppare una tecnologia innovativa, complementare al riciclo meccanico, capace di trasformare i rifiuti in plastica mista che oggi non sono riciclati meccanicamente, in nuova materia prima per produrre nuovi polimeri vergini perfettamente uguali a quelli prodotti con tecnologia tradizionale.

Versalis sta realizzando il primo impianto dimostrativo da 6mila tonnellate di capacità di materia prima seconda nello stabilimento di Mantova prossimo all’avviamento.

Il progetto prevede un futuro passaggio di scala dell’impianto dimostrativo e l’integrazione con la filiera esistente della raccolta, della selezione e del riciclo meccanico, per produrre nuova materia prima. Questo processo è possibile grazie anche alla collaborazione

avviata con Corepla (Consorzio Nazionale per la Raccolta, il Riciclo e il Recupero degli Imballaggi in Plastica) per valorizzare le plastiche post consumo provenienti dalla raccolta differenziata nazionale e destinate al riciclo.

La tecnologia Hoop è anche oggetto di collaborazione con Technip Energies (T.EN), società leader nell’ingegneria e nella tecnologia per la transizione energetica, che riguarda l’integrazione con le sue tecnologie di purificazione dei prodotti da pirolisi delle plastiche, costituendo così una piattaforma tecnologica per il riciclo chimico avanzato.  Hoop è l’unica tecnologia italiana “large scale” che si è aggiudicata, tra i 239 progetti presentati e i 41 vincitori totali, il bando 2023 per l’“EU Innovation Fund”, fondo di 3,6 miliardi di euro complessivi stanziato dalla Commissione Europea dedicato a tecnologie innovative a ridotta emissione di carbonio.

Ccs

Carbon Capture & Storage:

a Ravenna la filiera italiana della decarbonizzazione

La Ccs, acronimo che sta per Carbon Capture and Storage (cattura e stoccaggio del carbonio), è un processo sicuro e maturo che l’Ipcc, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, ha definito come “imprescindibile” per centrare gli obiettivi climatici globali. Eni ha saputo intravedere con anticipo il valore di questo processo, nella convinzione che esso avrà un ruolo di primaria importanza nella transizione energetica, in particolare per evitare le emissioni delle industrie hard to abate come ad esempio il cemento, l’acciaio e la chimica, per le quali a oggi non esistono soluzioni altrettanto rapide ed efficaci.

Un riferimento nel Mediterraneo

La joint venture fra Eni e Snam ha sviluppato il progetto Ravenna Ccs, che andrà a decarbonizzare attività industriali (principalmente italiane, ma anche internazionali) convertendo i giacimenti di gas esauriti del mare Adriatico in siti di stoccaggio. I giacimenti interessati — i quali avranno cessato completamente ogni attività produttiva — verranno dedicati esclusivamente allo stoccaggio geologico permanente della CO2 a fini esclusivamente ambientali, in linea con circa l’80% degli oltre 350 nuovi progetti di Ccs in via di sviluppo a livello globale.

L’enorme capacità di stoccaggio complessiva dei giacimenti di gas esauriti offshore (oltre 500 milioni di tonnellate) farà di Ravenna Ccs un riferimento nel Mediterraneo.

Impatti virtuosi di sistema

La Fase 1 — già avviata — prevede l’iniezione di 25 mila tonnellate all’anno di CO2 catturate dall’impianto di trattamento gas di Casalborsetti di Eni. La Fase 2 raggiungerà una capacità di stoccaggio di 4 milioni di tonnellate all’anno al 2030; ulteriori espansioni successive potranno portare i volumi fino a 16 milioni l’anno in base alla domanda del mercato.

Oltre a fornire un importante contributo per contrastare le emissioni climalteranti delle industrie hard to abate, il progetto Ravenna Ccs favorirà la creazione di una filiera nazionale ad alto contenuto tecnologico nel settore della decarbonizzazione, in forte espansione nei prossimi decenni in Europa e nel mondo.

Il progetto permetterà di garantire la competitività del sistema Italia e di promuovere una filiera in grado di

Il progetto Ravenna Ccs, sviluppato da Eni con Snam, andrà a decarbonizzare attività industriali convertendo i giacimenti di gas esauriti dell’Adriatico in siti di stoccaggio.

La Ccs avrà un ruolo di primaria importanza nella transizione energetica, in particolare per evitare le emissioni delle industrie hard to abate come il cemento, l’acciaio e la chimica

rilanciare l’economia e l’occupazione, con la creazione di nuovi posti di lavoro, diretti ed indiretti, oltre che valorizzare le competenze e capacità realizzative presenti nel Paese, come rilevato dallo studio The European House – Ambrosetti, Zero Carbon Technology Roadmap.

A ulteriore testimonianza della sua importanza strategica per gli obiettivi climatici del nostro Paese e dell’Europa, Il progetto Ravenna Ccs, nella più ampia cornice del progetto integrato Callisto, ha recentemente ricevuto dalla Comunità Europea lo status di progetto di interesse comune.

magazine fondato da Riccardo Bonacina

Registrazione presso il Tribunale di Milano n- 397 dell’8/7/1994

ISSN 1123-6760

Direttore responsabile

Stefano Arduini s.arduini@vita.it

Redazione redazione@vita.it

Giampaolo Cerri, caporedattore Antonio Mola, caposervizio grafico Matteo Riva, art director Sara De Carli

Collaboratori

Luigi Alfonso, Cristina Barbetta, Daria Capitani, Rossana Certini, Elisa Cozzarini, Francesco Dente, Ilaria Dioguardi, Gabriella Debora Giorgione, Diletta Grella, Paolo Manzo, Barbara Marini, Emiliano Moccia, Antonietta Nembri, Alessio Nisi, Nicla Panciera, Alessandro Puglia, Veronica Rossi, Gilda Sciortino, Anna Spena, Nicola Varcasia

Vita a Sud (vitaasud@vita.it)

Luigi Alfonso, Luca Iacovone, Emiliano Moccia, Gilda Sciortino, Anna Spena

Rubriche

Giovanni Biondi, Maurizio Crippa, Luca De Biase, Anna Detheridge, Sergio Gatti, Stefano Granata, Ivana Pais, Gianluca Salvatori, Doriano Zurlo

Commentatori

Filippo Addarii, Alexander Bayanov, Luigi Bobba, Aldo Bonomi, Carlo Borgomeo, Carlo Borzaga, Lucio Brunelli, Luigino Bruni, Carola Carazzone, Luca Doninelli, Johnny Dotti, Elena Granata, Giuseppe Guerini, Paolo Iabichino, Mauro Magatti, Giovanna Melandri, Valerio Melandri, Angelo Moretti, Silvano Petrosino, Giacomo Poretti, Andrea Rapaccini, Marco Revelli, Giulio Sapelli, Marianella Sclavi, Gabriele Sepio, Gianpaolo Silvestri, Tiziano Vecchiato, Paolo Venturi, Stefano Zamagni, Flaviano Zandonai

Progetto grafico Matteo Riva

Editore

Vita Società Editoriale S.p.a. impresa sociale Via Giovanni Bovio, 6 20159 Milano (MI) Iscritta al ROC al n. 3275

Stampa AGF S.r.l. Unipersonale Via del Tecchione, 36 20098 Sesto Ulteriano (MI)

Distribuzione

Per l’Italia: SODIP Srl Via Bettola, 18 — 20092 Cinisello Balsamo (MI) Tel. 02.660301 — Fax. 02.6603032

Abbonamenti e copie vita.it/abbonati/

Vita magazine

Abbonamento cartaceo: 12 mesi Italia € 70,00 Arretrati cartacei

Il doppio del prezzo di copertina (solo per l’Italia) abbonamenti@vita.it

La testata aderisce all’Istituto di autodisciplina pubblicitaria www.iap.it

Vita, nello svolgimento della propria attività, tratta dati personali nel rispetto della normativa vigente, in particolare, il D.Lgs. 196/2003 (di seguito, “Codice Privacy”) e il Regolamento (UE) 2016/679 (di seguito, “GDPR”).

Inoltre, raccoglie ed utilizza per scopi giornalistici dati personali che vengono conservati all’interno di banche dati di uso redazionale.

Il Titolare del trattamento dei dati personali è Vita Società Editoriale S.p.A. Impresa Sociale, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, con sede legale in Milano, Via Giovanni Bovio 6, numero di iscrizione al Registro delle Imprese di Milano Monza Brianza Lodi, partiva IVA e codice fiscale n. 11273390150.

L’informativa sul trattamento dei dati personali è disponibile all’indirizzo web privacy.vita.it. L’interessato al trattamento dei propri dati personali può in qualsiasi momento chiedere la disiscrizione ed esercitare i diritti previsti dal Regolamento UE 2016/679 (GDPR) contattando il Titolare del trattamento dei dati personali ai seguenti recapiti: email: amministrazione@vita.it, telefono: 02/40703333.

Vita Società Editoriale S.p.a. impresa sociale

Consiglio di Amministrazione

Giuseppe Ambrosio presidente e amministratore delegato

Marcello Gallo vicepresidente vicario

Paolo Ainio

Giuseppe Frangi

Giulia Marzagalli consiglieri di amministrazione

Presidente Onorario Riccardo Bonacina

Collegio sindacale

Piero Galbiati, presidente Fabio Mazzoleni, Guido Cinti

Advisory board

Riccardo Bonacina (coordinatore), Carola Carazzone, Alberto Fontana, Cristiano Gori, Stefano Granata, Vittorio Meloni, Ivana Pais, Giampaolo Silvestri, Clodia Vurro

Area Sviluppo

Alessandra Cutillo, Elena Marzi, Teresa Selva Bonino (Comitato Editoriale), Francesca Spina

Area Operations

Valeria Pisà, Anna Ravera amministrazione@vita.it

Pubblicità e servizi editoriali

Aldo Perini advertising@vita.it

02.40703333

Stampato su carta naturale senza legno SELENA Burgo

Previsto dallo Statuto societario di VITA, il Comitato Editoriale ne costituisce il cuore pulsante, segno della natura pubblica e partecipata del suo percorso editoriale, sin nel suo atto fondativo. Una vera e propria community operativa, partecipata dalle più importanti organizzazioni italiane di Terzo settore, in rappresentanza di migliaia di associazioni territoriali.

Il Comitato Editoriale è una comunità aperta che interagisce e collabora con la redazione, fornendo spunti di riflessione e linee di indirizzo per l’attività editoriale.

Il Comitato Editoriale è anche un tavolo di lavoro tra associazioni, giornalisti ed esperti per costruire campagne di mobilitazione, di attivazione civica e di comunicazione su istanze del Terzo settore. Per info e adesioni scrivi a comitato@vita.it

Il Comitato Editoriale

AABF Andrea Bocelli Foundation Ente filantropico t. 055.9943 | www.andreabocellifoundation.org

ACLI Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani t. 06.58401 | www.acli.it

ACTIONAID t. 02.742001 | www.actionaid.it

AGESCI Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani | t. 06.681661 | www.agesci.it

AGOP ONLUS Associazione Genitori Oncologia Pediatrica | t. 06.35019476 | www.agoponlus.com

AI.BI. Associazione Amici dei Bambini t. 02.988221 | www.aibi.it

AIC Associazione Italiana Celiachia t. 010.2510016 | www.celiachia.it

AIL Associazione Italiana contro le Leucemie-linfomi e mieloma ETS t. 06.7038601 | www.ail.it

AIRC Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro t. 02.77971 | www.airc.it

AISLA Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica t. 02.66982114 | www.aisla.it

AISM APS/ETS

Associazione Italiana Sclerosi Multipla t. 010.27131 | www.aism.it

AMREF Health Africa onlus t. 06.99704650 | www.amref.it

ANCC-COOP Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori t. 06.441811 | www.e-coop.it

ANFFAS NAZIONALE ETS-APS Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo t. 06.3212391 | www.anffas.net

ANPAS Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze t. 055.303821 | www.anpasnazionale.org

ANT Fondazione ANT Italia Onlus t. 051.7190111 | www.ant.it

ARCHÉ ONLUS t. 02.603603 | www.arche.it

ARCI t. 06.416091 | www.arci.it

ASSOCIAZIONE DON BOSCO 2000 t. 3757008912 | www.donbosco2000.org

AVIS NAZIONALE Associazione Volontari Italiani Sangue | t. 02.70006786 | www.avis.it

AVSI Associazione Volontari per il Servizio Internazionale | t. 02.674988373 | www.avsi.org

C

CESVI FONDAZIONE – ETS

t. 035.2058058 | www.cesvi.org

CGM Consorzio Gino Mattarelli t. 02.36579650 | www.cgm.coop

CIAI Centro Italiano Aiuti all’Infanzia t. 02.848441 | www.ciai.it

CITTADINANZATTIVA ONLUS

t. 06.367181 | www.cittadinanzattiva.it

CONFARTIGIANATO PERSONE ANAP Associazione Nazionale Anziani e Pensionati t. 06.703741 | www.anap.it

COOPI Cooperazione Internazionale t. 02.3085057 | www.coopi.org

CSI Centro Sportivo Italiano t. 06.68404550 | www.csi-net.it

FEDERAZIONE ALZHEIMER ITALIA t. 02.809767 | www.alzheimer.it

FEDERSOLIDARIETÀ CONFCOOPERATIVE t. 06.68000476 www.federsolidarieta.confcooperative.it

FISH ONLUS Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap t. 06.78851262 | www.fishonlus.it

FONDAZIONE ASILO MARIUCCIA t. 02.70634232 | www.asilomariuccia.com

FONDAZIONE BANCO ALIMENTARE ETS t. 02.89658450 | www.bancoalimentare.it

FONDAZIONE CAVE CANEM ETS t. 06.70450553 | fondazionecavecanem.org

FONDAZIONE DON GNOCCHI ONLUS t. 02.40308910 | www.dongnocchi.it

FONDAZIONE DYNAMO CAMP ETS t. 02.8062941 | www.dynamocamp.org

FONDAZIONE ÈBBENE t. 800.082834 | www.ebbene.org

FONDAZIONE EDOARDO GARRONE ETS t. 010.8681530 | www.fondazionegarrone.it

FONDAZIONE EOS - EDISON ORIZZONTE SOCIALE ETS t. 02.62221 | www.fondazioneeos.it

FONDAZIONE EXODUS t. 02.210151 | www.exodus.it

FONDAZIONE FRANCESCA RAVA - N.P.H. ITALIA ONLUS t. 02.54122917 | www.fondazionefrancescarava.org

FONDAZIONE GOLINELLI t. 051.0923200 | www.fondazionegolinelli.it

FONDAZIONE HUMAN AGE INSTITUTE ETS MANPOWERGROUP t. 02.230031 | https://info.manpower.it/human-age-institute

FONDAZIONE ISTITUTO SACRA FAMIGLIA ONLUS t. 02.456771 | www.sacrafamiglia.org

FONDAZIONE LAUREUS SPORT FOR GOOD ITALIA ONLUS t. 02.36577080 | www.laureus.it

FONDAZIONE LEGA DEL FILO D’ORO ETS t. 071.72451 | www.legadelfilodoro.it

FONDAZIONE PER L’INFANZIA RONALD MCDONALD ITALIA ETS t. 02.74818331 | www.fondazioneronald.org/it

FONDAZIONE PROGETTO ARCA ONLUS t. 02.67076867 | www.progettoarca.org

FONDAZIONE SAVE THE DOGS ETS t. 02.39445900 | www.savethedogs.eu

FONDAZIONE TELETHON t. 06.440151 | www.telethon.it

FONDAZIONE TRIULZA t. 02.39297777 | www.fondazionetriulza.org

FONDAZIONE VINCENZO CASILLO t. 080.9172204 | www.fondazionecasillo.it

FONDAZIONI DI COMUNITÀ CAMPANE Coordinamento c/o Fondaz. Comunità Salernitana t. 089.253375

FONDO FILANTROPICO ITALIANO FONDAZIONE ETS t. 02.49412960 | fondofilantropicoitaliano.it

INTERSOS Organizzazione Umanitaria Onlus t. 06.8537431 | www.intersos.org

JA Junior Achievement Italia www.jaitalia.org

L

LABSUS Laboratorio per la sussidiarietà APS www.labsus.org

LAV t. 06.4461325 | www.lav.it

LEGACOOPSOCIALI t. 06.84439322 | www.legacoopsociali.it

M

MCL Movimento Cristiano Lavoratori t. 06.7005110 | www.mcl.it

MISERICORDIE

Confederazione Nazionale Misericordie D’Italia t. 055.32611 | www.misericordie.it

MISSIONI DON BOSCO VALDOCCO ONLUS t. 011.3990101 | www.missionidonbosco.org

MPVI Movimento Per la Vita Italiano t. 06.68301121 | www.mpv.org

O

OPERA SAN FRANCESCO PER I POVERI ONLUS ETS t. 02.77122400 | www.operasanfrancesco.it

OSA - Cooperativa Operatori Sanitari Associati t. 06.710661 | www.osa.coop

S

SAVE THE CHILDREN ITALIA ONLUS t. 06.4807001 | www.savethechildren.it

SISCOS Servizi per la Cooperazione Internazionale t. 02.80012108 | www.siscos.org

SOS IL TELEFONO AZZURRO ONLUS t. 051.225222 | www.azzurro.it

SOS VILLAGGI DEI BAMBINI ONLUS t. 0461.926262 | 02.55231564 | www.sositalia.it

U

UILDM Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare | t. 049.757361 | www.uildm.org

UNEBA LOMBARDIA

t. 02.72002018 | www.unebalombardia.org

W

WEWORLD ONLUS

t. 02.55231193 | www.weworld.it

CULTURA

Il grande inganno della meritocrazia

«La fortuna conta molto più del merito». Parte da qui l’autobiografia dell’imprenditore e filantropo, Enzo Manes, inventore di Dynamo. La recensione

Un libro irrequieto e sobrio alle stesso tempo. Da questo apparente crash sgorga il racconto che l’imprenditore e filantropo Enzo Manes sviluppa in Nessuno basta a se stesso (sottotitolo: perché abbiamo bisogno del bene comune), edizioni Piemme, 141 pagine, 17,90 euro, interamente destinati a sostenere le attività di Fon dazione Dynamo.

Azionista e vicepresidente esecutivo di Kme, società leader in Europa nella produzione di semilavorati in rame, nel 2003 Manes dà vita alla sua creatura filantropica che da quel momento in poi occuperà uno spazio sempre maggiore del suo tempo: Fondazione Dynamo. Il libro racconta la genesi e gli sviluppi di questo progetto che fino ad oggi ha ospitato 70mila persone fra ragazzi malati di patologie croniche e gravissime e i loro familiari e ha visto impegnati 10mila volontari a supporto di 250 collaboratori fissi ed altrettanti stagionali. Dynamo, col suo camp di Limestre sull’appennino pistoiese e i city camp è un gioiellino della cura che è stato in grado di raccogliere cento milioni di

euro in fundraising. Nessuno basta a se stesso non è però la storia di Dynamo, quanto la ricostruzione di un percorso umano e intellettuale di un imprenditore, che, come pochi in Italia, incarna il principio americano del giving back, la restituzione alla propria comunità della fortuna che la vita ha offerto.

Il punto di partenza è definitivo: «La meritocrazia è un falso mito». Scrive Manes, riprendendo un passaggio della relazione che tenne nel novembre 2003 alla Luiss di Roma quando fu nominato alumnus dell’anno, «...delle cose che ho realizzato, enormi rispetto alle mie aspettative iniziali, non ce n’è una che mi abbia costretto a particolari sacrifici, o a rinunciare a qualcosa di fondamentale per me o per i miei cari»; per poi riprendere una frase di Larry King che apre il capitolo intitolato “Contro la meritocrazia”: «Quelli che hanno avuto successo in qualcosa e non ammettono di aver avuto anche fortuna, stanno prendendo in giro se stessi». Manes arriva a dire che «se non avessi fondato io Dynamo prima o poi l’avrebbe fatto qualcun altro. Come dire che la fondazione non è il dono che ho fatto, ma quello che ho ricevuto». Citando l’economista Robert H. Frank,

l’imprenditore molisano sostiene che nella competizione fra esseri umani a vincere sono in genere i più fortunati. E ancora: «...sottovalutare l’impatto della fortuna produce un costo economico. Chi riconosce l’impatto positivo della fortuna sulla sua vita è più propenso a contribuire al bene comune (in tutto quello spettro che va dal pagamento delle tasse alla filantropia) rispetto a chi attribuisce unicamente al proprio merito le ragioni del successo». Di Più: «Se tutto questo è vero, allora è altrettanto vero che, per quanto grandi siano i nostri successi, solo una piccola parte di essi è merito nostro. Tutto il resto nasce dal contesto e dal nostro punto di partenza (patrimonio genetico compreso). Il merito delle azioni e quello delle persone non coincidono. Non è un caso che l’inventore della parola meritocrazia, lo psicologo Michael Young, attribuisse al termine un’accezione sostanzialmente negativa. Probabilmente proprio per la disinvoltura con cui è facile spostarsi dall’idea di merito a quella di diritto a privilegi individuali».

La storia del Manes filantropo e quella di Dynamo, fondata su quattro pilastri (generosità, concretezza, bellezza, autenticità) affonda le sue radici in questa ideologia basata sul riconoscimento del ruolo della fortuna nella vita di ciascuno. Un ricono -

di STEFANO ARDUINI

Fondazione

Dynanio nasce nel 2003. Da allora nei suoi camp ha offerto assistenza con il modello della terapia ricreativa a 70mila ragazzi fragili

CULTURA

FOCUS BOOK

Quando i pazienti diventano cura: 5 casi esemplari

scimento che ha due effetti diretti: la spinta a fare cose nuove, e la decostruzione del proprio ego. In due parole: irrequietudine e sobrietà. Irrequietudine e sobrietà, umane, imprenditoriali e filantropiche, che si condensano intorno a un vero e proprio cruccio cosa può fare ciascuno di noi per cambiare il mondo? Un interrogativo che diventa, in conclusione del libro, proposta politica: un prelievo dell’uno per mille sulla ricchezza finanziaria (quindi non immobiliare) degli italiani (valutata in 5mila miliardi), ovvero un prelievo insignificante per la maggior parte degli italiani (50 euro per chi ha un patrimonio finanziario di 50mila euro, per fare un esempio). In questo modo “si libererebbero 5 miliardi di euro l’anno da destinare al bene comune”. Una legge fiscale che Manes ribattezza good tax. Ci arriveremo? «Il mio è un sogno lucido», chiosa Manes.

Nessuno basta a se stesso di Enzo Manes Piemme 141 pag, 17,90 euro

Yes, We Cure di Nicla Panciera

In download gratuito per gli abbonati di Vita

L’attività dell’associazionismo di salute non riguarda solo la fornitura di servizi ai propri membri, preziosa risposta alle lacune del Servizio sanitario nazionale, ma anche il raggiungimento di importanti traguardi attraverso battaglie che nascono da bisogni insoddisfatti. Alcuni di questi successi sono narrati nel focus book Yes, we cure, una collezione di cinque storie esemplari dell’instancabile impegno dei pazienti e dei loro rappresentanti: il test and treat per la diagnosi e cura dell’Hiv; l’accesso ai farmaci curativi contro l’Epatite C; lo screening neonatale per consentire, tramite trattamento tempestivo, uno sviluppo normale ai bambini con Sma; l’oblio oncologico per chi è guarito dal tumore; test genomici per tutte le donne con tumore al seno che ne hanno diritto. L’obiettivo della pubblicazione (dedicata ai nostri abbonati) è di far conoscere il contributo ormai decisivo di questo pezzo di Terzo settore nella sua funzione di traino per accelerare la realizzazione di importanti cambiamenti a beneficio della salute pubblica. Il ruolo delle associazioni è ormai fondamentale tanto che anche in Italia avanza l’adeguamento normativo per loro partecipazione nei processi decisionali nella filiera della cura.

COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO

I miei 40 anni con il Cesvi:

una vita per la solidarietà

«Erano gli inizi degli anni Ottanta. Avevamo vent’anni (chi più chi meno), il Movimento studentesco apparteneva al passato e dovevamo scegliere cosa fare della nostra vita (...). Anche se avevamo preso atto che non potevamo cambiare il mondo, ci sarebbe piaciuto fare qualcosa per migliorarlo». Inizia così il libro 40 - I nostri anni di solidarietà di Maurizio Carrara, presidente ad honorem di Fondazione Cesvi, che racconta i primi 40 anni di una delle più importanti ong italiane, oggi presente in 27 Paesi. Un libro scandito dallo scorrere degli anni dove la storia del mondo si intreccia con quella della crescita di Cesvi. Si parte nel 1985, l’anno in cui Carrara, Paolo Caroli e altri 15 italiani impegnati nella solidarietà internazionale costituiscono l’associazione Cesvi che diventa ong nel 1986. Le pagine di questo libro, un viaggio che arriva al 2024, si riempiono di centinaia di iniziative che l’ong ha portato avanti per rispondere alle emergenze ma non mancano i progetti di sviluppo, protezione, salute. «Aver messo mano e testa ai 40 di Cesvi mi ha fatto rivivere momenti fantastici di una lunga galoppata per conquistare uno spazio di ideali e azioni», scrive Carrara.

40. I nostri anni di solidarietà di Maurizio Carrara

Ed. Guerini e Associati

160 pag, 16 euro

PLIFE MUSEUM

arte che cambia il mondo

Bergonzoni, un mare di culle

Bergonzoni – Bill Viola, Vite sospese, Fondazione Mudima, Milano

er Alessandro Bergonzoni l’arte è come un gesto teatrale permanente. E allo stesso modo del teatro, l’arte prende senso se smaschera ipocrisie e incoraggia un cambiamento. Dopo 12 anni ha voluto tornare ad esporre non tanto i suoi lavori, quanto la sua visione di questo momento della vita del mondo. Lo ha fatto alla Fondazione Mudima di Milano, un luogo espositivo dalla storia importante, creato da Davide Di Maggio, che è anche curatore della mostra. Bergonzoni non propone opere ma due installazioni che raccontano due condizioni complementari. Al piano terra una sala, che è possibile guardare solo da fuori, ha il soffitto costellato di spade con la punta rivolta verso il basso: oscillano, con brevi movimenti che agitano lo spazio proiettando sulle pareti ombre che sembrano croci. La visione trasferisce un’ansia profonda, che evoca quella di chi vive sotto cieli da cui possono piovere bombe ogni momento. “Attenzione! Incarichi sospesi” è il titolo come sempre rabdomantico pensato da Bergonzoni. Se si sale al piano superiore ci troviamo in uno spazio stipatissimo che può essere attraversato solo dopo aver firmato una liberatoria. Sono culle messe in modo così stretto che l’unico modo per attraversare la sala e arrivare al video finale è quello di camminarci sopra. Il tema della nascita non è certo nuovo per Bergonzoni: “Grembi. Soglie dell’inconcepibile”, “Fortu-nati”, “Neonare”, “Le vite in fasce” sono titoli di sue precedenti esposizioni. Ognuno è testimonianza della sua sensibilità nei confronti della vita più fragile e innocente. “La culla dell’inciviltà” costringe ad un calpestamento, ad una profanazione, come quella che segna quotidianamente la cronaca di questi nostri anni. «I bambini muoiono in mare e allora io vorrei dire alla cicogna di salvare il neonato Ryan», dice Bergonzoni. A fine attraversamento abbiamo davanti un video di Bill Viola, il grande artista morto pochi mesi fa. Si intitola The Reflecting Pool (1977). Rappresenta il tuffo di un uomo in uno stagno in mezzo al bosco; il fermo immagine lo blocca sospeso nel vuoto, in posizione fetale prima di sparire nell’acqua. Anche qui la vita è in bilico.

FRANGI (@robedachiodi)

CRESCE IL BANCABOSCO

Piantare alberi è una delle forme di intervento più efficaci ed auspicabili per contrastare il riscaldamento del pianeta. E anche per tutelare la biodiversità.

Il BancaBosco è un progetto promosso da Federcasse e nato dalla proposta delle Giovani Socie e dei Giovani Soci delle Banche di Credito Cooperativo e Casse Rurali italiane.

Il BancaBosco è nato nel 2021 in occasione della “Festa dell’Albero” con la messa a dimora di 700 nuovi alberi, distribuiti in 7 località italiane.

Oggi il BancaBosco si sviluppa in 36 Comuni in tutta Italia per un totale di quasi 6.000 alberi. Ed è un’attività in continua crescita.

scopri di più

Castelfranco Veneto San Giovanni in Fiore
Zero Branco Vicenza Erchie Bari Genzano di Roma Valle Avellana
Fiesse Marino Verona Roma Fossombrone Campo nell’Elba Passo del Redebus
Buccino Grottammare Ferrara Pressana Spinazzola
Montichiari Fermignano Viserba di Rimini Battipaglia
Ravenna Pesaro Massafra
Siena Cologne Marina di Salve
Botricello Cropani Marina Ghedi Marano Vicentino
Rimini
Carpi di Villa Bartolomea

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.